Idilli (Teocrito - Romagnoli)/XXV - Ercole che uccide il leone

XXV - Ercole che uccide il leone

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
XXV - Ercole che uccide il leone
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XXV

ERCOLE CHE UCCIDE IL LEONE

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I

E l’aratore allora, il vecchio custode dei bovi,
smise il lavoro che stava compiendo in quel punto, e gli disse:
«Quello che brami, a te, forestiere, dirò di buon grado:
ché d’Erme, ai peregrini patrono, pavento il castigo:
esso, dicono, piú d ogni altro Celeste s’adira,
se viandante alcunché ti chiede, e tu opponi rifiuto.
Dunque, d’Augèa sovrano son queste le greggi villose;
né solo un pascolo tutte le accoglie, una sola contrada:
bensí, d’Elisso queste si muovono a pascer sui rivi,
altre d’Alfeo divino lunghessa la sacra corrente,
ed altre di Buprasio sui pascoli pingui, e qui altre.
E per ognuna sono costrutte distinte le stalle;
e per gli armenti dei buoi, sebbene il loro numero è immenso,
per tutti quanti, sono qui pascoli, sempre in rigoglio,
negli acquitrini grandi del Menio; ché i roridi prati
e le paludi basse, l’erbetta piú dolce del miele
nutron, che delle giovenche cornígere accresce la forza.
È questa, alla tua destra, la stalla dove hanno soggiorno.
di là dalla corrente del fiume, visibile a tutti,
dove quei platani vedi che sempre fioriscono, e grigio

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cresce l’ulivo selvaggio, d’Apollo custode dei greggi
sacro sacello, del Dio che manda i veraci presagi.
Sorgono, accanto lí, di noi villici l’ampie capanne,
che custodiamo del re le ricchezze; e son tante, che dire
mal si potrebbe: il seme gittiamo talora nei solchi
della maggese scalzata tre volte e persin quattro volte.
Stanno ai confini quelli che seduli piantan le vigne,
e vengono quand’è la stagione di premere l’uva:
ch’è tutta quanta questa pianura d’Augèa, del re savio,
e i campi di frumento feraci, e i poderi alberati,
fino all’estremo confine dei vertici irrigui di polle,
dove operosi noi soggiorniam dal mattino alla sera,
come s’addice ai servi che passan la vita nei campi.
Ma dimmi adesso tu, ché a cuor deve stare a te stesso,
quale necessità t’indusse a cercar questi luoghi,
se tu cerchi lo stesso sovrano, o se alcun dei famigli
che vivon qui: ch’io so tutto quanto a puntino, e son pronto
a dirti tutto il vero: ché figlio di gente dappoco
non saprei dirti; e un dappoco tu stesso davvero non sembri:
tanto è la tua figura prestante: i figliuoli dei Numi
han tale aspetto, appunto, se scendono mai fra i mortali».
     E a lui queste parole rispose il figliuolo di Giove:
«O vecchio, sí, vorrei vedere il sovran degli Epèi,
Augèa: necessità di lui qui mi spinse a venire.
Se dunque egli in città si trova, fra i suoi cittadini,
se le faccende cura, giustizia amministra a le genti,
additami qualcuno dei servi, e conducimi a lui,
ch’abbia prestigio, che sia capoccia dei villici: a quello
potrei parlar, sapere da lui ciò che bramo: ché il Nume
volle che avesser l’uno bisogno dell’altro, i mortali».
     E a lui queste parole rispose l’accorto aratore:
«Tu giungi, ospite, qui, per volere d’alcuno dei Numi:
ché tutto ciò che tu brami, d’un tratto si vede compiuto:

