Idilli (Teocrito - Romagnoli)/V - La sfida

V - La sfida

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
V - La sfida
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V

LA SFIDA

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PERSONAGGI

Comata
Lacone
Morsone


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LA CONTESA


comata
Dai pecorar di Sibírta fuggite, fuggite, caprette
mie, da Lacóne: ché ieri rubata mi s’è la pelliccia.
lacone
V’allontanate o no dalla fonte, caprette? Vedete
Comàta, che ier l’altro rubata mi s’è la zampogna?
comata
Quale zampogna? Tu, servitore che sei di Sibírta,
quale zampogna possiedi? Non hai le cannucce del grano?
Fischiaci: è quello il tuo flauto: con Lodola fate il duetto.
lacone
Quella che Lupo a me diede. Ma dimmi, che pelle, o Comàta,
libero cittadino, rubata io t’ho mai? Se neppure
Eumàra, il tuo padrone, ce l’ha, per dormirci, una pelle?

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comata
Quella che a me, screzïata, die’ Cròchilo, quando a le Ninfe
sacrificò la capra. Tu allor ti struggevi, birbone,
tu mi facevi il malocchio; e ignudo alla fin m’hai ridotto.
lacone
No, che il figliuol di Calèti, su Pan delle spiagge lo giuro,
no, che Lacone rubata non t’ha la pelliccia; e se mento,
possa impazzire, e giú da quel picco gittarmi nel Crati.
comata
No, per le stesse Ninfe palustri, brav’omo, lo giuro,
ch’essere voglian con me benevoli ed ilari sempre,
no che Comàta rubata di furto non t’ha la zampogna.
lacone
Vo’, se ti presto fede, patire le doglie di Dafni.
Ma se un capretto, una cosa da nulla!, vuoi mettere in pegno,
vo’ gareggiare nel canto con te, sinché tu dica: basta!
comata
La scrofa gareggiò con Minerva, una volta! — Il capretto
eccolo. Adesso tu metti qui, ben pasciuto, un agnello.
lacone
Ti sembran patti giusti, volpone? Chi tondere peli
vorrebbe, anziché lana? Chi mai la primipara capra
metter da parte, e munger vorrebbe decrepita cagna?

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comata
Chi crede come le superar nella giostra il rivale,
vespa che ronzi contro l’arguta cicala. Ma pure,
quando non basti il capretto, c’è un becco qui pronto. Comincia.
lacone
Non aver fretta. E che hai, sotto il fuoco? Potrai con piú agio,
sotto il corbezzolo, sotto la macchia, cantar, qui seduto.
Laggiú zampilla un’acqua freschissima: qui cresce l’erba,
molle un tappeto c’è qui, cicalano qui le locuste.
comata
Io non ho fretta, no! Ma tanto mi cruccio, che ardisci
figgermi gli occhi negli occhi. Eppure, quand’eri ragazzo,
io t’ho insegnata l’arte. È questa la tua ricompensa?
Nutri i lupatti, nutri, perché poi ti sbranino, i cani.
lacone
E quando ho udito, ho appreso da te mai niente di bello?
Non mi ricordo! Vergógnati, ometto, sei pieno d’invidia.
comata
Quand’io t’ebbi a scavare quel solco di dietro. Fiottavi
tu, le caprette belavano, il becco saltava a forarle.
lacone
La fossa tua, gobbaccio, piú fonda non sia di quel solco.
Ma vieni, vieni qui, se cantar vuoi per l’ultima volta!

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comata
No, non ci vengo, costí! Qui cíperi, qui sono querce:
ronzano ai bugni qui d’intorno, soavi, le pecchie:
son due fontane qui d’acqua gelida: agli alberi in vetta
fanno susurro gli augelli. Quest’ombra non è come quella
ch’è presso te: questo pino dall’alto mi gitta le pine.
lacone
Se presso me tu verrai, qui pelli di pecore e lane
calpesterai piú soavi del sonno. Le pelli di capra
putono, dove sei tu, piú assai che tu stesso non puti. —
Un gran cratère offrirò di candido latte a le Ninfe,
un altro n’offrirò colmo d’olio; né il dono m’incresce.
comata
Calpesterai, se qui tu verrai, morbidissime felci,
qui nepitelle in fiore. Tappeti di pelle di capra,
ch’è quattro volte piú molle di quella di pecora, avrai. —
Innanzi a Pane vo’ collocare otto secchie di latte,
otto catini pieni di favi ricolmi di miele.
lacone
Dunque, gareggia di lí: di lí suoni pure il tuo canto:
tièniti pur le tue querce, sta pure sul tuo. Ma giudizio
chi sopra noi farà? Deh, qui fosse Licòpa il bifolco!
comata
A me, per conto mio, non serve. Però, se tu credi,
diamo una voce a quell’uomo, a quel boscaiolo, che coglie
eriche proprio lí, presso te. Non lo vedi? È Morsóne.

