greco

Aristofane 414 a.C. 1545 Bartolomio Rositini/Pietro Rositini Indice:Aristofane - Commedie, Venezia 1545.djvu Commedie teatro Gli ucelli Intestazione 2 maggio 2025 75% Teatro

Questo testo fa parte della raccolta Commedie (Aristofane)


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GLI UCELLI D’ARI-

STOFANE COME-

DIA. VII.

Persone de l’atto.

Evelpide, Un’altro servo Trochilo,
Servo d’Epope, Coro de gli ucelli,
Epope, Sacerdote,
Precone, Interprete de gli oracoli,
Poeta, Ispione,
Geometra, Un messo,
Legistratore, Un’altro precone,
Iride, Cinesia dithyrambico,
Ucciditore de’l padre, Prometheo,
Povero calonniatore, Tribalo
Nettuno, Servo di Pistetero,
Hercole, Mezzo coro,
Un altro messo, Un’altro mezzo coro.
Pistetero,


Ev.
TT
U mi comandi, ch’io vada per la via di lungo: ove si vede un’arbore?

Pi. Postu crepare. et questa di nuovo grida un’altra volta.
Ev. Perche ò villano andiamo vaganti in su, in giu?

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Pi. S’andaremo à rovinare, se ne mettono inanzi un’altra via. et questo io meschino hò creduto à la cornachia, passare per una via, piu di mille stadij larga.

Ev. Et io infelice questo hò creduto a’l cornachione, à trarmi giu le unghie de li didi.
Pi. Ma io non so anchora in che terra siamo piu.
Ev. Di quì troverai tu una patria in altro luogo?
Pi. Ne anche per Giove in quà Execestide.
Ev. Oime.
Pi. Tu ò compagno vieni su questa via.
Ev. Certo gran dispiacere n’ha fatto l’adirato Filocrate da gli ucelli, venditor di scudelle, che ne hà detto di questi doi, che Tereo dica Epope, che è diventato ucello da gli ucelli. et à Tarrelide hà venduto il cornachione per un bagatino, e la cornachia per un quattrino, et questi niente altro sanno se non morsicare. et hora perche stai à guardare in su? tal volta per caso per le pietre anchora ne menarai, per ciò che non è quivi via alcuna.
Pi. Ne anche per Giove, quì per modo alcuno è una via.
Ev. Ne la cornachia dice niente de la via.
Pi. Nò, ella grida una cosa medesima, et hora, et à l’hora.
Ev. Hor che dice ella de la via?
Pi. Che altro dice’lla, se non morsicando di mangiarmi giu le dita?

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Ev. Non n’è dunque discommodo, che havendo bisogno vegniamo à i corvi, et ben apparecchiati, poi non poter trovar la via? per cio che noi ò huomini che sete quì a ragionare siamo infermi d’una infermità contraria a’l

Saca. costui che non è citadino, costretto, et noi honorati d’una tribu, d’una liga, et d’una generatione, citadini con citadini, niuno scacciandone, voliamo da la patria con tutti doi i piedi. non havendo però in odio quella cità medesima, perche’lla non sia grande et aventurata, et à tutti commune da pagare i debiti et travaglij. queste cigale adunque un mese ò doi su i fighi cantano. et gli Atheniesi sempre ne i giudicij cantano per tutta la sua vita. per questo faciamo questo viagio havemo il canestro, et l’olla, et i mirti, et andiamo smattiando, et cerchiamo un luogo di riposo, dove s’affermaremo et persisteremo. et l’essercito nostro e apresso di Tereo, et havremo di bisogno udire Epope da quello, se pur conosce si fatta cità, ove si vola.
Pi. Costui.
Ev. Che cosa gli è.
Pi. La cornachia che cosa mi dice gia un pezzo, quì sopra?

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Ev. Et questo cornachione di sopra apre la bocca, come se mi volesse mostrar qualche cosa. et non è possibile che questi non siano ucelli. et tosto lo sapremo, se facciamo strepito. ma conoscitu che è quello che fa? con la gamba batti la pietra.

Pi. Et tu con la testa, à ciò che’l fia dopio’l strepito.
Ev. Et tu piglia la pietra e batti.
Pi. Fortemente, si mi pare.
Ev. Putto, putto.
Pi. Che ditu? tu putto chiamitu Epope? questo non bisognava ad Epope chiamare per il figliuolo?
Ev. Ad Epope.
Ser. Che mi farai tu battere anchora un’altra volta?
Ev. Ad Epope.
Ser. Che sono costoro? chi chiama’l patrone?
Ev. Apolline rovinator de mali per lo aprir de la bocca.
Ser. Oime disgraziato, questi sono ucellatori.
Ev. Così è grave cosa. ne migliore da dire.
Ser. Andate in mal’hora.
Ev. Ma non siamo huomini?
Ser. Ch’è poi?
Ev. Temo io ucello di Libia.
Ser. Tu non dì niente.
Ev. Et nulla dimeno domandagli le cose d’i piedi.
Ser. Et questa quale ucella è gia? no’l diraitu?
Pi. Io un’ucello fasianico che apre la bocca.
Ev. Ma tu che bestia seitu mai, per i dei?
Ser. Io ucello servo.
Ev. Da qual gallo sei stato vinto?

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Ser. Nò, ma quando’l patron diventò Epope, à l’hora mi pregò ch’io dimenticassi ucello, per haver un compagno servidore.

Ev. Un’ucello dunque ha bisogno di qualche servo?
Ser. Sì, perche costui, penso, prima quando era huomo, à l’hora gli piaceva mangiar pescetti falerici. io corro là ove sono i pescetti, e ne piglio un cadino. gli venia voglia di polenta, vi bisogna l’olla, e la cazza da menestrar, corro à tuor la cazza.
Ev. Questo trochilo ucello, so io adunque, che fai ò Trochilo? chiamane il patrone.
Tro. Ma per Giove adesso dorme, et mangia non sò che mirti et serfi.
Ev. Destalo pure.
Tro. Sapiamo chiaramente ch’egli l’haverà per male, ma per amor vostro lo destarò.
Pi. Postu romperti il collo, che m’hai fatto morire di paura.
Ev. Oime sventurato, et il cornachione à me vien per paura.
Pi. O spaurosissima bestia che sei, hai lasciato andare il cornachione per paura?
Ev. Dimmi e tu non hai lasciato fugire la cornachia, cadendo giu?
Pi. Non io per Giove.
Ev. Mò ov’ello?
Pi. E volato via.

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Ev. Non l’hai dunque mandato via castron, tu sei un bell’huomo. apri la selva, ch’io possa uscir hormai.

Ev. O Hercole che bestia è questa mò? che penne? che fogia di tre creste?
Pi. Che son quei che mi cercano?
Ev. I dodeci dei verranno à darti de le botte.
Ep. Che mi sbeffegiate à vedermi le penne? io era ben anchora io un’huomo, ò forestieri.
Ev. Non ti sbeffegiamo.
Ep. Mò che?
Ev. Il tuo becco ne pare una cosa da ridere.
Ep. In simile cosa anchor Sofocle mi offende ne le tragedie, facendomi esser Tereo.
Ev. Sei forse tu Tereo? un’ucello, ò un pavone?
Ep. Son io un’ucello.
Ev. Et poi ove hai le penne?
Ep. Sono mi cadute.
Ev. Che, per qualche malatia?
Ep. Non, ma d’inverno tutti gli ucelli ne le pelano, et di nuovo mandiamo su de le altre penne, ma ditemi, che sete voi due.
Ev. Noi? huomini.
Ep. D’onde per natione?
Ev. D’onde sono le buone barche.
Ep. Sete voi giudici?
Ev. Non, ma d’un’altro costume, Misodici.
Ep. Sì, che questo seme ivi si semina?
Ev. Un poco cercandone, ne pigliarai da’l campo.
Ep. Et di che cosa havendo bisogno quà sete venuti?

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Ev. Vogliamo essere, et praticare con esso teco.

Ep. Perche?
Ev. Perche in prima tu eri un’huomo, come noi per aventura, et sei stato debitore forsi come noi, à non pagare tu t’alegravi, come noi forsi. poi di nuovo hai mutata la natura de gli ucelli, et volavi intorno à la terra, et a’l mare, et ogni cosa ciò che tu huomo, ciò che tu ucello fai. per ciò noi che siamo qui à te venuti, ti preghiamo che ne dichi alcuna cità, ch’habia de la lana assai, quasi che la pellizza sottile se ne và straciandosi.
Ep. Tu cerchi poi una cità magior de le aspre.
Ev. Magior niente, ma à noi piu commoda.
Ep. Chiaro è, che vai cercando di signoregiar bene.
Ev. Io? nò, anzi quel di Scellio ho in odio.
Ep. Qual cità adunque volontieri habitarete?
Ev. Ove fossino grand’imprese di tal sorte. ma se uno de mei amici viene avanti à la mia porta, dica questo per Giove Olimpico, che sarai con meco, e tu, et i figliuoli politi, et lavati, da matina, che
mi studio di mangiar de le nozze, per niun modo altramente farai, ma se nò, non mi venire à l’hora, quando io facio de’l male.
Ep. Per Giove tu cerchi se non cose misere. et tu?
Pi. Di tal sorte cerco anch’io.
Ep. De quali.

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Pi. Quando uno incontrandomi, di queste cose m’accuserà, come padre d’un bel figliuolo, ingiuriato, ben trovando tu il mio figlio ò Stilbonide, che vien da scuola à lavarsi, non l’hai baciato, non l’hai salutato, non l’hai menato, non gli hai tocati i testicolini, essendomi amico de la patria.

Ep. O disgratiatissimo di che sorte de mali ti diletti tu? ma è, sì come dite, la cità felice, apresso il mar rosso.
Ev. Oime per modo niuno. noi stiamo apresso il mare, dove si rivolta, di dentro via Salaminia tirandoci il mestrale. et tu de la cità Greca ne puoi dire?
Ep. Perche non sete venuti ad habitar Lepreo Eleo?
Ev. Che cosa per i dei. che non ho veduto, et ho in odio il Lepreo da Melanthio.
Ep. Ma sono de gli altri Opuntij di Locride, ov’è lecito habitare.
Ev. Et io non diventarei Opuntio per un talento di oro. mò che vita è gia questa con gli ucelli? tu lo sai ben tu bene.
Ep. Non è ingrata à l’essercitio. la cui prima cosa è conveniente il vivere senza borsa.
Ev. Hai da la vita levato molta sporcitia.
Ep. Et si pascemo ne gli horti di sesame bianche, et de mirti, et papaveri, et sisimbri.
Ev. Voi dunque vivete una vita de sposi.
Pi. Oh, oh, certo io guardo et uego un gran consilio ne la generation de gli ucelli, et una potentia, la qual sarà, se farete à mio modo.
Ep. Che vuoi che faciamo?

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Pi. Che voglio che fate? primamente non volarete, havendo la bocca aperta in ogni luogo. il che incontanente è un’atto di poco honore. quando havete volato quì apo noi, se alcuno domandarà che ucello è questo, Telea lo dirà, huomo ucello instabile volante, senza segno, che mai non stà in un medesimo luogo.

Ep. Per Dionisio, tu sei buono à riprendere queste cose. che faremo adunque?
Pi. Habitarete una cità sola.
Ep. Et qual cità noi ucelli habitaremo?
Pi. O che dici una parola veramente absurdissima. guarda in giu.
Ep. Guardo ben.
Pi. Guarda mò in su.
Ep. Gli guardo.
Pi. Girati il collo intorno.
Ep. Per Giove ’l farò. che è poi se mi volgerò?
Pi. Hai veduto qualche cosa?
Ep. I nuvoli, et il cielo.
Pi. Non è dunque questo il polo de gli ucelli?
Ep. Polo.

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Pi. In tal modo, come se alcun’il dicesse, luogo. questo poi, che si volta, et discorre per ogni cosa, per questo hora si chiama Polo. se habitarete poi questo, et lo circondarete una volta di questo polo, si chiamerà cità, di modo che signoregiarete gli huomini à guisa di cavalette. con questo anchora farete morire i dei con fame Melia.