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che per l’appunto, Augèa, figliuolo diletto del Sole,
col suo figliuolo insieme, Filèo, di mirabile forza,
è giunto ieri, dalla città, dopo tanto, nei campi,
per rivedere i suoi beni, che numero quasi non hanno:
poiché ne sono i re convinti essi stessi, che quando
cura essi stessi n’hanno, la casa procede assai meglio.
Andiamo ora da lui: ti voglio alla nostra capanna
essere guida io stesso: ché quivi il signor troveremo».
     Ciò detto, mosse; e andava mirando la pelle ferina,
e la gran, clava che il pugno gli empieva, e pensava e pensava
chi fosse mai quel foresto. La brama di chieder lo ardeva,
ma il labbro poi frenava già pronta ad uscir la parola,
ché non giungesse importuna. Ché egli gran fretta mostrava,
e facil cosa non è conoscer la mente d’un uomo.
E mentre alla capanna moveano, sentirono i cani
súbito, ancor da lungi, l’effluvio e il rumore dei piedi,
e chi di qua chi di là, s’avventaron con alti latrati
contro l’Alcíde, d’Anfitrïone figliuolo; ma invece
scodinzolarono al vecchio d’intorno, gli fecero festa.
Ma quei, col solo gesto di prendere sassi da terra,
li sgomentò, li fece lontano fuggire, e minacce
con aspra voce a tutti lanciò, pose fine ai latrati,
pure gioendo in cuore, che guardia faceano alla stalla,
anche quand’egli non c’era. E tali parole poi disse:
«Deh. quale bestia è questa, che i Numi signori del cielo
hanno creata compagna dell’uomo, che bestia fedele!
Se poi tanto giudizio avessero mai da capire
da sé, con chi bisogna, con chi non bisogna adirarsi,
quale altra bestia mai la palma rapirle potrebbe?
Ma ora troppo fieri con te sono, troppo selvaggi».
     Disse. Ed a rapidi passi movendo, fûr presso le stalle.

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II

Ed Elio quindi verso le tènebre volse i cavalli,
L’ore adducendo del vespro. Ed ecco, tornando dall’erba,
giunsero i pingui armenti diretti ai recinti e a le stalle;
e le giovenche, l’une su l’altre, migliaia e migliaia,
giunsero poscia: a vederle, sembravano nuvole acquose,
quando movendo vanno pel cielo, ché a tergo le spinge
con la sua forza Bora, che giunge di Tracia, oppur Noto:
vanno per l’aria cosí, senza numero, senza mai fine,
perché quante la forza del vento ne rotola innanzi,
tante si levan di nuovo, si addensano l’una su l’altra.
Cosí, l’un dietro l’altro giungevan gli armenti dei bovi.
E il pian tutto suonò, suonarono tutti i sentieri
d’alti muggiti, tutti s’empierono i campi feraci
delle moventi mandre: fûr colmi di bovi dal tardo
passo i recinti, pieni di pecore furono i chiusi.
Niun dei famigli qui vicino ai giovenchi ozïava,
sebben fossero tanti, che tu non potevi contarli;
ma questi attorno attorno ai pie’ delle vacche adattava
di cuoio ben tagliato le strambe, per munger da presso:
altri spingeva i figli lattonzoli sotto le madri,
perché bere a lor posta potessero il latte soave:
chi porgea secchie, chi faceva rapprendere il cacio,
altri spingeva i tori nel chiuso, e le femmine a parte.
Augèa, facendo il giro, guardava per tutte le stalle

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quanto dei beni suoi si prendessero cura i pastori;
e il suo figliuolo, e Alcide gagliardo dal senno profondo,
ivan col re, mentr’egli movea fra le tante ricchezze.
Qui d’Anfitríone il figlio, sebbene chiudesse nel seno
pronto a ogni evento il cuore, ché nulla l’avrebbe commosso,
mirò tutto stupito gl’innumeri doni dei Numi,
quando li vide; perché non avrebbe mai detto e creduto
che tanta gregge avere potesse un uom solo, o vuoi dieci
di quelli ch’àn, fra i re tutti quanti, piú copia di greggi.
Il Sole questo aveva concesso retaggio a suo figlio:
ch’egli piú ricco fosse d’armenti che gli uomini tutti;
e prosperar gli faceva via via tutte quante le bestie,
una per una, egli stesso; né alcuno dei morbi piombava
sulle sue greggi mai, che danneggiano sempre i pastori:
sempre crescean le cornute giovenche di numero, sempre
piú belle, d’anno in anno, vederle potevi: feconde
sempre di vivi parti, feconde di femmina prole.
E ben trecento tori con esse movevano a schiera:
grandi le tibie aveano, le corna ricurve; e duecento
altri, colore del fuoco, di già tutti quanti petulchi;
e dodici altri, infine, movevano insieme con quelli,
che sacri erano al Sole. Bianchissimo, come di cigni,
aveano il manto, insigni fra tutti nel gregge piú lento.
Essi distinti dagli altri brucavan la florida erbetta
sulla pastura: cosí superbivan di loro bellezza;
e allor che dalla fitta boscaglia le fiere veloci,
per assaltar le agresti giovenche, rompevano al piano,
primi, sentendole al fiuto, correvano questi alla zuffa,
e con occhiate di strage levavano orrendi muggiti.
Ma sovra tutti gli altri per forza e vigore emergeva,
per fiero animo, assai, Fetonte, che tutti i bifolchi
paragonavano a un astro, perché piú di tutti i giovenchi
esso fulgeva, quando moveva, e spiccava fra tutti.

