Il miracolo/Parte prima/V
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CAPITOLO V.
Ermanno prolungò la dimora in campagna per una settimana e, tornando in Orvieto con Palmina, trovò cambiamenti nella sua casa. I tappeti erano stati tolti e riposti, le tende di felpa alle finestre sostituite con tende svolazzanti di mussolina bianca.
In verità questo accadeva tutti gli anni; ma più tardi, a mezzo: il giugno, perchè la mamma protraeva ogni più piccola bisogna, odiando la polvere e il movimento, mentre adesso la mamm aveva fatto quasi tutto da sè, con l'aiuto del tappezziere, e non ristava dall'andare e venire per le stanze, cambiando posto agli oggetti, rimovendoli senza necessità, per puro esercizio di moto e la mattina, invece di farsi spingere fuori del letto dagli ossequiosi rimproveri di Palmina, balzava agile in piedi al primo scherzare dei raggi e, spalancando le finestre, respirava forte e diceva:
— Come si respira bene! Com'è buona l'aria!
— Allora sei guarita, mamma, non hai più il tuo male? Ermanno le chiese, ed essa lo strinse a sè, lo baciò più volte sui capelli.
— Non temere, piccolo cherubino - gli disse - io ti adoro sempre. Tu sarai sempre l'anima dell'anima mia.
Il bimbo, che toccava i suoi dieci anni ed era eccezionalmente riflessivo, si domandò perchè la mamma gli diceva questo e perchè non avrebbe dovuto adorarlo più; anche gli parve che la mamma lo abbracciasse troppe volte al giorno, con troppa furia, quasi con paura, come se qualcuno volesse trascinarla via ed ella si aggrappasse a lui per tenersi ferma.
Intanto la piccola testa piatta di Palmina guizzava instancabile e gli occhietti avrebbero voluto frugare in petto alla signora e sapere con precisione come regolarsi meglio a vantaggio proprio. Nell'asciugarla, dopo il bagno, le sue esclamazioni ammirative si moltiplicavano, diventavano inni, e nel rialzarle i capelli, studiava il volto della signora dentro lo specchio; ma la signora guardava lontano, e il sorriso, a cui ella talora schiudeva le labbra, era vago, non dava nessuna indicazione.
Una volta Palmina le disse, raddoppiando di umiltà:
— Signora, in guardaroba ci sono alcuni fazzoletti indegni di toccar le sue nobili dita, ma troppo belli per me, meschina.
La signora, invece di alzare le spalle con indifferenza, le rispose decisa:
— Sta bene, scenderò io in guardaroba a vedere.
Palmina allibì. Come? La signora sarebbe discesa in guardaroba? Il fatto le sembrava inverosimile, sopratutto pericoloso, e stabilì di ricorrere alle carte per allontanare da sè ogni minaccia di verifica; ma, quando si presentò nella saletta da pranzo, ed a bassa voce asserì alla signora che circostanze terribili si andavano maturando e che bisognava scongiurarle, fu respinta con parole brevi.
La signora non discese in guardaroba, distratta da nuovi pensieri, ma, certo, ella appariva tutt'altra persona, più alacre, più sicura, di una più attiva bontà, più altera negli occhi, più dolce nel sorriso, come se ella avesse interamente ritrovata se stessa e le sbarre della gabbia fabbricata dalle sue piccole mani si fossero allargate, lasciandola libera al volo.
Fritz Langen glielo ripeteva, insaziabilmente, fra i baci:
— Sei più bella, ogni giorno più bella. Tu mi aspettavi, senza saperlo. Guai se io non fossi arrivato a salvarti dal maleficio! Saresti morta, povera monna Vanna!
Ed ella rispondeva che veramente si era sentita morire durante lunghi mesi e, ricordando le tristezze passate a confronto delle gioie presenti, provava per Fritz Langen una inesauribile gratitudine amorosa, che la rendeva più molle, più rosea, più soave di abbandono.
Si vedevano di sera, nelle stanzette di lui, quando faceva bel tempo.
L'ex-maresciallo andava invariabilmente a giuocare la partita in una fiaschetteria, la signora andava al Duomo, poi a passeggio, poi in visita da sua madre. Rimaneva in casa la domestica, una donnetta silenziosa, che Fritz Langen chiamava «Madama Polifema», avendo ella un occhio solo. Allora il signor professore le affidava bizzarre commissioni.
— Comperami un cannello di liquerizia, ma voglio che la liquerizia sia verde; comperami dieci grammi di bicarbonato, ma bada che il bicarbonato sia turchino - e le buttava sul tavolo alcune monete d'argento.
La domestica usciva, non si faceva più rivedere, e l'indomani accennava a restituire il danaro al signor professore, non essendole riuscito di trovare gli oggetti richiesti.
Il signor professore andava in collera e le diceva con cipiglio fiero:
— Madama Polifema, madama Polifema, verrà giorno che voi incontrerete il vostro Ulisse, e vi caverà l'altro occhio con la punta d'un bastone infuocato.
Madama Polifema lo guardava, impaurita, e riponeva in tasca le monete.
Era eccessivamente stupida? Era eccessivamente astuta? Per Fritz Langen faceva lo stesso, a patto che monna Vanna potesse entrare non vista.