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comata
Diamogli pure una voce!
lacone
                                            Tu dagliela.
lacone
                                                                Amico, dà retta,
vieni un po’ qui. Noi due si contrasta, chi superi l’altro
nell’intonar canzoni. Tu giudica, caro Morsone,
senza né me favorire, né troppo tener dalla sua.
comata
Sí, per le Ninfe, Morsóne carissimo; e troppo Comàta
non secondare, né a me ti piaccia accordar preferenze.
Sappilo, amico: è questa la gregge del turio Sibirta:
sono del sibarita Eumàra le capre che vedi...
lacone
Fior di briccone, in nome di Giove, chi mai ti dimanda
se di Sibirta è la greggia, se mia? Quante chiacchiere fai!
comata
Galantomone che sei, se parlo, non dico menzogna,
e mai non vendo fumo. Tu sí, non sai dire che ingiurie.
lacone
E parla, se tu hai qualche cosa da dire; e rimanda
vivo il giudice. O Pane, sarai linguacciuto, Comàta!

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LA GARA

comata
Me prediligon piú assai di Dafni il pastore, le Muse:
ed io, giusto ier l’altro, ad esse immolai due capretti.
lacone
E molto Apollo me predilige; ed io nutro per lui
un arïéte bello: ché appressan le feste Carnèe.
comata
Han, tranne due, le mie capre, due capretti ognuna: io le mungo,
e la mia bella mi dice: «Tapino, tu mungi da solo».
lacone
Ehi là là! Quasi venti graticci di cacio Lacone
empie; e tra i fiori un ragazzo si gode che imberbe ha la guancia.
comata
E Clëarista questo capraro bersaglia coi pomi:
quando le capre ei spinge, con dolci susurri lo adesca.

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lacone
A questo pecoraro, che pazzo ne va, muove incontro
Cràtida imberbe; e scuote sul collo la morbida chioma.
comata
Paragonar non si può l’anèmone e il fiore del rovo
con le corolle di rosa che sbocciano in mezzo a le spine.
lacone
Né con le ghiande del leccio le mele azzeruole: ché quelle
hanno una rúspida buccia, queste altre son colme di miele.
comata
Súbito súbito vo’ regalare a la bella un palombo:
vo’ dal ginepro scovarlo: ché quivi di solito posa.
lacone
Io, quando toserò la pecora nera, a Cratída
darò, ch’essa un mantello ne faccia, la morbida lana.
comata
Psst! Via, caprette, via da quell’oleastro. Pascete
qui, presso ai tamerici, sul dolce declivio del poggio.
lacone
Via, via da quelle querce, Cinèta, Conàro! Pascete
qui, dov’è Fàlaro, in questa pendice che guarda a Levante.

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comata
Un secchio di cipresso posseggo, posseggo un cratère:
Prassitele foggiò l’uno e l’altro; e li serbo a bella.
lacone
Un cane ho anch’io, che il gregge difende, che strangola i lupi:
lo dono al mio fanciullo, ché possa inseguirci le fiere.
comata
O cavallette, che il salto spiccate a varcar la mia siepe,
non fate dànno ai miei vitigni: ché son tenerelli.
lacone
Guardate un po’, cicale, che brighe sto dando al capraro:
cosí tormento a quelli voi date che mietono il grano.
comata
Odio le volpi con tanto di coda, che verso il tramonto
bàzzicano pei campi di Mico, e piluccan l’agresto.
lacone
Anch’io gli scarafaggi detesto, che prima a Filonda
pappano la ficaia, poi lungi li porta la brezza.
comata
Non ti ricordi quand’io ti diedi l’abbrívo, e ridevi
tu, cigolavi di gusto, tenendoti forte a quel leccio?

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lacone
Non mi ricordo. D’Eumàra ricordo, quel dí che t’avvinse
di funi, e ti scopò: di questo n’ho certa memoria.
comata
Morsóne, ehi là, qualcuno già mastica amaro: l’intendi? —
Cerca una fossa di vecchia, raccogli cipolle di mare.
lacone
Anch’io, Morsóne, a qualcuno dò briga: tu pure lo vedi. —
Vattene lungo l’Alenta: scavare puoi lí pamporcini.
comata
Volga l’Imera flutti di latte, e non d’acqua; e tu, Cràti,
corri di vino gonfio: la sàggina s’empia di pomi.
lacone
Di miele, anche per noi, scorra il Síbari; e a bruzzolo, attinga
con la sua brocca la bella non acqua, ma favi ricolmi.
comata
Hanno le capre mie pastura d’egílo e trifoglio,
vanno sbandate sopra corbezzoli e sopra lentischi.
lacone
Hanno le capre mie, per nutrirsi, melissa a bizzeffe,
fitto l’imbrèntine cresce, che i petali ha come le rose.

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comata
Non amo Alcippa, no, che ieri baciar non mi volle,
che per le orecchie mi prese, quando io la colomba le offersi.
lacone
Ma io voglio ad Eumède un bene del l’anima. Quando
gli regalai la sampogna, mi diede un bacione coi fiocchi.


