Idilli (Teocrito - Romagnoli)/Prefazione

Prefazione

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
Prefazione
Idilli I - La morte di Dafni
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Chi studi una qualsiasi storia di Grecia, sia civile, sia letteraria od artistica, dopo la morte di Alessandro vede aprirsi un nuovo mondo spirituale.

Mondo rappresentato, nelle varie storie, con colori su per giú identici. E non già pel costume, che troppo spesso hanno gli scrittori, di ripetersi l’un l’altro; ma perché, veramente, le caratteristiche dell’età alessandrina, come sono spiccate ed ovvie, cosí furono rilevate, da parecchio tempo, e in maniera definitiva, da studiosi di gran dottrina e di molto gusto, quali, per citare gli antesignani, il Droysen, il Helbig, il Couat, e, per venire ai recentissimi, il Cessi, il Rostagni, e, ultimi di tempo e non davvero di merito, il De Ridder e il Deonna1. Taccio di altri assai piú famosi che realmente benemeriti.

Ma se mi pare che ci sia ben poco da aggiungere intorno ai caratteri generali dello spirito alessandrino, non mi accordo poi [p. viii modifica]nei giudizi che comunemente si esprimono intorno ai suoi riflessi su la poesia del tempo. E perché questo dissenso implica una diversa posizione di Teocrito rispetto al suo momento letterario, credo utile specificarne le ragioni, mentre mi accingo a presentare un poeta la cui opera è certo chiara e perspicua, bella di una bellezza da apprezzare senza riferimenti eruditi, ma pure macchiata qua e là da mende su la cui essenza è necessario formarci un giusto criterio.

Se consideriamo l’arte greca nella sua grande linea di sviluppo, senza sviarci dietro questa o quella deviazione sporadica, vediamo facilmente che essa, da Omero, o, meglio, dalla ripresa postomerica2, sino al gran momento attico, è tutta una aspirazione lenta, continua, possente, verso la perfezione, la purezza, la bellezza, intesa come trascendenza dal particolare al generale, dal contingente all’essenziale.

La forma piú chiara di questa aspirazione è forse nella scultura di Fidia. Fidia non ha mai cercato di esprimere questo o quel modello individuo, né il prototipo di questa o quella razza, né dell’una casta o dell’altra3; bensí, raccogliendo nel fuoco possente del suo spirito le innumerabili creature che cadevano sotto le sue pupille, creava, con sovrumana energia sintetica, forme umane insieme e non umane. Le molteplici caratteristiche di tutte le stirpi e di tutte le età venivano a confluire e a perdersi nelle sue statue. Perfino le infinite espressioni dei sentimenti e delle passioni vi si annullavano in una radiosa serenità. E l’effetto etico ne era infinito. Diceva un antico autore: [p. ix modifica] «L’uomo che abbia l’anima tutta affranta dalle afflizioni e dalle sciagure, contempli il Giove di Fidia, e davanti a quel simulacro oblierà ogni gravezza della vita».

E non soltanto le creature umane erano cosí esaltate. Tutte le forme visibili, riflettendosi nella fantasia dell’artista, divenivano prototipi universali, idee, creature olimpiche. Certo nei presepii d’Olimpo furono nutriti i cavalli dei frontoni, dinanzi ai quali Goethe si fermava sognando, e che non appartengono ad alcuna delle razze equine esistenti su la terra.

E nel medesimo indirizzo si svolgono tutte le altre manifestazioni spirituali contemporanee: da Polignoto, il gran sidere da cui persino Fidia ebbe a derivar qualche luce, a Pindaro ed Eschilo, le cui figure sono Numi, o Seminumi, o Eroi, ossia Numi in esilio. In una simile sfera ideale si svolge la musica, da Olimpo a Frinico. E perfino la vera vita si modella e proporziona su questo ideale artistico. Nessuno aveva mai veduto ridere l’olimpio Pericle; né la morte immatura e straziante del figlio poté turbare la sua energia né la sua serenità.

Ma già nel cuore del secolo quinto l’arte greca abbandona il vertice cosí faticosamente raggiunto.

E gran parte dei contemporanei, la cui voce è giunta fino a noi distintissima nelle commedie d’Aristofane, stigmatizzò questo abbandono come un folle tradimento dell’arte, dei costumi, delle tradizioni avite: cioè della patria. Ed anche il giudizio dei secoli, purificato d’ogni passione, pronuncia volentieri la parola: decadenza.

E certo, l’arte greca non giunse piú mai cosí alto. Però, badiamo. Nell’arte, come nella vita, non si concedono stasi. Dove è arresto, immobilità, quivi è disintegrazione, disfacimento e morte. Chi giunge al vertice d’un monte, vede ogni altra cima sotto [p. x modifica] i suoi piedi; ma non può salire piú alto. Insistendo nella posizione conquistata, l’arte greca non poteva non cadere nella replica, cioè nell’accademia, morte verace dell’arte.

E gli antichi Greci, col loro intuito infallibile, lo intesero. Appena le divine statue fidiache avevano raggiata la loro bellezza solare, appena su le scene sacre a Diòniso avevano suonato gli ultimi accenti della divina tragedia d’Eschilo, e già gli artisti erano in cammino, oltre il vertice.

Verso il basso? — No: su l’altro versante.

E il nuovo impeto travolge tutti, anche i difensori ad oltranza del tempo trascorso. La grande psicologia statica, che faceva giganteggiare sino al cielo le sublimi figure di Eschilo, cede il posto, nelle tragedie di Sofocle, ad una psicologia estremamente mobile e dinamica, umana e non piú sovrumana4. E perfino l’implacabile Aristofane, ad onta delle sue appassionate invettive e delle costanti dichiarazioni di spregio, deriva piú assai che non si pensi dall’aborrito Euripide.

Veramente, un movimento d’opposizione e di rivolta contro l’antico ideale di vita e d’arte era incominciato già da gran tempo. Da gran tempo la filosofia, anche mediante la parola di uomini di genio, aveva esercitato il suo potere dissolvitore. Ma era rimasta piuttosto circoscritta a certi cerchi di cultura, ed anche a certe regioni, specialmente all’Asia Minore e alla Magna Grecia, lasciando quasi immuni i due grandi gruppi continentali dorico ed attico, nei quali si assomma la gloria del mondo classico. Ora, invece, il movimento si rivolge al cuore stesso dell’ellenismo, ad Atene, diviene endemico, ed investe la vita in tutte le sue espressioni, nella religione, nei costumi, nell arte. Onde, in breve, alla fede vediamo subentrare lo scetticismo, alla intuizione il razionalismo, alla poesia la critica.

Di questo movimento, Euripide è per noi il piú esplicito rap[p. xi modifica]presentante. Sia perché, essendo insieme poeta e filosofo, nella sua opera ce ne mostra insieme le basi teoriche e i risultati pratici, sia perché s’impone alla nostra coscienza col linguaggio immaginoso del poeta, imperativo del drammaturgo.

