Il Principe della Marsiliana/XVI
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XVI.
La Camera dei deputati era stata sciolta, mentre don Pio era in viaggio, dopo aver votata la nuova legge elettorale per lo scrutinio di lista, e ora erano indette le nuove elezioni per i primi di giugno.
— Che linea di condotta dobbiamo tenere? — domandò Ubaldo al principe quando lo rivide dopo il ritorno.
— Quella che le pare.
— Si porta candidato?
— Faccia lei.
Ubaldo cadeva dalle nuvole e assicurava a tutti che il principe non era guarito, tutt’altro che guarito, e che il suo cervello dava gravi apprensioni.
Ora non stava più rinchiuso in camera di continuo, perchè il desiderio di sfuggire donna Camilla era il più forte che egli provasse, ma portava la sua indifferenza, la sua apatia, alla Camera, al Club della Caccia, negli uffici della Stampa ovunque lo conduceva l’abitudine, e la sua faccia emaciata, tutta la sua persona infloscita, cadente, erano guardate con la stessa cinica compassione con cui si guardava quell’ammasso di macerie annerite che occupavano il posto dove l’elegante teatro sorgeva un tempo: e della prossima fine del principe della Marsiliana si parlava da tutti, come si parlava della imminente, irreparabile rovina del patrimonio Urbani.
Ubaldo e il Rosati prepararono d’accordo il campo per l’elezione di don Pio, e senza che egli avesse nessun fastidio si vide eletto a grande maggioranza. Essi avevano rimesso avanti l’idea della ferrovia in Trastevere, e nonostante che le costruzioni rimaste a mezzo, l’abbandono desolante in cui erano lasciate le vaste estensioni di terreno fuori di Porta Portese, dicessero che quell’idea era abortita, pure gl’illusi, quelli che hanno sempre bisogno di una divinità da adorare, e che, abbandonata la religione, non possono più accendere il lume alla Madonna e mettono sull’altare del patriottismo un candidato da strapazzo, quella schiatta di adoratori cantarono con voce altissima le laudi dell’operoso principe della Marsiliana. Essi lo dipinsero ai loro amici come un modello di signore democratico, amico del popolo, intelligente a segno tale da capire i bisogni degli operai, buono tanto da desiderare di migliorarne le sorti. Così in virtù della campagna che La Stampa faceva contro il candidato dal Governo, competitore del principe, e molto in virtù del sor Domenico e degli amici di lui, che avevano tanto predicato in favore di quel loro apostolo della redenzione del popolo, don Pio ebbe una grande quantità di voti.
Ma non vi furono feste nè pranzi al palazzo Urbani per quel fatto; non volarono, come la prima volta, i tappi delle bottiglie di champagne.
— Perchè questa musica? — domandò la principessa udendo a un tratto durante il pranzo, sonare l’inno di Garibaldi nel cortile del palazzo.
— Mi hanno rieletto, — disse don Pio continuando sbadatamente a mangiare.
— Ma tu rinunzi, non è vero? — chiese donna Camilla.
— Non credo: che noia mi dà l’esser deputato?
— Rompi ogni legame con la tua vita di questi ultimi tempi, ritorna a fare il signore; rinuncia a quel recente passato, fallo dimenticare.
Le tradizioni di casta e di famiglia s’impongono; rispettale.
— Lascialo in pace, Camilla, — disse la duchessa afferrando l’occasione per contraddirla. — Egli sa meglio di te quello che deve fare. Del suo nome egli solo è custode.
La musica continuava a sonare nel cortile e la voce nasale di donna Camilla echeggiava monotona nella sala.
— Se fosse geloso del suo nome avrebbe conservato il patrimonio, non si sarebbe messo a fare il giornalista e il mestiere dello speculatore, avrebbe avuto vergogna di farsi amico di certa gente, che un tempo non poteva neppur sognare di avere una stretta di mano da un Urbani....
La duchessa tagliava le parole in bocca alla nuora e difendeva il figlio a spada tratta, senza convinzione, per il solo piacere di farle dispetto.
Don Pio non fiatava; raggomitolato su sè stesso, pareva non udisse nulla, neppure la disputa fra le due signore.
A un tratto si alzò, posò un bacio sulla fronte della madre, e andò di là ordinando ai servitori di regalare del denaro ai musicanti affinchè cessassero di sonare.
