Gli assempri/Ai lettori

Ai lettori

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Gli assempri Ai lettori - Nota (A)
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AI LETTORI.



Ai cortesi, che apprezzano il pensiero che ci guida in compilare questa Antologia, crediamo dare una buona novella, se loro annunziamo che ai gentilissimi e simpatici Statuti dello Spedale, facciamo succedere uno Scrittore, quanto nuovo, altrettanto pieno di fuoco e di poesia, e ricco d’immaginazione, come di schiettezza e semplicità. Oggi che la letteratura sembra avere esaurite le ultime e le più gagliarde droghe per isvegliare gli ottusi appetiti del popolo dei leggitori, non tornerà ingrata la primitiva schiettezza, e l’ingenua convinzione di un fraticello, che quattrocento sessantaquattro anni fa, con sì semplici racconti scuoteva le coscienze dei suoi devoti. [p. viii modifica] Speriamo che il nome di fra Filippo da Siena, nel drappello degli aurei Scrittori del trecento, non abbia a comparire intruso nè indegno. Appena è conosciuto, chè dei suoi Assempri pochi soli sono un ti, editi dal chiaris. Sig. Cav. F. Zambrini, per bontà del quale noi abbiamo potuto effettuare questa nostra edizione.1 Onde noi ci chiamiamo fortunati, per esserci toccata la ventura di far conoscere all’Italia uno scrittore all’atto nuovo, e della patria nostra.

Della sua vita poco diremo, poichè un umil fraticello, che condusse in convento quasi tutti i suoi giorni, non ha da lasciare al mondo che poche memorie. Della sua santità e del suo culto (poichè fu posto su gli altari come Beato) lasceremo parlare agli agiografi; per chi gradirà aver sottocchio l’epoche della sua vita in ordine cronologico, lo rimettiamo alle note.2

Filippo, fu della nobilissima casata Agazzari o, come dapprima si disse, della Gaz[p. ix modifica]zaja,3 figlio di un Leonardo di Cola; ed ebbe per fratello un Niccolò, che nel 1414 era morto, probabilmente sulla età di 70 anni.4

Fra Filippo, prese l’abito dei Frati di S. Agostino di Lecceto nel 1353. Non consta quando nascesse; ma sapendosi che nell’1422 mancò a’ vivi, e supponendo che avesse 15 anni alla sua vestizione, potè esser nato circa il 39 del Secolo XIV, e così aver vissuto circa 83 anni, e la sua storia infatti narra che morisse ottuagenario. Fu Priore del suo Convento dal 1398 in poi, cioè per 24 anni.

Ma diciamo degli scritti di lui. Tutti daccordo i suoi biografi lo proclamano come uno Scrittore infaticabile. Tutte le celle dei frati a Lecceto erano piene dei suoi scritti. Non sarebbe bastata, dicono, la vita intera di un uomo a leggere quanto ci scrisse. Per il leggere che fanno i frati è probabile; ma son convinto che scrivesse moltissimo. [p. x modifica] Non si creda però che componesse di suo tutti i libri che scrisse, ma di molti ne fu solo traduttore, di alcuni copiatore, e di non so quanti proprio autore.

Ma di sì fecondo Scrittore restano pur meschini avanzi, comecchè atti a farci conoscere e la sua maniera di scrivere e il genere di cui si compiacque.5

Si parla di un gran libro sulle cose e gl’interessi del Convento di Lecceto, e questo si deplora perduto. Perduto è pure un libro di vite di santi che nel secolo XVII esisteva tuttora, ma mutilo assai. Spiegazioni di vangeli, omelie, vite di santi, furono continuo subietto del suo entusiasmo di Scrittore. E come Egli narrò tanti miracoli de’ frati suoi compagni, fu pure narrato di lui, che un giorno ch’ei stava assorto in profonda meditazione, una gran voce del Cielo chiamollo esclamandoli: LEGGI E SCRIVI! E questa fu la sua missione, questa la sua cura finchè visse; che i suoi più fervidi e immaginosi assempri, [p. xi modifica]egli scriveva nel 1416, anno nel quale inclinava già verso il quindicesimo lustro; onde è da credersi che davvero fosse instancato. Di questa particolar missione di scrittore fa duopo tenergli gran conto.