Il tratto, per cui Euripide si distingue piú recisamente dai poeti del passato, è la enorme preponderanza che nel complesso delle sue facoltà presenta il senso critico. Nulla di quanto era sacro e venerato finora nella patria trova grazia dinanzi alle sue pupille acutissime. Numi, semidei, eroi, credenze, imperativi etici, tutto deve passare al traguardo della ragione, deve subire una revisione. Euripide è il razionalista per eccellenza.

Di questo atteggiamento spirituale si vedono chiarissimi i riflessi nella sua vita e nell’arte. Misantropo, misogino, individualista, apolitico, amico della solitudine, della quiete, della campagna, dei libri 5. E nell’arte, razionalista, realista, indagatore instancabile dell’anima umana, e massime dell’anima femminile, per strapparle i suoi piú gelosi segreti, non tanto ai fini dell’arte, quanto per interesse intrinseco, adoratore della campagna che rappresenta non già solo come sfondo o in pura funzione lirica, bensí al primo piano, vagheggiata, idoleggiata. E poi, curiosità della tecnica, tendenza a valicare i confini della propria arte per invadere quelli della pittura, entusiasmo per ogni novità, per ogni scoperta artistica.

Queste, e molte altre tendenze, oramai cento volte rilevate dai critici, caratterizzano l’opera di Euripide. Con la prontezza fulminea, con la sicurezza e la copia del genio, egli, prevenendo il travaglio dei secoli, tira le somme, e deriva dal nuovo movimento spirituale tutte le conseguenze necessarie ed inevitabili nel campo dell’arte. [p. xii modifica]

Vero è che il fàscino del passato prodigioso lo tiene continuamente avvolto nelle sue spire, tanto che tutta la sua opera rimane pur sempre stretta, aderente al mito; e che la sua ultima tragedia, il suo capolavoro, Le Baccanti, è come un grande atto di contrizione confessionale ed artistica6. Ma non meno vero che le nuove tendenze della sua opera rimangono come un vasto programma abbozzato ed offerto al futuro.

E dopo Euripide, tutti gli artisti, d’ogni arte, con una specie di divisione del lavoro, riprendono questo programma, e lo svolgono, con estensione naturalmente maggiore, con ritmo infinitamente piú lento. Sicché, giunti al secolo IV, o, piú precisamente, a cavallo fra il IV e il III, ci troviamo in un mondo artistico perfettamente antipodo al mondo classico: l’alessandrino.

La temperie generale ne è stata oramai studiata, come già dissi, egregiamente. Ma non mi pare che sia stato messo nella debita luce un fatto secondo me di somma importanza. Che, cioè, i riflessi del gran movimento spirituale iniziatosi nel secolo V, sono assai differenti nel campo delle arti figurate e in quello della poesia.

Il carattere essenziale di questo movimento fu, dicemmo, critico. La sua principale aspirazione fu un desiderio appassionato di vedere le cose nella loro realtà piú concreta. E questa aspirazione, che nelle scienze produce lo sperimentalismo, nella filosofia l’analitica, nella storia la ricerca individuale, biografica, nelle arti figurate si risolve in realismo.

L’arte non considera piú gl’individui come elementi onde estrarre un tipo, bensí li apprezza e li studia in sé, per il loro [p. xiii modifica] carattere particolare, tanto piú prezioso quanto piú saliente, anche se ribelle alle leggi della bellezza7. Quindi l’accoglimento, nei regni dell’arte, d’una quantità di soggetti prima trascurati o spregiati. Non piú i Numi soltanto e gli Eroi, in forme di bellezza umana; bensí gli uomini, e tutti gli uomini. Di ogni razza: Negri Persi, Calati; di ogni età, dall’infanzia, ora primamente studiata, alla vecchiaia e alla decrepitezza; e belli e brutti; e in ogni stato fisiologico, dal sonno alla ebrietudine; e di ogni condizione sociale, pescatori, pastori, filatrici, barbieri, calzolai, gualchierai. E i ritratti, che dalla idealizzazione classica passano allo studio dei minuti particolari fisici, come, per esempio, la disuguaglianza degli occhi d’Alessandro. E il paesaggio, non piú come sfondo a fatti umani, né in funzione d’uno stato lirico, bensí per il suo proprio incanto. E gli animali e la loro vita. E la natura morta. E poi, effetti di luce, quadri notturni, studi di scorcio, figure che si specchiano, pitture illusive (trompe l’oeil).

Bastano questi accenni per intendere che nel campo delle arti figurate questo indirizzo fu legittimo e anzi necessario; perché, in realtà, all’arte rimanevano ancora molte e molte province da conquistare.

Ma, a parte questo merito di tendenza, giova osservare che per le arti del disegno un programma realista può essere fine a sé stesso — purché, naturalmente, non presuma di soppiantare tutti gli altri.

E giova poi osservare che questa medesima formula realistica contribuisce, stranamente, a favorire, in certi casi, un principio antitetico. [p. xiv modifica]

Abbiamo visto che nella grande arte, massime nella statuaria, aveva poco luogo l’espressione dei sentimenti. Ma già Socrate ammoniva che lo statuario deve esprimere attraverso le forme tutte le impressioni dell’animo. Ed ecco Prassitele e Scopa conquistare al marmo le due province, finora quasi ignote, del sentimento e della passione. La soave fantasticheria dell’uno, il fiero accento drammatico dell’altro, si impongono come modelli agli epígoni. E cosí, nelle figure alessandrine, vediamo da un lato contorni addolciti, come sfumati in una nebbia, espressioni voluttuose, sguardi velati di languore: dall’altro, pallori morbosi, lagrime, sospiri, sogni torbidi e tristi. Un velo di patetico e di malinconia è disteso su tutte le figure ellenistiche: perfino i Numi, perduta la loro serenità, partecipano tutte le passioni umane.

E cosí, un indirizzo realistico sbocca, con risultato diametralmente opposto, nel sentimento, e quasi nel sentimentalismo.

Ma nella poesia non è cosí. La formula realistica si esaurisce presto; e i suoi prodotti sono, indiscutibilmente, di genere inferiore. Applicata in tempi recenti, e con criterii e finezza ignoti agli alessandrini, essa ha dimostrato, senza possibili ambiguità, la propria insufficienza.

Ma poi, tutto il male non è qui. Gli è che in poesia il verismo si converte, inevitabilmente, in razionalismo. Chi esamina le cose con troppa insistenza, e ne scopre via via l’intimo organismo, è facilmente indotto nell’illusione che in quel meccanismo consista la loro essenza, e che riuscire a signoreggiarne i congegni, significhi aver acquistata la facoltà di creare. Anche Euripide, con tutto il suo genio, ne fu vinto; perché Aristofane sapeva certo che si dicesse, quando nelle «Rane» gli faceva pronunciare la nota apologia:

La maniera fu tale
ond’io li ammaestrai:

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sottile e razionale
resi l’arte 8.