Pochi minuti dopo, col sigaro spento fra le labbra, era nella stanza di Ubaldo alla Stampa. Vi era entrato nell’assenza di lui, per guardare una grande fotografia di Maria che era appesa sopra la scrivania, e la fissava desolato pensando alle speranze che aveva fondate sul viaggio a Venezia, sulla gita a Rovigno, distrutte tutte dalla gelosia di donna Camilla.
— Che maledizione, che seccatura è mai quella donna! — pensava fra sè atteggiando le labbra a un sorriso amaro.
Nell’udire dei passi nella stanza vicina gettò gli occhi su un giornale, che era spiegato sulla scrivania, e finse di leggere.
Il Rosati e Ubaldo, avendo saputo che il principe era in redazione, erano venuti a cercarlo per parlargli dell’onorevole Carrani.
— Creda, — diceva l’Ubaldo, — l’onorevole Carrani trascina il giornale sopra una via pericolosa, gli fa sposare troppo apertamente i suoi risentimenti personali, lo rende antipatico ai lettori; non può non essersene accorto anche lei.
Il principe fece col capo un lieve cenno che poteva significare tanto sì quanto no.
— Fabio ed io che leggiamo i giornali, che vediamo molta gente, ce ne siamo accorti da un pezzo. Piovono alla direzione le lettere degli assidui, che si lagnano dello sfogo delle ire di quell’uomo fegatoso. Non potrebbe, lei, fargli intendere la ragione? Io glielo ho detto, ma il Carrani si crede infallibile e non mi ascolta. Lei, principe, con la sua autorità potrebbe ottenere quello che non ho ottenuto io.
Don Pio guardava Ubaldo senza rispondere.
— Dunque? — domandò Ubaldo.
— Faccia quello che vuole, — disse con aria irata il principe cercando il cappello per andarsene da quel luogo dove volevano costringerlo a operare, dove volevano imporgli delle seccature.
Fabio e Ubaldo scrollarono la testa e capirono che dal principe non potevano ottenere nessun appoggio morale, e volendo ad ogni costo proteggere la Stampa dalla influenza perniciosa del Carrani, perchè sul giornale fondavano le loro speranze d’avvenire, chiamarono il proto e gli dettero ordine che non accettasse più gli articoli dell’ex-ministro, senza farli passare per la redazione.
Quest’ordine, di cui il Carrani non tardò a accorgersi, produsse un uragano. Prima andò al giornale e fece una scena al Caruso e battè i pugni sulla scrivania e lo coprì di villanie. Ubaldo, che aveva il sangue gelato e sapeva sopportare ogni specie d’insulti quando aveva in mira un utile quasi certo, non rispose; affettò anzi una profonda indifferenza. Egli si contentava di dire di tanto in tanto:
— Si rivolga al principe; si lagni con lui.
Il Carrani se ne andò urlando, e dalla Camera scrisse subito una lettera di fuoco a don Pio, nella quale gl’ingiungeva di richiamare al dovere il redattore-capo e, nel caso non volesse chiedergli scusa, di licenziarlo.
Il principe ricevè la lettera, vide che era del Carrani, che era lunga, non la lesse e non vi rispose. Il giorno seguente altra lettera di fuoco, che ebbe la sorte della prima. Il Carrani scoppiava, non ne poteva più e cercava il principe ovunque per dirgli la sua.
Don Pio incontrandolo sulla gradinata di Montecitorio, gli andò incontro e gli disse:
— Ora mi rammento, mi avete scritto.
— Ve ne rammentate un po’ tardi.
— Ho tante seccature, scusate.
— E che mi dite? — domandò il Carrani.
— Di che? — replico don Pio meravigliato.
— Ma, delle lagnanze che vi facevo nelle mie due lettere?
— Ora che mi rammento, non le ho lette quelle lettere, no, non le ho lette, — e fissava il Carrani con uno sguardo ebete.
Il Carrani a sua volta dopo aver guardato in faccia lungamente il principe; dopo aver veduto quello sguardo vuoto di pensiero, disse:
— Avete ragione, non c’è nulla da farci, lo stupido sono io, — e salì alla Camera a dire a chi non voleva saperlo, che don Pio della Marsiliana era rimbecillito, che doveva avere una paralisi progressiva del cervello, perchè non ragionava più.
