Delle antiche Relazioni fra Venezia e Ravenna/Capitolo I
Questo testo è completo. |
◄ | Introduzione | Capitolo II | ► |
Capitolo I.
I. Se percorrendo le popolose lagune dell’Italia orientale taluno fosse venuto tra’ Veneti ed i Ravennati al tempo della repubblica romana, avrebbe trovato tanta somiglianza di luoghi e tanta conformità di costumi, che per avventura sarebbe stato condotto a presagire che queste due genti erano destinate a sperimentare le medesime sorti e forse a confondersi in un popolo solo. E pur non fu vero. Ravenna crebbe assai prima tosto che i Romani l’adornarono e l’arricchirono nella prospera loro fortuna, per afforzarla poscia e farla metropoli nella paurosa incertezza della calata dei barbari. Odoacre vi apportò novelle genti, Teodorico la reggia dei Goti, e da ultimo con l’Esarcato tutto lo splendore rimasto al nome imperiale si raccolse nelle sue mura. - Ma intanto per lo accrescimento di Ravenna s’erano andate lentamente trasformando le arti ed il modo di vita dei Veneti, i quali mano mano indirizzatisi a cose maggiori, si mantennero amici al governo dei Greci e propugnatori della grandezza di Ravenna, la quale, strappata a viva forza di mano ai Longobardi, restituirono all’impero, che la vicinanza della sede dell’Esarcato mirabilmente giovava ai loro commerci così in Italia come in Levante. - Ma poichè ad onta de’ loro sforzi l’Esarcato venne meno e non parve possibile di poterlo ripristinare, i Veneziani temettero forte che Ravenna, ch’era stata città imperiale, non divenisse metropoli di un novello regno d’Italia e quindi pericolosa vicina. Prevedevano già che chiunque avesse regnato in Ravenna avrebbe per prima cosa tentato l’acquisto delle lagune dei Veneti, sì che i loro bene avviati commerci sarebbono senz’altro venuti meno. Ed in questo timore si confermarono quando, rinnovato l’impero, videro Pipino figlio di Carlomagno regnare in Ravenna, ed Ottone riedificarvi il palagio imperiale. Ond’è che incominciarono a travagliarsi per spogliarla e deprimerla, come prima s’erano tanto in pace ed in guerra adoperati a proteggerla.
Dei tempi nei quali i Veneti si brigavano di mantenere Ravenna nell’alto suo stato ho discorso nella introduzione, ed in questi capitoli verrò ragionando di quelli nei quali continuarono a contrastarla sinchè non l’ebbero in piena balìa. Imperocchè è cosa nota ad ognuno come lo splendore di Ravenna fondato sulle ricchezze altrui cioè su quelle dei Romani tosto rivolte a corruttela, sulle difese militari, sulla magnificenza della corte dei Goti e sulla autorità degli Esarchi, in breve tornò a niente, mentre quello di Venezia ch’ebbe origine nel lavoro, no’ traffici, nella virtù dei cittadini medesimi, lunghissimamente si mantenne. E di vero leggendo nelle istorie di queste due città, si veggono i Veneziani temperare di continuo l’ardire con l’accortezza, e la perizia dell’arte della guerra anzichè al soddisfacimento di vana ambizione di dominio, rivolgere a guarentigia dei commerci e dei frutti dell’arti della pace, più che a goder del presente solleciti ad apparecchiare maggiore agiatezza ai figliuoli ed a farli eredi di prosperevoli anni. Ma per contrario ti par di vedere i Ravennati procedere nei tempi camminando quasi a ritroso, intenti solamente a compiacersi nelle antiche memorie ed a rimirare le reliquie della grandezza dei loro antipassati, delle cose presenti menando interminabil querela.
Ora io spero che non sarà vana fatica il porre in maggior luce le relazioni che ebbero insieme queste città così disparate nell’indole e nella fortuna, che le loro istorie più chiaramente dell’altre pare ne possano dire
«Perchè una gente impera e l’altra langue».
II. Delle condizioni dei Ravennati e delle mire costanti dei Veneziani, fanno fede le Concordie ovvero i Patti (che verremo esponendo a suo luogo, e sono pressochè tutti sconosciuti ed inediti) coi quali essi vincolarono a vicenda i loro liberi Comuni sino da’ primi anni del secolo terzodecimo: con altri documenti di varia maniera si possono dichiarare i tempi anteriori. E noteremo in prima come sin dall’ottavo secolo, caduto il governo greco, i Veneziani non trovarono vicino che loro piacesse. Non volevano in Ravenna nè Longobardi nè imperatori franchi; non trattarono sempre d’un modo gli imperatori tedeschi ed adoperandosi a dominare le cose ravennati, non ebbero pace sinchè la città non fu loro soggetta. E questi loro novelli modi ebbero forse principio con violenze private, le quali dovettero divenire assai frequenti e portare gravi danni, poichè si legge nell’Agnello1 che nell’anno 768 Primo accordo coi Veneti. l’arcivescovo Sergio fece un trattato coi Veneti perchè nulla gli avvenisse di male. - Conjunxit foedus cum Veneticis ut ne deterius quid ei contigerit. Secondo alcuni storici, i Veneziani furono così esperti nello stringere questo trattato che per esso ebbero modo di comandare in Ravenna più che mai.