Ep. A che modo?
Pi. Hor l’aere è in mezzo la terra, poi come noi se volemo andare à Pitone, domandemo il passo et quelli di Beotia, cosi quando gli huomini à i dei sacrificaranno, se non vi portaranno il tributo i dei, per la cità aliena, et per il chaos non portarete via l’odore de le cosse.
Ep. Oh, oh, per la terra, per i lazzi, per i nuvoli, per le reti, non ho udito io anchora una piu soperba intelligentia. però teco habitarò la cità, se cosi parerà à gli altri ucelli.
Pi. Che gli contarà dunque la cosa?
Ep. Tu: per ciò che io gli son stato assai tempo seco, et la voce ho insegnato loro, che per inanzi erano barbari et villani.
Pi. A che modo mò gli chiamarai insieme?
Ep. Facilmente: perche verrai quà ne la selva incontanente, poi farai levar su la mia rossignuola. chiamiamoli. et loro se sentiranno la nostra voce, con veloce corso correranno.
Pi. O tu amicissimo de gli ucelli, non stare adesso: ma ti prego, affrettati d’entrar subitamente ne la selva, et desta la rossignuola.

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Ep. Su’l mio convivante, non dormir piu. et manda fuori le legi de le sácrate lodi, che de la divina bocca canti, per il mio, et tuo lagrimevole Iti, canta con canzoni humide. la voce pura de la barba bionda và per la capelluta smilace a’l sezzo di Giove. ov’è Febo che ha i capelli d’oro, ode i tuoi versi elegi, et à l’incontro suona con la citara d’avorio, et statuisce i cori de gli dei. il canto poi divino, insieme concordante, và per le bocche immortali de beati. chi canta?

Ev. O Giove signore, con voce d’ucello come ha indolcito tutta la selva.
Pi. O tu.
Ev. Che cosa gli è?
Pi. Non tacerai tu?
Ev. Che poi?
Pi. Epope si parecchia di cantare un’altra volta.
Ep. Epope, pepo, popope, pope. iò, iò, itò, itò, itò, itò, itò, venga quà alcuno de mei volatili, voi molti ordini di quelli che mangiano l’orzo, che vi pasce su le colle de i campi ben seminate, et ò generationi di beccagrani, tosto volanti, che mandate fuora una voce piaceuole, et che ne i solchi spesso cantate à torno à le glebe, venite quà, che vi dilettate di voce sottile.

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Tiò, tiò, tiò, tiò, tiò, tiò, tiò, tiò, et che di voi ne gli horti hanno da pascersi ne i rami di rampegarola. et che su i monti, et che mangiate le olive, et che mangiate comari, affrettatevi à volare al mio cantare. triotò, triotò, triotò, tobrichs. et che apresso le Helee campagne, voltate le punture acute, et che habitate i ben irrugiadati luoghi de la terra, et il prato amabile di Marathone, et tu ucello che hai le penne di color diversi, attagas, attagas.
Et di quelli che ne’l tumor pontico de’l mare, ordini con gli alcioni, volate, venite quà, et udirete cose nuove, per ciò che qui tutti gli ordini de gli ucelli coaduniamo, et di quelli che hanno longo il collo. per ciò che viene un qualche crudele, et aspro imbasciadore, novello di sentimento, et chi cerca e tenta di trovar nuove opere.
Mò venite à parlamento tutti quanti, quì, quì, quì, quì. toro, toro, toro, toro, toro tinx, ciccauau, ciccauau, toro, toro, toro to li lilinx.
Pi. Che ucello veditu?

Ev. Per Apolline, non io già, pur ho aperta la bocca in à guardare a’l cielo. altramente dunque l’Epope, come si vede, entrando ne la selva, ha cantato, imitando ’l Charadrio.
Ep. Torotinx, torotinx.
Pi. O huomo da bene, mò quì anchora viene un qualche ucello.
Ev. Per Giove, sì, un’ucello, che mai non è anchora un pavone.
Pi. Costui istesso ne dirà, ch’è questo ucello.
Ep. Costui non è di quelli che voi sempre sete soliti à vedere, ma è fangoso, et è stà ne le paludi.
Pi. Oh, oh, è bello, et di Fenicia.
Ep. Et meritamente, perche il suo nome è Fenicoptero.

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Pi. Questo è, ò te te.

Ev. Che griditu?
Pi. Questo è un’altro ucello.
Ep. Per giove un’altro forsi, ch’hà quì un luogo forestiero.
Pi. Che è mai quel soperbo ucello senza luogo che vaga per su’l monte?
Ep. Questo hà nome Medo.
Pi. Medo ò signor Hercole, poi à che modo senza fune essendo Medo, hà volato.
Ev. Questo anchora è un qualche altro ucello che s’ha pigliato la cresta.
Pi. Che miracolo è mai questo? tu non eri dunque solo Epope? chi è mò quest’altro?
Ep. Costui è di Filocle da Epope, et io di questo, avolo: come se dicesti, Hipponico di Callia, et Callia d’Hipponico.
Pi. Questo Callia è dunque un ucello? molto si getta via le penne.
Ep. Perche gli è, come se fosse di nobil stirpe, pellato da i calunniatori, et queste femine gli stirpano le sue penne.
Pi. O Nettuno, questo ucello anchora è molto diversamente tinto. come si chiama mò questo?
Ep. Questo, divoratore.
Pi. Egli è dunque alcun’altro divoratore, di quel ch’è Cleonimo? mò à che modo, sendogli Cleonimo, non hà sbattuto via la cresta?

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Ev. Ma pur qual cristatione fra gli ucelli? sono forsi venuti a’l duello?

Ep. Si come Carete adunque habitano su la crista, ò compagno, per star sicuri.
Pi. O Nettuno,non veditu quanta mala ventura à gli ucelli hai parecchiato?
Ev. O Apolline signore d’i nuvoli, oh, oh, ne si può veder piu la via, per essi che volano.
Pi. Questa è una pernice, quello per Giove è un’attagas, questo poi Peneope, quell’altro alcione.
Ev. Chi è poi quell’altro di dietro à colui?
Pi. Quale è? Cerilo.
Ev. Cerilo è ben un’ucello.
Pi. Non è mica un sporgilo, et questa è una civetta.
Ev. Che ditu? che ha menato la civetta ad Athene? citta, tortore, coridos, eleas, hypothymis, colomba, nerto, sparautero, colombo favazzo, cucco, crytrope, ceblepyri, porfyri, cerchneis, colymbis, ampelis, fenedryope.
Pi. Oh, oh, a gli ucelli, oh, oh, à i copsichi. che cosa elli cantano, et corrono gridando? ne minacciano lor forsi? oime à te hanno aperta la bocca, et guardano à tè et à mè.
Ev. Questo mi par cosi anchor à mè.
Co. Po po po po po po po po pè, chi m’ha dunque chiamato? che luogo mò habita egli?
Ep. Qui stò gran tempo, et non son da gli amici lontano

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Co. Ti ti ti ti timptrù, che parlar dunque fà mai uno amico à mè?

Ep. Commune, securo giusto, suave, utile: perche doi huomini sottili, ragionevoli qui à me sono venuti.
Co. Ove? donde? come ditu?
Ep. Dico che da gli huomini sono venuti doi imbasciatori, et sono venuti havendo una radice d’una grande cosa.
Co. O grandissimo peccatore che sono io, doppo che sono stato allevato? come dici?
Ep. Non hai anchora havuto tema de’l parlare?
Co. Che m’hai tu fatto?
Ep. Huomini ho tolto sopra di me amatori di questa conversatione.
Co. Et tu hai fatto questa opera?
Ep. Et l’ho fatta, et n’ho appiacere.
Co. E dove sono gia?
Ep. Appo noi. se io apresso di voi sono.
Co. Ah, ah, siamo traditi, habiamo patito cose ingiuste, perche colui che n’era amico, et che con noi è stato allenato si pasceua ne i campi apresso di noi, è stato transgressore de le legi antiche, et hà passato i giuramenti de gli ucelli, et m’hà chiamato in inganno, et m’ha scacciato apresso una perversa mala generatione. il che quando fu fatto contra di me, s’e nodrito inimichevolmente.

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A l’ucello dunque à noi è l’ultimo ragionare, et questi doi vecchij mi paiono patir la pena da costui, et da noi esser stracciati.
Pi. Molto si rovinemo certo.

Ev. Tu ne sei ben causa tu solo di questi mali. à che fine m’hai tu menato de là?
Pi. A ciò che mi seguisti.
Ev. Molto assai dunque piangerò.
Pi. Queste tue son zancie, perche puoi farlo.
Ev. A che modo?
Pi. Perche piangerai, se una volta ti batterai gli occhij.
Co. Iò, iò, mena, và, portagli la nemicitia, la incursione d’uccidere, gettali tutta l’ala, et circondali: che bisogna che amendoi piangano et diano a’l becco da beccare. perche ne il monte è ombroso, ne la nuvola celeste, ne bianco è il mare, il qual pigliarà costor che mi fugono. ma non siamo gia per pelare et mordere costoro. ove è’l prencipe. sia intromesso il destro corno.
Ev. Questo è quello. dove fugirò io sventurato?
Pi. Tu non rimarrai?
Ev. Che io sia da questi istracciato.
Pi. Mò à che modo pensitu di costoro?
Ev. Non so à che modo fugire.
Pi. Ma ti dico una cosa, che bisogna combattere et pigliare le olle.
Ev. Mò che ne giovara la olla?

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Pi. La civetta non giova gia à noi, et questi ch’hanno le unghie ritorte tuogliendo lo spedo, insiccali dentro.

Ev. Et con questi occhi che cosa?
P. Piglia un vase d’aceto, ò vero un catino de là, et mettiglielo auanti. ò savijssimo, da huomo da bene et da vero soldato. lo hai trovato. gia superi Nicia d’inventioni.
Co. Eleleleu vien inanzi, metti giu il becco, non bisogna far dimora, tira, istirpa, batti, scortica, rompi la prima olla.
Ep. Dimi, che pensate, ò triste che sete piu che tutti gli animali et bestie, di rovinar gli huomini che niente domandano, et dissipar quelli che sono parenti et contributi mei et di mia moglie?
Co. Perdoneremo ben’un’ poco à questi noi piu che à i lupi, ò dobiamo punire, alcuni altri anchora piu
nemici di questi.
Ep. Se naturalmente sono nemici, et con l’animo amici, et per insegnar qualche cosa d’utile à voi quì sono venuti.
Co. Come n’insegneranno mai costoro cosa alcuna utile? parleranno forsi essendo nemici à quelli mei avoli?

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Ep. Ma da i nemici certo molte cose imparano i savij. per ciò che questo timore salva ogni cosa. Da l’amico adunque niente imparerai, et esso nemico ti costringe. immantinente da gli inimici, non da gli amici le cità hanno imparato, et à fare alti muri, et fabricar lunghe navi. et questa dottrina salva i figliuoli, la casa, i denari.

Co. Egl’importa bene udire qualche cosa utile de ragionamenti, per la prima a’l mio parere. impari
pur uno che sia savio anchor da i nemici.
Pi. Et costor parono lasciar et calar l’ira, ritirati su la gamba.
Ep. Et è il dovere, et à me bisogna pur ringratiarvi.
Co. Et non di meno in niuna altra cosa ti siamo contrarij.
Pi. Piu presto ne menano pace. per ciò vuota la olla ne’l cadino, et bisogna che la lancia, lo spedo vad’à torno, noi ch’havemo l’arme di dentro, che vegiamo apresso à la cima di essa olla, che non è da fugire?
Ev. Vero è, mò se morimo dunque, in che terra saremo sotterrati?
Pi. Il Ceramico ne piglierà. onde à ciò che publicamente siamo sepeliti, diremo à i soldati che combattono con gli inimici, di morire frà gli ucelli.
Co. Ritirati à l’ordine di nuovo medesimamente, et pon giu la furia, abbassando apresso l’ira, à guisa
d’huomo armato. et domandiamo à costoro, che sono, et donde sono venuti, in qual sententia ti chiamo, ò, ò Epope.
Ep. Tu mi chiami? che vuoi che ti dica?
Co. Che sono mai costoro, et donde?
Ep. Forestieri da la savia Grecia.

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Co. Equal fortuna li porta, che essi gia vengano à gli ucelli.