Ed era così infatti. Il suo cervello, poco solidamente organizzato, non era fatto per resistere a tanti urti, a tanti pensieri incresciosi, e specialmente non era fatto per resistere alla persecuzione incessante, noiosa, meschina della principessa. Ora ella aveva scoperto in parte il vero, rispetto allo stato finanziario del marito, e alla persecuzione gelosa aggiungeva quella dell’interesse.
— Per quella donna ti sei rovinato e ci hai rovinati; meritava davvero il conto. Comincia dall’abbandonare il giornale e pentiti delle empietà commesse con quel mezzo.
Don Pio, invece di rispondere, fingeva di dormire. La Stampa non c’era bisogno che l’abbandonasse; l’aveva già abbandonata, e Ubaldo e il Rosati, incoraggiati da quel primo fatto del Carrani, non solo avevano cessato l’opposizione contro i due nuovi ministri reclutati nel loro partito, ma in certe questioni erano più benevoli col Gabinetto intiero e sognavano, sognavano tutti e due, alla caduta del vecchio Presidente del Consiglio affranto dagli anni e dai malanni, di far della Stampa l’organo ufficioso del nuovo presidente; ambizione quella comune a molti giornalisti illusi, i quali non sanno che il sussidio che ricevono per cantare sempre osanna non li compensa neppure della decima parte dei lettori che perdono. E così nell’amministrazione come nella direzione politica i due utilitari si erano ingeriti. Essi avevano licenziati diversi inutili corrispondenti, e lo scrittore letterario; avevano ristrette giudiziosamente le spese di telegrammi e non inserivano più nulla in cronaca senza esigere un alto compenso. Il giornale tirava 80,000 copie e poteva essere esigente.
Queste riforme che il principe sanciva con la sua indifferenza e il suo silenzio destarono il malcontento fra gl’impiegati d’amministrazione; alcuni se ne andarono, altri furono licenziati, e anche l’amministrazione, che Fabio prese sotto la sua speciale sorveglianza, non fu più così numerosa e così disordinata, e La Stampa potè farsi da sè largamente le spese e farle ai suoi vice-proprietari.
Per altro ogni volta che c’era da far fronte a una scadenza, l’intendente del principe vuotava la cassa del giornale, e quel giorno Fabio e Ubaldo erano di pessimo umore, poichè non sapevano come fare a dividere le due amministrazioni. Essi non tenevano conto dei capitali inghiottiti dal giornale e si credevano defraudati quando casa Urbani ricorreva alla Stampa, per riparare momentaneamente allo sfacelo cui andava incontro inesorabilmente.
Un giorno, verso la metà di luglio, una notizia molto grave giunse dalla Marsiliana al palazzo Urbani e la portò un buttero trafelato.
Quattrocento lavoranti del canale emissario si erano ammutinati chiedendo la paga, che si negava loro da più settimane, e armati di pale e di vanghe marciavano su Roma, per venir da sè a domandare al principe la loro mercede.
La duchessa, tornando di fuori, aveva veduto il buttero scender da cavallo e parlare concitato col portinaio, mentre scoteva il cappello bagnato di sudore. Ella lo interrogò e seppe che il buttero era inviato dall’intendente e chiedeva di essere ammesso dal principe. Con poche parole, senza eccitamento, quel villano le fece un quadro spaventoso della situazione.
— Aspettate, riferirò io, — diss’ella, e salì.
Il principe era nel suo salottino e sfogliava La Vie Parisienne; donna Camilla lavorava alla rozza coperta per i poveri.
La duchessa ansante narrò il fatto e fissando il figlio gli domandò:
— Ma dimmi, non lo sapevi che i tuoi operai non erano pagati; dimmi, siamo a questo?
Egli non rispose e prendendo sul tavolinetto basso, che aveva accanto, un mucchio di carte le mise sotto gli occhi trecentomila lire in cambiali, che erano state respinte allo sconto dalla Banca Nazionale, e due avvisi di cambiali per una somma complessiva di dugentomila lire che scadevano il giorno dopo.
— Come farai? — gli domandò la madre.
— E che so io?
— E stai così inerte a guardare le figurine della Vie Parisienne e lasci che il tuo, il nostro nome sia schernito da tutti, e lasci che a Roma si veda la banda armata dei lavoranti, che viene a chiederti il pane: il pane, capisci, di cui ha bisogno per saziare la fame? — disse la duchessa.
