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XIV | PREFAZIONE |
Abbiamo visto che nella grande arte, massime nella statuaria, aveva poco luogo l’espressione dei sentimenti. Ma già Socrate ammoniva che lo statuario deve esprimere attraverso le forme tutte le impressioni dell’animo. Ed ecco Prassitele e Scopa conquistare al marmo le due province, finora quasi ignote, del sentimento e della passione. La soave fantasticheria dell’uno, il fiero accento drammatico dell’altro, si impongono come modelli agli epígoni. E cosí, nelle figure alessandrine, vediamo da un lato contorni addolciti, come sfumati in una nebbia, espressioni voluttuose, sguardi velati di languore: dall’altro, pallori morbosi, lagrime, sospiri, sogni torbidi e tristi. Un velo di patetico e di malinconia è disteso su tutte le figure ellenistiche: perfino i Numi, perduta la loro serenità, partecipano tutte le passioni umane.
E cosí, un indirizzo realistico sbocca, con risultato diametralmente opposto, nel sentimento, e quasi nel sentimentalismo.
Ma nella poesia non è cosí. La formula realistica si esaurisce presto; e i suoi prodotti sono, indiscutibilmente, di genere inferiore. Applicata in tempi recenti, e con criterii e finezza ignoti agli alessandrini, essa ha dimostrato, senza possibili ambiguità, la propria insufficienza.
Ma poi, tutto il male non è qui. Gli è che in poesia il verismo si converte, inevitabilmente, in razionalismo. Chi esamina le cose con troppa insistenza, e ne scopre via via l’intimo organismo, è facilmente indotto nell’illusione che in quel meccanismo consista la loro essenza, e che riuscire a signoreggiarne i congegni, significhi aver acquistata la facoltà di creare. Anche Euripide, con tutto il suo genio, ne fu vinto; perché Aristofane sapeva certo che si dicesse, quando nelle «Rane» gli faceva pronunciare la nota apologia:
La maniera fu tale |