E cosí, alla famosa ispirazione demoniaca, dalla quale i poeti classici riconoscevano ogni loro ispirazione, si sostituisce il raziocinio. Alla Dea Musa, la Dea Ragione.

Ora, in poesia nulla è piú fatale del razionalismo. I figli che esso procrea non sono piú venusti né piú vitali dell’homunculus creato nella storia del pedante Wagner. E nei poeti alessandrini, il razionalismo è desposta assoluto.

E un’altra tendenza trionfa, collegata anch’essa col verismo e col razionalismo; ed è la mania erudita, libresca.

Il poeta era nell’età omerica la piú libera ed errabonda creatura del mondo. Non aveva casa, si può dire: andava continuamente vagando da città a città, da porto a porto, da corte a corte: vero uccello in migrazione perenne.

E in questo perpetuo peregrinare di gente in gente, acquistava, come Ulisse, la diretta e profonda conoscenza dell’indole, dei costumi, delle passioni umane. E il continuo contatto con la campagna, il cielo, il mare, lo rendeva impareggiabile interprete delle libere forze elementari. E come tutti i segreti del cuore umano, cosí tutte le meraviglie del mondo esterno appaiono riflesse nei divini esametri d’Omero.

Poi, a mano a mano, per una serie di ragioni politiche ed artistiche, che saranno discorse, secondo l’opportunità, in altri volumi di questa raccolta, il poeta appare sempre piú legato ad una regione, ad una razza, ad una città. Sinché, in fine, si riduce a tapparsi in una biblioteca.

La biblioteca è, in fondo, il vero esponente dell’età alessandrina. Poeta e bibliotecario divengono allora termini [p. xvi modifica] liberamente convertibili. E spesso questi poeti-bibliotecari, nelle loro poesie, si dànno grandi arie di cattivi soggetti, sempre in buona fortuna, sempre incoronati di rose, tra i vini piú capitosi e le belle piú capricciose. Ma non vi consiglierei d’abboccare. Le loro rose, i loro nèttari, le loro donnette, sono libri libri e libri. Le sale delle loro orge sono biblioteche. E nelle biblioteche non c’è né il cielo, né il mare, né gli alberi, né i fiori, non ci sono né passioni né amori. Ci sono colleghi, e, anche una volta, libri. E di libri i poeti alessandrini si nutricavano giorno e notte. Dai libri attingevano i succhi per il loro miele poetico. Come tutti sanno, Callimaco, il vero ed autentico rappresentante dello spirito alessandrino, si vantava, in un verso famoso, di non aver fermato peso di dramma che non potesse autenticare con la sua brava fonte letteraria.9

Vedo che fra gli studiosi contemporanei prevale una certa tendenza a difendere questa letteratura libresca, magari contrapponendola, a titolo d’onore, alla gran poesia classica, la quale, poverina, era pur sempre impigliata nelle reti delle necessità pratiche, e quindi non poteva assurgere, come insegna l’estetica dell’espressione, ai cieli sereni dell’arte pura. Scherzi dell’affinità elettiva; perché la nostra età, ad onta di tante sue belle illusioni, somiglia maledettamente all’età alessandrina.

Ora, in realtà, il libro è un magnifico strumento; ma adoperarlo è difficile e pericoloso, massime per i poeti. La vita offre a chi la studia rari frutti e tardivi, ma meravigliosamente nutrienti. I libri offrono invece una quantità di pillole già belle e pronte, di agevolissima deglutizione e digestione, ma che non sempre lasciano nutrimento vitale. Ond’ecco, vicino al vero saggio, che, a detta di Pindaro, molto sa per natura, il loquace pappagallo che ripete gli scialbi paragrafi della sua lezione.

Ma, a parte ogni discussione teorica, chi esamini con [p. xvii modifica]pupilla acuta e con niente scevra da pregiudizi la poesia ellenistica, vi cerca invano i segni onde fu grande la poesia classica. La spontaneità, la schiettezza, la luce, la libertà, la fantasia, la virtú plastica, l’ampiezza di linea, la musicalità profonda, l’aderenza vera alla realtà, e insieme il perenne battito d’ala verso l’azzurro: tutte queste mirabili doti sono sparite, come per malefico sortilegio.

Ma — obietterà qualcuno dei sullodati simpatizzanti — altre doti vi brillano, che non erano cosí sviluppate nella poesia classica. Verbigrazia, la passione. E poi, il sentimento dell’amore. E poi, il sentimento della natura. E poi, la squisitezza formale.

Già. Si dice e si ripete sempre cosí, perché una volta è stato detto cosí, e perché, fissandosi specialmente alle arti figurative, e rilevandone certe innegabili analogie con l’arte della parola, a questa, troppo facilmente, furono estese conclusioni che solo nei riguardi di quelle erano pienamente legittime.

Ma veniamo alla prova dei fatti. Dov’è questa gran passione d’amore? In Ermesianatte, forse, in Alessandro Etolo, in Fanocle? Amore, senza dubbio, ce n’è, a sacca, a moggia, a carrettate. Ma trattato come una specialità erudita, la mitologia, che so, la sfragistica, la paleografia. Si può immaginare cosa piú tigliosa, piú coriacea, piú cartapesta, delle storielle d’amore che questi tre, oh Dio! poeti travasano dai manualetti mitologici nei loro distici lindi e lucidati con la pietra pomice? Che cosa obiettate? L’«Aconzio e Cidippa» del maestro dei maestri Callimaco, testé felicemente recuperata? Ma dove trovare cosa piú beatamente ebete di quella frigida storiella lardellata di reminiscenze mitologiche e di ghiotte curiosità geografiche, genealogiche, o comunque erudite? O forse v’inteneriscono gli epigrammi di Asclepiade? Recentemente fu enunciata la «teoria» che questo poeta, famoso anche ai dí nostri, per aver dato il nome ad un metro che era già conosciutissimo e praticatissimo ai tempi di Saffo, nelle composizioni perdute dové esser grande. Ci [p. xviii modifica] fidiamo, al solito, senza giurarla, di questa intuizione. Ma gli epigrammi conservati valgono proprio pochino pochino. Asclepiade, al pari di tutti i suoi cartofilaci colleghi, vi sfoggia le piú ardenti dichiarazioni di appassionatezza erotica; ma con un po’ di fiuto si capisce subito che il suo vero ispiratore non è già il piccoletto Dio faretrato che piombava sul cuore di Saffo come vento su l’alpe, bensí il modesto lumicino ad olio, la classica lucerna, che egli, sempre al pari dei suoi colleghi, invoca tanto volentieri. La espressione dei loro veri sentimenti consiste in certi sdilinquimenti e smorfie e concettini, che davvero rimasero ignoti alla grande arte classica, compreso il precursore Euripide, e di cui ragioneremo con la debita compiutezza in luogo debito, e cioè nella prefazione a Callimaco, vero alessandrino, e non già finto, d’occasione, come, per fortuna dell’arte, fu il siciliano Teocrito. Con essi incominciano i baciamani e i tenerumi. «Gli alessandrini, dice il Couat, e dice benissimo, parlano d’una Tàide o d’una Filenio come in altri tempi si parlerà di Filli e di Clori. On y étudie la carte du tendre.» Giustissimo. E su quella carta, il paese della passione non c’è.