— Ma che cosa devo fare?
-Non c’è nulla in cassa? — domandò donna Teresa al figlio.
— C’erano alcune migliaia di lire, ma avevo perduto iersera al Circolo della Caccia e ho pagato.
— E gl’istituti di credito?
— Negano; li ho tutti sfruttati come principe della Marsiliana e come proprietario di giornale.
— E gli amici? Perchè non scrivi a don Tommasino Lavriani; ha dieci milioni a conto corrente da Rothschild, se vuole ti può aiutare. Un principe romano, quando ha commesso delle pazzie, ha l’obbligo di rimediarvi e se gli piace di buttarsi nelle imprese non può fallire come mio speculatore, che non ha nulla da perdere, nulla. Pio, scotiti, opera.
E vedendo che il principe continuava a sfogliare il giornale illustrato, la duchessa gli mise una mano sulla spalla e gli disse:
— Pio, pensa.
Nel parlare al figlio, nel contemplare quella rovina, la duchessa, aveva una intonazione di rimprovero nella voce, ma nel cuore ella era piena d’indulgenza, per quel figlio idolatrato e sperava con quel mezzo di scoterlo. Ella peraltro s’illudeva sullo stato mentale del principe e gli chiedeva l’impossibile. Un solo nome, una sola persona avrebbero avuto la potenza di rendergli la vita, e se la duchessa, invecedi spronarlo a rimediare allo sfacelo del suo patrimonio, avesse invocato quel nome, avesse detto a don Pio: “Va’, parti, cerca la donna che ami perdutamente„, egli avrebbe capito, sarebbe partito e avrebbe trovato Maria; ma costringere la sua mente a pensare, il suo cervello a cercare il mezzo per uscire da quel labirinto intricatissimo di affari in cui era entrato sventatamente, come un bambino, senza riflettere alla possibilità di un giorno di sventura, era cosa che don Pio non poteva fare. Per mostrarsi compiacente verso la duchessa, don Pio scrisse peraltro a don Tommasino Lavriani, suo amico d’infanzia, pregandolo a prestargli mezzo milione.
Don Tommasino, conosciuto nel patriziato per la sordida avarizia, era uomo che scriveva malvolentieri, e gli affari preferiva sbrigarli a voce, poichè il dir di no non gli costava nulla. Egli andò da sè a portar la risposta.
— Volentieri, Pio, ma sai, ho figli e mezzo milione è una somma; che ipoteca mi dai?
— Nessuna; tutto è ipotecato più volte.
— E allora, abbi pazienza; questo non è un affare, è un favore.
Don Pio lo guardò meravigliato, sgranando gli occhi, e si disse a denti stretti:
— E se ti chiedessi un favore?
Don Tommasino arricciò il naso ponendo in mostra i denti bianchissimi.
Era quella la sua smorfia abituale, che non voleva significar nulla e che lo faceva somigliare a un leone istupidito e immelensito dal freddo, al quale rimangono le zanne in bocca per solo ornamento.
— Sai che favori non ne ho mai fatti a nessuno.
Ti do in cambio della somma che m’impresti, La Stampa, — aggiunse don Pio sempre a denti stretti.
— E che me ne faccio di un giornale? Non ho voglia di rovinarmi.
— Ti do la galleria.
— La galleria non rappresenta nulla dal momento che il Governo impedisce che si vendano gli oggetti d’arte.
— E allora rifiuti? — domandò don Pio
— Si capisce che rifiuto.
Quella risposta rese muto il principe e tolse alla duchessa Teresa tutta la bella energia senile, che a momenti le dava un aspetto di gioventù.
La povera signora vedeva distrutta tutta l’opera paziente di ricostituzione del patrimonio, iniziata e condotta a termine da lei per amore del figlio; ella vedeva minacciato di giudizii, tediato, rovinato quel Pio, che era stato il pensiero unico, l’unica speranza, l’orgoglio della sua vita. In quel momento la duchessa lo guardava con compassione, senza che la sua bocca pronunziasse una parola di rimprovero, senza che dall’occhio umido di lagrime partisse uno sguardo meno affettuoso dello sguardo consueto. Ma soffriva per lui, soffriva vedendo cadere tutti i suoi sogni d’avvenire, e se il dolore non le avesse fiaccate le gambe, sarebbe andata lei, così altera, a raccomandarsi agli uomini danarosi di Roma affinchè le salvassero il figlio.
