Idilli (Teocrito - Romagnoli)/I - La morte di Dafni

I - La morte di Dafni

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
I - La morte di Dafni
Prefazione II - La fattura
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I

LA MORTE DI DAFNI

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PERSONAGGI

Tirsi
Un capraro


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tirsi
Questo susurro è soave, pastore, e quel pino che canta
presso le fonti; e la tua sampogna pur essa è soave.
Sarai tu, dopo Pane, secondo a la gara del suono.
Se un capro ei bramerà cornigero, avrai tu la capra.
Se il premio egli vorrà della capra, tu avrai la capretta:
della capretta è dolce la carne, sinché non la mungi.
capraro
O pecoraro, il tuo canto piú dolce risuona de l’acqua
armonïosa che giú per la roccia da l’alto s’effonde.
Se mai le Muse avranno per dono un capretto, compenso
tu d’un agnello avrai, lattonzolo ancora: se a quelle
piaccia gradir l’agnello, tu allora la pecora avrai.
tirsi
Vuoi, per le Ninfe, vuoi capraro, qui dunque sedere
e sufolare? lo frattanto farò la guardia a le capre.

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capraro
O pecoraro, a noi permesso non è sufolare
sul mezzogiorno. Abbiamo paura di Pane: ché stanco
ei dalla caccia appunto riposa. Bisbetico è allora!
Ma, Tirsi, poi che tu cantasti di Dafni i cordogli,
e dell’agreste Musa toccasti i supremi fastigi,
qui sotto questo pioppo sediamo, dinanzi a Priapo,
ed alle Ninfe, dei fonti custodi, dov’è questo seggio
di pecorari, e frondeggiano querce. Se tu canterai
come allorché gareggiasti con Cromi di Libia, una capra
io ti darò ch’ebbe un parto gemello, da munger tre volte,
ch’à due capretti, e inoltre ne mungi due secchie di latte,
ed una bómbola fonda, spalmata di cera soave,
a doppia ansa, foggiata testé, che d’intaglio anche odora.
L’edera fitta addensa le foglie d’intorno al suo labbro,
tutta di fior d’elicrísi chiomata. E di sotto si gira
una voluta, tutta superba di coccole gialle.
Foggiata è fra i due giri, divino ornamento, una donna
chiusa nel peplo, adorna del velo. Le sono d’accanto
due ben chiomati garzoni, che gara d’alteme parole
l’uno con l’altro fanno. Ma ciò non commuove la donna.
Ella un istante a l’un d’essi rivolge Io sguardo, e sorride:
subito poi si distoglie, e bada a quell’altro. E gli amanti,
con le pupille stanche, da un pezzo si affannano invano.
Dietro a costoro, un vecchio che pesca è foggiato, e una rupe
scabra e scoscesa, da cui s’affanna quel vecchio a lanciare
una gran rete; e pare prostrato da grave stanchezza.
Quanto vigore egli ha, tanto par che ne impieghi a pescare,
cosí pel collo a lui tutto intorno si gonfian le vene.
Tanto cosí lontano dal vecchio che in mar si travaglia,
bella una vite si vede, gravata di grappoli rossi,
ed un fanciullo la guarda, seduto su un mucchio di sterpi.

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Due volpi attorno a lui. Pei filari una d’esse movendo,
l’uva matura divora: quell’altra rivolge ogni astuzia
alla bisaccia, e dice che il bimbo lasciar non intende,
se prima sana e salva non tragga di lí la merenda.
E il bimbo intanto intreccia coi giunchi asfodeli, e si foggia
una gabbietta da grilli. Né a cuor la bisaccia o la vigna
tanto gli stanno, quanto si gode a intrecciar la sua gabbia.
Tutto d’attorno gira volubile acanto la coppa:
è pastorale portento, prodigio è che induce a stupore.
Né questo labbro mai l’ha toccata, ma intatta è rimasta.
Ed io ben volentieri donartela, o caro, vorrei,
se tu volessi in cambio cantarmi quell’inno soave.
Né io davvero voglio burlarti. Comincia, o mio caro
non vorrai certo il tuo canto serbare a l’oblio de l’Averno.
tirsi
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.
Io sono Tirsi d’Etna, e questa è la voce di Tirsi.
Ove eravate allorché morí Dafni, ove. Ninfe, eravate?
Per le ridenti valli penèe, per i gioghi di Pindo?
Non su la gran corrente dell’Ànapo certo eravate,
non su la vetta de l’Etna, non d’Aci sui rivoli sacri.
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.

Lui le pantere, lui piangevan con l’ululo i lupi,
quando moría: lo pianse perfin dal querceto il leone.
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.

Dinanzi ai piedi suoi, molti bovi con molte giovenche,
con molti tori, e molti vitelli facevano lagno.
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.

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Venne primissimo Ermète da l’alpe, e gli disse: «Chi mai,
Dafni, ti strugge? Per chi, mio caro, sei preso d’amore?»
Muse, intonate, Muse dilette, l’agreste canzone.

Vennero poi pastori di buoi, guardiani di capre,
chiesero tutti che male patisse. Venne anche Priàpo.
«Misero Dafni — disse — ti struggi? Perché? La fanciulla
muove a cercarti per tutte le fonti, per tutte le selve.
Tristo amatore, ahimè, sei tu, che d’astuzie sei privo.»
Muse, intonate, Muse dilette, l’agreste canzone.

Quando il capraro vede le capre domate in amore,
tutto si strugge negli occhi, perché non è capro egli stesso.
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.

Cosí, se vedi tu le fanciulle che ridon soavi,
tutto negli occhi ti struggi perché tu con esse non danzi.
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.