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Or, come questi la spoglia mirò dell’orrendo leone,
si lanciò contro Alcide, col capo e la fronte possente,
per trapassargli il fianco. Ma, vigile sempre, l’eroe
come sopra gli fu, lo ghermí con la mano possente
al corno manco, e il collo giú giú gli fiaccò, fino al suolo,
sebbene era gagliardo; e poi lo ritorse all’indietro,
gravandolo col peso dell’omero; e il muscolo saldo
si vide alto levarsi fra i tèndini, al sommo del braccio.
re stupí, stupí l’assennato suo figlio Filèo,
con quanti altri attendeano bifolchi ai cornígeri bovi
la sovrumana forza del figlio d’Alcmena mirando.

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III

I pingui campi adesso lasciati, volgevano il passo
vêr la città, Filèo, figliuolo d’Augèa, con Alcide.
Ed ecco, giunti appena che fûr su la strada maestra,
— aveano a ratti passi percorso l’angusto sentiero
che da la stalla via via si stendeva traverso le vigne,
poco visibile, in mezzo al tenero verde del bosco —
quivi al rampollo di Giove supremo fra tutti i Celesti,
che dietro ai passi suoi moveva, il figliuolo d’Augèa
parlò, voltando lieve la fronte su l’omero destro:
«Da tanto e tanto tempo, di te, straniero, parlare
udii, se pure quello tu sei: me ne torna il ricordo.
Poi che una volta un uomo sul fiore degli anni, un Achèo,
d’Èlice giunse, città dell’Argòlide, sita sul mare;
ed esso raccontò, dinanzi a moltissimi Epèi,
che un uomo d’Argo, in sua presenza, un orrendo leone
aveva ucciso, un mostro feroce, terror dei bifolchi,
che la spelonca aveva nel bosco di Giove Nemèo.
«Non so se proprio d’Argo la sacra — diceva — giungesse,
oppur se la città di Tirinto abitasse, o Micene».
Anche la stirpe sua diceva: diceva che fosse
il suo progenitore, se mal non ricordo, Persèo.
Ora, credo io, niun altri degli Agïalèi, tale gesta
compieva, se non tu: la pelle di fiera che il fianco
ti copre, chiara dice l’impresa del saldo tuo braccio.

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E dunque, dimmi prima, ché certo sapere io lo possa,
O eroe, se stato io sono sagace indovino, o dappoco,
se tu sei proprio quelio che disse quell’uomo, l’Achèo
d’Elice, quando l’udimmo, se bene t’ho riconosciuto.
E dimmi come tu l’orribile belva uccidesti,
e come capitò di Nemèa nell’irrigua contrada:
giacché tu non potresti vedere un tal mostro, per quanto
tu lo bramassi, nell Asia; ché simili fiere non nutre
l’Asia, ma orsi, cinghiali, progenie di lupi feroci.
Perciò, gran meraviglia facevano, udendo il racconto;
e alcuni poi dicevan che quel viatore mentiva,
per ingraziarsi, con vane fandonie, chi stava ad udirlo».
     Poi ch’ebbe detto cosí, di mezzo alla strada Filèo
deviò, tanto, che andare potesse con Ercole a pari,
e facilmente udirne potesse cosí le parole.
Ed Ercole parlò cosí, poi che l’ebbe vicino:
«Quello che prima tu m’hai chiesto, figliuolo d’Augèa,
argomentato da te l’hai bene, ed a filo di squadra.
Punto per punto, ciò che riguarda l’orribile fiera,
adesso io dir ti voglio, giacché tu desideri udirlo,
tranne di dove giunse: ché questo, nessun degli Achei,
sebbene sono tanti, potrebbe narrarlo di certo.
Solo congetturiamo che l’abbia qualcuno dei Numi
sui Foronèi mandata, per cruccio d’offerte neglette:
perché, di fiume al pari che i campi sommerga, il leone
tutte le genti struggea senza tregua; e, piú ch’altri, i Bembini,
insopportabili mali piangevano, ch’eran piú presso.
Ed Euristèo m’impose primissimo tale cimento,
e m’ordinò ch’io dovessi dar morte all’orribile fiera.
E dunque, presi l’arco flessibile, il cavo turcasso
pieno di frecce, e mossi: stringevo nell’altra una clava,
tronco massiccio, con tutta la scorza, con tutto il midollo,
d’un oleastro fronzuto, che un dí, sotto il santo Elicona.

