Il Principe della Marsiliana/XV
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XV.
Mentre don Pio della Marsiliana si beava in quel dolce sogno, che consolavalo di tante angosce, donna Camilla aveva la febbre addosso, quella febbre che non si manifesta accelerando il moto del sangue attraverso le vene, ma congelandolo.
Quando aveva salutato il marito alla stazione di Roma, ella non sapeva della partenza di Maria, ma quel ridestarsi improvviso dell’energia del principe, quello scatto di vita, quel viaggio, dettero al suo cuore geloso, alla sua mente indagatrice nuovi sospetti. Ella tornò al palazzo insieme con la suocera, ma invece di salire nel suo quartiere, uscì a piedi come soleva fare spesso, quando andava a visitare i poveri. La gelosia, che guida irre- sistibilmente ogni donna, che sa di avere una rivale, nei luoghi dove spera d’incontrarla per provare l’immenso strazio del cuore, dal quale ha fede di veder sorgere, pianta venefica, ma vitale, la vendetta, guidò donna Camilla davanti alla casa dei Caruso, la quale era di pertinenza del patrimonio Urbani. La portinaia era sulla soglia e s’inchinò alla principessa augurandole una buona passeggiata. Donna Camilla, contro il solito, le rispose affabilmente, e le domandò con premura come stava la signora Maria.
— È partita, poverina, è andata a Venezia a rimettersi; non può credere, Eccellenza, quanto abbia sofferto, ma ora sta meglio e Dio voglia che torni guarita completamente. Se lo merita; è tanto una brava signora!
— Grazie! grazie! — disse la principessa allontanandosi frettolosamente.
Ella non poteva tollerarle, quelle lodi; non poteva sentirsi ripetere ciò che ella sapeva già; non poteva sentirsi confermare che Maria era una creatura eletta, che esercitava un fascino sugli uomini come sulle donne, perchè era bella ed era buona.
— Dunque Pio è andato a raggiungerla; dunque s’intendono, si sottraggono alla mia vigilanza! — pensava donna Camilla tornando a casa pallida e fremente. In tutto quel giorno ella rimase sola, in camera, combattuta fra il desiderio di partire e il timore di dover aprire l’animo suo alla suocera per la quale sentiva una profonda antipatia, sentimento che la duchessa Teresa nutriva a sua volta per lei.
Quelle due signore, che vivevano insieme da cinque anni, che due volte al giorno sedevano alla stessa tavola, non si potevano soffrire. Donna Teresa, specialmente dopo la malattia di don Pio, accusava la nuora di annoiarlo, di non saperlo distrarre dall’abbattimento in cui era caduto, di essere una nullità, di non aver saputo dare a casa Urbani neppure dei figli, che avrebbero portato una nota di vita in quel palazzo così triste; la principessa invece era gelosa della madre, la quale capiva le tendenze del figlio, che aveva saputo rimanere un’amica e aveva sull’animo di lui un grande ascendente. Benchè poco intelligente, ella sentiva tutta la superiorità di donna Teresa, e, riconoscendosi inferiore, era umiliata come donna, era offesa come moglie. Anche quel grande, illimitato amore della duchessa per don Pio, era una nuova umiliazione per lei. Ella sapeva bene che la duchessa avrebbe osteggiato la sua partenza, le avrebbe impedito di mettersi in viaggio se avesse indovinato che il figlio desiderava esser libero e lontano dalla sorveglianza della moglie, e che quella lontananza poteva procurare al suo Pio un sollievo, qualche ora di felicità.
A pranzo le due signore si trovarono sole, poichè l’Onorati da qualche tempo era ammalato e doveva desinare in camera. Donna Camilla, che aveva pensato al modo di partire senza destar sospetti nella duchessa, disse di aver ricevuto una lettera da suo fratello Alberto, che era nella sua tenuta di Montemagno, a poca distanza da Poggio Mirteto, e esternò il desiderio di andargli a fare una improvvisata.
— Va pure, — disse la duchessa, lieta di liberarsi da quella compagnia poco gradita.
— Allora partirò domattina, — rispose la principessa senza alzare gli occhi dal piatto, per non dare a conoscere la gioia perversa che provava.