Ella non era puntuale. Doveva aspettare che facesse quasi buio, doveva mandare Ermanno con Palmina da Domitilla Rosa e confinare Titta a pianterreno, doveva aspettare che i seminaristi avessero sfilato nella piazzetta, per essere certa che monsignore non le avrebbe fatto visita, e doveva assicurarsi che nessuno fosse a prendere il fresco davanti la botteguccia di Bindo Ranieri. Se poi incontrava qualche persona lungo il breve tragitto, le veniva meno il coraggio e mancava all'appuntamento. Ma che gioia, mio Dio! quando la porticina, difesa dal muro, si apriva pian pianino, richiudendosi subito, ed ella, trascinata per mano da Fritz Langen, attraversava a passi lievi il giardinetta odoroso e si trovava nel salottino pieno di fiori. Egli, ansando forte, se la raccoglieva sul cuore e non parlavano tranne che coi sospiri. La prima sete calmata, Vanna gli raccontava in lunghi bisbigli le sue ansie, le sue esultanze, i suoi terrori, le minuscole vicende della sua esistenza quotidiana, ed egli l'ascoltava gravemente, come si ascolta un caro bambino che si adora, che si accarezza e non si vuole che vada in collera. Le rivolgeva, nel suo idioma, una quantità di nomignoli vezzeggiativi. La chiamava: Schatz (tesoro), Mein Herz (cuor mio), Mein Liebling (diletta mia).
Ma il nomignolo che più di frequente gli saliva dal cuore e che meglio esprimeva il carattere del suo sentimento, era: Süsses Dummerchen, dolce sciocchina. Or accadde che la dolce sciocchina gli si rivelò terribile un giorno nell'ira e lo impaurì.
Era un pomeriggio domenicale di giugno e il mondo pareva ad essi tutto una vasta solitudine popolata solo dai fantasmi del loro amore.
I seminaristi erano andati a festeggiare l'ottavario di San Luigi a Settecamini e monsignore aveva pregato Vanna di affidargli il piccolo Monaldeschi; Palmina aveva ottenuto licenza di andare a merendare in un orto con alcune amiche: la padrona di casa di Fritz Langen si trovava dal mattino in brigata fuori di Orvieto col marito e la parentela; insomma gl'innamorati passeggiavano dall'una all'altra stanza dell'appartamentino, allegri come farfalle, ebbri nel sentirsi liberi di ridere ad alta voce e chiacchierare senza mistero. Mai una simile felicità aveva allargato i loro petti, giacchè mai l'intimità per loro era stata altrettanto completa. Il sole cadeva, una luce rossa faceva apparire vermiglie le bianche cortine, le due guglie superiori del Duomo fiammeggiavano nell'inquadratura della finestrella a sinistra, i canarini sembravano impazzire per gioia nell'immensa gabbia e Fritz Langen si teneva monna Vanna seduta sulle ginocchia, cingendole con le braccia la vita. Erano placidi, erano felici, senza timori nè desideri, come quando in una barchetta si scende alla deriva di un piccolo fiume e il cielo è benigno, l'acqua senza una crespa, la riva, stellante di fiori, a portata di mano.
Parlavano tra loro, amichevolmente, di mille inezie intime e dolci. Egli le narrava episodi burleschi della sua scapigliata giovinezza; ella rievocava per lui gli anni della sua adolescenza, quando si trovava in collegio a Siena e la madre superiora, incontrandola lungo i corridoi, alzava la mano a benedirla, e le diceva invariabilmente:
— Gesù Redentore sia con voi.
Vennero a parlare anche di monsignore, e Vanna faceva di lui elogi smisurati.
— Monsignore è buono, è istruitissimo, è il padre di tutti i suoi allievi. È nobile di nascita, nobile di cuore. Giurerei che hanno forzata la sua vocazione; forse non era nato per fare il prete, eppure la sua condotta è di esempio. Si può cercare nella sua vita senza trovare un granellino di polvere - e, così parlando, si divertiva a fasciarsi l'indice con le ciocche odorose dei capelli di Fritz Langen.
Egli sollevava, abbassava adagio il ginocchio per vederle oscillar il busto sottile. A un tratto le chiese, riunendo con malizia le sopracciglia:
— Non c'è mai stato nulla, proprio nulla?
Vanna seguitava a divertirsi coi capelli di lui e domandò, lontana le mille miglia dal comprendere:
— Nulla di che?
— Non ti ha mai fatto così? - e la baciò sulla bocca.
Vanna balzò in piedi, poi barcollò, cercando appoggio con le mani. Egli le aveva dato un colpo di pugnale in pieno cuore. Fritz Langen la chiamò per nome, spaventato.
— Vanna, Vanna.
Ma il sangue doveva farle gran ressa intorno al cuore, perchè la faccia era come senza vita: finalmente ella si riebbe, s'imporporò, gli occhi, diventati scuri, dardeggiavano per ira, e le labbra tremavano all'urto delle parole di sdegno ch'ella gli rivolse in una ribellione violenta di tutto il suo orgoglio offeso di patrizia, di tutta la sua profanata fede di cattolica, di tutta la sua dignità contaminata di donna amante.
Egli credè perfino che Vanna volesse batterlo, e restava inebetito, addolorato profondamente di averla offesa, e quando vide ch'ella fuggiva, l'afferrò, la tenne ferma, le si buttò davanti in ginocchio e, supplice, l'abbracciò ai fianchi.
— No, no, non fuggirmi, Vanna, e perdonami. Guarda, sono qui in ginocchio davanti a te, come tu stai in ginocchio davanti all'altare. Perdona. Io sono un barbaro, non ho le tue squisitezze. Perdona.
Vanna si lasciò placare e si mise a piangere. Fritz Langen, desolato, le suggeva delicatamente, a una a una, le lacrime dal ciglio, chiamandola con voce di rimprovero affettuoso:
— Dolce sciocchina, dolce sciocchina.
Da quel pomeriggio domenicale egli l'amò forsennatamente, e Vanna si lasciò travolgere, perdendo ogni scorta di prudenza, trascurando oramai, nel recarsi dall'amante, le cautele infinite dei primi tempi. Ella sentiva in confuso qualche cosa d'insolito attorno a sè, come uno svolazzìo di mosche, un brulicare di formiche; ma non ci badava, sempre in affanno, sospinta sempre da una impazienza tormentosa, alla ricerca disperata di pretesti nuovi per allontanare Ermanno, per evitare incontri con monsignore, per essere libera ogni giorno più a lungo, fino ad assentarsi di casa per ore ed ore. Così non poteva durare; essa aveva il presentimento di un crollo, eppure non ristava, rispondeva sollecita a ogni richiamo di Fritz Langen, ed i richiami di Langen erano divenuti giornalieri. Bevevano fiamma l'uno dalla bocca dell'altro e si slacciavano più anelanti, più assetati, avidi ancora di ribaciarsi.