E dov’è questo famoso «sentimento della natura»? So bene che è luogo comune asserire che la poesia classica lo conobbe poco. Però questo giudizio è, almeno in parte, derivato dal fatto che i critici, e massime i critici delle letterature classiche, ed i «filologi», in genere sogliono badare piú al peso che alla qualità. Sicuramente, nella poesia classica non c’è quel lusso di descrizioni che contraddistingue certa poesia moderna. Ma nessun dubbio che i brevi quadretti intercalati nelle comparazioni d’Omero, e i preziosi accenni di Saffo, e le calde pitture d’Ibico, comprano cento volte la piú gran parte di quelle descrizioni. Ma che dire poi dei mirabili cori delle «Nuvole», degli «Uccelli», delle «Rane», de «La Pace» di Aristofane? Qui non abbiamo piú né accenni, né bozzetti, bensí quadri; e quadri che trovano ben pochi riscontri anche nella poesia moderna, anche se li andiamo [p. xix modifica] a cercare in Shelley, che so, in Goethe, o in quale pur vogliate dei laghisti inglesi o dei romantici tedeschi.

Negli Alessandrini, poi, a cercar bene, difettano cosí la qualità come la quantità. In quale poeta sono queste grandi orge di «sentimento della natura?» — In Teocrito — risponderete. È vero; ma Teocrito va considerato in via eccezionale. Ci torneremo subito.

Il buon gusto? Se ne piccavano assai, e Callimaco non si stancava di pontificare. Ma, stringi stringi, si limitava a gittate il biasimo sui componimenti troppo lunghi: celeberrima la sua sentenza: «Libro grosso malanno grosso»10.

E insieme con la brevità, raccomandava la semplicità di tòno. E ci ricamava il suo bravo sarcasmo:

Non pretendete da me che un carme di grande rimbombo
io scriva: a Giove spetta tuonare, e non a me.

Sanissimi princípi. E finché si trattava di applicarli ai poeti perdigiorni suoi coetanei, che s’illudevano di continuare Omero, aveva ragione da vendere. Il guaio è che, sotto sotto, tirava ad applicarli anche ad Omero, per tener su i principii e il prestigio della sua «bella scuola». Il che non deve poi indurci a troppa meraviglia, perché anche il piú solenne filologo dei nostri giorni ha dichiarato che la fastidiosissima Corinna gli rifinisce piú d’Omero. Il guaio è che, senza dubbio, l’abbondanza inesauribile e l’«os magna sonaturum» sono le due caratteristiche costanti ed ineliminabili dei poeti di genio.

Rimane la famosa perfezione della forma. Nessuno potrebbe ragionevolmente negare che le opere degli Alessandrini fossero veri ceselli (toreutà). Ma è anche vero che da questo momento [p. xx modifica] si incominciò a considerare la forma come qualche cosa di per sé stante, che potesse aver valore intrinseco anche all’infuori del contenuto. Principio pestifero, e non c’è bisogno di dimostrarlo.

E altre tendenze della medesima risma ripetono veramente dal momento alessandrino la loro fede di nascita.

Per esempio, la supervalutazione dell’arte, e massime in ciò che è piú propriamente mestiere. Trovare begli epiteti, arrotondare bei ritmi, sembrò l’opera piú eccelsa e meritoria a cui potesse dedicarsi un uomo di comprendonio.

E, come conseguenza, il superbo dispregio di quanti non fossero all’altezza delle loro dotte e frigide elucubrazioni. Assai prima di Orazio, Callimaco aveva intonato. Il suo «Odi profanum volgus»:

Il ciclico poema detesto, e non amo la strada
     che la gente a casaccio conduce qua e là.
Anche l’amasio aborrisco che a tutti si dona, e non bevo
     dalla fontana: tutto quanto è volgare, schifo.

Con la gente che muove a schifo, non ci si sta volentieri. E cosí, avvenne in Alessandria e negli altri centri di produzione poetica quello che avvenne e avviene sempre quando gli artisti si reputano incompresi: la secessione. I poeti si chiusero in una torre d’avorio.

Ossia, loro la credevano una torre d’avorio. Ma che cosa realmente fossero il Museo d’Alessandria e serbatoi affini, lo vide ben chiaro il sillografo Timone:

Molti in Egitto dalle molteplici razze nutriti
sono saputi imbrattapapiri, che mai, delle Muse
dentro la gabbia chiusi, desiston dall’accapigliarsi.

Dunque, non torri d’avorio, bensí gabbioni, dove melliflui e concordi in apparenza, i «poeti» si detestano cordialmente, si beccano l’un l’altro, come i capponi di Renzo. [p. xxi modifica]

Giacché, senza andare ormai troppo piú per le lunghe, è veramente indiscutibile benemerenza dell’alessandrinismo la creazione della «vita letteraria» con le sue consorterie, le sue camorre, le sue congiure, le sue finte amicizie, e i suoi veri ed implacabili rancori.

Ma piú d’una volta il lettore sarà stato spinto ad obiettare: «E Teocrito?»

È vero. E gran parte dei giudizi favorevoli che disconvengono alla poesia alessandrina, si attagliano invece egregiamente a Teocrito.

Ma Teocrito è un verace usignolo, sperduto, per uno dei tanti capricci del caso, nel mondo delle cornacchie. Non è giusto che di questa singoiar posizione abbiano ad esser beneficiati i tigliosi cartofilaci distillatori di libri.

Ad illuminarci su la vera natura del genio di Teocrito, giova forse una iniziale disposizione cronologica dei suoi idilli.

Non parlo propriamente della cronologia materiale. Questa è incerta e discussa. Ma importa e non importa. La linea di sviluppo ideale di un poeta, non coincide, o per lo meno, non coincide sempre esattamente con la materiale composizione e pubblicazione delle sue opere. La produzione d’ogni artista veramente geniale, presenta le sue fasi, come ogni fenomeno di vita; ma le varie fasi, pure avendo ciascuna una determinata fisionomia, e limiti ben segnati, interferiscono spesso l’una nell’altra, con anticipazioni e ricorsi. Spesso un’opera della prima gioventú, farà presagire, con possente oscuro slancio, il periodo maturo: un’opera della maturità, e magari della vecchiezza, avrà tutta la rorida freschezza dell’adolescenza. Cosí vediamo spesso un tenero arboscello gravarsi d’un unico frutto precoce, troppo pesante pei [p. xxii modifica] suoi gracili rami; e un tronco secolare esprimere direttamente dal tronco rugoso una fragile vaporosa corolla.