Ep. Il desiderio de’l vivere, et de la dieta, et di goderti, et d’habitar con esso teco, et stare sempre di compagnia.
Co. Che dici? et che ragionamenti dicono loro?
Ep. Incredibili et che eccedono l’udire.
Co. Vedi che guadagno è quì degno di stagione, co’l qual mi son persuaso insieme essendo, ò’l vincer lo inimico, ò à gli amici puoter giovare?
Ep. Egli dice una certa grande opulentia ne da dire, ne da fare, perche tutte queste cose gia sono tue, et quì, et lì, et quà et là ne và dicendo.
Co. Infuriato forsi et matto?
Ep. Cosa da non dire, è troppo savio.
Co. E savio un poco ne la mente?
Ep. Una astuta volpe, sapientia, inventione, tritavo, tutto fiore.
Co. Che mi dica, comanda che mi dica, perche tu odi ciò che mi dici, volo sopra le parole.
Ep. Horsu tu, et tu pigliate un’altra volta questa armatura, appiccatela con la buona ventura ne la cocina di dentro a’l chiodo: et tu insegna et parla à costoro in quelle parole, che io gli hò detto.
Pi. Per Apolline io non gia, se non dispongano costoro à me il testamento, che Pitheco spadaro fece à
la moglie, ne che costor mi mordano, ne che mi cavino i testicoli, ne che mi sottrino.

[p. 180v modifica]
Co. Niente nò, costui, piaccia dio.

Pi. Non, anzi dico gli occhi.
Co. Io ’l faccio.
Pi. Giurami questo.
Co. Giuro che vincerai tutti questi giudici et tutti questi spettatori.
Pi. Questo sarà.
Co. Et se trapassi à vincer se non un giudice.
Pi. Udite brigata hor mai questi huomini armati, et che pigliano le arme per ritornare à casa, ma considerate che cosa scriviamo su’l testamento.
Co. Un huomo è nasciuto pieno d’inganni sempre in tutti i modi. tutta via tu dimi (perche dicendo,
tosto de’l bene acquisterai) che m’ammonisci una qualche potentia magiore, tralasciata da la mia
mente ignorante. et tu vedi questo. dì publicamente, perche quel che acquistarai facendomi de’l bene, questo sarà commune. ma sopra di che cosa persuadendoti vieni ne’l tuo giudicio, dillo arditamente, che i patti prima non lasciaremo passare.
Pi. Et pur lo desidero per Giove, et io hò una parola apparecchiata, che non si vieta parecchiarla. porta ò putto la corona, mandate giu. tosto alcuno porti l’aqua à le mani.
Co. Vogliamo cenare? ò che?

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Pi. Non per Giove. ma assai tempo fà che cerco una qualche grande et dolce parola, che rompa l’anima di costoro. cosi di vuoi mi doglio, che prima erate regi.

Co. Noi rè? di che cosa?
Pi. Voi di tutte quante le cose che sono, questo prima di me, et di esso Giove piu antichi, et piu
primi di Saturno, et de Titani sete stati, et de la terra.
Co. Et de la terra?
Pi. Sì per Apolline.
Co. Questo per Giove non ho udito.
Pi. Tu sei ben nato non ammaestrato, et non di molte facende, et in pratica non hai l’Esopo, che dice
che Coridalo nacque prima ucella de tutti, che fu prima de la terra, et poi che suo padre morì per
infermità. et che non è la terra. et costui è da mandare à giacersi prima. questa poi bisognosa, et povera per esser senza consiglio sotterò suo padre in su la sua testa.
Co. Il padre adunque di Corido hora giace morto in su la testa.
Ep. Dunque sì. se prima che la terra sono nati, et prima che i dei, come che siano loro i piu vecchi
che si trovino, giustamente suo è il regno.
Ev. Per Apolline. assai ben adunque ti bisogna pascerti il becco per l’avenire.
Ep. Non renderà tosto Giove il scettro a’l pigozzo?

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Pi. Che i dei dunque per tempo antico non hanno signoregiati gli huomini, ma che gli ucelli regnavano, molti sono segni di questi, et incontanente per la prima vi mostrerò, che’l gallo regnava, et signoregiava à i Persiani inanzi di tutti, Dario, e Megabizo. però si chiama ucel Persico da quel signoregiare fin da l’hora.

Ep. Et per questo egli solo de gli ucelli ha la cresta dritta anchora, et come gran signore se ne và scorrendo.
Pi. Cosi anchora ha potuto, et fu grande à l’hora, et d’assai, però anchora adesso. per quella forza
da l’hora, quando di notte canta solamente saltano su tutti à lavorare i fabri, i figuli, i conzatori de pelli, et quelli che conzano i corami, i stuari, quelli che vendono farina, i tornitori, et quelli che fanno le lire. questi vanno di notte calzati.
Ev. Domandami questo: perche io imprudentemente ho persa la chlena di lana frigia per causa di costui. perche a’l decimo dì, tal volta da un regazzetto chiamato, ne la cità beveva, et poco fà haveva dormito, et avanti il cenar de gli altri costui cantava. et io pensando che fosse presso à dì, andava ad Alimunta: m’inchino fuor de’l muro, et un ladro mi mena d’un baston su le spalle, et io cado, et voglio gridare, et costui mi levò via la cappa mia.
Pi. Il Nibio adunque signoregiava à l’hora, e commandava à Greci.
Ep. A Greci?

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Pi. Et questo primo regnando, insegnò à i nibij far la volta, ò giratione.

Ev. Et io adunque per Dionisio, ho fatto una giratione vedendo il nibio, et poi stando co’l corpo
in su con la bocca aperta, mangiai un’obolo, et poi à casa tirai il sacchetto vuoto.
Pi. De l’Egitto poi, et de la Fenicia tutta il cucco era signore. e quando il cucco diceva cucu, à l’hora tutti i Fenici mietevano i formenti, et gli orzi ne i campi.
Ep. Questa era ben quella parola cucu d’hernioso ne’l campo.
Pi. Et sì terribilmente in principio hanno regnato, che se alcuno anchora regnasse ne le cità de Greci Agamennone ò Menelao, sopra de gli scettri l’ucello ha seduto: havendo tal parte, per il ricever de doni.
Ev. Questo non sapeva gia io, et per ciò mi son maravigliato, quando vien suora un qualche Priamo, ch’habia un’ucello ne le tragedie. questo costituisse Lesicrate, avertendo ch’egli ricevesse doni.
Pi. Il che è gravissimo di tutte le cose. per ciò che quel Giove che hora regna, essendo rè, statuì d’haver su la testa un’ucello aquila. et la figliuola anchora la civetta, et Apolline come medico un
sparaviere.
Ev. Per Cerere questo ben dici. perche causa dunque queste cose sono?

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Pi. Come quando un che sacrifica, poi gli dà, come si costuma, trà le mani le interiori. essi che sono piu primi di Giove, piglino le interiori. niuno de gli huomini giurava à l’hora dio, ma tutti gli ucelli. Lampone giura anchora per l’oca, quando uno è ingannato in qualche cosa. cosi tutti vi stimavano prima grandi et santi, et hora vi tengono come famigli, pazzi, matti, et vi battono come se foste insensati, et ne i sacrificij ogni ucellatore contra di voi mette lazzi, reticelle, bachette, cese, nuvoli, reti, vischij, poi vi pigliano, et vi vendono tutti adunati, et costor che comprano, vi palpano, et n’anche per questo, se ben pare che si facia simili cose, arrostendovi vi pongono à tavola. ma gettano sopra formagio, oglio, legno di balsamo, aceto, et tridano un’altra defusione dolce et grassa, et poi sopra di voi stessi hanno sparso questa aqua calda, come se soste stati carni marze.
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Molto difficilissime, et istranissime parole hai portato huomo, grandemente ho pianto la timidità de mei padri, ch’hanno distrutto in me questi honori de magiori ch’elli danno. ma tu secondo la buona sorte, et conversatione mi vieni salvatore. per ciò che io ti dedicarò i polli, et me istesso. già habitarò. ma che bisogna fare tu insegnalo, mentre che sei quà, che non è cosa degna che stiano vivi, se non pigliamo in ogni modo la nostra signoria.
Pi. Et hor dunque prima insegno una cità d’ucelli essere. et poi tutto l’aere in circondo, et tutto questo in mezzo murarlo à torno de grandi pietre cotte, come se fusse Babilonia.

Ep. O Cebrione, et Porfirione molto terribile citade.

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Pi. Et poi se questo stà di domandar la signoria à Giove, et se egli non concede, ne vuole, ne incontanente sapia combattere, è ben chiamargli la sacrata guerra, et negare à i dei che stanno per i nostri luoghi, il passegiare, si come prima gli adolteranti de le Alcmene, sono discesi, et de le Alapodi, de le Semeli. et se le assaltano, è meglio fargli un segno ne la gamba, à ciò che non vadano piu à chiavarle. et à gli huomini poi commando mandargli un’altro precone à guisa d’ucelli che regnano, sacrificare ad ucelli per l’avenire, et poi di nuovo anchora à i dei, attribuir convenevolmente à i dei de gli ucelli quel che convien à ciascuno. se à Venere alcuno sacrificarà, bisogna ch’egli sacrifichi formenti à un’ucello faleride, et se alcuno sacrifica à Nettuno un porco, bisogna che lo sacrisichi à l’anedra. se uno sacrifica un bue ad Hercole, gli bisogua a’l laro sacrisicar fugacie immellate, et se al signor Giove sacrifica un montone, l’ucello orchilo n’è signore, a’l qual piu prima che Giove istesso convien mazzargli un maschio serfo.

Ev. Ho havuto gran piacere de’l mazzato serfo, hora intuoni il gran Giove.
Ep. Et à che modo gli huomini ne istimano dei, et non cornachioni, che volamo, et hauemo l’ali?
Pi. Tu zanci, et per Giove, Mercurio vola, et è dio, et porta l’ale, et molti altri dei. immantinente la vittoria vola con l’ale d’oro, et per Giove lo amore et la Iride Homero ha detto ch’è simile à una colomba timida.
Ep. Et Giove non tuonando, vi mandarà la volante saetta?
Pi. Se adunque per ignorantia da niente vi stimaranno, et questi esser dei che sono ne l’Olimpo, à l’hora bisogna che s’elevi una nuvola di passere, et che gli vadano à mangiar da campi loro il grano de le semenze ricolte, et poi ad essi morti di fame la Cerere misuri i formenti.
Ep. Non vorrà per Giove, ma vedrai essa à dargli le iscusationi.
Pi. Et questi corvi de giugali à quali erano la terra, et intentatione cavino gli occhi à le pecore, poi Apolline essendo medico gli guarisca, et pigli la mercede.
Ev. Non, avanti che io venda questi mei bovi.
Pi. Et se pensano te esser Dio, te vita, te terra, te Saturno, te Nettuno, loro haveranno tutti i beni.
Co. Hor dimi di questi beni uno.

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Pi. Primamente le cavalette non mangiaranno le loro viti, ma lo aguattar de le civette contrà di loro, et di cerchneidi, verrà sopra d’essi. poi zanzale, et gli ucelletti non sempre gli mangiaranno i fichi. ma un’armento de tordi manifestante tutti quelli scacierà.

Ep. Et da irrichirsi d’onde gli daremo, per che questo molto desiderano?
Pi. Costor gli daranno buoni metalli cercandone loro, et diranno che queste mercatantie sono utili à l’indovino: però niun nochiero perirà.
Co. A che modo non perirà?
Pi. Alcuno de gli ucelli predirà sempre à lui che cerca la navigatione: hora non navigar, che sarà fortuna, hora naviga, che sarà guadagno.
Ev. Io son patron de’l navigio, et governo la naue, et non starò apresso di voi.
Pi. Tesori ad essi mostraranno d’argento, che loro di prima hanno diposti: perche costor lo sanno. ogn’un dice questo, niuno sa dove sia il mio tesoro, se non qualche ucello.
Ev. Vendo il navigio, possedo la zappa, et cavo pozzi.
Ep. Et à che modo daranno à loro la sanità ch’è presso gli dei?
Pi. Se fanno bene, non è questa gran sanità? sapi chiaramente, che un’huomo che manifestamente facia male niente ha de’l sano.

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Co. Mò à che modo perverranno mai à la vechiezza? perche questo è su l’Olimpo, ò che bisogna morir fanciullino.