E la mattina dopo a colazione ella comparve vestita di panno grigio, col cappello di feltro in testa, e la sua voce nasale echeggiava quasi gaia nell’ampia sala da pranzo. Mangiò in fretta per non perdere la corsa dell’una e trenta e poi stese la mano alla suocera e partì accompagnata dalla cameriera soltanto, ma invece di prendere il biglietto per la piccola stazione a breve distanza da Roma, lo prese addirittura per Venezia. Era sicura che l’istinto non la ingannava, che don Pio era là, e il pensiero di amareggiarlo, d’impedirgli di esser felice, di tormentarlo con la sua presenza, le dava una soddisfazione intima e le impediva di sentire la noia e il disagio del lungo viaggio. In tutte quelle ore non mangiò nulla, non bevve un sorso d’acqua, non chiuse mai gli occhi e non guardò i paesi che traversava. Ella non voleva disturbi; voleva assaporare tutta la gioia malvagia del dolore che avrebbe procurato a don Pio. Egli negavale un po’ di felicità, e lei non aveva altra brama che di distruggere quella di lui; viva lei, non sarebbe mai stato un’ora felice, mai!
Giunta a Venezia andò diretta all’albergo Danieli, dove sapeva che don Pio soleva dimorare, e dato il suo nome si fece accompagnare al quartiere di lui.
Don Pio dormiva ancora, e si destò all’improvviso udendo entrare qualcuno in camera. Le candele, quasi interamente consumate, mandavano, prima di spengersi, degli sprazzi di luce viva sul ritratto, ed egli, nell’aprir gli occhi, con la mente ancora volta a Maria, che aveva sognata tutta la notte, fece un balzo sul letto e fra il sogno pronunziò con amore il dolce nome, che le labbra anelanti invocavano di continuo: Maria!
— T’inganni, Pio; sono io, Camilla, — disse la principessa in tono aspro e nasale fissando il ritratto sul quale la luce oscillante delle candele passava rapida come un’ardente e furtiva carezza.
— Perchè sei venuta? — gli domandò il principe meravigliato e turbato nel vederla.
— Perchè l’istinto mi diceva che il mio posto era qui accanto a te.
E accennando il ritratto aggiunse:
— Vedi che non avevo torto.
— Tu sei il mio tormento, — le disse don Pio mestamente, scrollando il capo, per significare che tutto era perduto, che l’arrivo della principessa distruggeva la sua unica speranza.
— Io sono tua moglie, non voglio nè posso permettere che tu commetta pazzie.
— Non fare scene, non fare scandali, non renderti ridicola, se no... — disse don Pio in tono di minaccia.
— Che cosa mi faresti? — domandò la principessa facendo alcuni passi per avvicinarsi al letto.
— A te nulla; non ti torcerò mai un capello; ma farei sostenere la legge del divorzio e ti ripudierei come si ripudia tutto quello che ci è antipatico, insopportabile, odioso.
— Quella legge non sarà mai accettata dalla gente onesta, — disse al principessa.
— Meglio! La canaglia la sosterrà compatta e la canaglia impera.
— E allora chi sei tu, chi sono i tuoi? — domandò donna Camilla.
— Canaglia, — rispose il principe. — Io, tu, tutti quelli che, come noi, non hanno sentimenti, non credono all’onestà, ridono della virtù, insidiano la pace delle persone tranquille e laboriose, che sostengono principî che non sentono, che propugnano idee che non sono frutto delle loro convinzioni, che aizzano gli uni contro gli altri, che demoliscono idoli, distruggono credenze, che mirano sempre al guadagno senza tener conto del danno delle masse, non sono altro che canaglia, canaglia, canaglia!
Don Pio, seduto sul letto, parlava agitando le scarne braccia, che le maniche sbottonate della camicia da notte lasciavano scoperte, e con quei capelli arruffati, che gli erano tornati canuti, e la barba grigia, pareva un vecchio profeta in un accesso di religioso furore.
— E l’opera della Stampa sostenuta, pagata da te, quale è stata mai?
— Quella di fare di Roma, dell’Italia un paese vile, basso, senza ideali, senza fede nei beni morali; un paese che non ha forza di tollerare i rovesci, che si sgomenta della sventura; un paese che trema all’annunzio del colera, che non ha lagrime bastanti per piangere un soldato morto pugnando; un paese dove l’opera è nulla, dove la ricompensa è tutto; un paese dove l’onore, il dovere, il sacrifizio sono lettera morta, un paese che meriterebbe di esser coperto dal diluvio!
— Purchè Iddio ti affidasse la costruzione dell’arca! — osservò ironicamente la principessa.