— Ma l’amministratore che fa? dov’è? Chiamatelo! — ordinò la duchessa a Giorgio entrato in quel momento recando una lettera al principe.
Don Pio lesse la lettera e la passò alla madre, dicendo con la solita intonazione di voce:
— È inutile di farlo chiamare.
— Fuggito! — gridò la duchessa sgualcendo la lettera. — Ma la sventura ci perseguita, ci opprime!
— Giocava alla Borsa e ha perduto, — disse il principe, — è una cosa tanto naturale; ora non potendo pagare va all’estero.
— Dunque la rovina colpisce noi, colpisce tutti quelli che stanno intorno a noi? — diceva la duchessa piangendo a calde lagrime.
Donna Camilla, che non aveva fiatato in tutto quel tempo, prese la parola, e la sua voce stridula echeggiò sinistramente nella stanza.
— La rovina colpisce tutti, perchè tutti hanno ceduto alla sete dell’oro, perchè tutti hanno ambito pronti e forti guadagni, che assicurassero loro godimenti materiali.
— Risparmiaci le tue sentenze, Camilla, — disse il principe.
Ma la principessa in quel momento non udiva neppure le sprezzanti parole del marito. Ella teneva la testa alta e negli occhi chiari le brillava un lampo di pensiero pertinace.
— Tu non devi finire come un uomo qualunque, — ella disse. — Il nostro nome non deve essere vituperato, i nostri beni non voglio che passino nelle mani di un villano arricchito. Mi hai sempre disprezzata, ma io ti salverò.
Donna Camilla parlava tanto seriamente e con una convinzione così profonda da imporre rispetto al marito. In quel momento egli non avrebbe trovato una parola di scherno per lei.
— Esco e spero tornando di poterti dire che sei salvo, Pio, — ella aggiunse stendendogli la mano.
Il principe la fissava sbalordito, non la riconosceva quasi. La duchessa, sempre piangente, l’abbracciò e la baciò in fronte dicendole supplichevolmente:
— Camilla, salvalo!
Appena la principessa fu uscita dalla stanza, don Pio alzò le spalle con una mossa d’incredulità. Non era possibile che la moglie lo salvasse; e come doveva fare, lei così inetta, così incapace di pensare?
— Camilla vuol prolungare la mia agonia, Camilla è il mio tormento anche ora, — egli disse. — Sono perduto, rovinato!
Più del disonore che sarebbe ridondato su di lui se il giorno seguente non avesse potuto far onore alla sua firma, più di tutte quelle torture morali, che sogliono atterrire gli uomini minacciati dalla rovina, don Pio era intimorito dal fatto di quella banda di lavoranti, che veniva fino a Roma, fino al suo palazzo, a chiedergli il pane. La sua immaginazione gli rappresentava quei lavoranti stracciati, macilenti, gialli per la febbre, trascinantisi a fatica sulle lunghe vie della campagna, e gli pareva che si avvicinassero, che già fossero giunti e a ogni rumore egli sussultava e sentiva stringersi il cuore da una mano gelata, quasi le vanghe di cui erano armati i lavoranti venissero percosse contro l’uscio di camera sua.
Madre e figlio passarono un’ora tremenda, una di quelle ore cui si ripensa con orrore nei momenti di pace serena, e delle quali il ricordo solo basta a ridestare le angosciose sensazioni; e in quell’ora essi non scambiarono una parola, non fecero un movimento; pareva che si raccogliessero penetrati della tetra solennità della imminente sventura.
— Pio, — disse la duchessa dopo quel lungo silenzio, — non hai nessuna idea, nessuna speranza?
— Nessuna.
— Almeno avverti il questore che ti protegga contro questa gente, che viene dalla Marsiliana a minacciarti!
Don Pio prese macchinalmente la carta e vi tracciò sopra alcune righe, ma prima di terminare la lettera stracciò il foglio in due parti, poi in quattro e in otto e posò i pezzettini dinanzi a sè, formandone un mucchio.
— No, la confessione che dovrei fare è troppo umiliante! È troppo duro il dire che io, don Pio della Marsiliana, non ho da sfamare gli operai che impiego, e che ho paura di quegli affamati; — e gettò la testa indietro e rimase inerte sulla poltrona.