Anche la Diva giunse di Cipro, e soave rideva,
ma d’ingannevole riso, ché in cuore celava lo sdegno.
E: «Dafni — disse — tu ti vantavi di vincere Amore:
ecco: e da crudo amore non sei vinto invece tu stesso?»
Muse, intonate, Muse dilette, l’agreste canzone.

E le rispose Dafni cosí: «Crudelissima Cipri,
Cipri vendicativa, nemica degli uomini Cipri,
dirmi vuoi tu che per me tramonta oggi l’ultimo sole?
Ma Dafni, anche ne l’Orco sarà per amore un gran cruccio».
Muse, intonate, Muse dilette, l’agreste canzone.

Quel mandrïano, raccontano, a Cipride... Récati all’Ida,
muovi ad Anchise: lí fioriscono ciperi e querce.

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dintorno agli alveari soavi lí ronzano pecchie.
Muse, intonate, Muse dilette, l’agreste canzone.

Adone il bello è anch’esso fiorente, e le greggi pastura,
lepri colpisce, tutte persegue le fiere a la caccia.
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.

A Dïomede, poi, vicina ti reca, ivi sosta,
e digli: «Ho vinto Dafni bovaro: or tu pròvati meco».
Muse, intonate, Muse dilette, l’agreste canzone.

Lupi, sciacalli ed orsi, nascosti per gli antri dei monti,
addio! Dafni, pastore di bovi, mai piú ne la selva,
piú nel querceto, piú non verrà per i boschi. Aretusa,
e voi, fiumi che belli scendete dal Tímbride, addio!
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.

Dafni sono io, che i bovi soleva qui al pascolo addurre,
Dafni sono io, che tori guidava e giovenchi alla fonte.
Muse, intonate. Muse dilette, l’agreste canzone.

O Pan, Pan, se tu sei del Licèo sopra l’alpe gigante,
o se t’aggiri sul Mènalo eccelso, a questa isola vieni:
vieni in Sicilia, e lascia l’aerea d’Èlice vetta,
e di Licóne la tomba, che sacra è perfino ai Celesti.
Muse, troncate, Muse dilette, l’agreste canzone.

Vieni, Signore, e questa sampogna, spalmata di cera,
armonïosa, ricurva vicino a le labbra, gradisci:
ché io, vinto d’amore, son già trascinato nell’Orco.
Muse, troncate, Muse dilette, l’agreste canzone.


Nota

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I

LA MORTE DI DAFNI

Dafni è l’Orfeo della Sicilia. La sua leggenda, piena di mistero, fu ripetuta mille e mille volte dagli antichi, sinché trovò espressione perfetta ne l’idillio di Teocrito. È questa una delle opere piú profonde e suggestive della poesia greca. E una breve analisi non sarà superflua a mettere in piena luce il suo pregio singolarissimo.

L’idillio è composto di due parti. Nella prima, un capraro invita un pecoraro a cantare, promettendogli una coppa, che descrive con minuta squisitezza.

Nella seconda, il pecoraro canta la morte di Dafni.

E tra le due parti intercede grandissima differenza. La prima è occupata quasi tutta dalla descrizione, finissima. Ma la minutezza precisa delle pitture, direi delle miniature, e la loro esiguità, e il riferirsi non già a scene naturali, bensí ad un opera d’arte: tutti questi caratteri, non propri di Teocrito, ma comuni a tutta la poesia alessandrina, dopo un iniziale diletto, ingenerano qualche tedio. La donna lusinghiera piace, senza eccezione. Meno interessa il pescatore. Il fanciullo che intreccia gabbie, ci comincia a sembrare superfluo. [p. 230 modifica]

Ma ecco la morte di Dafni; ed ecco un cangiamento repentino, come nell’orchestra una di quelle modulazioni profonde che sembrano spostare, nelle radici dell’essere, l’orientazione del nostro spirito. Il miniatore è divenuto pittor d’affresco dalle linee larghe e possenti. Dov’è qui l’alessandrino? — Nulla canto che non sia documentato — proclamava Callimaco, il piú illustre e il meno divertente dei poeti alessandrini. Un alessandrino autentico ci avrebbe detto per filo e per segno come e perché Dafni era giunto alla sua misera fine, ci avrebbe comunicato il nome della fanciulla amata, e chi era il padre, e chi la madre, e tutta la geneologia, e specificato e dipinto il luogo ove Dafni si trovava, e descritte forse le vesti dei visitatori: e fortunati noi se ci risparmiava le fonti letterarie da cui aveva derivata la leggenda.

Ma qui non si sa nulla di nulla. Perché Cipride è sdegnata contro Dafni? E qual’è la foggia della sua vendetta? La fanciulla ch’egli ama lo va cercando. Dunque l’amore di Dafni non è spregiato. E allora perché muore? Forse non si trovano? E perché anche le fiere selvagge piangono la sua morte? Forse per la dolcezza del suo canto? E che vuol dire che Dafni darà cruccio ad Amore anche nell’Averno? — Tutte queste domande affiorano al nostro spirito, e invano attendono risposta. Tutto è qui incerto, velato, lontano. E in questa nebbia si muovono larghe figurazioni meravigliose, teorie di fantasmi umani e ferini, in una verde opacità crepuscolare.

A che cosa si deve il tramutamento improvviso? Semplicemente alla ispirazione. Nella prima parte c’è l’artista che svolge — con impareggiabile maestria — il soggetto convenzionale. Ma d’un tratto balena un argomento prediletto. E allora sparisce l’artista con le sue qualità superficiali, legate a un tempo, a un luogo, a una lingua, a una tecnica; e subentra il poeta, ribelle, come ogni forza naturale, ad ogni contingenza di luogo e di tempo. E Teocrito vede come avrebbe potuto vedere tanti secoli prima un cantore dei Veda, come vedrà domani il poeta di genti future.