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trovai, lo sradicai, con esse le radiche fitte.
Ed ecco, appena al luogo pervenni dov’era il leone,
súbito presi l’arco, la corda di nervo ritorto
strinsi all’anello in cima, vi posi una freccia letale.
E gli occhi tutto in giro volgendo, cercavo la fiera,
se, prima ch’ella me vedesse, potessi vederla.
Giunto era il giorno a mezzo; né io, per guardar che facessi,
scorgere impronta alcuna potevo, né udire ruggiti.
Né c’era uomo veruno che ai bovi attendesse, ai lavori
sui seminati solchi, da volgergli alcuna dimanda:
ché nelle stalle tutti chiudeva lo scialbo terrore.
Ma i piedi io non trattenni, pel bosco selvoso, alla cerca,
prima d’averlo visto, d’averne saggiate le forze.
Alla sua tana, prima del vespero, ei dunque tornava,
ch’era di carne e di sangue pasciuto; e bruttata di sangue
l’irta criniera aveva, le costole, l’orrido ceffo;
e con la lingua, attorno l’andava lambendo alle guance.
Io nelle macchie ombrose, sí come lo vidi, mi ascosi,
ed aspettai, nel sentiero selvoso, che presso giungesse,
e lo colpii, mentr’egli giungeva, nel fianco sinistro;
e invan: ché il dardo aguzzo non valse a forare la pelle,
e su la pallida erba piombò di rimbalzo. E la fiera,
velocemente alzò dal suolo la testa rossastra,
tutta stupita; e corse d’attorno con gli occhi, cercando;
e spalancava la bocca, mostrava le zanne voraci.
E allora un nuovo dardo dal nervo dell’arco scagliai,
tutto crucciato pel primo, che invano di man m’era uscito;
e lo colpii nel mezzo del petto, ove ha sede il polmone;
ma non potè la freccia dogliosa neppur questa volta
passare il cuoio; e vana dinanzi alle zampe gli cadde.
Ond’io, pieno di cruccio, la corda tiravo la terza
volta; ma, roteando le orrende pupille, la fiera
mi vide; e si batté, sui pòpliti, in giro la coda

