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PREFAZIONE IX


«L’uomo che abbia l’anima tutta affranta dalle afflizioni e dalle sciagure, contempli il Giove di Fidia, e davanti a quel simulacro oblierà ogni gravezza della vita».

E non soltanto le creature umane erano cosí esaltate. Tutte le forme visibili, riflettendosi nella fantasia dell’artista, divenivano prototipi universali, idee, creature olimpiche. Certo nei presepii d’Olimpo furono nutriti i cavalli dei frontoni, dinanzi ai quali Goethe si fermava sognando, e che non appartengono ad alcuna delle razze equine esistenti su la terra.

E nel medesimo indirizzo si svolgono tutte le altre manifestazioni spirituali contemporanee: da Polignoto, il gran sidere da cui persino Fidia ebbe a derivar qualche luce, a Pindaro ed Eschilo, le cui figure sono Numi, o Seminumi, o Eroi, ossia Numi in esilio. In una simile sfera ideale si svolge la musica, da Olimpo a Frinico. E perfino la vera vita si modella e proporziona su questo ideale artistico. Nessuno aveva mai veduto ridere l’olimpio Pericle; né la morte immatura e straziante del figlio poté turbare la sua energia né la sua serenità.

Ma già nel cuore del secolo quinto l’arte greca abbandona il vertice cosí faticosamente raggiunto.

E gran parte dei contemporanei, la cui voce è giunta fino a noi distintissima nelle commedie d’Aristofane, stigmatizzò questo abbandono come un folle tradimento dell’arte, dei costumi, delle tradizioni avite: cioè della patria. Ed anche il giudizio dei secoli, purificato d’ogni passione, pronuncia volentieri la parola: decadenza.

E certo, l’arte greca non giunse piú mai cosí alto. Però, badiamo. Nell’arte, come nella vita, non si concedono stasi. Dove è arresto, immobilità, quivi è disintegrazione, disfacimento e morte. Chi giunge al vertice d’un monte, vede ogni altra cima sotto