Ma di tanta operosità non restano, al meno di autentici, che due MSS. nella Pubblica Biblioteca Comunale di Siena, autografi come dimostreremo.

Il Codice I. V. 10. di 176 carte in ottavo grande, bene scritto e conservato è tutto membranaceo. Contiene l’esposizione sopra i vangeli di fra Giovanni da Salerno, tradotta in volgare dall’opera di fra Simone da Cascia. Nel Catalogo del Cav. Zambrini si citano due edizioni, 1486 e 1496, ambedue molto rare, ma la versione n’è attribuita a Fra Guido; onde questo sarebbe un volgarizzamento inedito e sconosciuto. Quello che posso dirne si è, che se l‘altro volgarizzamento è detto dal Chiaris. Zambrini veramente aureo, questo qui non gli può stare per nessuna parte di sotto.

Avanti questa esposizione leggesi della stessa mano di Fr. Filippo l’assempro della donna lisciata dal diavolo, che è della se[p. xii modifica]conda compilazione fatta dal suo autore. Noi abbiamo stampata la prima, che era inedita, e ci siam contentati di riportare dell’altra le varianti e la chiusa.6 Nel fine di questo Codice si legge. «Questo libro è di Fra Filippo di Leonardo dei frati romitani di Santo Augustino da Siena, e de’ suoi chompagni che stanno insieme collui nel convento di Selva diLago.»

Veniamo al Cod. I. IV. 9. che è quello che abbiamo da parecchie settimane fra mano. È palinsesto, e i fogli son confusi di membranacei e di lino. Quelli membranacei sono con gran cura raschiati, e posti a rovescio. Non sono molto più antichi del libro stesso. Contengono quali degli atti notariali, quali alcune carte di bella e grossa lettera di un libro di documenti morali. Scorgonsi nei margini tuttora i punti di legatura di esso. Da un verso che potei leggere a gran stento, rilevai il principio di un atto notariesco che non può essere molto più antico del 1308, anno [p. xiii modifica]in cui per la prima volta cadeva la indizione decima. Tutto il Codice è numerato a carte 101, ma in principio mancante di 42 carte. Alla tredicesima è già incominciata una leggenda «Del giudizio finale, e del rinnovamento del mondo.» Ma non pare dal dettato, che possa mancare più che una carta: onde non può sapersi quale altro scritto gli andasse avanti.

La seconda leggenda, che s’incontra a carte 23 versa, è La leggenda di Sancto Salvestro. Io era invaghito di questa squisita scrittura. E questa era fra le leggende già promesse ai Lettori della nostra Antologia, la principale. Quando riseppi che una leggenda di S. Silvestro era già stata pubblicata dal chiariss. letterato Sig. Prof. Michele Melga di Napoli. Un nome così illustre nelle lettere, e specialmente per le classiche pubblicazioni delle quali ha arricchita la letteratura italiana, al primo annunzio mi levò di sella. Poi pervenutomi la leggenda stampata, scórsi con mio stupore esser in tutto e per tutto la stessa, fuorchè nella compilazione; in che differisce tanto, da non esservi quasi verso che raffronti pienamente e in [p. xiv modifica]ogni parola nei due codici. Se l’ottimo Sig. Melga, che tanto sa in questo genere di studj, non incontrò un Codice della bontà che il nostro, ei seppe bensì pubblicarlo da suo pari. Noi ci riportiamo a tutto ciò che ne dice nella sua prefazione, e solo aggiungiamo, che l’altro Codice Carbone, ch’egli tiene a raffronto del suo, sia molto meglio, e fra l’altre più senese, se non quanto il nostro ch’è, e doveva essere senesissimo. Ci congratuliamo però col chiaro Letterato perchè ci siamo trovati a vedere, che molte volte, ove Egli interpetra o supplisce in alcun che il suo Codice, la sua interpetrazione confronta mirabilmente col nostro testo. Tanto vale la perizia ancora in tali studj.