— No, io preferirei perire insieme con gli altri, se nell’arca dovessi aver te, sempre te per compagna.
— Mi odii dunque molto?
— No; sono un vile e non so odiare; ci vuole ben altra fibra della mia per nutrire un sentimento potente come quello; ma non ti posso soffrire, — e la guardò, accompagnando con un riso cinico quelle parole.
— Sai amare però, — diss’ella accennando al ritratto, ora debolmente illuminato dalla luce, che penetrava dalla finestra.
— Neppure. Se sapessi amare, imporrei il mio amore e tu non avresti trovato qui un ritratto. Non so odiare, non so amare, non so volere! — disse il principe lasciando ricadere con una mossa di scoraggiamento la testa sui guanciali, e chiudendo gli occhi per non vedere la sua tormentatrice.
La principessa rimase un momento a guardarlo e poi uscì per andare nella camera in cui si era fatta preparare il bagno, nella piccola tinozza di guttaperca, che viaggiava sempre insieme con lei, e dopo essersi tuffata nell’acqua e vestita in fretta, prese la rozza coperta per i poveri e si mise di guardia nel salotto di don Pio, come faceva a Roma.
Don Pio sentiva il tic-tac rabbioso dei ferri, che gli martellava insistentemente nel cervello e non aveva neppure la forza di dire alla moglie che cessasse. Era ritornato nell’abbattimento, nell’inerzia, non voleva più nulla, non pensava più a nulla altro che al suo dolore.
Il viaggio a Rovigno, la consolazione che ne sperava, tutto era svanito dalla sua mente; era stato un dolce sogno che si confondeva con i sogni della notte. Nel riaprir gli occhi aveva veduto Camilla, e ora ella era là che lavorava, che vegliava implacabilmente su di lui!
Mentre don Pio inerte, senza volontà, stava abbandonato sul letto, e Giorgio preparava quetamente nella stanza la biancheria e gli abiti del principe, fu bussato alla porta del salotto, e donna Camilla, cessando un momento il lavoro, diceva “avanti„.
Il Rossetti, tutto umile, col cappello in mano, entrava, e vedendo una signora la salutava fino in terra.
— Scusi, — disse con la sua parlantina, — ero venuto a dire al principe della Marsiliana che sono le nove e il vaporino è pronto.
— Ah, sì! Il principe è ancora in letto e per ora non credo si alzi, — disse donna Camilla.
— Peccato! Mi facevo una festa di condurlo a Rovigno dalla mia Maria!
— Lei dunque è il padre della signora Caruso? — domandò la principessa squadrandolo con uno sguardo freddo.
— Appunto, e il principe voleva andare oggi a trovarla; tutto era fissato e il vaporino aspetta.
— Il principe non verrà; ritorna a Roma stasera, — disse donna Camilla con un sorriso sprezzante.
— Ma il vaporino! Io l’ho fissato; si tratta di un viaggio, non di una gita sulla laguna; mi sono impegnato....
— Non si sgomenti per questo; mandi il padrone a farsi pagare qui all’albergo, — disse in tono offensivo la principessa.
Il vecchio Rossetti, tutto umiliato, uscì dal salotto e per le scale pensava:
— Basta che sieno signori per esser tutti matti, tutti! — e con questa riflessione si consolava dello sgarbo ricevuto.
Don Pio aveva sentito il battibecco fra la moglie e il pittore, e non s’era mosso; egli lasciava che gli avvenimenti si compissero senza far nulla per trattenerli o impedirli. Era una fatalità e dinanzi a quella dea inventata dagli spiriti inerti, egli chinava la testa.
Verso il mezzogiorno si alzò e andando in salotto trovò la colazione pronta. Donna Camilla posò la coperta e prese posto di fronte a lui senza parlare. Quando i camerieri si furono ritirati, la principessa, sorseggiando il caffè, narrava al marito, in tono sarcastico, il colloquio col Rossetti.
— Era molto impensierito per il vaporino, quel poveruomo; si vede che l’interesse è il movente della sua vita. E come favoriva volentieri la tua riunione con la figliuola, come cercava di compiacerti! Chissà mai quali ricompense sperava! — aggiungeva ella con un sorriso perfido sulle labbra scolorate.
— Che anima bassa! — esclamò don Pio guardando fisso la principessa e strisciando le parole, quasi si compiacesse a sferzarla più lungamente con quell’insulto. Poi accese un sigaro e non disse altro.