Ora, combinando le poche notizie della vita di Teocrito col vario carattere dei suoi idilli, si ricostruisce abbastanza sicuramente la linea di sviluppo della sua poesia.

Teocrito nacque a Siracusa. Lo assicurano le piú autorevoli testimonianze; e le notizie che lo vorrebbero nato a Coo, sono, evidentemente, sofistiche combinazioni dei grammatici.

Nacque a Siracusa. E questo fatto spiega, piú d’ogni altro studio d’alchimia letteraria, il suo genio e il carattere della sua poesia.

Siracusa era la patria d’Epicarmo, e dunque della commedia. E non già della commedia di tipo attico, volta specialmente alla satira e alla politica; bensí della commedia che assumeva come proprio compito la pittura dei costumi e dei caratteri. A Siracusa era vissuto Sofrone, il grande autore del «Mimi», nei quali gli uomini erano rappresentati con immediatezza emula della vita: Platone, come tutti sanno, li leggeva giorno e notte, e ne trasse molti colori pei suoi dialoghi. Siracusa era la vera culla della poesia pastorale. In Sicilia Stesicoro aveva per primo raccolto il mito di Dafni, aveva per primo sollevate le leggende popolari all’altezza del carme epico-lirico. A Reggio, a due passi dalla Sicilia, Ibico aveva cantate le bellezze naturali, superando, per larghezza di linea e intensità di colore, perfino la lirica eolica. In Siracusa, infine, un cielo, un mare, una campagna divini, e un fiume misterioso, che scaturisce direttamente dal suolo, per unica magia, e si volge al mare sotto continue cupole di verzure, dove suona perennemente il canto di mille rosignoli.

Questi gli elementi primi della poesia di Teocrito. Fra gli incanti di questa natura, fra gl’impulsi e la suggestione d’una tradizione gloriosa, viva ed onnipresente, visse il poeta sino ai venti o ai venticinque anni.

E dunque, allorché abbandonò la patria, per recarsi a Coo, [p. xxiii modifica]il suo spirito era già interamente foggiato. Davvero vien da ridere, quando si vede seriamente affermato che, se pure Teocrito nacque a Siracusa, solamente a Coo e alla sua scuola spetta il merito di aver creato il poeta11. A venti anni lo spirito dei poeti è formato, o non si forma piú mai. Senza eccezione. Può essere che la sua vocazione rimanga ignota agli altri e a lui stesso fino a quella età o anche piú oltre, e che solamente allora sopraggiunga chi la scopra e la faccia valere. Ma costui potrà vantarsi di avere rimosse delle ceneri, non già di avere acceso un fuoco. I solenni «Maestri» che il giovine Teocrito doveva trovare nell’isola sacra al vin dolce e ai poeti agri, Fileta, diciamo, Asclepiade, Arato, possono certo avergli insegnato qualche bell’accorgimento, qualche «botta segreta» metrica o ritmica. Senza forse, gl’insegnarono a deturpare un capolavoro con qualche brutta appiccicatura mitologica. Ma è ben sicuro che, per fortuna dell’arte, non poterono trasfondere nel giovine siciliano la loro essenza di aridi cartofilaci. Perché dell’animo dei veri poeti si può ripetere quello che Pindaro diceva dell’oro:

L’oro è di Giove prole:
non lo rodono vermi, e non tignuole.

Se ora volessimo dedurre dalle vicende esterne ai caratteri dell’arte, dovremmo collocare nel primo periodo dell’attività di Teocrito i due idilli IV° (Di palo in frasca) e V° (La contesa). Immuni da ogni contaminazione mitologica, non presentano forse [p. xxiv modifica]la levigatezza degli altri migliori, ma non la cedono ad alcun altro per rilievo e per intensità di colore; e dalla relativa rustichezza, esalano come un sano odore di terra e di foglie. Con essi vanno idealmente aggruppati «I mietitori», per quanto una maggior finezza di tocco, e le allusioni a Creso e a Litierse ci avvicinino al mondo orientale. E questa, secondo ogni probabilità, fu la vigilia d’armi di Teocrito.

Agli anni di Coo apparterrà invece tutta una famiglia di idilli — la piú numerosa — nella quale i motivi agresti sono intrecciati, o, per dir meglio, sono macchiati da motivi mitologici ed eruditi.

Prototipo di questa serie è l’idillio VII (Le Talisie). È certo un eco della vita poetico-pastorale che Teocrito conduceva in Coo. E il suo tòno non può ingannarci. La serenità, la contentezza traspariscono da ogni accento. Teocrito si trovava benone in quel serbatoio: probabilmente vi trascorse il suo tempo migliore, uno di quei periodi che ad un artista arridono una sola volta, e non tornano piú mai. E il poeta, contento e riconoscente, si mostra pieno di riverenza pei «maestri» Fileta ed Asclepiade di Samo, che valevano tanto meno di lui, e pieno di deferenza verso i tigliosi colleghi. Ed è oramai tanto affigliato alla «onorata società», che trova modo di bandire anche lui, sia pure per interposta persona, il verbo della sua scuola.

Fastidio grande ho anch’io di quel murator che s’affanna
a fabbricare una casa che uguagli la vetta d’un monte,
di quegli uccelli poeti, che contro il cantore di Chio
levano il loco cuccú, perdendoci tempo e fatica.

Questa connivenza, questa fraternità, non erano senza pericolo. E infatti, in un certo senso, questa apologia della «Scuola di Coo», è il piú alessandrino fra i grandi idilli di Teocrito. Ma buon sangue non mente; e quando ci siamo infastiditi di tante [p. xxv modifica] sofisticherie e rievocazioni mitologiche e allusioni critiche e sdilinquimenti pei zanzeri, ecco una pittura agreste che supera per intensità di colorito quanto c’è di simile in ogni altro idillio, con la sua prodigiosa bellezza fa passare in ombra tutto il resto, e, concludendo gloriosamente l’idillio, ne determina il carattere sostanziale.

E con «Le Talisie» si aggruppano «La Serenata», «Il Ciclope e Galatea», «Il Ciclope», «Ila», «L’epitalamio d’Elena». E, in fondo, anche «La morte di Dafni», che però, per la sua straordinaria bellezza, occupa un posto a parte.

Fin qui abbiamo veduto Teocrito puro poeta. In veste di moralista e di questuante (le due professioni coincidono piú frequentemente che non si creda) lo vediamo invece ne «Le Grazie», indirizzate a Cerone intorno al 270, e nell’«Encomio di Tolomeo», scritto pochi anni piú tardi. Non era proprio il suo genere; e rimangono fra le cose piú scadenti.

Infine, al suo soggiorno in Egitto appartengono «Le Siracusane» e «L’amor di Cinisca». Due capolavori; ma in entrambi è bruciato qualche granello d’incenso al buon re Tolomeo. Come in Coo l’erudizione, cosí in Egitto gli si era attaccata la cortigianeria. Ma anche qui, la sua natura di poeta è tanto forte e schietta, che trionfa di ogni ostacolo.