In mezzo a tale ubbriacatura, il primo sassolino le fu buttato contro dalla mano inconsapevole di Mamsell' Pfefferkorn.
— I confetti io li voglio - Serena le disse una sera arditamente, entrandole inaspettata nella stanza.
Ermanno, che si disperava sopra due righe di una favola di Fedro, alzò il capo dal libro e chiese:
— Dove li tieni i confetti, mamma? Perchè non me li hai dati?
Vanna non ci capiva nulla, e disse a Serena:
— Ma di quali confetti vai parlando? Io non ho confetti.
— Sì, sì, lo ha detto oggi una signora a zia Domitilla Rosa. La signora ha detto che tu ci farai mangiare i confetti.
Ermanno ripetè:
— Dove li tieni, mamma? Perchè non me li hai dati?
Vanna finse di andare in collera; spinse Serena fuori dell'uscio e minacciò Ermanno di gravi castighi se don Vitale si fosse lamentato di lui come faceva sempre.
Ma al cospetto di sè rimase sconvolta.
Dunque si vociferava sopra il suo conto? Dunque il secreto che, nella sua cecità d'innamorata, credeva sepolto fra il suo cuore e il cuore di Fritz Langen, correva le piazze e le vie di Orvieto, bruttando il nome dei Monaldeschi? Sposare Fritz? Quale assurdità! Egli era protestante, era straniero, già fidanzato da anni a una signorina di Colonia, nè Vanna d'altronde avrebbe voluto dare al suo bimbo un secondo padre, nè espatriare, nè cambiare il nome suo nobile con un nome esotico, che non riusciva nemmeno a ben pronunziare. Mai tra loro, sia pure nei momenti di più fervoroso entusiasmo, l'idea di un possibile matrimonio era sorta.
Vanna ripensava a ciò l'indomani mattina, allorchè Titta le portò il caffè.
Di solito egli deponeva il vassoio sopra un tavolinetto rotondo davanti alla signora, le augurava il buon giorno con ossequio, s'indugiava mezzo minuto a contemplarla con occhio colmo di sconfinata devozione, poi se ne andava, facendo scricchiolare tra le pieghe dei pantaloni troppo larghi le tibie delle sue gambe spolpate. Ma, evidentemente, quella mattina egli voleva dirle qualche cosa e non osava, rimanendo immobile, con la persona curva e la faccia incartapecorita, resa viva in quel momento dall'agitarsi in lui di una forte passione.
Vanna, che sorseggiava il caffè, gli disse con molta dolcezza:
— Che cosa volete, buon Titta? Parlate, parlate pure.
Titta non poteva parlare, quantunque dalla sera innanzi tenesse pronte mille parole da rivolgerle in nome del nobile Gentile Monaldeschi, il padrone morto, che egli trentacinque anni prima aveva cullato; in nome del nobile Ermanno Monaldeschi, il padroncino, ch'egli si prendeva ancora nelle braccia e che spogliava, rivestiva con le sue vecchie mani amorose.
— Non abbiate soggezione, buon Titta - Vanna ripetè, deponendo nel vassoio la tazza. Voi sapete che farei di tutto per contentarvi. Foste un secondo padre per il mio povero Gentile e ne raccoglieste l'ultimo respiro. Dunque io vi considero persona di famiglia.
Nel sentirle pronunziare con tanta soavità il nome dello sposo morto, il buon Titta rimase annichilito. No, no, egli preferiva rinnegare la luce de' suoi propri occhi, la veridicità delle sue proprie orecchie, anzichè accusare di tradimento, contro lo splendore del nome Monaldeschi, la sua bella e nobile signora, ch'egli aveva veduto entrare in casa immacolata più di un giglio e che egli aveva veduto così desolatamente afflitta nelle bende vedovili! Il vecchio servo raccolse il vassoio, ma le mani gli tremavano, tanto ch'egli lo depose di nuovo e si mise a piangere, di quel pianto infantile dei vecchi, così triste.
Vanna, a occhi bassi, gli disse con voce quasi spenta:
— Andate, andate, Titta. Mi direte, più tardi che cosa io posso fare per voi.
Titta se ne andò, obliando il vassoio, ed essa lo sentì che si soffiava il naso fragorosamente nella camera attigua. Appoggiò allora i gomiti sull'orlo del tavolinetto rotondo e cominciò a piangere, desolata, non trovando in sè difesa alcuna da opporre alle accuse mute e terribili del vecchio Titta, il quale aveva assunto per lei in quell'istante il carattere augusto di un giustiziere. Ella si rammentava adesso, ripensandoci. Titta l'aveva certo veduta uscire dalla porticina del giardinetto e aveva udito forse lo scoccar dell'ultimo bacio, scambiato da lei e Fritz Langen presso la soglia, con l'audacia degli amanti felici. Dio! Dio! quanto era caduta in basso! Tanto in basso che il giorno medesimo accorse di nuovo obliosa al richiamo di Fritz Langen e rise d'un riso argentino di gioia alle parole dell'amato, che le domandava, con l'estasi nelle pupille, da quale tela di quattrocentista ella era discesa per lui, avvolta così in una veste chiara e leggera, coi capelli fluenti fin sulla fronte e sul collo!