Ma che dirà l’ottimo Letterato, e che dissi io mai, quando entrato in sospetto già, potei pure aver certezza, che il codice ad entrambi si caro, non era un’opera del mio Fr. Filippo, ma solo una versione dal latino? Tanto seppi per le ricerche fatte fare nella Biblioteca Laurenziana, da quei cortesissimi impiegati, e per mezzo di un mio carissimo e dottissimo amico. Il principio e la fine del latino originale è affatto la stessa; le [p. xv modifica]due lettere di Elena e Costantino, la disputa dei Dottori, S. Silvestro che risponde a tut ti, il Dragone, la morte di S. Silvestro, tutto si raffronta. Il Cod. è in foglio massimo, di nove pagine a due colonne. Appartiene al pluteo XX, ed è contenuto in un Passionario, di cui non mi si dice il numero e la pagina; ma insomma l’unus et idem è indubitato. Il fatto di una versione è per me un argomento di più in favore della paternità di fra Filippo. Se si riscontra lo stile, il sanesissimo spiccato, io credo non se ne possa dubitare. Solo il periodare è più tornito, la grammatica più rispettata, ma ciò devesi e alla elevazione del soggetto, e alla non cercata popolarità, e soprattutto alle migliori condizioni che erano fatte allo Scrittore dalla lingua latina. E se la fortuna ci arride, non deponiamo la speranza di darne un’edizione, ove porremo tutto quell’amore che per noi si potrà.

Ora veniamo agli Assempri. Cominciano alla metà della carta 23 versa, e termina no colla 101. Numerate e rubricate dall’autore stesso, che rubricò d’un frego anche tutte le majuscole, che spesso buttò giù an[p. xvi modifica]cora con poco proposito. Gli assempri sono 62, tutti della mano dello Scrittore, scritti senza interruzione di tempo; e riscontrando che l’assempro sessantunesimo è scritto nel 1416, si rileva ch’egli Scrisse con ben ferma mano, con carattere unito e franco, ben che fosse già presso che ottuagenario. Due sole postille, nessun pentimento in 162 pagine di scritto piene e piuttosto compatte. Il libro composto in più tempi, appare copiato tutto una volta; ed anzi credo che la leggenda di S. Silvestro e la fine del mondo che precedono gli Assempri, sieno tutti una sola copiatura.

Il Codice essendo palinsesto, e parte in carta e parte in pergamena, narra lo zelo, non che la povertà del caldo e devoto monaco. La lettera tiene ben più del XV che del XIV secolo; ha perduto quel serpeggìo che formava l’eleganze degli scritti notarili del 300, ed ha il rotondo e la brevità del 400.

Non diremo altro intorno a cose bibliografiche; chè queste ci sembrano a bastanza per la necessità.

E passando a dir le ragioni che ci determinarono a pubblicare un libro tutto diavoli e frati, protestiamo che non saremmo [p. xvii modifica]punto disposti adirle, perchè perfettamente inutili per gl’intelligenti e discreti Lettori; ma siamo stati presi a secco da qualche Catone, cui non piace che noi publichiamo questi vecchiumi, ove non si parla mai di cose palpitanti di attualità.

Diremo a nostra scusa.

Che il nostro fra Filippo dipinga di vivi colori, con tutta l’evidenza di chi è animato di quella convinzione che anela far passare in altri; che sia un raccontatore ravvivato da quel fuoco che, come dice Dante, Temperatamente in cuore avvampa, e che è il suggello del vero genio, noi non faremo ai nostri lettori il torto di dimostrarglielo: essi sel vedano! Che se nella lingua non supera i primi trecentisti, se maggiori sono in lui le libertà di stile e di grammatica, pur famigliari agli altri e a’ migliori; certamente nella poesia, nella evidenza e schiettezza non è secondo ad alcuno.