Pi. Per Giove, ma gli ucelli vi agiungono anchora trecento anni.
Co. Da chi?
Pi. Da loro medesimi. non sai che per cinque età d’huomini vive la cornice garrula?
Ev. Oime quanto più potenti di Giove sono à signoregiarne.
Pi. Non troppo per la prima, non bisogna che noi gli edifichiamo altari di pietra, ne saragli con porte d’oro: perche habitano sotto arbuscelli, et à questi anchora savij ucelli un’arbor d’oliva sarà altare. ne anche andando in Delfi, ne in Ammone, ivi sacrificaremo, ma se ne staremo fra i mori, et l’olive salvatiche, havendo de l’orzo, formento. pregheremo, porgendo à loro le mani che ne diano de beni qualche parte, et queste cose tosto n’averranno se gli mettiamo avanti poco formento.

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Co. O amicisimo mio assai piu che tutti i vecchi, avenutomi di nemicissimo, non è possibile che io di volontà piu lascia andar la tua sententia. ma gloriandomi de le tue parole ho minaciato, et giurato, se tu metterai concordanti parole apresso di me, giuste, non dolose, sante, ma anderai fra i dei, sapendo quei medesimi canti, non troppo tempo fà, che i dei rompono anchora i mei scettri. ma ciò che bisogna anchor far con fortezza in

questo l’ordinaremo, et ciò che bisogna con consiglio consultare, tutto è posto in te.
Ep. Et pur per Giove non havemo piu tempo da dormire, ne tardamente vincere, ma tosto tosto bisogna far qualche cosa. et per la prima uenite dentro’l mio nido, et ne le mie busche, et in questi sorcelli che vedete, et ditene’l nome, ma chiaramente.
Pi. Io ho nome Pistetero.
Ep. Et costui?
Pi. Evelpide di Tracia.
Ep. Ma alegratevi.
Pi. L’uno e l’altro di noi lo riceviamo.
Ep. Hor venite quà.
Pi. Andiamo, tu pigliane et menane dentro.
Ep. Vieni.
Pi. Mò richiama cotale, un’altra volta.
Ep. Horsu, ch’io’l vegga.
Pi. Dinne, à che modo io et costui non potendo volare, saremo insieme con voi che volate?
Ep. Bene.
Pi. Hor guarda che ne le favole d’Esopo, gia è qualche cosa che è stata detta, che la volpe una volta con l’aquila malamente s’accompagnò.
Ep. Niente haver paura, perche gli è una radicella, che se la mangiate, vi nasceranno le ale.

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Pi. A questo modo andiamo dentro. horsu ò Santhia et è Menodoro pigliate i letti.

Co. O tu, io ti chiamo, à te dico.
Ep. Che chiamitu?
Co. Questi meno con teco, cena. ma lasciane se vai fuori questa rossignuola che con la musa dolcemente
s’accorda ne’l cantare, à ciò che ci pigliamo spasso con quella.
Pi. O per Giove fagli credere questo, fà venir fuora la ucelletta dalla mangiatora falla venir qua, per i dei. à ciò che anchor noi vegiamo la rossignuola.
Ep. Ma se vi pare, questo bisogna fare, Progne, esci, et fatti vedere à questi forestieri.
Pi. O Giove reverendissimo, com’è bella ucelletta questa. com’è tenera, et com’è bianca.
Ev. Non saitu, che io volentieri la chiavarei? quanto oro ha’ella come donzella?
Pi. Sono di fantasia che anchora io la basiarei.
Ev. Ma ò disgratiato, ell’ha il becco de spedi.
Pi. Ma come si fà à un ovo, per Giove bisogna scorzargli giu la scaglia da la testa, et poi cosi basciarla.
Ep. Andiamo.
Pi. Menane tu noi cò la buona ventura.

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Co. O cara, ò bionda, o dolcissima de tutti gli ucelli, compascente di tutte le mie lodi, connutrice rossignuola sei venuta, sei venuta. mi pari havermi portato un dolce canto, ò che suoni la tibia di buona voce con canti de la prima vera, comincia gli anapesti.
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Co. Horsu, huomini naturalmente oscuri di vita, assomiglianti à le foglie per generatione, che fate poco, forme di fango, ombrose tribu, impotenti, che non vi potete voltare, longhi, meschini huomini, huomini insognati, avertite à noi immortali del cielo, che sempre stiamo vivi, che mai s’invecchiamo, che de le cose incorrutibili habiamo cura, à ciò che udiate ogni cosa giustamente da noi de le cose alte la natura de gli ucelli, et la generation di dei d’i fiumi, et de l’Erebo, et de’l Chaos, intendendo bene, dite à Prodico da mia parte che pianga per l’avenire. il Chaos era et notte e’l negro Erebo in prima, e’l tartaro largo. la terra poi, non era, ne l’aere, nel cielo. ma ne i golfi infiniti de l’Erebo la notte ch’hà le penne negre, partorì prima un’ovo pieno di vento, da’l quale quando fu à termine, pullulò et nacque l’amor desiderabile, splendido su le spalle con le ale d’oro, simile à le giration de venti. che tosto volano. et questo immescolato co’l Chao che ha le ale, ne’l notturno tartaro largo, fece la nostra generatione, et prima la ridusse in luce. et prima non erano gl’immortali avanti che l’amor mescolasse ogni cosa insieme: et commista una cosa con l’altra, fu fatto ’l cielo, et l’oceano, et la terra, et la incorruttibil generatione de tutti i dei. et cosi siamo noi i piu antichi de tutti i beati. et che noi siamo de l’amore à molti è manifesto, che andiamo volando, et insieme con gli amanti stiamo. et gli huomini amatori hanno diviso à termini di tempo, per potenza nostra, molti buoni putti, ch’hanno spergiurato: uno che dà la coturnice, un’altro ’l porfirione, l’altro l’oca, l’altro l’ucel persico. et tutte le piu grandi cose sono date à i mortali da noi ucelli. prima, noi mostriamo i tempi de la prima vera, de lo ’nverno, de l’autunno, de’l seminar, quando la gru crocitando se ne và ne la Libia, avisamo’l nocchiero che tenga il temone alzato, che dorma, et poi ad Oreste, che intessa la vesta, à ciò che non habia freddo spogliatosi. il nibio anchora apparendo doppo quessto, mostra un’altro tempo, quando è tempo d’inverno da tosar la lana de le pecore. poi la rondine quando bisogna vendere la chlena, et poi comprar qualche vesta da estate. siamo poi à voi Ammone, Delfi, Dodona, Febo, Apolline, perche prima venite à gli ucelli, cosi vi voltate ad ogni cosa, et à la mercatantia, et à le possession del vivere, et à le nozze de l’huomo, et pensate che ogni cosa sia ucello, ciò che giudica circa à la divinatione, et l’ucello vi è nominanza, et la sternutatione chiamate ucello, consiglio ucello, voce ucello, servo ucello, asino ucello. Non siamo noi forsi à voi l’indovinatore Apolline? Onde se istimarete che noi siamo dei, poterete adoperare in-
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Co. Horsu, huomini naturalmente oscuri di vita, assomiglianti à le foglie per generatione, che fate poco, forme di fango, ombrose tribu, impotenti, che non vi potete voltare, longhi, meschini huomini, huomini insognati, avertite à noi immortali del cielo, che sempre stiamo vivi, che mai s’invecchiamo, che de le cose incorrutibili habiamo cura, à ciò che udiate ogni cosa giustamente da noi de le cose alte la natura de gli ucelli, et la generation di dei d’i fiumi, et de l’Erebo, et de’l Chaos, intendendo bene, dite à Prodico da mia parte che pianga per l’avenire. il Chaos era et notte e’l negro Erebo in prima, e’l tartaro largo. la terra poi, non era, ne l’aere, nel cielo. ma ne i golfi infiniti de l’Erebo la notte ch’hà le penne negre, partorì prima un’ovo pieno di vento, da’l quale quando fu à termine, pullulò et nacque l’amor desiderabile, splendido su le spalle con le ale d’oro, simile à le giration de venti. che tosto volano. et questo immescolato co’l Chao che ha le ale, ne’l notturno tartaro largo, fece la nostra generatione, et prima la ridusse in luce. et prima non erano gl’immortali avanti che l’amor mescolasse ogni cosa insieme: et commista una cosa con l’altra, fu fatto ’l cielo, et l’oceano, et la terra, et la incorruttibil generatione de tutti i dei. et cosi siamo noi i piu antichi de tutti i beati. et che noi siamo de l’amore à molti è manifesto, che andiamo volando, et insieme con gli amanti stiamo. et gli huomini amatori hanno diviso à termini di tempo, per potenza nostra, molti buoni putti, ch’hanno spergiurato: uno che dà la coturnice, un’altro ’l porfirione, l’altro l’oca, l’altro l’ucel persico. et tutte le piu grandi cose sono date à i mortali da noi ucelli. prima, noi mostriamo i tempi de la prima vera, de lo ’nverno, de l’autunno, de’l seminar, quando la gru crocitando se ne và ne la Libia, avisamo’l nocchiero che tenga il temone alzato, che dorma, et poi ad Oreste, che intessa la vesta, à ciò che non habia freddo spogliatosi. il nibio anchora apparendo doppo quessto, mostra un’altro tempo, quando è tempo d’inverno da tosar la lana de le pecore. poi la rondine quando bisogna vendere la chlena, et poi comprar qualche vesta da estate. siamo poi à voi Ammone, Delfi, Dodona, Febo, Apolline, perche prima venite à gli ucelli, cosi vi voltate ad ogni cosa, et à la mercatantia, et à le possession del vivere, et à le nozze de l’huomo, et pensate che ogni cosa sia ucello, ciò che giudica circa à la divinatione, et l’ucello vi è nominanza, et la sternutatione chiamate ucello, consiglio ucello, voce ucello, servo ucello, asino ucello. Non siamo noi forsi à voi l’indovinatore Apolline? Onde se istimarete che noi siamo dei, poterete adoperare indovini, muse, aure, hore, inverno, estate, mediocre caldo, et noi non fugiremo: ma di sopra staremo à sedere molti honorati apresso i nuvoli, come fà Giove. et noi favorevoli daremo à voi medesimi, à i figliuoli, et à figliuoli de figlioli, ricca sanità, buona ventura, vita, pace, gioventù, riso, compagnie, conviti, et latte d’ucelli, il perche haurete da faticarvi ne le cose buone. tal che v’irricchirete tutti.
Selvosa musa, tio tio tio tio tinx, varia, con la qual io ne i boschi, et su le cime de le montagne,tio tio tio tio tinx, per le canzoni de la mia bionda barba, che sto à sedere sul frassino ben foglioso, tio tio tio tio, le sacre legi mostro a’l dio Pan, et à la casta madre i balli d’i monti, to to to to to to to to to to tinx. de quì, producendo sempre il dolce frutto la canzona, tio tio tio tinx.
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Co. Se alcuno de voi ò spettatori, hà voglia di vivere con gli ucelli dolcemente per l’avenire, venga à noi. perche ogni cosa turpe quì con lege distenuta, è buona apresso di noi ucelli. per ciò che se gli è mal cosa costì per lege battere il padre, questo apresso di noi è ben fatto: se uno và sotto al padre et dica, battimi et alza il pletro, se combatti. ma se aviene che uno de vostri fugitivo sia segnato, questo appo noi chiamato sarà attagas vario, et se accade uno che sia frigio, niente meno che Spintharo, Frigilo ucello quì sarà per generation di Filemone. ma se è servo et Càr, come Essecestide, generi avoli apresso di noi, et se mostreranno i parenti. et se costui vuol tradire le porte di Pisio à gli huomini da poco, la pernice diventi figliuola de’l padre, che apresso noi niente è male impernigarsi.

Co. Et simile voce i cigni tio tio tio tio tinx, con mescolamento di campagnia cò le ale facendo strepito hanno strassonato Apolline, tio tio tio tio tinx, stando su la riva de l’Ebro fiume, tio tio tio tio, et per un nuvolo ethereo venne una voce. et fece stupir varij ordini d’ucelli, et la cheta tranquilità estinse l’onde. to to to to to to to to to to tinx. tutto l’olimpo anchora fece strepito, et i Rè s’istupirono, et le muse, e le Gratie Olimpiade cantarono la canzone tio tio tio tinx.