Dopo un’altra interminabile ora di attesa giunse donna Camilla più pallida dell’usato, ma con un sorriso trionfante sulle sottili labbra d’anemica, e pose un foglio aperto sotto gli occhi del marito.
— Se accetti queste condizioni, avrai oggi mezzo milione e somme maggiori in seguito per rimediare a tutto.
— Non posso leggere, — disse don Pio mettendosi una mano sugli occhi ardenti per l’angoscia, — dimmele tu queste condizioni.
— Abbandonare La Stampa.
— La prenda chi vuole, non me ne importa nulla.
— Deporre il mandato di deputato.
— Non ci tengo punto e non ho fatto nulla per esser rieletto.
— Partire per un lungo viaggio, farti dimenticare, e tornando, andare al Vaticano a far atto d’ossequio al Santo Padre.
Un lieve sorriso comparve sulle labbra di don Pio.
— Quanto si divertiranno alle mie spalle i giornali!
— E quanto ti vilipenderanno se non paghi i tuoi impegni, — rispose donna Camilla.
— E l’aiuto di dove viene? — domandò il principe.
— Di dove può venire se non da chi ha premura che i grandi nomi delle più illustri famiglie romane non sieno trascinati nel fango, da dove, se non da chi ha a cuore che tutto quello che rappresenta il passato e può rappresentare l’avvenire non perisca, non precipiti?
Don Pio non chiese altro, ma rimase esitante e pensoso fissando la madre come se attendesse da lei un consiglio, un suggerimento.
In quel momento di sotto al palazzo Urbani passava una compagnia di soldati, che recavasi al Quirinale a cambiar la guardia; passava silenziosa senza che la musica l’annunciasse. Quello scalpiccio di un centinaio d’uomini fece trasalire il principe, egli credè che i lavoranti stracciati, affamati, lividi dalla febbre fossero giunti dinanzi al palazzo chiedendo pane.
— Oh Dio! — egli esclamò mettendosi le mani sugli orecchi.
Il suono delle trombe dileguò subito quella impressione di sgomento e di paura nell’anima del principe. Ma se non erano giunti, potevano giungere da un momento all’altro e allora!...
Don Pio tremò a quel pensiero e alzandosi di scatto si fermò in faccia alla moglie, alla quale disse, ponendo le mani sulle spalle.
— Camilla, va, Camilla, prometti tutto quello che credi a nome mio, ma torna presto, torna con i quattrini, per carità!
Era la prima volta che il principe supplicava donna Camilla di un favore, e la supplica era accompagnata da uno sguardo pieno di tenerezza.
— No, scrivi, — diss’ella cavando dall’apertura del guanto la minuta delle condizioni che don Pio doveva impegnarsi a rispettare.
Egli scrisse tremando e dalle tempie gli scendeva a gocce il sudore gelato di chi sente svanire la vita. Sotto alla firma appose con la ceralacca il sigillo di casa Urbani e consegnò il foglio alla moglie, dicendole di nuovo:
— Per carità torna presto; torna con i quattrini!
La principessa aveva appena chiusa la porta dietro a sè che don Pio era già con la fronte appoggiata ai vetri per veder uscire la carrozza dal palazzo. Donna Camilla lo scôrse dallo sportello del coupé, ma non gli fece nessun cenno con la mano per infondergli animo. Anche ora che ella lo salvava, serbavasi fredda e pareva ubbidire a un dovere, invece che cedere a uno slancio del cuore.
Il principe, come tutti quelli che sono incapaci di prendere una risoluzione, ma una volta presala, per iniziativa altrui, vogliono attuarla per sentirsi legati e evitare il pericolo di cedere alla propria inerzia, provò l’impazienza di compire subito almeno una delle promesse stese in carta un momento prima. Infatti fece chiamare Ubaldo e senza tanti preamboli gli domandò:
— Lo vuole il giornale!
— Ma che cosa intende dire?
— Intendo proporle di prendersi la proprietà della Stampa, purchè trasporti subito gli uffici in altro locale, — disse il principe.
Il Caruso riflettè un momento lisciandosi la barba e poi rispose:
— È un giornale che costa molto, molto, e non so se da solo io possa arrischiarmi a fargli le spese, specialmente dovendo trovare un altro locale e adattarlo a uso di tipografia e di amministrazione. Se invece mi lasciasse la casa, potrei trovare chi mi prestasse qualche capitale per pagarlo, e agevolandomi lei sul prezzo, forse ci si potrebbe accomodare.
