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PREFAZIONE XXIII

proprio un buon collega. A momenti si direbbe un buon diavolo.

E un’altra linea della sua fisonomia si deriva facilmente dal Milone dei «Mietitori» e dal Tiònico de «L’amor di Cinisca», che con tanto piacevole e benevolo umorismo beffeggiano i sentimentaloni Batto ed Eschine.

Il medesimo tòno, in una trasposizione dal contadinesco all’urbano, troviamo nelle parole che, in fronte al «Ciclope», rivolge all’amico Nicia. Trova perfino modo di dirgli che, in conclusione, la sua medicina, all’atto pratico si riduce a ben poco:

D’erba trastulla cosi l’amor suo Polifemo pasceva,
cantando, meglio assai che a spenderci attorno quattrini.

Questo tòno ironico, amabilmente scettico, si sente un po’ da per tutto, anche negli altri idilli. Ma credere, come ha suggerito più d’uno, che ironiche e parodistiche, e, dunque, sanate da questa loro intenzione, siano anche le zeppe mitologiche che deturpano tanti idilli, no. Sono, purtroppo, le macchie alessandrine, da cui Teocrito non ebbe la forza di salvare la sua opera miracolosa. Forse appunto perché alla grandezza dell’arte non corrispondeva la grandezza del carattere, che converte i principii estetici in altrettanti imperativi etici.

Teocrito fu, nell’arte come nella vita, troppo accomodante. In lui, non esisteva la fiera volontà del poeta chiuso nella rocca inespugnabile del suo credo artistico, tetragono ad ogni lusinga e ad ogni pressione esterna,

se mille volte vïolenza il torza.

Teocrito ebbe una intelligenza viva e profonda, una sensibilità d’eccezione, una musicalità favolosa. Ma fu insieme foderato d’un buon senso a tutta prova. Facoltà preziosa; ma non