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Co. Niuna cosa n’è migliore, ne piu dolce che generar le penne. se alcuno di voi spettatori havesse le penne, et havendo gran fame ne i cori di tragedi si tristasse, costui se ne voli quà et faccia piu bene che può, et vada à casa, et poi satiato à noi di nuovo voli. ò vero se qualche figliuol di Patroclo de vostri avenga con voglia di cacare, non cacarà su la vesta, ma rivolarà via, et pettezzando et respirando un’altra volta se ne volarà via. ò se accadde che adolteri alcuno de voi, et poi vegga il marito de la femina ne’l cosiglio, costui un’altra volta havendo le ale, à voi rivolarà, poi chiavandola, là un’altra volta se ne dimorarà. un non vorrebe ogniuno haver le ale? come Dijtrefe havendo solamente le ale d’un vase da vino, fu eletto per principe de la tribu, poi principe de cavalli: ei di niente fa cose grandi, et hora è un gallo de cavalli biondo.

Pi. Queste tali cose. per Giove, io non hò mai veduto anchora cosa piu da ridere.
Ev. Perche riditu?
Pi. Per le tue veloci ale, sai à che tu somiglij proprio con l’ale? in picciolezza loro à un occo dipinto.
Ev. Tu à un copsico stirpato fuori con la zappa.
Pi. In questo s’assomigliamo ben secondo Eschilo, et queste non da le altre, ma da le sue istesse penne.
Ep. Horsu, che bisogna fare?
Pi. Prima à la cità mettere un qualche grande et glorioso nome, poi oltre à questo sacrificare à i dei.
Ep. Cosi pare anchora à me.
Pi. Horsu ch’io vega, che nome haveremo per la cità, volete questa cosa grande da Lacedemone? chiamamola per nome Sparta.
Ep. Hercole. metterò bene io il nome Sparta à la mia cità, anchor che non habia bene il vinculo di
dormire in terra.
Pi. Che nome dunque metteremo?
Ep. De là. da li nuvoli, et da gli altri luoghi.
Pi. Tu vuoi una qualche cosa larga, nefelococcigia.

[p. 188v modifica]
Ep. Oh, oh, chiaramente hai trovato un buono et gran nome è mai questa la nefelococcigia? ove et di Teagene è assai roba, ogni cosa d’Eschino.

Pi. Et il migliore ò vero il campo di Flegra, ove sono i dei, et poi hanno saettato insoperbiti gli huomini fatti di terra.
Ep. Cosa bella de la cità. et qual dio sarà ch’habia una cita, à chi spartiremo la vesta?
Pi. Et che no lasciamo la Minerva che ha la cità?
Ep. Et à che modo si farà una cità bene ordinata hoggi mai, ove la dea fatta donna, stette havendo l’armatura, et la navicella di Clistene?
Pi. Et che havrà il pelargico de la cità?
Ep. Un’ucello de nostri de la generation persica, che in ogni luogo è detto esser gravissimo pollo di
Marte.
Pi. O pollastro patrone.
Ep. Et molto è facile egli ad habitar ne le pietre.
Pi. Horsu tu và pur à l’aere, et serve à quelli che fanno il muro, portagli pietricelle. spogliati, mena la malta, porta la conca, vien giu de la scala, mettigli le guardie, ascondi sempre il suoco, porta il sonaglio, et corri à torno et ivi dormi. et manda un precone frà i dei di sopra, et un’altro anchora à basso di sopra à gli huomini, et de là un’altra volta à me.
Ep. Et tu starai qui à piagnere apresso di me.

[p. 189r modifica]
Pi. Và ò castron là, ove io ti mando. perciò che niuna di queste cose che dico, sarà fatta senza te. et io per sacrificare à i novi dei, chiamo il sacerdote che manda la pompa, regazzo, regazzo levate su’l canestro e il vase.

Co. Di compagnia vogo, e con gli altri voglio. di sieme ammonendo posso con introiti grandi, et venerabili andare avanti à i dei, e anchora insieme per stare in gratia, voglio sacrificare qualche pecora. vada, vada Pithia, gridi a’l dio, canti anchora Cheride la canzone.
Pi. Cessa di piagnere tu, Hercole, che cosa era questa? questo per Giove io ho visto molte cose già,
gravi, et non ho anchora veduto un corvo che habia il freno.
Ep. Sacerdote, à te appartiene, sacrifica à i nuovi dei.
Sac. Farò questo. ma dove è colui che ha il canestro? pregate la dea Vesta ucellera, et il nibio che ha la vesta, et gli ucelli, et le ucelle Olimpici, et tutti, et tutte. ò Sunieraco, dio ti salvi rè Pelagio, pregate il cigno Pithio, et Delio, et Latona madre de la pernice, et Diana Acalantide.
Pi. Non piu Colenide, ma Acalantide Diana.
Sa. Et a’l franguello Sabazio, et à la passera grande, madre d’i dei, et de gli huomini, ò Reina Cibele passere, madre di cleocrinto dagli sanità et salvezza, et ad essi Chij.

[p. 189v modifica]
Pi. D’i Chij mi sono alegrato, che stanno da per tutto.

Sa. Fatevi divoti de gli Heroi, e de gli ucelli, e de figliuoli de gli beroi, et de’l porfirione, et de’l pelecante, et de’l pelecino, et de’l flexide, et de’l tetraco, et de’l pavone, et de l’elea, et de la basca, et de la elasa, et de l’erodio, et de la cataratta, et de’l melancorifo, et de l’egitallo.
Pi. Cessa, à le forche, cessa di chiamare, oh, oh. in qual sacrificio ò sventurato chiamitu le aquile, et i voltori? non veditu che un nibio ha rapito questo et è andato via? partiti da noi et tu, et le tue corone, che io solo questo sacrificarò.
Sa. Poi di nuovo dunque anchora mi bisogna invocar co’l bronzino il secondo canto, divino, santo, et chiamar beato quel solo, che haverà sofficiente vivanda. qui havemo ben questi sacrificij. niuna cosa altra sono, eccetto che barba, et corvi.
Pi. Faremo sacrificio, et pregheremo i dei che hanno le ale.
Po. Lauda ò musa questa felice nefelococcigia con tue canzoni de lodi.
Pi. Dimi questa cosa, d’onde sei, et chi sei.
Po. Io son quello che manda fuori la canzone de le dolci, et mellate parole, de le muse servo, veloce
com’è Homero.
Pi. Tu hai poi i capegli, et sei servo?

[p. 190r modifica]
Po. Non. ma tutti siamo precettori, servi de le mase, veloci, sì com’è Homero.

Pi. Non vanamente sei veloce, et hai la vesticella. ma ò poeta perche quì sei stato corrotto?
Po. Ho fatto canzoni à quelle vostre nefelococcigie, et sonetti assai et belli, et da donzelle,
et come quelli di Simonide.
Pi. Tu hai poi fatto questi tu? da che tempo?
Po. Assai è, assai, hora io laudo questa cità.
Pi. Non sacrifico hora la decima di questa? et adesso gli ho posto il nome come s’ella fosse un fanciullino.
Po. Ma qualche veloce fama de le muse, è come velocità de cavalli. et tu ò padre fabricator de l’Etna di quel medesimo nome che i sacrificij divini, dami ciò che vuoi darti à te medesimo, pronto à dare à me à te.
Pi. Queste novelle ne daranno da fare, se non diamo à costui, et fugiamo via. tu hai ben tu la vesta, et la camiscia, spogliati et dalle à questo savio poeta. pigliati questa vesta, perche mi pari haver freddo.
Po. Questo dono la cara musa volontieri la riceve. ma tu impara ne la tua mente una parola Pindarica.
Pi. L’huomo da noi non si partirà.

[p. 190v modifica]
Po. Per ciò che fra i pastori di Scithia vaga Stratone, che non possiede vestimento intessuto, ma non lodata andò la vesta senza la camiscia. intenditu che dico?

Pi. Intendo, che vuoi pigliar la camisciuola, spogliati, che bisogna aiutare il poeta, pigliala, và via.
Po. Vado via, et n’andarò ne la cità, et farò pur questo.

Lauda ò da la cadrega d’oro, lauda il freddo tremore, et i campi da le nevi molto percossi, et le seminate, e vieni alegramente.
Pi. Per Giove ho pur fugito questo gran freddo, pigliando questa camisciuola. Questo mal per Giove io non ho mai sperato, che costui si tosto habia imparata la cità. un’altra volta tu vá à torno, et piglia il bronzino.

Sa. Che si cantino le lodi.
Int. Non comminciar da’l becco.
Pi. Che sei tu?
Int. Chi sono? interprete de gli oracoli.
Pi. Piangi adesso.
Int. O beato tu, non ti sia male le cose divine, ch’è l’oracolo di Bacide manifesto, che dice, per le nefelococcigie.
Pi. Et poi à che modo non indovinarai tu queste cose, che io per inanzi habia habitato questa cità?
Int. Il fatto divino m’ha impedito.
Pi. Et non è possibile che tu odi le parole.

[p. 191r modifica]
Int.

Pi. Che ho io à far niente con i Corinthij?
Int. Dubiosamente questo disse Bacide à l’aere, che prima si sacrifichi à la terra un montone bianco. et à
chi venirà primamente profeta de le mie parole, che si gli dia una vesta pura, et calciamenti nuovi.
Pi. Vi sono anchor d’i calciamenti.
Int. Piglia il libro, et fatti dar la inchiestara, et impiti la mano de interiori.
Pi. Et vi sono de le interiori da dargli.
Int. Piglia il libro. e se pur figlio mio dolce fai come ti commando, diventerai un’aquila fra i nuvoli, et se non, sarai ne tortore, ne aquila, ne pigozzo.
Pi. Et queste cose sono quivi.
Int. Piglia il libro.
Pi. Per certo niente è simile questo vaticinio à quello, che io scrissi à la chiesia d’Apolline, ma poi
che l’huomo viene ignobile, superbo, et atrista quelli che sacrificano, et disidera di pigliar le interiori, à l’hora bisogna ben, ferirlo in mezzo a’l petto.
Int. Penso che niente dici.
Pi. Piglia il libro, et non perdonar niente ne à l’aquila fra i nuvoli, ne anche se fosse Lampone, ne se fosse il gran Diopite.
Int. Et queste cose sono quì.

[p. 191v modifica]
Pi. Piglia il libro. non vai fuori à le forche?

Int. Oime tristo.
Pi. Non correrai in altro luogo à indovinare?
Geo. Vengo à voi.
Pi. Questo è anchora un’altro male. et tu che fai? et che forma di volontà, che sententia, che cotorno de la via.
Geo. Voglio misurare l’aere à voi, et spartirvi le vie.
Pi. Sì per i dei. et tu de quali huomini sei?
Geo. Che son’io? Metone, il qual la Grecia, et il Corlono conosce.
Pi. Dimi, perche hai queste cose?
Geo. Le regole de l’aere. che immantinente è per apariscentia intiero, specialmente à guisa d’un forno. se metto dunque io la regola disopra à questo incurvo, se gli metto il circino, intenditu?
Pi. Non intendo.
Geo. Con giusta regola misurarò, agiungendovi che ’l circolo divenga quadrangolo, et in mezzo la piazza, et gli siano le vie diritte che vadano à quella, proprio in mezzo. et come stelle di essa che è circolare, i ragi diritti da per tutto risplendano.
Pi. Huomo Talete, Metone.
Geo. Che gli è?
Pi. Sai ch’io ti amo, fà à mio modo, muoviti giù de la via.
Geo. Che cosa t’aggrava?

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Pi. Come in Lacedemone da i forestieri sono ispinte et mosse alcune contrade spesse per la cità.

Geo. Sete forsi in costione?
Pi. Veramente nò per Giove.
Geo. Mo à che modo?
Pi. Par che ogni soperbo insieme calcitri.
Geo. Mi partirò ben sì, per Giove.
Pi. Non so mica, se gli arrivarai, perche queste stanno qui apresso.
Geo. Oime sventurato.
Pi. Non è un pezzo ch’io l’ho detto? non rimisurerai te istesso, andando altrove?
Isp. Ove sono i forestieri?
Pi. Chi è questo Sardanapalo?
Isp. Vengo qui per inquisitore, sortito con la fava frà le nefelococcigie.
Pi. Inquisitore? mò che t’ha mandato qua?
Isp. Il tristo libro de’l tributo.
Pi. Che vuoi dunque esser pagato, e non haver pensieri, et partirti?
Isp. Per i dei certo mi bisognava stando à casa far un sermone a’l popolo, perche gli sono quelle cose che sono state fatte per me à Farnace.
Pi. Và via, piglia. et questo è il tuo premio.
Isp. Che cosa è stata questa?
Pi. Il concilio circa Farnace.
Isp. Testifico ben che battuto son stato io inquisitore.