E, sempre dicendo della lingua, è di somma importanza riflettere ch’egli scrive pel popolo, e scrive del tutto la sua lingua, predica da un pulpito di campagna: e di qui è che noi troviamo nel suo dire, forme [p. xviii modifica]insolite, ed altrove inreperte; che se non saranno tutte (moltissime però sì) affatto utili ad arricchir la lingua, lo saranno a rischiararne per la lor parte la storia. E su questo io mi sono un po’ fissato: mi rassegno però al giudizio di chi sa.7

Che l’evidenza, la semplicità, ed il colorito vivo e vero sieno pregi del nostro scrittore, ognuno potrà giudicarlo a leggere. La donna lisciata dal diavolo, ove a sì brevi e risentiti tocchi, e con sì dritto filo conduce il racconto, non è inferiore ad alcuna delle più graziose novelle dell’italiana letteratura. E di quale racconto si può dire [p. xix modifica]che si veda piuttosto che leggasi, come dell’assempro di Marino, che in realtà fu dipinto? (V. Assempro 25.) Formasi la scena da due diavoli vestiti da frate, che traggono fuori una borsa di fiorini, con una espressione di sarcasmo e d’ipocrisia da esprimere assai il carattere di quel che erano e di quel che figuravano essere. E certo che fra Filippo intese fare una assai acerba allusione. E il Notajo con in volto l’angoscie del suo essere di dannato, che sta per rogare lo strumento infernale, e la moglie che usola all’uscio spaventata di quel che succede, e Marino tapinello incerto in mezzo a tali orrori, e infine S. Giacomo di Galizia, sereno e sicuro nella luce della sua santità. Si può immaginare così alla buona e senza esagerazioni, una così vera e splendida scena?

E in mezzo a tante superstizioni e sogni d’una fantasia malata, il buon frate sa mescolare i tocchi più delicati e più diretti al cuore del lettore. Leggasi l’Assempro 59 e si giudichi se sopra un fondo del tutto comico, si poteva meglio cavare lacrime di tenerezza come egli ha fatto!

Se poi il lettore vorrà leggere oltre la [p. xx modifica]lettera, si avvedrà che questo libro merita più d’esser pensato che letto. Poiché la società di quel tempo con tutti i suoi errori e terrori, e con la sua gran religiosità non sempre unita alla virtù, ci fa molto pensare, e solo in questo ci rassicura che a nascer tardi abbiamo almeno avuta la gran fortuna di trovare già convenute e stabilite delle massime di morale, vere e svolte secondo la giustizia universale, ed ormai assicurate con solido fondamento nella coscienza umana. E questo è molto, se non è già quanto di certo ci può dare la civiltà.

Il buon fra Filippo nulla ci nasconde, tutto ci rivela il bene e il male del suo secolo infelice. In mezzo alle opere più belle di carità, agli atti più nobili di religioso fervore per parte di monaci o di secolari pieni d’ascetismo, tu t’imbatti tratto tratto in frati dissoluti, in masnadieri crudeli, in gente data a tutte l’intemperanze del peccato della gola, che è strada a tutte le depravazioni, come benissimo più volte nota il buon frate. L’usura, il giuoco, la bestemmia, sono i vizi capitali per i quali egli è inesorabile. Ed infatti erano le piaghe del suo tempo. [p. xxi modifica]E qual cosa di più crudele e vile di essi? Aggiungi l’immanità delle leggi che rincaravano piuttosto che diminuire sui mali sociali, e poi venga chi vuole a lodare quel secolo se ha coraggio. La superstizione, la corruttela, e l’imperfetto ordinamento civile, si adopravano a tormentare una generazione ingenua ma ignorante, forte ma feroce, ascetica non religiosa, come d’esserlo presumeva. E non poche volte or contro le streghe, ora contro i profanatori delle feste, lo stesso dabbene fra Filippoè trascinato all’iracondia e perfino al cinismo. Vedi fra gli altri l’Assempro 49. A che fine volge dunque la religiosità di un secolo se non si sposa a quella tale ragione della giustizia, che si chiama ci viltà? E se questa non basta al perfezionamento sociale, chi può negare, leggendo queste storie, che la stessa religione, comecchè santa in se, non basti a far l’uomo santo, se pur qualche volta non lo fa scellerato?