Vengono poi gli idilli mitologici: «Ercole che strozza i serpenti», «Castore e Polluce», «Ercole uccisore del leone». L’autenticità degli ultimi due non è sicurissima. Ad ogni modo, tranne qualcuno dei soliti tratti pedanteschi, sono composizioni piene di gusto. Alessandrine schiette. Ma nessun dubbio che, se si volevano pur trattare soggetti mitologici — e certo obbligo non c’era — questa antichità rimpicciolita, questo eroismo addomesticato, ridotto alla ragion dei tempi, era di miglior gusto che non fossero le inutili repliche dell’antica poesia, sul tipo, verbigrazia, della «Tebaide» d’Antimaco. Di primissimo ordine, anche qui, i paesaggi. [p. xxvi modifica]

Ed ecco infine le erotiche. Sono scritte per diversi bagascioni che invano si vorrebbero credere immaginari. Comunque, è questo il frutto piú diretto e piú legittimo dei contatti di Teocrito coi sommi precettori trovati a Coo. E tutti converranno facilmente che è piuttosto agro e legnoso. Non mancano neanche qui rapidi ma deliziosi accenni campestri.

In tutta l’opera di Teocrito, suonano dunque molte e varie note: mitica, eroica, erudita, encomiastica, moraleggiante, erotica. Ma rimangono tutte un po’ in sordina, e nessuna si spiega in piena gloria. Spesso, suonano anche falso.

Due rimangono invece pure ed intatte dal principio alla fine, e ascendono ad altezze prodigiose: la mimica, e l’agreste: entrambe aderenti, lo vedemmo, a precise tradizioni patrie.

Rimane da cercare il timbro personale ond’egli riesce a portarle a vibrazione cosí alta.

I frammenti che ci rimangono di Sofrone, sono in verità troppo povera cosa, perché possano servir di base ad alcuna conclusione. Ma, a parte ogni impossibile giudizio comparativo, si vede chiaro che la materia mimica, la quale sembrerebbe, per propria indole, refrattaria ad eccessive squisitezze artistiche, giunge con Teocrito ad una perfezione, una limpidità cristallina, adamantina. Sicché egli riesce l’esponente culto, raffinatissimo, d’una facoltà che, come dicemmo, è fondamentale e sommamente caratteristica dello spirito siciliano.

Lo stesso si deve ripetere del sentimento agreste. Esso era nel vivo fondo dell’animo siculo. E forse dell’animo acheo. Le stratificazioni doriche, in Sicilia come in Grecia, poterono per un certo tempo soffocarlo o, per lo meno, incanalarlo nelle loro stilizzazioni perfette. Qua e là, nei poeti eolici, in Ibico, in [p. xxvii modifica]Euripide, in Aristofane, aveva dati luminosi accenni. Qui erompe in piena libertà. Dopo tanti freni, è una vera orgia di campagna.

E pochi poeti ebbero mai una sensibilità cosí pronta ad ogni vibrazione dell’universo.

Sensibilità visiva. Sainte-Beuve, a proposito delle «Talisie», pronuncia il nome di Rubens, che di fatti s’impone. Il carattere delle pitture teocritee è appunto l’opulenza. In ciò Teocrito si avvicina ad Ibico, quanto si allontana, per esempio, da Saffo.

Ma accanto a questa tavolozza di colori schietti e vivaci, ne ha poi un’altra di mezze tinte e di velature: quella d’«Ila» e dell’«Epitalamio d’Elena». Alessandrina, certo; ma nessun altro alessandrino seppe adoperarla mai con tanto gusto. E sensibilità uditiva, anche piú acuta. Si ricordi il principio della «Morte di Dafni»:

Questo susurro è soave, pastore, e quel pino che canta
presso le fonti.

Come esce alla campagna, la sua prima impressione è, dunque, acustica. E tutti i suoi paesaggi suonano poi continuamente di mille e mille rumori: i belati degli agnelli, il muggito dei buoi, il frinire delle cicale, lo stridere delle raganelle, il canto delle lodole, il gemito delle tortore, il ronzio delle api, lo stormire dei pini dei pioppi e degli ontani, il tintinnio delle gocce cadenti entro uno specchio d’acque.

E sensibilità olfattiva. Il vin di Biblo che il povero Eschine spilla per i suoi ospiti (L’amor di Cinisca) è

                                                  odoroso
come se lí per lí fosse uscito dal tino.

Il vello che Licida porta su le spalle è odoroso tuttora di caglio recente (VII). Il vaso che il capraro promette a Tirsi (I), [p. xxviii modifica]è intagliato da poco, ed esala ancora l’odore del legno tagliato di fresco. E quando poi glie lo porge, insiste:

Eccoti il calice, amico: non senti che dolce fragranza?
Non lo diresti emerso dai puri lavacri dell’ore?

E sia ricordato, infine, il prodigioso esametro delle «Talisie»

Tutto d’Estate opulento fragrava, fragrava d’Autunno.

E talune espressioni sembrano il riflesso di una discreta ghiottoneria. Dice il capraro del primo idillio:

A te di miele, o Tirsi, la bocca leggiadra si colmi, si colmi
a te di favi: del fico soave d’Egílo
possa nutrirti.

E il pastore della serenata:

Questo al cuor tuo sarà piú dolce che all’ugola il miele.

E spesso e volentieri, infine, è ricordata la morbidezza dei giacigli.

Se presso me verrai, qui pelli di pecore e lane
calpesterai, piú soavi del sonno.

Ed alto il mio giaciglio sarà d’un buon cubito, colmo
di pulicaria sarà, d’asfodèlo, di sedano crespo.

                                                  E qui giunti,
sovra profondi letti giacemmo di morbidi giunchi,
godemmo sopra tralci di vite di fresco recisi.

[p. xxix modifica]

C’è il Sibarita. Meglio, c’è il Siracusano, il Siciliano, che alla sensibilità artistica accoppia la invincibile tendenza al dolce far niente. Siracusa era colonia di Corinto, e Corinto era dorica; ma c’è da scommettere che nelle vene di Teocrito dovesse correre qualche stilla di sangue orientale. La sua poesia è proprio agli antipodi dall’austerità dorica. Essa mi fa pensare ad una mirabile intuizione di Gabriele D’Annunzio (Notturno): «La vita non è una astrazione di aspetti e di eventi, ma è una specie di sensibilità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare da palpare da mangiare».

Una terza nota, originale e simpatica possedeva certo Teocrito, etico umoristica, di sapore schiettamente oraziano. Appare ne «Le Grazie», e serpeggia qua e là, in qualche introduzione e in qualche digressione (Vedi note a «Le Grazie»). Ma rimane in germe.

Un’altra, invece, e sommamente caratteristica, investe ogni parte, s’insinua in ogni piegatura dell’opera sua: ed è la musica dei suoi versi.