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Pi. Non scaciarai, non portarai via i cadi? non sono grandi cose queste? et mandano già ispioni ne la cità, anche aVanti che si sacrifichi à i dei?

Leg. Et se un nesflococcigieo ingiuria un’Ateniese.
Pi. Che libro è questo anchor cattivo?
Leg. Sono il venditore de giudicij, et vengo quà à voi per vender legi nuove.
Pi. Che cosa è questa?
Leg. Che i nefelococcigiei usino queste misure, et stadere, et deliberationi, si come gli Olofissij.
Pi. Et tu tosto usi quelli che gli Otofissij.
Leg. Tu che cosa hai?
Pi. Non portarai via le legi amare? hoggi io ti mostrerò le legi.
Isp. Accuso Pistetero d’ingiuria, per il mese di Gennaio.
Pi. Tu dì il vero. sei stato tu anchora quì?
Leg. Se per aventura alcuno iscacia i principi, et non gli riceve secondo la lege.
Pi. Oime sventurato. et tu sei pur anchora quì?
Isp. Ti rovinarò, et hor ti acuso di mille drachme.
Pi. Et io farò andar da male i tuoi cadi.
Inq. Aricordati che hieri sera guastasti la lege.
Pi. Oime, alcun lo piglij, tu non vi starai.
Sa. Andiamo noi via de quì piu tosto che possiamo, et sacrificaremo là dentro à i dei un becco.

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Co. Già à me che ogni cosa vego, et ad ogn’uno signoregio, tutti i mortali sacrificaranno con disiderate preghiere. per ciò che io vego tutta la terra, et facio salvi i pullulanti frutti, ammazzando la generation de le fiere d’ogni ordine, che mangiano ogni cosa ch’è in terra generata, et accresciuta da’l germoglio, con le mascelle troppo mangianti, et che vanno à star su gli alberi, à divorar i frutti. et uccido quelle che con cativissimi danni guastano gli odoriferi horti, et tutte quelle che rampano et mordono, sotto à la mia ala vanno à la morte.

Co. In questo dì purassai s’alegra, se uno di voi ammazzando Diagora Melio, piglia un talento, et se alcuno de tiranni uccidendo uno de morti, piglia un talento. Vogliamo dunque adesso anchor noi quì dir questo. se un di voi uccide Filocrate passerino, ei piglierà ’l talento: et se glielo mena vivo, ne pigliarà quattro. perche ne aduna de le passere, et ne vende sette a’l bagattino. poi sgonfio mostra i tordi et gli offende, et à i copsichi manda le penne ne’l naso. et à questo modo medesimo piglia, impedisce, ritien le colombe, et ne la rete ligate le constrigne ucellare. Questo volemo dir forte, et se alcuno pasce ucelli ligati ne la sala, dicemo di mandarlo via. et se non vi vogliate persuadere, compresi da gli ucelli, di nuouo anchora voi da noi ligati, sarete ucellati.

[p. 193v modifica]
Co. Felice tribu de gli ucelli volatili, che d’inverno non si mettono veste, ne anche il calor de’l Sole, raggio di lontano splendente ne ascalda, ma de ioriti prati, ne i golfi de le soglie d’Enneo, quando la divina cicala che acutamente canta per i calor merigij infuriata da’l Sole grida, d’inverno poi ne le spelonche incavate giuoca cò le nimfe de le montagne, et si pascemo de mirti de la prima vera, giovenili bianchi, et di frutti de le gratie.

Co. Ai giudici qualche cosa vogliamo dire circa la vittoria, i quali se ne giudicano da bene, noi gli concederemo di pigliar molto miglior doni, che quelli d’Alessandro. per ciò che primieramente (cosa che ogni giudice molto disidera) le civette lauriotice mai vi abandonaranno, ma habitaranno di dentro, ne le casse vi saranno i nidi e scorticaranno i piccioli guadagni. poi oltre à ciò in luoghi come sacri habitarete. per ciò che queste vostre case copriremo avanti à l’aquila. se volete sortir qualche picciola signoria, et poi rapir qualche cosa, vi daremo ne le mani un acuto sparavieretto, et se cenate, vi mandaremo le golle, ma se non giudicate, fabricate per portar i coperchi, in guisa di statue, si come che uno di voi non habia un coperchio, quando havete una bianca vestazzuola,
à l’hora ben patirete la pena in tal modo, pellati da noi tutti ucelli.
Pi. Questi sono ben sacrificij à noi buoni ò ucelli, ma quasi de là da’l muro non v’è alcun messo, à cui domandaremo ivi le cose. ma uno di questi corre spirandone il fiume Alfeo.

[p. 194r modifica]
Mes. Ove ove è? ove ove ov’è? ove ove ov’è, ove ove è Pistetero principe?

Pi. E questo.
Mes. Ti è stato edificato un muro.
Pi. Stà bene.
Mes. Buonissima opera, bet horrevolissima, come di sopra quel Prossenide superbo et Teagene da l’incontro per largo hà tirato due carette con cavalli sotto, di quella grandezza ch’era il caval Troiano.
Pi. Hercole.
Mes. Et questa lunghezza e, ch’io l’ho misurata, di cento passi.
Pi. O Nettuno, di lunghezza che hanno fabricato cotanta cosa?
Mes. Ucelli, niuno altro, non di Egitto, che porta quadrelli, non chi rompe pietre, non muradore gli fù, ma le proprie mani, che io mi maravigliassi da la Libia ne vennero ben quasi tre millia grù che divuoravano pietre del fondamento, et questi polirono co i becchi le cicogne, gli altri cicognotti poi piu di mille portavano pietre, et portavano l’aqua da’l basso à l’aere i caradrij et altri fluviali ucelli.
Pi. E che gli portavano malta?
Mes. Gli Erodij ne le conche.
Pi. Et questa malta à che modo l’hanno tratto su?

[p. 194v modifica]
Mes. Questo è buon’huomo è stato trovato, et ben saviamente, gli ochi sobbattendo come che havessino le zappe cò i suoi pedi l’hanno posta ne le conche.

Pi. Che i piedi poi non faranno de le opere?
Mes. Et per Giove, le anadre à torno cinte portavano quadrelli, et sopra’l rastello volavano, havendo di dietro come figliuolini, rondine che havevano il fango in bocca.
Pi. Che poi chi hà poi tolto à lavorare i lavoranti? hor su ch’io ’l veda. che poi? queste cose di legno che son ne’l muro, chi le hà fatte?
Mes. Gli ucelli erano murari et maestri sapientissimi, e pellecanti che co’i becchi hanno dolato le porte. et era un strepito un rumore, di questi pellecanti, come quando si fà una barca. et hora tutti quelli sono stati fatti porte à le porte, sono stati chiusi, et sono guardate d’intorno intorno, sono passate, co’l battiruolo in ogni luogo sono battute, le guardie sono state statuite e i lumi su le torri, ma io correrò, et mi lavarò, et tu istesso
hor fà altro.
Co. Tu che sai? ti maraviglijtu forsi, che tantosto sia fatto questo muro?
Pi. Per i dij io sì, per ciò che è degna cosa, perche da dovero mi paiono uguali à le bugie, ma in tal modo, che un de la guardia de là corre per messo à noi quà, guardando à salto à salto.
Mes. Oh, oh, oh, oh, oh, oh.
Pi. Che novella è questa?

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Mes. N’hauemo patito di molte aspre, perche uno de gli dij de quelli di Giove poco fa è volato per le porte ne l’aere, ascondendo i cornachioni guardiani, spettatori de’l dì.

Pi. O che fai una terribile opera et miserabile, qual de gli dij sei tu?
Mes. Non sapiamo, ma sapemo bene chi haveva le penne.
Pi. Non bisognava adunque contra di questo subitamente mandare i vagatori?
Mes. Anzi gli havemo mandato trè millia sparavieri che portano l’arco, et andava ogni uno che haveva le unghie torte, il cerchne, il triorcnhe, il voltore, il cimindi, l’aquila: et per lo empito et per
l’ale et per gli strepiti, l’etere si moveva il dio sendo cercato: et è non gia luntano de quì, ma hora è quì.
Pi. Bisogna adunque pigliar le sfronze et gli archi.
Mes. Ogni servo venga quà, ogniuno tiri, uno di voi mi dia la sfronza.
Co. Una guerra si leva, guerra da non dire, à me et à i dei. ma ogniuno osservi l’aere da per tutto nuvolato, quale l’Erebo hà partorito. tu che passi di quà, non ti sia celato alcuno de gli dei. et vega ogniuno in circondo guardando, che quasi la voce volatile de la rivolutione de l’alto dio è essaudita.

[p. 195v modifica]
Pi. O quella tu, ove ove ove volitu? taci, stà cheta, affermati lì, ritienti da correre. quale sei, donde? bisogna pur dire, donde sei?

Ir. Da i dei celesti io sono.
Pi. Et il nome tuo quale è? barca, ò beretta?
Ir. Iride veloce.
Pi. Maritima, ò Salaminia?
Ir. Perche questo?
Pi. Un triorcho rivolante non comprenderà già costei.
Ir. Che mi comprenderà? che male è mai questo?
Pi. Piangerai lungamente.
Ir. Non hà de’l buon questa cosa.
Pi. Per quali porte sei intrata in questa muraglia ò sfacciatissima?
Ir. Non so io per Giove per quali porte.
Pi. L’hai tu udita, com’ella usa disimulatione? à i cornacchioni principi sei venuta? niente dici? hai un segno da le cicogne?
Ir. Che gran male?
Pi. Non l’hai pigliata?
Ir. Tu sei ben sano.
Pi. Ne Rè niuno de gli ucelli presente, mai t’hà dato un segno?
Ir. per Giove non à mè, ne niuno me l’ha recato, ò sventurato.
Pi. Et poi cosi tacitamente vai volando per l’altrui cità, et per il chaos?
Ir. Mò per quale altra bisogna che i dei volino.

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Pi. Non so gia io per Giove. per questa mò non gia. et pur ne fai anchora ingiuria. et che fai questo? che giustissimamente presa di tutte le iridi, sei morta, se degna cità ritrovat’havrai.

Ir. Ma son io immortale.
Pi. Et pur saresti potuta morire. per ciò che patiremo cose terribilissime, a’l mio parere, se ad altri comandiamo. et voi dei fate male, ancho non conoscete che voi havete da udire particolarmente i megliori. ma dimi, dove navichi tu cò le ale?
Ir. Io? volo à gli huomini da parte de’l padre, et dico che bisogna sacrificare à i celesti dei, et ammazzar pecore insieme cò i bovi da’l sacrificio, ne le cocine, et consecrar le vie.
Pi. Che ditu? à quali dei?
Ir. A quali? à noi, dei de’l cielo.
Pi. Dei voi?
Ir. Mò che altro dio gli è?
Pi. Gli ucelli hora sono dei à gli huomini, à quali è da sacrificar ad essi, et non per Giove, à Giove.
Ir. O pazzo, impazzito, non tentar le gravi menti d’i dei, se non vuoi che la tua generatione totalmente perniciosa, tutta la sottometti la zappa di Giove, et meritamente, et t’abbrusci il corpo et gli ordini de le case con percossioni Licinie.

[p. 196v modifica]
Pi. Odi, cessa da queste estuationi, stà cheta, lasciami vedere, se tu questo dicendo, pari spaventare un Lido, ò un Frigio, che sai tu che Giove mi habia à dolorare fuor di modo? i palazzi suoi et le case d’Amfione abbrusciarò le aquile portandomi ’l fuoco. et mandaro pettorossi ucelli in cielo contra à lui, vestuti di pelle di pardo piu di sei cento in numero, et fina un solo porfirione gli darà da fare. et tu se mi darai noia di niente, à la prima fante distendendole le schinche, spartirò essa tride, di modo che ’l la si maravigliarà à che modo sì vecchio

essendo, squasso il triembolo.
Ir. Postu crepar disgratiato che tu se, per queste tue parole.
Pi. Non mi scaccierai? non tantosto di santa ragione battendomi.
Ir. Se non, ti farà cessar da la ’ngiuria et villania mio padre.
Pi. Oime pover’huomo, dunque tu volarai in altro luoco, et abbrusciarai qualche giovane.
Co. Havemo gridato à i dei illustri, che piu non passino per la mia cità, ne che alcuno sacerdote ne’l
salegamento piu mandi il fumo à i dei.
Pi. Grave cosa che un precone vaga à gli huomini, se mai piu un’altra volta non ritornerà.
Pr. O Pistetero, ò beato, ò savijssimo, ò gloriosissimo, ò sapientissimo, ò splendidissimo, ò tre volte beato, ò comandane.
Pi. Che ditu?
Pr. Tutti i popoli t’incoronano et honorano, di questa corona d’oro, per la tua sapientia.