Egli lasciò che la principessa ordinasse a Giorgio di fare i bauli senza opporsi e che stabilisse la partenza per la sera stessa.
— Occorrerà ordinare una cassetta per trasportare il quadro? — domandò Giorgio approfittando di un momento in cui il principe era solo.
— Non importa, lo riporterete a chi lo ha mandato, — e tracciò poche righe per il Rossetti sopra una carta da visita nelle quali diceva che non voleva privarlo di un ricordo di famiglia, e per questo glielo rimandava ringraziandolo.
— Che cosa hai scritto a quel tenero padre? — domandò la principessa entrando in salotto e vedendo che Giorgio portava via il quadro e una lettera.
— Che tormento che sei, Camilla! — disse il principe fissandola ancora per farle leggere nell’occhio la conferma di quelle parole.
Ormai il principe e la principessa non si usavano più riguardi di sorta; appena aprivano bocca la parola amara correva loro alle labbra, e la lasciavano uscire senza ritegno.
La sera essi ripartivano per Roma, e Giorgio e la cameriera, che li seguivano in un compartimento di prima classe, ridevano delle continue liti dei loro padroni. Carolina, che era una grassa romana dalla bocca sempre atteggiata al sorriso, e canzonava volentieri la sua padrona, compiangeva i viaggiatori, che erano accanto a quella tenera coppia nella carrozza Pulmann.
— Scommetterei che non possono dormire; la signora ha il diavolo addosso!
— E al principe dà di volta il cervello, — rispondeva il cameriere.
Donna Camilla peraltro durante il viaggio non potè sfogare la sua bile con parole, perchè don Pio dormì fino a Firenze. Prima di partire aveva preso una forte dose di cloralio, che gli aveva procurato un sonno pesante e angoscioso. A Firenze era sceso per far colazione, e al Buffet aveva incontrato il principe don Tommasino Lavriani, amico e collega alla Camera, che tornava a Roma da un viaggio a Londra. Don Pio considerò quell’incontro una vera fortuna e invitò il Lavriani a salire nella stessa carrozza che egli occupava.
Parlarono di cavalli, di corse, di politica, e donna Camilla ascoltava senza prender parte al discorso. Ella non aveva altro che un pensiero, e in quel pensiero cercava conforto.
— Non l’ha veduta e torna a Roma! — ripeteva a sè stessa di continuo.
La duchessa Teresa fece le meraviglie vedendo la nuora e il figlio tornare insieme, mentre erano partiti per diversa destinazione.
— Sono andata a raggiungerlo; temeva che stesse male, — disse donna Camilla alla suocera.
Ma la duchessa non tardò a sapere dalla sua cameriera, cui lo avevano raccontato Giorgio e la cameriera della principessa, la gita a Venezia, l’inseguimento e il ritorno precipitoso, e quel fatto le rese anche più antipatica la nuora.
— Perchè, perchè non lo lascia in pace! — diceva ai suoi amici fidati con i quali si confidava. — Lo tormenta tanto che lo riduce vecchio e nullo.
E queste parole le uscivano dalla bocca con una intonazione di dolore vero e profondo. Come era pentita di aver proposto lei quel matrimonio, come si propone un affare; come rimproveravasi di non aver indovinato che quella donnina piccola, esile, dal volto pallido di morta aveva una tenacità di volere, un egoismo così grande che avrebbero distrutto il suo Pio!
Ora non c’era rimedio, bisognava sopportarla come una sventura. La duchessa era molto invecchiata negli ultimi tempi per quei dolori che inutilmente curava col massaggio e con tutti quei rimedi che i medici dei ricchi suggeriscono loro; ella non aveva più la bella energia che aveva conservata fino a tarda età, non aveva più la forza di paralizzare l’opera letale di donna Camilla; ma sentiva tanta avversione per lei che riusciva a manifestargliela in ogni modo: ora ridendo delle sue idee, ora rilevando le stupidaggini che ogni momento si lasciava sfuggire di bocca, ora vantando in presenza del figlio tutte le donne belle, serene, eleganti, le madri circondate da una forte e numerosa figliuolanza.
La principessa, educata al rispetto per la vecchiaia, taceva, ma una volta in camera sua, dove il marito non aveva posto piede da due anni, ella piangeva, pestava i piedi e imprecava ogni sorta di mali, terreni e eterni, sulla testa di quella suocera odiata.