Ma intervenne monsignore, e la catastrofe precipitò. Era di sabato ai primi di agosto, e faceva assai caldo. Vanna propose di respirare il fresco sopra il balcone; monsignore preferì di restare nella sala, e prese posto sull'ampio divano ricoperto di damasco a fiorami. Intorno alle pareti i ritratti a olio dei Monaldeschi si avvolgevano di ombra dentro il luccichìo discreto delle cornici massicce. Monsignore parlò con naturalezza di molte cose indifferenti e Vanna, aspettava, tenendo le mani abbandonate in grembo. No, monsignore non era lì in visita, come sempre, per chiacchierare di cose indifferenti. Ben altro doveva dirle, ed ella aspettava rassegnata, già vinta, ansiosa di ascoltare dalla voce di lui, morbida e piena, gravi parole di severità.
Monsignore invece si prese accanto Ermanno e, tenendogli con tenerezza paterna una mano fra le mani, gli chiese conto dei suoi studi, lo incoraggì all'ubbidienza e all'amore verso la mamma.
— Oh! la mamma - egli diceva al piccolino nella sua pura loquela senese - dev'essere in cima di ogni tuo pensiero, perchè tu occupi tutto il suo cuore. Non c'è sacrificio ch'ella non compirebbe per te, per il decoro del tuo nome, che è nobile, illustre nella storia, e che non va macchiato. Ricordati, Ermanno, il nome che si riceve in custodia dagli altri è un deposito sacro; non va macchiato. Chi non ne ha stretta cura manca ai suoi doveri di cristiano, turba le leggi del consorzio civile e dovrà renderne poi conto agli uomini in questa vita, al Signore nell'altra.
Il bimbo ascoltava attento; Vanna piegava sempre di più la testa a ogni parola, e sul collo scoperto onde larghe di rossore apparivano, scomparivano rapidamente.
Monsignore proseguì con più meditata lentezza, sempre rivolto al bimbo:
— Io ti dico questo, Ermanno, perchè tu e la mamma mi siete stati raccomandati al letto di morte dal tuo ottimo papà, che, certo, vede tutto, sa tutto quanto tu fai, quanto la mamma fa e, se quanto voi fate è indegno, egli ne soffre. Dica lei, signora Vanna, non ho forse ragione di parlare così al nostro caro fanciullo? Non crede anche lei che sia dovere per ciascuno di noi, vivere incontaminati e rispettati? Dica lei.
— Sì, sì, monsignore - Vanna rispose, e sollevò gli occhi verso di lui, offrendogli in olocausto tutta la sua volontà.
Poco dopo Vanna scorse dal balcone Fritz Langen che passava e gli fece cenno di salire. Egli suppose di non aver capito bene, avendogli monna Vanna ingiunto spesso di non farle visita mai. La fissò con occhio interrogatore, ella rinnovò il cenno, ed egli salì frettoloso.
— Che cosa accade? - chiese allegramente. - Dunque hai tolto la clausura? - E, lanciato verso i due usci uno sguardo rapido, sporse il viso per baciarla.
Vanna si ritrasse indietro con moto di ripulsa e, rimanendo in piedi vicino all'apertura del balcone, gli disse con parole brevi, fra tronchi sospiri:
— È finita, è finita! Bisogna che tu parta. Oh! Dio! È finita!
— Che cosa accade? - egli ripetè, sgualcendo impaziente nelle mani il cappello di feltro bigio. - Chi ti monta la testa così?
— Nessuno, ma è finita! Si chiacchiera, si maligna. Il mio nome è di scherno. Oh! Dio! Oh! Dio! - e nel suo smarrimento, si aggrappò con le dita convulse alle spalle di Fritz Langen.
— Bada - egli disse - qualcuno potrebbe entrare.
Vanna si scostò con terrore, si lasciò cadere sopra una seggiola e si dette a singhiozzare, premendosi alla bocca il fazzoletto per attutire il suono dei singhiozzi.
Egli si avanzò, si chinò verso di lei, e amorosamente le disse:
— Non posso vederti così, mi fai male. Non piangere, Vanna. Cosa vuoi da me?
— Devi partire subito da Orvieto.
— E non vederti mai più? Se io parto sarà per non tornare.
— Già, per non tornare - Vanna implorò, fissandolo con occhi lacrimosi e divenendo eloquente nel perorare la causa del proprio martirio.
Egli si era stabilito in Orvieto per pochi mesi e ci si trovava oramai da dieci; lassù, nel suo paese, la famiglia lo aspettava, amici e colleghi lo incitavano al ritorno. Niente lo tratteneva in quella piccola città a lui straniera.
— Ah! niente mi trattiene? - Fritz Langen esclamò con amarezza e con una espressione acuta di sofferenza sul viso. - Allora tu non capisci come hai saputo farti amare. Tutto il cuore mi hai preso, e adesso mi cacci via. - Ma la vide rovesciare il capo e torcersi le mani con tale atto di angoscia disperata, che fu vinto da pietà.
— Dolce sciocchina - egli disse con voce che gli tremava, e, incurante di ogni pericolo, la sollevò, se la raccolse esile sul largo petto e le posò una mano sopra i capelli.
— Farò quello che tu vuoi, non piangere. Sì, partirò. Forse hai ragione. Domani saprai cosa ho deciso. - E, poichè nell'anticamera si udì uno scricchiolìo di passi e un battente fu sospinto, Fritz Langen s'inchinò cerimonioso ed uscì, mentre Titta entrava, portando una lampada.
Fritz Langen si dette a riflettere profondamente, camminando solo per le vie di Orvieto, che odoravano di miele, forse pei molti gigli languenti nei giardini, e che somigliavano, in quell'ombra crepuscolare, a cortili ora tortuosi e brevi, ora larghi e fuggenti di un chiostro vastissimo, abitato da religiosi industri nell'educar fiori e coltivare ortaglie, da religiose insigni per silenzio e umiltà.