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Pi. L’accetto. et perche cosi m’honorano i popoli?
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Pr. O habitatore de la gloriosissima cità eterea, non sai quanto honor porti da gli huomini? et quanti amatori hai di questa cità? per cio che inanzi che tu habitassi questa cità, à guisa de Laconi impazzivano tutti gli huomini à l’hora, havevano le chiome, havevano fame, erano sordidi, socratizavano, bastoni portavano, et hora sottoponendosi un’altra volta come fanno gli ucelli impazziscono. te ogni cosa fanno attratti da l’apiacere: ilche imitando gli ucelli prima subitamente tutti da’l letto di sieme volavano la mattina come noi a’l pascolo, et poi di compagnia s’inalzavano sopra i libri, et poi pascevano quì i decreti. à guisa d’ucelli s’impazzivano si manifestamente, che erano anchora à molti ucelli i nomi posti. pernice fu nomato un Capelo Zoppo, et Menippo hebe nome rondine, et Opuntio che non haveva occhio, corvo, corido Philocle, chenalopece Teagene, cicogna Licurgo, Cherefonte vespertilione, Siracusio citta. et Media la si chiamava la coturnice, per ciò che era simile ad una coturnice ch’haveva rotta la testa da Stisocompo. et tutti cantavano canzoni da l’amor de gli ucelli, ove era qualche rondina dipinta, ò Penelops, ò qualche oco, ò colomba, ò ale, ò qualche penne, et ciò che piciol fosse. e le cose de la cosi erano. ma una sola ti dico, che quà veniranno di quella banda piu di mille, che haranno bisogno di ale, et di costumi, et usanze di ranzinar le unghie, si che huopo ti sia de le ale da qualche via fra quelli con che habitarai.

Pi. Non bisogna adunque per Giove, che noi piu dimoriamo. ma tu vola, et và correndo, et impi le ciste, et coffini di penne. et portami fuora le ale. et io riceverò quelli che vengono.
Co. Et incontanente alcun de gli huomini chiamarà questa cità, cità di molte huomini.
Pi. Siagli solamente la fortuna.
Co. Gli amori poi de la mia cità ritengono.
Pi. In un tratto facio che si porti?
Co. Mò che cosa non ha costei? (è buono che l’huomo vaga altrove ad habitar) sapientia, disiderio, immortalità, gratie? et questa è una persona mansueta di molto savio riposo.
Pi. Molto da poltrone tu ministri, non t’affrettarai tosto?
Co. Portimi alcuno la cassa de le ale prestamente. et tu di nuovo salta un’altra volta à dosso à costui, et battilo cosi: perche è uno ch’è tardo, come un’asino.
Pi. Per ciò che resta timido.
Co. Tu conzati prima queste ale per ornamento, et queste da musa insieme, et questa, et queste marine, poi à che modo saviamente à l’huomo guardando haverai l’ale?

[p. 198r modifica]
Pi. Non piu cosa alcuna per le cerchneide tolerarò, vedendoti cosi timido, et cosi tardo.

Uc. Diventarò un’aquila altivolante, per volar sopra de l’aqua de la bianca palude indomita.
Pi. Si vede un messo che non ha false novelle, questo che canta, et viene à l’aquila.
Uc. Ah ah, non vi è cosa piu dolce de’l volare. et io amo anchora queste legi tra gli ucelli, che impazzisco come fanno gli ucelli, et volo, et voglio habitar con voi, et disidero le vostre legi.
Pi. Quali legi? perche gli ucelli hanno assai legi.
Uc. Tutte, massime quello che si stima buono, à gli ucelli soffocar et mordere il padre.
Pi. Et per Giove molto stimiamo che sia cosa da huomo, quello che novelletto et pollastrello ha battuto il padre.
Uc. Per questo à punto io sono venuto quà ad habitare, et ho voglia di soffocar il padre, et havere ogni cosa.
Pi. Ma tra noi ucelli è un’antica lege, su le tavolette de le cicogne, che poi che ’l cicognotto padre ha fatto (nodrigandogli) che tutti i cicognini possano volare, bisogna che i figliuoli un’altra volta nutriscano il padre.
Uc. Io ho ben inteso cosi, per Giove venendo quì, come che mi sia forza pascere il padre.

[p. 198v modifica]
Pi. Niente, et perche sei venuto quà ò meschino, con benivoglienza, te inalarò come un’ucella orfana, et non t’indrizzaro male ò’l mio giovenetto, ma t’insegnerò come io ho imparato quando era putto. tu non batter gia il padre: ma piglia quest’ala et questo plettro ne l’altra pensando d’haver una cresta di gallo, habine guardia, combatti, portandone mercede nutrisciti te istesso, lascia vivere il padre, ma perche sei combattitore, con queste vola ne la Tracia, et là combatti.

Uc. Per Dionisio tu mi pari dir bene, et à tuo modo voglio fare.
Pi. Havrai dunque intelletto per Giove.
Ci. Volo sopra à l’Olimpo con le ale legieri, et pur volo à la per fine in un’altra via de canzoni.
Pi. Questa cosa ha bisogno di peso d’ale.
Ci. Tu dici a’l corpo una generatione con la mente che non ha paura.
Pi. Salutiamo il Tiliano Cinesia. perche circonditu quì il piede zoppo ne’l cerchio?
Ci. Voglio diventare un’ucella stridola rossignuola.
Pi. Cessa di cantare, ma ciò che dici, dillo a me.
Ci. Da te alato, volo essendo un’altro che vola sopra à pigliar quelli nuvoli mossi da l’aere, et le scale toccate da la neve.
Pi. Da i nuuoli che alcuno piglij le scale. attaccata è dunque à noi quì l’arte. che da i dityrambi si fanno cose splendide, aerose, et tenebrose, et per la negrezza chiari, et mossi da l’ale.
Ci. Et tu udendo tosto il saperai.

[p. 199r modifica]
Pi. Non gia io.

Ci. Per Hercole, tu. che ti dico pur tutto l’aere, le statue de i volatili che corrono per l’etere, ucelli che
hanno longo il collo.
Pi. Oh oh.
Ci. Me ne correrei per le vie de’l mare con fiati de venti.
Pi. Per Giove io ti farò cessare i tuoi soffiamenti.
Ci. Andarò hora ad una via australe, hora m’aprossimarò ’l corpo anchora a’l Borea sfendendo il solco marino de l’etere, hai ben saputo ò vecchio cose gratiose et savie.
Pi. Non t’alegri gia fatto mobile per le ale.
Ci. Questo hai fatto à un precettor circolare, che à le generationi son sempre oppugnatore.
Pi. Vuoi tu insegnarne dunque, et star con noi, in compagnia d’ucelli che volano à Leotrofide, generatione di Cecrope?
Ci. Tu mi sbeffegi, cosa che si vede. ma non cessarò io adunque. questo sapi che per inanzi alato scorsi per l’aere.
Cal. Che ucelli sono questi, che niente di vario hanno per le ale, rondine che hanno variamente distese le ale?
Pi. Questo male non cosa trista fa vigilare. et costui di nuovo piangendo, quà viene à noi.
Cal. Un’altra volta tu che hai variamente distese l’ale?

[p. 199v modifica]
Pi. Mi pare ch’egli canta sopra un maligno pallio. et mi pare haver bisogno non di poche rondini.

Cal. Chi è quello che ha le ale, et vien quà à quelli che sono venuti?
Pi. Costui è quì, ma dì quel che ce convien dire.
Cal. De l’ale, de l’ale bisogna, non cercar altro.
Pi. Pensitu forsi di volar via dritto à Pellene?
Cal. Per Giove, et sono chiamatore de l’isola, et calonniatore.
Pi. O beato tu ne l’arte.
Cal. Et spione de le molestie. poi ho di bisogno di pigliar l’ale per circondar le cita chiamando ogniuno.
Pi. Che chiamare piu savia cosa de le ale?
Cal. Per Giove, ma à ciò che gli assassini non mi diano noia, et con le grui anchora de lì mi parto, per il sasso bevendo molte pene.
Pi. Che officio fai tu, dillomi, che sei giovane, acusitu i forastieri?
Cal. Che degio fare? non sò zappare.
Pi. Ma vi sono per Giove de l’altre opere buone, con le quali bisognava che l’huomo tanto vivesse, giustamente piu tosto, che patir le pene.
Cal. O beato tu, non mi avisare, ma fammi le ale.
Pi. Hor questo dicendo ti inalo.
Cal. Et à che modo con parole inalarai tu un’huomo?
Pi. Tutti con le parole s’inalano.
Cal. Tutti?

[p. 200r modifica]
Pi. Non hai udito quando i padri dicono à i giovanetti ne le barbarie queste cose, et gravemente Dijtrefe, ragionando ha rialato il mio giovanetto a’l cavalcare, et alcun tale dice di quello ne la tragedia, Rialarlo, et fargli volar la mente?

Cal. Con parole adunque anchor sono alati?
Pi. Cosi dico, perche da le parole la mente si leva in alto, et s’inalza l’huomo, cosi anchora io ti rialo, et voglioti voltare con buone parole ad una opera lecita, et legitima.
Cal. Ma non voglio.
Pi. Et che farai?
Cal. Non farò vergogna a’l parentado. la vita de’l mio avolo è da esser calonniata da me. ma alami d’ale veloci de’l sparaviero, ò de la cerchneide come per chiamare i forastieri, et poi che gli ho chiamati quì, un’altra volta che voli anchora lì.
Pi. Intendo. cosi dici, che ’l forastiero deba patire la pena quì, avanti che si parta.
Cal. Tu la intendi benissimo.
Pi. Et poi costui naviga ben quì, et tu volagli anchora là, et robagli i danari.
Cal. Tu sai ogni cosa, niente bisogna che vi sia differenza da’l corlo.
Pi. Intendo il corlo, et pur ho anchora io per Giove, buonissime ale sì fatte cerciree.
Cal. Oime meschino tu hai la scoriata.

[p. 200v modifica]
Pi. Io ho dunque l’ale, con quali ti farò hoggi corlare.

Cal. Oime tristo, quì non mi alarai?
Pi. Non ti partirai hoggi ò sceleratissimo, che morirai. tosto vedrai la versione amara de la malitia de la pena. andiamo noi à tuor su le ale.
Co. Hor volavamo per molte cose, et nuove, et ammirabili, et gravi cose havemo veduto, perche è nato un alboro lontan di Cardia Cleonimo, utile à niente, altramente poi grave et grande. questo di prima vera sempre germoglia,
et calonnia, et d’inverno poi un’altra volta fa cadere giu le foglie à i scuti.

E anchora un paese in essa oscurezza, un sol lume ne la solitudine de le lucerne, ove con signori huomini cenano, et stanno di compagnia, eccetto che di sera, et à l’hora piu non era sicuro di sieme andargli incontro. per ciò che uno de gli huomini fosse andato incontro di notte a’l signor Oreste, era cauto ignudo et battuto da esso con tutte

le fogie.
Pr. Oime meschino, che Giove non mi vega. ov’è Pistetero?

Pi. Eah, che cosa è questa? chi è stato coperto?
Pr. Veditu niuno de gli dei qui dì dietro à me?
Pi. Per Giove non io. et che sei tu?
Pr. Quando è da’l dì?
Pi. Quando? un poco dopo mezzo dì. et tu che sei?
Pr. Boleto, ò Peretero.

[p. 201r modifica]
Pi. Oime ti odio malamente.