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lunga, e si preparò senza indugio alla lotta. Nell’ira
turgido tutto il collo si fece, la rossa criniera
orrida ed irta, curva la spina del dorso divenne
al par d’un arco, e i fianchi raccolse in un groppo e i garetti.
E come un carradore, provato ai segreti dell’arte,
d un caprifico i rami flessibili curva, che prima
li scalda al fuoco, e ruote ne foggia per l’asse del carro;
ed ecco, a un tratto, il ramo curvato dell’agil ficastro
di man gli sfugge, e via lontano si lancia d’un balzo:
cosí piombò su me da lungi l’orrendo leone,
stretto in un groppo, ché bere voleva il mio sangue. Ma io
con l’una man le frecce protesi e il mantello addoppiato,
l’arida clava con l’altra levai, la vibrai su la testa,
sopra la tempia del mostro: in due su la testa villosa
della terribile fiera si ruppe il nodoso oleastro.
Ed esso, a terra giú piombò, ch’era a mezzo del salto,
prima che a me giungesse. E stette, sui piedi tremanti,
giú ciondolando la testa: ché tenebra a lui sopra gli occhi
scendea: sí forte fu la percossa su l’osso del cranio.
Ed io, come lo vidi smarrito pel grave cordoglio,
prima che recuperasse lo spirito, sí lo prevenni:
a terra l’arco, a terra gittai la mia salda faretra,
all’indomabile collo m’avventai, lo strinsi alla nuca,
e lo strozzai, stringendo le mani mie fiere, da tergo,
cosí ch’ei non potesse con l’unghie straziarmi la carne.
E coi talloni al suolo premendogli presso alla coda
le zampe, mi schermivo, ché il ventre m’avesse a ferire,
finch’ei piú breve trasse l’anelito, e senza respiro
restò stremato; e l’Ade terribile l’anima accolse.
E poi, pensar dovei come fuor dalle membra potessi
trarre del mostro spento la pelle tutta irta di peli:
travaglio assai penoso, perché né col ferro tagliarla,
né con le pietre potevi, né in altro qualsiasi modo.

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E nella mente alcuno dei Numi il pensiero m’infuse
ch’io del leone il vello fendessi con l’unghie sue proprie.
Con quelle il cuoio presto gli trassi; e d’intorno alle membra
me l’aggiustai, che schermo mi fosse nel cozzo di guerra.

E questa del leone Nemèo fu la fine, o mio caro,
che tanti avea recati cordogli alle genti e alle greggi».




Nota

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XXV

ERCOLE CHE UCCIDE IL LEONE

Sodi al loro lealismo scientifico, i filologi hanno versato i classici fiumi d’inchiostro, per sostenere (o per confutare, reciprocamente) diverse tesi.

A) L’idillio è un frammento, nato e rimasto frammento.
B) È un frammento d’un poema perduto.
C) Costituisce un tutto omogeneo.
D) È composto di tre parti ben distinte una dall’altra, da tre brani del medesimo poema.
E) Le parti sono tre, distinte, e pure unite, come le tre tavolette d’un trittico: tre punti salienti d’una leggenda, messi liberamente uno accanto all’altro, senza bisogno di tessuto connettivo: vedi ballata moderna.
F) Lo scopo del frammento o del poema a cui il frammento apparteneva, è l’esaltazione d’Èrcole.
G) Lo scopo è semplicemente quello di narrarne le gesta.

La lista potrebbe diventare lunga come quella di Leporello. Ma nessuno ha mai posto un quesito pregiudiziale: se cioè si possano escogitare questioni di lana piú caprina. Se anche si riuscisse a determinare uno qualsiasi o tutti tali quesiti, l’importanza della determinazione sarebbe minima; ma, viceversa, ogni determinazione un po’ sicura riesce impossibile. E allora, tanto vale rassegnarsi. [p. 267 modifica]

Assai piú importante sarebbe decidere se l’idillio sia o non sia di Teocrito. E se non è di Teocrito, di chi è. E non tanto per arricchire d’una nuova gemma lo scrigno ben fornito del poeta di Siracusa, quanto per accrescere la schiera non molto fitta dei buoni poeti alessandrini. Perché questo idillio è una vera gemma.

Le ragioni che indurrebbero a farlo attribuire a Teocrito, sono parecchie; ma, al solito, non hanno, e non potrebbero avere carattere obiettivo. Io, a dir la verità, il tòno teocriteo non ce lo sento; ma cosí, ci perdiamo sempre piú nel campo del soggettivismo.

Fra i tratti che designano l’idillio come alessandrino, sicurissimamente, è da rilevare specialmente un particolare nella lotta d’Èrcole col toro. L’eroe afferra la bestia pel corno sinistro, le fa curvare il collo sino a terra, e poi lo torce all’indietro,

gravandolo col peso dell’òmero; e il muscolo saldo
si vide alto levarsi fra i tendini, al sommo del braccio.


Quest’ultimo particolare, non solo è superfluo, ma turba la bella linea della narrazione. In sede di poesia non è a posto. Perfettamente a posto sarebbe in una scultura; e alla tecnica della scultura s’ispirò qui, evidentemente il poeta, non mostrando intuizione estetica uguale alla perizia letteraria.