In tutta questa svariata massa di bene e di male, che ferve nei suoi racconti, la figura del frate scrittore domina serena e simpatica per la sua lealtà. Non uno ha ve[p. xxii modifica]duto dei miracoli che racconta, ma se ne riporta a’ testimoni e talora a’ testimoni di quelli, sempre persone autorevoli e sincere. Questa è una bonomia che gli accetta stima. Una o due volte al più parla colle persone stesse del miracolo, ed è lieve avvedersi che in tali casi il miracolo è facilissimo a spiegarsi: come pure un buon terzo delle novelle del suo libro, non potrebbero esser miracoli neppure alla più grossa gente. A questo proposito osserverà il lettore, che il fatto della Donna lisciata dal Diavolo (Ass: 2) e l’altro (Ass. 3), sono della più facile interpretazione. se si pensa ai caustici coi quali formavasi il liscio8 che le donne si davano sul [p. xxiii modifica]viso, ove entrava specialmente il sublimato, e fors’anche l’arsenico, sostanze che variamente manipolate dagli alchimisti, funesta sempre per l’uso protratto, potevano rendersi fatali ancora subitaneamente. Il furore per il giuoco che fu una delle peggiori piaghe nei costumi d’allora, la scarsità e carezza della moneta, e la miseria delle masse popolari, cagionavano disperazioni per le quali il meno che fosse si cadeva nell’orrendo bestemmiare, per passare alle risse, ai suicidi. Indi le sparizioni dei miseri giuocatori, se pure il più delle volte non gettavansi nell’unghie del diavolo, cioè d’uno strozzino che rubbava l’anima e il corpo. E non vi pare il Diavolo un simbolo bene immaginato dello strozzino? Le virtù di Fr. Niccolò Tini o del Balzetti sono miracoli sì ma della fede religiosa di quei tempi, mentre il risorgimento dell’impiccato è mirabile ma non miracoloso. Rifletterà ancora il lettore, che molti Assempri sono come suona il nome, paragoni ed esempi, ma non miracoli neppure per lo scrittore, o almeno pure accidentalità travedute per dispensazioni divine.

Io non ho parlato fin qui se non per [p. xxiv modifica]dare ragione di qual sia il pensiero che dirige la compilazione di questa Senese Antologia. Un’opera di letteratura, ma non inutile al cuore de’ lettori, e non contraria al progresso della storia e della civiltà della nostra Patria.

Racchiudendoci nei confini di una raccolta di cose vecchie, non indifferenti a sì nobile scopo, e confessando che queste, avvegnachè tenui, sono le forze che possiam consacrare alla Patria, i Lettori converranno che ci contentiamo d’una gloria modesta.

Siena, 30 Giugno 1864.

D. C. F. Carpellini.

Note

  1. V. nota (A)
  2. V. nota (B)
  3. Abitazione degli Agazzari fu la casa ora Lismi in Camullia.
  4. V. nota (C).
  5. V. nota (D).
  6. Questo assempro ha diversa paginatura della Esposizione; è certo dunque, che vi è stato aggiunto.
  7. Intendo dire dei proverbi e degli strani vocaboli, e di quelli dei quali non ho saputo trovare origine che nei Trovatori. Io credo che non dai Trovatori ne vengano, ma che a comune con loro fossero nella nostra lingua, e che rimanessero nel popolo assai lungamente. Ma di questa comunanza non è da parlare ora. Bisogna ancora notare che gli Assempri di fra Filippo hanno una originalità incontrastabile. Solo l’Assempro 5 ha qualche somiglianza all’esempio di Grigorio nel Cavalca, e il 61 ne somiglia uno del Passavanti. Del resto questa originalità gli viene dall’avere Egli raccontato sempre fatti contemporanei, attinti dalla viva voce degli uomini, o da racconti di vecchi molto vicini ai fatti accaduti.
  8. Liscio era chiamato il belletto col quale si sono le donne dipinte sempre, ad onta di questi esempi, fino alle nostre nonne. Il lisciare è il friser dei francesi ch’ebbero la stessa usanza sotto questo nome; e lo serbano adattandolo alla coltura del capo, che sarebbe pettinare o coiffer. Perciò dico che quando ancora fra noi leggo su per i cartelli delle botteghe lo strambo vocabolo Frisore o frisare, ho da intendere che ivi sta un Lisciatore, o che ivi si liscia.