I poeti classici di Grecia componevano insieme le parole e le note delle loro poesie, che erano, piú o meno distesamente, cantate. Sicché, una parte della complessa armonia rimaneva affidata al canto.

Ma via via, avvicinando il momento alessandrino, la musica abbandonò il verso, e questo, pei suoi effetti, dové contare unicamente su le parole.

La tecnica verbale ne uscí, senza dubbio, perfezionata. Se non che, negli altri poeti alessandrini fu perfezione esterna e frigida, che eliminava ogni spirito musicale.

Invece, la musicalità dei versi di Teocrito è tale, che non trova riscontro, forse, in verun altro dei poeti greci. Il suo spirito profondamente, nativamente armonioso, non dovendo concedere alcuna vibrazione alle note, rimane concentrato tutto quanto nei versi, prodigiosamente. Negli idilli sono, come vedemmo, [p. xxx modifica] elementi varii e di valore molto diverso, e spesso non bene fusi. Ma questo grande alito musicale li investe in pieno, li piega tutti in una, direzione unica, e li fa vibrare e risuonare armoniosamente, come il vento quando penetra la selva, e rende concordemente canore le foglie dell’olmo e del faggio, del frassino e dell’abete, della quercia e dell’alloro.

Questo è dunque Teocrito. Nato in un periodo d’incertezza, di crisi, di erudizione, d’intellettualità, di frigidità, egli eredita dalla sua terra, dalla sua stirpe, il patrimonio di alcuni antichissimi preziosissimi germi. Trascinato dalle vicende della vita, attraverso il vasto mondo irrequieto, custodisce nel piú profondo dell’anima, gelosamente, questi germi, che si schiudono un po’ dove possono, in varii climi, in varie condizioni, serbando però sempre essenzialmente intatta la loro virtú originaria.

E solo per una parte, minore e caduca, dell’opera sua, egli è il contemporaneo, il discepolo, il collega, di Fileta, di Asclepiade, di Leonida. Nella parte migliore ed eterna, è, non già epigono, bensí il fratello nato tardi, e perciò tanto piú caro e gentile, di Sofrone, d’Epicarmo, d’Ibico, e, per certi riguardi, del medesimo Stesicoro. Chi bada alla sostanza e non all’apparenza riconosce facilmente che nella poesia alessandrina Teocrito è un intruso. Ultimo nato della grande tradizione classica, dal suo ramo italo-siculo, egli ci appare, fra l’aridità alessandrina, come uno di quei fiori della primavera o dell’estate, che quando il sole è ancora caldo, ma i campi sono già pieni di foglie aride e gialle, aprono i loro petali ardenti fra le pallide corolle dei colchici autunnali.

Io non reputo che ai fini della intelligenza artistica giovi eccessivamente frugare con troppa insistenza nei particolari materiali della vita d’un poeta. Ma quando il poeta lascia [p. xxxi modifica]spontaneamente, qua e là, nella sua opera, tracce della sua figura etica, della sua «personalità», non è forse vano raccoglierli. Conoscere l’uomo può giovare ad intender meglio il poeta.

Ora, nella poesia di Teocrito, pure essenzialmente obiettiva, simili tracce, dirette e indirette, sono frequentissirrie. Tanto che si possono quasi applicare ad essa le parole d’Orazio:

                                        quo fit, ut omnis
votiva pateat veluti descripta tabella
vita senis.

Teocrito non è certo uno spirito eroico. Anche se non lo dimostrassero le circostanze della sua vita, basterebbe a provarlo il tòno delle sue poesie eroiche. Tòno, lo vedemmo, calante.

La sua voce torna invece giusta quando ricorda i benefizi e le gioie della pace:

Sian culti i pingui campi: sui pascoli belino i greggi
pasciuti d’erbe, tante migliaia che niuno le conti;
il viandante che muove nell’ora del vespero, affretti
il passo innanzi ai buoi che tornano a torme ai presepi;
si apprestino pei semi novali, allorché la cicala
dai rami effonde il canto; il ragno le reti sue lievi
tessa nell’armi; e la guerra neppur nominare piú s’oda.

Dunque, pacifista. E fra i beni che largisce la pace, vagheggia innanzi tutto, parrebbe, quelli materiali. Le aspirazioni, che già qualificammo, dei suoi pastori, sono, senza dubbio, le sue aspirazioni. S’immagina facilmente che il suo ideale sia espresso nei celeberrimi versi di Menalca:

Deh, non m’avvenga tenere di Pèlope il suolo e i talenti
     di Creso, e non al corso dietro lasciarmi i venti.

[p. xxxii modifica]

Ma sotto questa rupe cantar, fra le braccia te avendo;
vedendo il gregge al pascolo, ed il mar di Sicilia.


Anche qui, aurea mediocritas. Non guerre, non gare, sempre rischiose. E neppure quattrini non ne brama troppi, e biasima tutti gli avidi e gli avari: i quattrini non valgono di per sé, ma soltanto per le belle cose che ci si possono fare.

Un altro bene desidera invece il poeta: l’amicizia e la stima di tutti.

Per conto mio, la stima goder, l’amicizia di tutti,
m’importa piú che avere gran copia di muli e cavalli.

Il tòno è cosí schietto, che vorremo credere senz’altro alla sua sincerità. E d’altra parte, questa esplicita dichiarazione riesce confermata da quanto sappiamo della sua vita, e da molte sue poesie. Chiara traspare l’affettuosità dalle parole che rivolge al medico Nicia. E su questo punto, Teocrito è veramente eroico: egli estende la sua benevolenza, e, parrebbe sincera, non solo ai dilettanti, come Nicia, bensí anche ai professionisti, ai rivali. Professionista, forse il famoso Leonida di Taranto, è il poeta adombrato nel finto capraro delle «Talisie». Eppure, una verace simpatia traspare da ognuno dei tratti ond’esso è dipinto. Basterebbe quel riso cordiale che continuamente gli fiorisce su le labbra, e nel primo momento che lo incontrano, e quando poi comincia a parlare, e quando accetta la gara, e, infine, quando offre il bastone da lepri.

E non basta. Per bocca del suo avatàr Simicida, dichiara che non presume di poter gareggiare né con Fileta, né con Sicèlida, che, come si disse, sarà forse il famoso Asclepiade. E anche qui il tòno sembra sincero, sincerissimo. «In un cespuglio — diceva un proverbio greco — non c’è posto per due fringuelli». Ma Teocrito ce ne faceva entrare una nidiata. Era [p. xxxiii modifica]proprio un buon collega. A momenti si direbbe un buon diavolo.

E un’altra linea della sua fisonomia si deriva facilmente dal Milone dei «Mietitori» e dal Tiònico de «L’amor di Cinisca», che con tanto piacevole e benevolo umorismo beffeggiano i sentimentaloni Batto ed Eschine.