Egli mercanteggiava sapendo in quali acque navigava il principe, e sperava di avere anche la casa con poco.
— Mi faccia una proposta, — chiese don Pio.
— Che vuole! lo stabile è grande, ma non rende nulla e non può servire altro che per giornale, e anche per giornale è incomodo; fu costruito in fretta, e se non si vuole che rovini, bisogna spenderci.
Mercanteggiava sempre, parlando con voce monotona, a fior di labbra come chi è indifferente e si lascia spingere svogliatamente a concludere un affare. Il principe s’impazientava e disse:
— Ma mi offra una cifra.
— Che so, un centinaio di mila lire, ma sono molte, perchè il giornale costa, il giornale divora i capitali e potrei rovinarmi.
— Vada per centomila lire, — disse il principe per farla finita, — ma il contratto si deve far subito e quella somma deve essere sborsata all’atto del contratto. Io parto e domani farò stendere l’atto di vendita.
I due contraenti si salutarono senza aggiungere Una parola, senza che il principe pensasse neppure di domandare all’altro notizie di Maria. In quel momento tutto taceva in lui; la paura solo della rovina e della miseria lo dominava.
E quando donna Camilla tornò al palazzo, recando in tanti chèques il mezzo milione, don Pio le buttò le braccia al collo e la duchessa pianse con la testa appoggiata sulla spalla della nuora, ripetendole:
— Grazie, figlia mia, grazie.
Un impiegato di casa Urbani fu spedito quella sera stessa sulla via della Marsiliana accompagnato dai carabinieri, a pagare e far retrocedere la banda minacciosa, e il giorno dopo furono ritirate le cambiali in scadenza e si firmò il contratto della cessione del giornale e della vendita dello stabile.
Ubaldo non stava in sè dalla gioia e già sognava di farsi eleggere consigliere comunale e poi deputato. Senza indugiare telegrafò alla moglie per parteciparle l’accaduto e per invitarla a tornar subito a Roma a fine di festeggiare il lieto avvenimento.
A quel telegramma Maria non potè rispondere con un rifiuto. Era tornata a Venezia e in fretta fece i bauli e partì per Roma, mentre il principe e la principessa della Marsiliana si ponevano in viaggio per la Germania dove era stabilito si sarebbero trattenuti fino all’autunno inoltrato. In quel tempo una persona di fiducia di chi generosamente aiutava don Pio, doveva sistemare gli affari, toglier di mezzo le cambiali, vender i terreni anche con molto scapito a liberarlo di quelle case nuove, grandi, che in mano di lui non rendevano nulla.
Nel caffè della stazione di Pisa, Maria e il principe s’incontrarono un momento per caso, ed ella stentò a riconoscerlo quando se lo vide davanti così cambiato e così vecchio.
— Mi perdona? — le domandò egli con voce quasi spenta. — Sono un povero malato di corpo e di spirito, che imploro da lei una dolce parola.
Maria gli stese la mano ed egli se la portò con riverenza alle labbra.
— Sono tanto consolato, — egli disse ritenendole la mano fra le sue. — Perchè non ho avuto una dolce compagna come lei nella vita? E dei bambini, dei bei bambini, — aggiunse accarezzando il figlio della signora Caruso.
Così il principe della Marsiliana intraprese il breve esilio e Maria tornò a Roma.
Alla stazione attendevala tutta la redazione della Stampa, come un tempo andava a attendere don Pio reduce dai suoi viaggi.
Ubaldo, molto abilmente aveva fatto accettare dalla redazione quel cambiamento di proprietario. L’osso duro era stato il Rosati, che già la faceva da padrone prima, ma Ubaldo si era accomodato anche con lui, dandogli per una tenue somma un carato di proprietà e ora lieto e trionfante conduceva la moglie nel quartiere che le aveva fatto preparare in fretta al secondo piano dell’edifizio eretto da don Pio.
Quell’uomo utilitario prometteva a sè stesso di far fruttare gl’immensi capitali che il principe aveva profusi nel giornale, e la possibilità della ricchezza e della possanza gli dava quell’aspetto calmo e trionfante, che hanno quasi tutti quelli che non sognano nel mondo altri beni.