Pr. Che fà mai Giove? fà egli serenare, ò nuvolare?
Pi. Piangi bene.
Pr. Cosi sarò ben discoperto.
Pi. Caro Prometheo.
Pr. Cessa, cessa, non gridare.
Pi. Mò che cosa gli è?
Pr. Taci non chiamar il mio nome, che ti farò morire, se Giove quì mi vedrà. ma à ciò che ti dica tutte le cose di sopra, piglia questo capelleto, tienilo sovra mè, che non mi vegano i dei.
Pi. Oh, oh, tu l’hai trovata bella, et da Prometheo. vestiti lo tosto bora, e poi dì su liberamente.
Pr. Hora odi.
Pi. Dì, ch’io ascolto.
Pr. E morto Giove.
Pi. Quando mori?
Pr. Poi che voi habitaste l’aere. per ciò che niuno de gli huomini piu niente sacrifica à i dei, ne l’odor de le gambe vien su à noi da l’hora in quà. ma quasi digiunamo senza i sacrificij de la festa. e questi Barbari dei morti di fame, à guisa d’Illirij frementi dicono di combattere contra à Giove di sopra: se non darà le boteghe aperte, à ciò che si portino dentro le interiore tagliate.
Pi. Sono mò alcuni altri de i Barbari sopra di voi?
Pr. Non sono mica Barbari, donde n’è il paterno Apolline.

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Pi. Che nome hanno poi i dei Barbari?

Pr. Che nome Triballi.
Pi. Intendo. di quì dunque è avenuto che tu ti stossi.
Pr. Sì, sopra ’l tutto. ma una sola cosa ti dico apertamente, che veneranno quì ambasciadori de le paci da Giove, e dà i Triballi di sopra. ma voi non gli sacrificate, se Giove à gli ucelli non darà un’altra volta ne le mani ’l scettro. e ti darà d’havere una femina in tua signoria.
Pi. Qual signoria?
Pr. Una bellissima putta, che fà il fulmine di Giove, e tutte le altre cose, il buon consiglio, la buona lege la discretione, gli arsenali, la villania, il governador civile, i trioboli.
Pi. Ogni cosa esso adunque governa?
Pr. Sì dico io. la quale se tu riceverai da quello, hai ogni cosa. à punto per questo qui son venuto per dirloti, perche sempre à gli huomini io son benvogliente.
Pi. Perche uno solo à gli dij per te sacrifichiamo.
Pr. Et io hò sempre in odio tutti i dei, come tu sai.
Pi. Per Giove, sempre sei stato di natura malvogliente de gli dij.
Pr. Timone, puro, ma ben ritornarò indietro, portami ’l capelletto, à ciò che io, se Giove mi vederà di sopra, paia seguir quelli che portano i canestri.
Pi. Et piglia questa sedia, e portala.

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Co. Et apresso à questo, egli è una certa palude à gli Sciapodi illavativa, con la quale Socrate mena le anime, ove ancho Pisandro venne, pregando di veder l’anima, òver hà antilasciato quello vivente, havendo bestie, il camelo, qualche agna, i colli cui tagliando come Ulisse se n’andò via. et poi ascese ad esso di sotto à la gola de’l camelo Cherefonte civetta.

Net. Questa citadella de la nefelococcigia, vedi, ell’è questa, ove siamo mandati, tu che fai, ne la banda sinistra? cosi tu ti vestisci? non muti il mantello come ne la man destra? che ò sventurato sei lespodia di natura? ò democratia dove ne fai mò andare, se questo cosi confermano i dei?
Tr. Starai cheto, e tacerai.
Net. Piangi pur da buon senno, gia io t’hò veduto il piu Barbaro de tutti i dei. hor su che facciamo ò Hercole.
Her. M’hai tu udito che io voglio soffocar questo huomo chiunque è, che mura fuora i dei?
Net. Ma ò compagno siamo eletti ambasciadori de le paci.
Her. Doppiamente mi pari di soffocar piu.
Net. Alcuno mi porti la gratugia, portami il silfio. alcuno mi porti il cascio, volta i carboni.
Her. Noi dei comadiamo che l’huomo s’alegri che noi siamo tre.
Pi. Ma pongli il silfio.
Her. Et queste carni di chi sono?

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Pi. Alcuni ucelli, che si levano, à i civilli ucelli sono paruti far noia.

Her. Et poi dai prima ad essi il silfio.
Pi. O dio ti salvi Hercule. che cosa gli è.
Her. Qui vegniamo in legatione, da parte de i dei, per la pace de la guerra.
Pi. Non è olio ne la lume.
Her. Et pur conviene che le ucellette siano grasse.
Net. Et noi per ciò guerregiando non guadagniamo. et voi non sete amici à noi dei. haverete l’aqua pioviale ne le cene, e vi menarete sempre i dì traquilli. venemo con potentia di tutte queste cose.
Pi. Ma ne anche prima noi mai havemo comminciato à voi la guerra. et hor vogliamo, se pare à voi, se
cosa alcuna altra giusta hora volete fare, farvi tregua. et questo è giusto, che Giove renda anchora il scettro à noi ucelli. et facciamo tregua. in segno di questo chiamo gli ambasciatori a cena.
Her. Mi bastano ben queste cose, et confermolo.
Net. Che cosa ò disgratiato. pazzo et goloso sei, tu privi il padre de la signoria?

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Pi. Vero è. per ciò che vuoi dei non tolerarete magior cosa, se gli ucelli signoregiaranno da basso. hor gia gli huomini coperti da i nuvoli, inchinati vi spergiurano. ma se haverete gli ucelli aiutori, quando giurarà alcuno il corvo et Giove, il corvo verrà celatamente, quello spergiurando, e gli volarà et battendolo gli cavara un occhio. Per Nettuno certo dici ben di questo.

Net. Et cosi pare à me.
Pi. Et tu che dici?
Tr. Nabesatreù.
Pi. Veditu? costui adesso anchora lauda quest’altro, udite quanto bene vi faremo. se uno de gli huomini fà un voto a’l dio poi sofistica dicendo, tardi sono i dei (et non vi rimetterò ’l peccato) rifaremo anchor questo.
Net. Fammi un poco vedere à che modo.
Pi. Quando per caso quest’huomo numerarà l’argentino, ò sederà giu lavato, gli volarà il nibio et
ids gli rapirà da inascoso, et riportarà a’l dio il pretio di due pecore.
Her. Io delibero che anchor si renda il scettro à costoro.
Net. Hor dimanda à Triballo.
Her. Ti pare che Triballo piangi.
Tr. Ben io ’l confermo.
Her. Dice di dire molto bene.
Net. Se ad alcuno di voi paiono queste cose, che à me anchor parono.
Her. Costui pare far questo per amore de’l scettro.
Pi. Et per Giove egli è un altro di cui io me ne arricordo. dò io mò ne le mani à Giove questa Giunone. et à mè si doverebe dare quella Reina giovane.
Net. Non cerchi pace. andiamosene à casa anchora.

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Pi. Poco mi curo. coco, bisogna fare una ’nfusion dolce.

Her. O felice de gli huomini Nettuno ove sei portato? noi per una donna combatteremo?
Net. Mò che faremo?
Her. Che? faremo pace.
Net. Quello che non sai ò malvagio ingannatoti grossamente. et tu medesimo t’offendi da per te. ma se
Giove sarà morto, et harà dato à questi lo imperio, povero sarai tu. sarà tuo, ciò che Giove morendo ti lasciarà.
Pi. Oime sventurato, come egli ti hà ingannato, vien quà à mè che ti voglio un poco parlare. Ti riprende il zio ò castron che tu se: per cio che ei niente ha parte con esso teco de le cose paterne secondo le legi, perche sei bastardo et non legitimo.
Her. Io bastardo? che ditu?
Pi. Tu sì per Giove, d’una donna forastiera. pensitu forsi che Minerva sia herede, che è sua figlia, s’ei hà fratelli legitimi?
Her. Che sarà poi, se’l padre morendo darà la roba à me bastardo?

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Pi. La lege non comporta questo. questo Nettuno primo che hora tè inalza usurparà la roba di tuo padre, dicendo che esso è suo fratel legitimo. et ti voglio dire la lege di Solone, che à un bastardo non appartiene cosa alcuna essendogli i figlij legitimi. et se i figli non sono legitimi, che quelli che sono piu prossimi di parentado, sono partecipi de la roba.

Her. Dunque io non havrò parte de la roba de’l padre?
Pi. Non gia per Giove, dimi un poco, t’hà mai menato il padre frà i parenti?
Her. Non mè certo, et in vero molto sonomi maravigliato.
Pi. Che sei tu dunque stato à guardar in su, vedendo la causa? ma se tu sarai con noi, io ti sarò Rè, ti darò latte d’ucelli.
Her. Et gia un pezzo mi pare dir il giusto de la giovane. et io te la dò ne le mani.
Pi. Et tu che dici?
Her. Dilibero cose contrarie.
Pi. Sopra di Tribalo ogni cosa è. che dici tu?
Tr. Io dò una bella giovane et gran Reina à l’ucello.
Her. Tu dì che la dai?
Net. Per Giove costui dice di non darla, se non si và come fanno le rondini.
Pi. Dice adunque di darla à le rondini.
Net. Fate voi hor mai pace, et accordatevi: et io, poi che cosi à voi pare tacerò.
Her. Quelle cose che tu ne dici, tutte parono convenirsi. ma vien tu in cielo con noi, se tu vuoi pigliar la Reina et ogni cosa ch’è lì.
Pi. In tempo dunque sono decise costoro à le nozze.
Her. Volete dunque che io frà cotanto stia qui à rostir questa carne? andate voi.

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Net. Roslirai tu la carne? tu mostri assai golosità. non sei tu con noi?

Her. Son ben io disposto. alcuno mi dia quà la vesta nuttiale.
Co. Egli è ne le vedette una mala generation de golosi apresso à l’horologio de l’aqua. che metono et seminano, et vindemiano cò le lingue, et beccano i fighi, sono Barbari di generation Gorgie, et Filippi, et da quelli Filippi, che hanno il ventre in fuori, in ogni luoco la lingua senza la Atheniese è indolcita.
Mes. O che fate ogni bene, et magiori di quello che dite, ò tre volte beata generation volatile de gli ucelli, ricevete il Rè ne le beate case. per ciò che viene, e di qual sorte di rilucente stella si può vedere? hà fatto splendore ne la casa d’oro, ne lo splendor d’i ragi de’l Sole che di lungi risplende, cosi fattamente hà risplenduto. viene havendo qual bellezza di donna non è possibile à dire, che squassa il fulmine, et porta le ale, l’arme di Giove. et un’odore che non si potria esprimere. viene ne’l profondo del circolo, bello spettacolo de sacrificij, le ore movono il voltare de’l fumo. et costui è desso. ma bisogna aprir benedicendo la bocca de la santa musa.
Mezzo co.   Riduci, sparti, passa, mena, da mi, vola il beato con la beata sorte. ò cagal’occhio il tempo de la bellezza, ò beatissime nozze di che ti mariti in questa cità.

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Un’altro mezzo co.   Grandi fortune ritengono la generatione de li ucelli per quest’huomo. ma con canzoni laudative et sposalitie ricevetelo esso, et la reina.

Ca. Giunone per avanti celeste, le parce di compagnia hanno portato in queste nozze, un grande
pincipe à gli dei sù le alte sedie. Qui à torno germogliando amore che hai l’ale d’oro, dirizza le redene, indietro distese, datore de le nozze di Giove, et di questa felice Giunone. Himen, ò Himeneo, ò Himen.
Pi. M’alegrava de le laudi, m’alegrava de le canzoni, m’alegro de le parole, et chiamate i celesti tuonitrui, et i fogosi lampi di Giove, et la saetta grave et bianca.
Co. O gran lume aureo de’l lampo, ò lancia portafuoco de lo immortale Giove, gravesonante, et portapiogie insieme porta tuoni, con i quali hor questo conquassa la terra, ogni cosa tu signoregi, et hai la reina che sede con Giove.
Mez. c. Himeneo, ò seguite hora le nozze, ò generationi tutte di quelle che viuono con le ale su’l solaro di Giove, et su’l letto nuttiale. Dami ò signora la tua mano, et piglia le mie ale, poi salta, et io alzandoti ti farò legiere. ma oh, oh, Peone, ò bello ne la vittoria, ò felice sopra gli altri.

Fine de gli Ucelli.

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