Egli era diventato amico di tutte le cose umili, che tutte gli parlavano un loro linguaggio. I rami degli alberi, sporgenti dalla cinta dei muri, gli bisbigliavano storie di nidi in primavera; un architrave spezzato di una finestrella corrosa gli narrava di qualche artefice scomparso nell'oblìo col proprio nome; i grossi anelli di ferro arrugginiti, infissi al muro, presso gli usci sgangherati, gli dicevano di uomini in armi, che arrivavano di galoppo, infilavano negli anelli le aste, vi annodavano dentro le briglie dei cavalli dal morso spumoso, portavano, ricevevano messaggi di guerre o di pace e ripartivano con sonoro scalpito. Troppo Fritz Langen amava quella città di sogno; di troppe memorie egli si era imbevuto entro le navate delle chiese e fra i documenti degli archivi, troppo la sua nordica anima sentimentale si era pasciuta di poesia nella cerchia verdeggiante dei colli umbri! Sì, monna Vanna aveva ragione, bisognava partire, tornare alla vita, ritemprarsi nella realtà. Anche il buon Maurizio, solerte in cima alla sua torre, glielo diceva ogni quarto, suonando l'ora:
Da te a me, campana, fuoro pati Tu per gridar ed io per far i fati.
Così portava scritto il buon Maurizio intorno alla sua cinta di bronzo, e l'ammonimento era savio; ognuno doveva far fatti, ed i fatti di Fritz Langen erano di tornarsene a Colonia, di conquistarsi una cattedra di storia all'Università di Bonn, di crearsi una posizione onorata e sposare la sua brava massaia bionda, che da anni lo aspettava in fedeltà tranquilla e che gli scriveva regolarmente, citandogli intere strofe del Trombettiere di Säckingen, delizia e orgoglio delle tedeschine innamorate. Questo Fritz Langen doveva fare, e stabilì di far questo senza indugio rincasando immediatamente e ordinando a Madama Polifema di portargli le valigie, che apprestò la sera stessa con cura meticolosa.
L'urto violento che il cuore gli diede in petto nel trovare fra le sue robe un fazzolettino di monna Vanna, lo rese accorto che bisognava diffidare di sè, onde sbattè con rabbia le finestre per non vedere in cielo lo sfolgorìo di tante stelle che gli sembravano gli occhi ridenti di Vanna, quando essa lo guardava inebriata di voluttà; per non aspirare le timide fragranze dell'aria notturna, che gli rievocavano la frescura profumata di due braccia nivee come lo spumeggiare dell'onda.
La mattina della domenica Fritz Langen uscì vestito da viaggio e Mamsell' Pfefferkorn ricevè prima di ogni altro la notizia inaspettata.
— Vuol partire con me, Mamsell? - egli le disse, incontrandola.
Serena, vestita di bianco e col cuffiotto bianco, gli chiese:
— Dove vai?
— A trovare gli alberi della Selva Nera.
— Come sono gli alberi della Selva Nera?
— Sono molto gentili. Danno ombra d'estate, fuoco d'inverno, si ornano di lumi e doni la sera di Natale. Venga, venga, Mamsell'. Un orsacchiotto la divorerà, e così lei, dopo morta, camminerà su quattro zampe - ma la vista gli si annebbiò, scorgendo in lontananza Ermanno, accompagnato dal vecchio Titta. Fuggì allora a passi precipitosi, per non cedere alla tentazione di correre incontro al bambino forsennatamente. Oh! Monna Vanna gli era entrata in ogni vena! Se l'avesse riveduta per un attimo solo, se appena un nastro della sua acconciatura o una ciocca de' suoi capelli gli fossero balenati di tra le imposte, egli non sarebbe partito più, nè per preghiere, nè per minacce. Si licenziò da lei lasciando il biglietto in portineria, e incaricò Bindo Ranieri di presentarle a voce le sue scuse.
— Dunque il signor professore ci ha abbandonati - Bindo Ranieri disse a Vanna, col suo fare giocondo, incontrandola in piazza del Duomo, mentre ella usciva dopo l'ultima messa.
Vanna, che teneva il figliuoletto per mano, illividì sotto la cupola rossa dell'ombrellino di seta.
— Ah! sì? - balbettò semplicemente, e la piazza le parve un rogo, nell'abbagliante chiarore solare, e le parve che lingue di fuoco la investissero dalle piante ai capelli.
Ermanno la fissava ed ella sentì le dita di lui contrarsi impercettibilmente fra le sue dita.
Si ricompose, e domandò con voce assai velata:
— È partito il signor professore?
— L'ho acompagnato adesso alla funicolare. Lascia per lei mille scuse. Mi ha parlato di un telegramma ricevuto stamani. Forse qualcuno è ammalato nella sua famiglia.
— Ah! sì? - Vanna mormorò ancora con accento sempre più fievole, e si dette a camminare in fretta per liberarsi dal supplizio che le infliggevano i discorsi di Bindo Ranieri, il quale non aveva osservato affatto la commozione di lei, come non aveva prestato briciolo di fede alle atroci calunnie giuntegli all'orecchio per vie traverse.
— Chi? - aveva egli esclamato, rispondendo con ira alle insinuazioni degli sfaccendati. - Chi? La signora Vanna Monaldeschi, quella nobile gentildonna? Il signor professore Fritz Langen, quella dotta persona? La lingua è una spada, ferisce di taglio e di punta, ma tenetevela a freno, altrimenti, ve lo dico io, vi si rivolterà contro come la biscia del ciarlatano - e nell'accesa faccia gli occhi roteavano così terribili che gli accusatori cambiavano discorso.
Durante il desinare Vanna fu messa dal bimbo alla tortura. Egli aveva mangiata la minestra compostamente e si era educatamente forbita la bocca col tovagliuolo senza dir parola, ma di sottecchi guardava la mamma sollevare con disgusto dal piatto il cucchiaio di argento e lasciarvelo ricadere colmo.
— Non ti piace la minestra, mamma? È tanto buona - egli le disse appena Titta fu uscito dal salottino.