Il medesimo tòno, in una trasposizione dal contadinesco all’urbano, troviamo nelle parole che, in fronte al «Ciclope», rivolge all’amico Nicia. Trova perfino modo di dirgli che, in conclusione, la sua medicina, all’atto pratico si riduce a ben poco:

D’erba trastulla cosí l’amor suo Polifemo pasceva,
cantando, meglio assai che a spenderci attorno quattrini.

Questo tòno ironico, amabilmente scettico, si sente un po’ da per tutto, anche negli altri idilli. Ma credere, come ha suggerito piú d’uno, che ironiche e parodistiche, e, dunque, sanate da questa loro intenzione, siano anche le zeppe mitologiche che deturpano tanti idilli, no. Sono, purtroppo, le macchie alessandrine, da cui Teocrito non ebbe la forza di salvare la sua opera miracolosa. Forse appunto perché alla grandezza dell’arte non corrispondeva la grandezza del carattere, che converte i principii estetici in altrettanti imperativi etici.

Teocrito fu, nell’arte come nella vita, troppo accomodante. In lui, non esisteva la fiera volontà del poeta chiuso nella rocca inespugnabile del suo credo artistico, tetragono ad ogni lusinga e ad ogni pressione esterna,

se mille volte vïolenza il torza.
Teocrito ebbe una intelligenza viva e profonda, una sensibilità d’eccezione, una musicalità favolosa. Ma fu insieme foderato d’un buon senso a tutta prova. Facoltà preziosa; ma non [p. xxxiv modifica]già nel dominio dell’arte, dov’è regina la eroica follia; e che, nell arte come nella vita, spesso consiglia accomodamenti e rinuncie inopportune.

Per intendere la vera profonda essenza della poesia di Teocrito, nulla, forse, vale tanto, quanto recarsi in pellegrinaggio spirituale alla patria del poeta, nei luoghi ov’egli nacque e trascorse la giovinezza.

Perché il grande passato non è ancora tutto dileguato da quella terra di prodigio.

Se in un mattino di maggio andrete errando fra la ridda di atomi fiammei che il sole effonde su le campagne di Siracusa, udrete spesso, da sotto una rupe, o dall’ombra d’una quercia secolare, levarsi un canto o un suono di flauto, con accenti magici e strani, remoti da ogni inflessione moderna, modulati, puramente, su le antichissime gamme di Frinico e d’Olimpo. E vi parrà d’udire la voce di Dafni, la sampogna di Pane.

E se due pastori s’incontrano, udrete nelle loro parole suonar le gare e le immaginose invettive di Morsone e di Cornata.

E se dalla campagna tornerete alla città, e andrete vagando per le strade e i chiassuoli che addensano i loro bruni meandri intorno alle poche arterie principali, le conversazioni che continuamente si annodano da uscio a uscio, da finestra a finestra, vi sembreranno un’eco del cicalio delizioso di Gorgo e di Prassinoe.

Altri elementi, poi, dell’ispirazione di Teocrito, sono rimasti immutati: il cielo, il mare, la campagna.

Se dal candido estuare del porto spingete il vostro battello contro la foce dell’Anapo, e risalite il fiume verso la sorgente invisibile, vi sentirete d’un tratto rapiti lontano dalla vita, nel reame del sogno, che non conosce limiti, né di spazio né di tempo.

Via via, lungo le basse rive fiorite, migliaia e migliaia di papiri [p. xxxv modifica]elevano i loro steli fantastici. Su alto, gli enormi salici cresciuti su le due sponde, allacciano e confondono le rame in intrichi innumerabili, fra cui piove una luce diafana, verdognola, profumata, come da un astro ignoto smeraldino. In fondo alle brune acque immacolate si aggrovigliano e si snodano, con mille forme vive ed irreali, verdi alighe lunghissime, schiettissime, come capigliature di Ninfe. Di quando in quando, una glauca biscia guizza muta dal fondo, attinge lo specchio dell’acque, poi torna subito ad immergersi nei giacigli d alghe soavi. Se vi piegate sulla sponda, sentite quasi rinnovarsi il miracolo d’Ila.

E tutto è silenzio. E, a poco a poco, vi cinge l’illusione di navigare, puro spirito, su la cerula cimba dell’Ade, verso i regni dell’eterno oblio.

Ma d’un tratto si leva un alito di vento. E l’onde s’increspano lievi, e tutti gli alberi trepidano, foglia per foglia, e tra i rami si ridestano le voci sopite dei rosignoli.

E il canto degli uccelli, e il fruscio delle frondi, e il mormorio dell’acque, si fondono allora in un’armonia soprannaturale.

Tale è la musica dei versi di Teocrito. Questi furono i veri, i soli maestri del soave poeta di Siracusa.


Note

  1. Droysen, Geschichte des Hellenismus (1842-1877); Helbig, Untersuchungen ueber die campanische Wandmalerei; Couat, La poesie alexandrine sous les Iroís premiers Ptolemées (1882); Cessi, La poesia ellenistica (1912); Rostagni, Poeti alessandrini (1916); De Ridder et Deonna, L’art en Grece (1924).
  2. Si vedano, in questa collezione, le mie introduzioni all’Iliade e ad Esiodo.
  3. Come vediamo nella scultura egiziana.
  4. Vedi il mio libro «Il teatro greco», pag. 81 sg., 125 sg.
  5. Rane, 941: τὸ βάρος ἀφεῖλον ἐπυλλίοις καὶ περιπάτοις καὶ τευτλίοισι λευκοῖ- χυλὸν διδοὺς στωμυλμάτων, ἀπὸ βιβλίων ἀπηθῶν.
  6. Vedi la prefazione alla mia versione delle «Baccanti» d’Euripide, e il mio «Teatro greco», pag. 208.
  7. Il caratteristico si trova piuttosto attraverso il brutto. Leonardo amava le caricature viventi, e le copiava con fedeltà inesorabile, sperando di scoprire, nell’eccesso della bruttezza, l’esagerazione d’un carattere che poi egli saprebbe ridurre a condizione umana, sopprimendo il difforme, conservando l’espressivo. Vedi Carlo Blanc, Grammaire des arts du dessin, pag. 573.
  8. Rane, 971: τοιαῦτα μέντοι ἐγὼ φρονεῖν - τούτοισιν εἰσηγησάμην - λογισμὸν ἐνθεὶς τῇ τέχνῃ - καὶ σκέψιν.
  9. Nel suo famoso: Οὐδὲν ἀμάρτυρον ἀείδω.
  10. Μέγα βιβλίον, μέγα κακόν. Anche questa espressione divenne proverbiale.
  11. «Wenn es auch wahrscheinlich bleibt, dass unser Dichter Sikilien zur Heimat hatte, so treffen wir ihn doch jedenfalls als angehenden Dichter zuerst im oestlichen Griechenland. Dort haben ihn der Elegiker Philetas und der Epigrammatiker Asklepiades in die Poesie eingeführt». Christ, Geschichte der griechischen Litteratur3, 520