IL GIUDIZIO

morsone
Col rosignolo non può competer, Lacóne, la gazza,
la bubbola coi cigni. Tu troppo sei vago di brighe.
Al pecoraro ingiungo di smettere. In premio, o Comata,
assegna a te Morsóne l’agnella. E a Morsóne tu manda
súbito, quando alle Ninfe la immoli, un bel pezzo di carne.
comata
Sí, che lo manderò, per Pane! — Voi tutte, o caprette,
tripudïate. Anch’io, vedi come sghignazzo a le spalle
del pecoraro Lacóne, dacché gli ho potuto, alla fine,
portare via l’agnella! Coi salti toccar voglio il cielo!
Allegre, allegre, o mie baldanzose caprette! Dimani
vi laverò tutte quante nell’acqua del Síbari. — Ehi, dico,

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tu, pelo bianco, petulco, se pensi di dare l’assalto
a qualche capra, io, prima d’offrire l’agnella a le Ninfe,
ti concio! — E lui daccapo! - Ma vedi, che s’io non ti concio,
come t’ho detto, vo’ da Comàta mutarmi in Melanzio.


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Nota

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V

LA SFIDA

I due caprari di quest’idillio sono di pasta un po’ differente dagli altri. La loro gara è piuttosto una rissa. Cominciano col darsi, l’uno all’altro, del ladro; e poi, stabilita la gara, la tirano avanti, in uno stile strano, misto di volatine pittoresche e liriche e di contumelie. Veramente, Comata muove a Lacone il rimprovero di non saper che dire ingiurie; ma non si può dire che egli sia troppo piú castigato. E il piú vergognoso e il piú lurido degl’insulti, è scagliato, e a due riprese, proprio da lui.

Nelle linee generali, l’idillio non potrebbe esser piú chiaro: in qualche particolare, presenta, invece, difficoltà quasi insormontabili. Perché i due campioni, spesso e volentieri, si esprimono in un linguaggio figurato che è un vero gergo: gergo, d’altronde, necessario, perché i concetti espressi sono tutt’altro che puri ed onesti. Qui il linguaggio di Teocrito ricorda quello di Archiloco e quello d’Ipponatte, poeti che Teocrito prediligeva, se pure appartengono a lui, come mi sembrerebbe piú che probabile, i due epigrammi per le loro immagini.

Ma anche piú il bello stile di Comata e Lacone fa pensare a quello di Filocleone nelle Vespe di Aristofane. Le due piú sconce apostrofi di Comata, fanno proprio il terzetto con quella del bisbetico vecchio aristofanesco al servo irrispettoso: [p. 238 modifica]

Neppur ora vuoi lasciarmi, neppur or, bestia maligna?
Pensa quando a rubar l’uva ti sorpresi nella vigna,
ti legai contro un ulivo, ti scoiai ben ben le terga,
sú che oggetto eri d’invidia. Cuore ingrato in te s’alberga.

I due luoghi piú difficili sono a versi 112-115 e 120-124.

Cosí alto alto, nel primo di essi Comata rimprovera Lacone per le sudicerie che egli commette, parrebbe, con la moglie di un certo Micone; e Lacone, di rimando, gli rinfaccia pratiche poco pulite con quella di un tale Filonda.

Equivoca dev’essere anche, e lo conferma la testimonianza dell’antico scoliaste, che in questo argomento dove’ avere la sua competenza, la menzione della cipolla marina (squilla) e del pamporcino. Però, anche all’infuori di ogni allusione furbesca, è possibile una interpretazione soddisfacente Comata, accorgendosi che Lacone comincia ad arrabbiarsi, lo consiglia a cercar cipolle marine, alle quali l’antica terapia sembra tribuisse una efficacia antibiliare, non riconosciuta, per dire il vero, dai moderni. E Lacone, rimbeccandolo, lo esorta a purgarsi col pamporcino; al quale anche oggi si riconoscono qualità antielmintiche.

Per quanto i due pecorari siano ugualmente insolenti e sboccati, Comata appare però il meno rozzo. Piú fini e gentili sono le immagini del suo canto; onde la sentenza di Morsone appare giusta, sebbene espressa in forma alquanto iperbolica.

Nel complesso, è questo uno degli idilli piú ricchi di colore e piú caratteristici. Esso ha appunto il medesimo fascino dei giambi d’Archiloco e d’Ipponatte, e di certe crude scene d’Aristofane. Raccoglie una materia — concetti, immagini, vocaboli, locuzioni, frasi — che a prima giunta sembrerebbe quanto mai aliena dalla poesia; e, stringendone gli elementi in plessi vividi precisi, la solleva, per virtú di ritmo e di stile, nel puro clima dell’arte. Cosí appunto vediamo in pittura le vecchie straducole, [p. 239 modifica]la squallida poveraglia, i cenci sudici versicolori, riprodotti su la tela da un artista geniale, acquistare il fulgore, e la purità del diamante.

Il Melanzio ricordato da Cornata nell’ultimo verso è il tristo capraro che nell’Odissea dimostra tanta ingratidudine e tanto malo animo contro il suo signore Ulisse, e contro il fido porcaro Eumeo. I pastori di Teocrito, e, secondo ogni verisimiglianza, anche i veri pastori di Sicilia, conoscevano il loro Omero.