— Sì, sì, è buona - Vanna rispose, e abbandonò il polso sull'orlo della tavola, desolatamente.
— Io so perchè la minestra oggi non ti piace il bimbo disse, alzando il capo con risolutezza. - Perchè oggi è partito il signor Frì - e gli occhi limpidi, trasparenti di candore, si approfondirono pel riflesso di una idea lungamente meditata.
Vanna ebbe paura del figlio e ammutolì; poi, comprendendo che qualche cosa bisognava rispondere, crollò il capo con dolcezza e disse, forzandosi al sorriso:
— Tu sei sciocchino.
— Io sono molto contento che è partito il signor Frì... - cominciò Ermanno, ma cambiò discorso all'improvviso, vedendo Titta che rientrava. Appena il servo fu uscito di nuovo, Ermanno riprese il filo della sua idea al punto preciso in cui l'aveva troncata.
— Così tu non uscirai più sola e resterai con me, quando viene don Vitale. È maligno don Vitale quando tu non ci sei.
Vanna non era accorta, sopratutto era ignara di psicologia infantile. Credè riportare vittoria sulle innocenti accuse ed i sospetti vaghi del piccolino, andando in collera e minacciandolo di castighi. Forse anche, abbandonandosi all'ira, avrebbe alleviato il peso immane del suo cordoglio; e, per la prima volta, si mostrò ingiusta contro il figliuolo.
— Don Vitale ha ragione! Tu sei un bambino cattivissimo. Sei ciarliero, inventi cose false, dici bugie.
Ermanno diventò rosso, ma tenne immote le ciglia senza abbassarle. Perchè la mamma lo accusava a torto? Ermanno non diceva mai bugie. Egli rifuggiva dalla menzogna come l'oro dalle macchie. Rispose audacemente:
— Il signor Frì era bugiardo. Una volta mi disse che quel giorno non ti aveva veduta e tu invece mi dicesti che ti aveva dato per me la cioccolata.
Vanna credeva d'impazzire. Un abisso nuovo le si spalancava davanti: la coscienza di suo figlio, ch'ella sino a quel punto aveva supposto buia e muta, e che le appariva adesso illuminata da mille ricordi, serbante l'eco di mille impressioni.
— Immediatamente nel cantuccio, col viso contro il muro - essa gl'impose, ed Ermanno ubbidì, avviandosi verso un angolo del salottino, col passo deciso e la fronte altera di un martire che vada al supplizio, forte della sua innocenza, superbo della sua idea. E si ostinò tanto, che rimase a contemplare la parete per oltre un'ora, odiando sempre di più il signor Frì; orgoglioso per la sua improvvisa partenza, come per un trionfo riportato, frugandosi nella memoria per trarne fuori tutte le bugie del signor Frì e ricordandosi che il vecchio Titta alzava in alto il bastone, dietro le spalle del signor professore, quando lo vedeva attraversare la piazzetta.
Serena gli tirò forte una ciocca di capelli e gli disse allegra:
— Vieni, la mamma ti vuol perdonare.
— No, voglio restare sempre qui - il bimbo rispose, e si accostò di più alla parete, quasi volesse sprofondarvisi.
Allora «madamigella grano di pepe» gli si collocò al fianco e gli propose di fare il giuoco del povero cieco, che domanda l'elemosina presso i gradini della chiesa.
— Un soldo, per carità, al povero cieco - diceva Ermanno, ingrossando la voce.
— Anch'io sono cieca - Serena rispondeva, e poi entrambi gridavano, pestando i piedi:
— Che buio! Che buio! - e si volgevano con allegre risa dalla parte della finestra per assicurarsi di non essere diventati orbi davvero.
Così li sorprese Vanna, quando, pentita, intenerita, andò ella stessa a cercare il bambino per mandarlo a spasso con Titta e Serena. Era forse colpa del suo cherubino se ella si sentiva disperatamente infelice, se il cuore le pesava come la pietra di una macina? Ella sola era in peccato, ella sola doveva soffrire.
— Il mondo è orribile - Vanna disse, rivolgendosi a Domitilla Rosa, la quale stava seduta presso il balcone e dolcemente rideva a qualche suo tenue pensiero.
Il mondo? Ma che cosa era il mondo per Domitilla Rosa se non illusione e menzogna? Ella disse, intrecciando le dita ceree, fra le maglie nere dei mezzi guanti di seta:
— Il mondo è una falsità. Polvere siamo, polvere torneremo. L'anima sola vive, ed all'anima dobbiamo rivolgere le nostre cure.
Vanna sospirò e guardò la piazzetta ancora tutta lieta di sole, ma già l'ombra s'inoltrava di sotto l'arcata. L'ombra camminava lentamente, e frattanto un treno fuggiva, volava per campagne e su ponti.
Ieri, mentre l'ombra lambiva quello stesso punto dell'arcata, Vanna era felice; oggi avrebbe voluto morire, nè più assistere dal suo balcone all'eterna vicenda, sulla piazzetta, del sole che arriva e parte, sospinto via dall'ombra, che giunge furtiva e diventa signora. Così nella sua vita. Ogni luce era scomparsa ed ella si trovava fasciata per sempre di solitudine e di melanconia.
— Oh! Domitilla Rosa, Domitilla Rosa - ella mormorò - orribile il mondo è, e io sono tanto sconsolata.
Domitilla Rosa le prese una mano e, senza guardarla, l'intrattenne a lungo in discorsi di pace e di soavità. Era eloquente, trattando di cose divine, Domitilla Rosa!
Le parlò di Gesù Redentore, che aveva cercato nella passione la sua gioia, immolandosi lui, agnello immacolato, per i molti peccati degli uomini, e le parlò delle donne pietose, avvolgenti il corpo santo dentro un sudario di lino, mentre le ferite di lancia, al costato, mandavano odori, i segni dei chiodi nei piedi mandavano raggi. E nonpertanto il mondo perverso si ostinava nelle sue iniquità, e ad ogni ora, a ogni minuto, le piaghe odorose di Cristo tornavano a sanguinare, ed egli, inesauribile di misericordia, offriva quel sangue preziosissimo per placare il padre adirato! Così parlava Domitilla Rosa, e il viso estatico, soffuso di bianchezza diafana tra la doppia lista dei capelli, si trasfigurava per la fiamma interiore dell'amor suo verso Gesù.
Vanna, sopraffatta da una tristezza senza conforto, piangeva silenziosamente, così misera, così abbandonata, che le parole di Domitilla Rosa le si avvolgevano sul capo, simili alle onde di un fiume.
Eppure la mattina dopo, svegliandosi, provò un senso nuovo di riposo e mirò innanzi a sè con mente attonita le ore della propria giornata. Non avrebbe palpitato più, non sarebbe più corsa alla finestra, spiando, a ogni suonar di passi, non avrebbe più interrogato l'orologio con occhio ansioso, non si sarebbe torturata più a inventar pretesti per allontanare Palmina, per eludere le domande ingenue di Ermanno! Ella poteva oramai lasciarsi, priva di pensieri, priva di volontà, in balìa delle circostanze; l'orologio poteva affrettarsi o ritardare, gli altri potevano uscire o tornare, tutto oramai le diventava indifferente, e tale indifferenza la teneva in una beatitudine greve, quasi in letargo. Il ricordo di Fritz Langen, tanto recente, le appariva lontano, inafferrabile, come un fazzoletto agitato da mano invisibile sulla tolda di un vapore che salpa. Il mare è vasto, il cielo è vasto e il bianco lembo che si agita è piccolo, fuggente tra quella immensità.
Fritz Langen telegrafò da Firenze, telegrafò da Milano, scrisse, riscrisse, mandò lettere, mandò cartoline, riviste, giornali, tutto in pochi giorni. Era la sua voce disperata, che implorava il soccorso di una parola, che invocava forse un cenno d'invito a tornare. Vanna strappava i telegrammi, strappava le lettere e tremava ch'egli tornasse, odiandolo per il male che le faceva. Ma la successiva domenica, uscendo di casa per la prima volta dopo la partenza di Fritz Langen e recandosi al Duomo, vide socchiusa la porticina dei loro convegni, scorse fulgente nel sole un'aiuola del giardinetto fiorito, uno squillar trionfante di trilli giunse al suo orecchio, e le due stanzette, ora deserte, si abbellirono per lei, nel rimpianto, di tutte le delizie sparite.
Dalla soglia del giardinetto suonò precisa la cara voce ben cognita:
— Monna Vanna, monna Vanna!
Ahimè! Ahimè! la cara voce le saliva dall'anima, e sull'anima le ricadde col peso e il fragore di tutto un passato che crolla. Le mancava il respiro, le mancava la vita! Nell'istinto bruto di chi si annega e vuole salvarsi, ella si aggrappò alla decisione di telegrafare a Fritz Langen. Oh! rivederlo ancora fra le aiuole di quel giardino, udirsi ancora chiamar da lui «Monna Vanna, monna Vanna» e poi l'universo andasse in cenere! Interrogò l'orologio, era tardi.
Recandosi al telegrafo subito avrebbe perduta la santa messa: telegraferebbe uscendo di chiesa, e il cuore le martellava per la gioia al pensiero del breve appello, che rivolgerebbe fra poco all'adorato. Poi, nell'uscir di chiesa, la volontà era già schiava di mille timori, e Vanna rientrò nella sua casa emettendo un respiro di sollievo. Se avesse telegrafato, se ne troverebbe già imbarazzata e dolente.
Giorno per giorno tornò quella di prima; l'abitudine riprese a intesserle attorno i suoi fili e l'indolenza ad ammassarle attorno strati di ovatta; si dedicò con più scrupolosa minuzia all'osservanza delle pratiche religiose, e poichè il fervore di Domitilla Rosa in lei non c'era, ella, facendosene acerba colpa, si affannava di compensare la mancanza di ardore con la esattezza, e la prolissità delle preghiere, con la severità delle astinenze. Dedicava a tutt'i santi del calendario gli stessi omaggi spirituali, assillata dallo sgomento di averli nemici, quasichè ogni santo personificasse una forza occulta da placare Voleva tenerseli alleati, ritrovarseli benigni dopo la morte, acciocchè essi facessero traboccare la bilancia in suo favore, quando, nel giorno spaventevole del Giudizio, il Signore avrebbe misurato il pondo dei suoi peccati amorosi e il demonio, in agguato, avrebbe atteso con turpi ghigni di afferrarla pei capelli e trascinarla fra mostri e tormenti.
Dall'altro canto Palmina, esperta in esercizii di stregoneria, mischiava olio con acqua e vi spegneva dentro la fiammella di un moccolo di cera, brontolando le parole inintelligibili dello scongiuro; e Vanna, senza esprimerlo, senza lasciarlo capire, si sentiva ghiacciar la cute se la fiammella, spegnendosi, mandava un troppo lungo cigolìo, se le stile dell'olio, invece di salire a galla tutte a un tempo, s'indugiavano pigre entro il volume dell'acqua.
— Oh! lo stregone, lo stregone! - diceva Palmina, come fra sè - egli ha fatto il malocchio alla mia signora e adesso ride in una città lontana.
Tali parole misteriose di Palmina evocavano davanti agli occhi di Vanna la visione di strani uccelli dai lunghi becchi, dalle zampe sottili, gravi, a somiglianza di filosofi gravi, allineati sulle sporgenze marmoree di una chiesa, che forse era un tempio d'eresia.
Non osava parlare di tutto ciò a monsignore; egli, certo, l'avrebbe redarguita, dicendole che non bisogna confondere la religione con la superstizione, mentre Vanna, per quanto ci riflettesse, non riusciva a stabilire dove finisce la prima, dove l'altra comincia. E intanto non si accostava da mesi al tribunale della penitenza. Come trovare il coraggio di esporre a monsignore, in confessione, la storia del suo peccato? Egli, il padre spirituale, avrebbe dovuto sollecitarla a riconciliarsi con Dio, avrebbe dovuto obbligarla con la sua autorità a rendersi monda, leggera, dopo avere deposto il fardello delle sue colpe!
Monsignore invece non parlava, attendendo forse che la grazia le toccasse il cuore, e difatti in un pomeriggio piovoso della fine di autunno, Vanna mandò Titta per monsignore in seminario, sollecitandolo di favorirla.
— Monsignore - ella gli disse a occhi bassi, appena lo vide entrare nella sala. - Vorrei aprirle il mio cuore in confessione.
Egli chinò la testa in atto di assentimento.
— Il mio cuore trabocca di amarezza; ho bisogno di guida, bisogno di conforto.
— Sta bene - rispose monsignore - domani, finite le mie occupazioni, tornerò qui. Intanto lei si raccolga e mediti.
Vanna meditò, si raccolse, richiamandosi al pensiero le ore delle sue dolcezze, a una a una, odiando in sè la peccatrice, accusandosi, vilipendendosi con tanta maggiore indignazione quanto più il suo peccato le appariva tuttavia, nel ricordo, screziato di colori smaglianti.
Dio! Dio! Il Signore non avrebbe dunque avuto mai misericordia di lei? Stava di nuovo facendo l'esame di coscienza, inginocchiata al confessionale della sua cappella, quando monsignore entrò con passo lieve, si rivestì di una stola, togliendola dalla vetrina degli arredi e, dopo una piccola genuflessione, prese posto dietro l'inginocchiatoio collocato a sinistra dell'altare, e fatto in modo che una parete di legno s'innalzava a dividere la penitente genuflessa dal padre spirituale seduto.
Monsignore aprì il piccolo sportello infisso all'altezza del suo viso, e Vanna, che teneva la fronte celata nelle palme, sentì, attraverso la lamina di ferro bucherellata, un odore gradevole di tabacco di avana. Forse monsignore aveva fumato dopo il pranzo.
— Ah! padre, padre - ella disse, e ruppe in singhiozzi, picchiandosi il petto col piccolo pugno chiuso. - Io sono colpevole, e il Signore non potrà perdonarmi!
-Il Signore perdona volentieri chi si rivolge a lui con anima contrita. Egli ci ha creati fragili, ed è pietoso verso la nostra fragilità. Ma non bisogna attendere tutto da lui. Egli ci ha largito un raziocinio e una volontà, dobbiamo servircene a nostro sostegno. Lei esige troppo dalla bontà divina e dimentica che il cristiano deve essere attivo nel bene, alacre in opere di pietà.
La penitente non lo ascoltava, inabissata nel suo cordoglio. Di dove cominciare? Come spiegare a monsignore di quali inestricabili lusinghe il demonio si era valso per irretirla?
— Oh! padre, padre - ella ripetè, singhiozzando - io ho peccato senza che il peccato mi inspirasse orrore. - E parole confuse, affannose dapprima, poi ordinate ed eloquenti, le fluirono dal labbro. Narrò tutto: i palpiti incerti, le insidie della primavera a Settecamini, l'avventura inaspettata nella casetta di Domitilla Rosa, i convegni, le menzogne, le cupidigie, le gioie, gli affanni, e si esaltava, narrando, coloriva di seduzioni la colpa per iscagionarsi di avere ceduto.
La cappella ottagonale risuonava di accenti sommessi e dolenti sospiri.
Monsignore taceva, e Vanna avrebbe potuto dubitare perfino della presenza di lui, se un piede aristocratico, stretto in una scarpetta lucente, non si fosse affacciato dalla parete sottile di legno, sfiorandole quasi le pieghe della veste di seta scura.
A un tratto la scarpetta lucente ebbe un guizzo, come di serpentello ferito, e si ritrasse con rapidità. Allora monsignore disse aspro:
— Lei troppo si compiace nella rievocazione delle sue colpe Ne allontani da sè il ricordo con orrore e disgusto.
Poi, dopo un attimo di silenzio, le parlò autorevolmente persuasivo, nella sua limpida loquela senese:
— Si occupi del suo caro bambino, sorvegli l'andamento della sua casa, rifugga dall'ozio e serva il Signore con pacata allegrezza.
Vanna supplicò, gemendo:
— Non mi abbandoni, padre mio - e appoggiò sconsolatamente la fronte sopra la bucherellata lamina di ferro per modo che le ciocche de' suoi capelli odorosi sfioravano quasi le gote di monsignore.
Egli le impartì l'assoluzione con gesto affrettato, si spogliò della stola con furia non solita in lui e sparì, come inseguito, chiudendo dietro di sè la porta della cappella.
Vanna, rimasta sola, alzò le braccia verso l'altare, di dove Gesù crocifisso chinava misericordioso verso di lei il capo coronato di spine, e implorò con voce di desolazione:
— Gesù, Gesù, pietà di me peccatrice - abbandonandosi bocconi sulla fredda pietra, poichè la cappella le pareva popolata di alati spiriti malefici, che tutti bisbigliavano fra loro ardenti parole e poichè nella fiamma oscillante della lampada di argento, ella vedeva con gioia e paura guizzare l'arguzia gaia degli occhi azzurri di Fritz Langen, passare la tristezza piena di rimpianto degli occhi pensosi di monsignore.
Ruppe allora in più alto suono di pianto e, sollevando il viso cosparso di lagrime verso il Crocifisso, di nuovo singhiozzò picchiandosi il petto:
— Gesù, Gesù, pietà di me peccatrice.