Non è poi chiaro come il potere e la signoria civile degli arcivescovi vi andasse allora distinta e congiunta con quella dei Longobardi, ma è manifesto che era assai forte e rispettata e che ultimamente erasi rinvigorita per l’ossequio che gli Italiani, portarono agli ecclesiastici, tanto maggiore dopo le contese con l’imperatore iconoclasta così saggiamente da papa Gregorio II capitanate e temperate. Potremmo aggiungere della forza d’uomini d’arme, del dominio di terre e di castelli, che aveano gli arcivescovi ravennati, e come molti di essi superbi del titolo d’esarchi; chiamati pure pontefici e cinti di canonici e di abati col nome di cardinali non volessero piegare il capo al Papa Romanus2.
Ma già la somma delle cose d’Italia era fra le mani do’ papi e dei re Franchi, i quali lungamente cospirarono insieme a’ danni dei Longobardi. - Fra i documenti Documenti ravennati del tempo dei Longobardi rimasti di questa età che riguardano il nostro tema, evvi una lettera dell’anno 739, nella quale Gregorio III significa a Carlo Subregulo di Francia quanto di male abbiano fatto i Longobardi in quel di Ravenna ai possedimenti di S. Pietro.
A questa lettera sono aggiunte altre molte, le quali sebbene scritte da diversi pontefici hanno uguale linguaggio, aspro pe’ Longobardi, lusinghiero e carezzevole pe’ Franchi. - Nella prima Gregorio scrive: «Sono afflittissimo nel vedere la Chiesa abbandonata da que’ figliuoli nei quali avevo maggiore speranza di aiuto». - «I Longobardi ci affliggono nelle parti di Ravenna, e nessun conforto e ci è venuto da te. Temo forte che le false suggestioni loro trovino maggior fede appo voi che le nostre parole di verità: e temo che tu per questo cada in peccato. Nella reggia dei Longobardi si ode intanto ripetere per nostra confusione: Oh venga Carlo, al quale avete avuto incorso, vengano gli eserciti dei Franchi, v’aiutino se possono, vi liberino dalle nostre mani». E più sotto: «Manda un messo fedele e non corruttibile per doni, che vegga co’ suoi occhi le nostre miserie. Non esser sordo alle mie preghiere, acciò che il principe degli Apostoli non ti chiuda il Regno dei Cieli»3.
Due anni dopo (741) il re Liutprando, il pontefice Gregorio, Carlo Martello e l’imperatore Leone Isauro passarono di vita, sì che gli attori di questo gran dramma si ritrovano tutti mutati, e nuove mutazioni addivennero pure in Francia ed in Italia nell’anno 751. Che finita colà pel rifiuto di Childerico la regale schiatta dei Merovingi, successe quella de’ Carolingi, ed i Longobardi, pur non osando di offendere Venezia tanto’ cresciuta, si insignorirono dell’Istria da una parte e dall’altra di Ravenna, che per poco tempo divenne capitale del regno longobardo. E per questo in una conferma fatta da re Astolfo alle largizioni di Lupo duca di Spoleto al monastero di Farfa, si legge: Datum jussionis Ravennae in Palatio, IV die mensis Iulii anno felicissimi regni nostri III4.
Un documento che il Fantuzzi riporta dal Codice Trevisano e che è intitolato: Pactum sive promissio facta per Pipinum Patritium Stephano secundo Pontifici, nella lunga enumerazione delle città e provincie che si promettono al papa, pone: Exarchatum Ravennae sine diminutione et Ducatum Venetiarum5.
I Veneziani rivelano i disegni dei Greci sopra Ravenna. E nell’anno 761 Paolo I scrive a Pipino comunicandogli lo lettere che Leone imperatore iconoclasta avea dirette da Costantinopoli a Sua Santità l’arcivescovo di Ravenna per nome Sergio, acciocchè esso Pipino potesse conoscere quanto perfidi consigli vi si contenessero e da quali pericoli fosse minacciata la Chiesa. «Vi mando ancora» aggiunge «un esemplare di una lettera secre- tamente scritta all’arcivescovo Sergio da alcuni fedeli veneziani, e quelle del predetto arcivescovo a noi, acciocchè siate persuaso che bisogna subito comandare al re Desiderio di prestare aiuto quando mai occorra a Ravenna ed alle città marittime della Pentapoli»6.
Tanto mostra come i Veneziani, che pe’ loro commerci usavano di frequente nei porti del Levante, ben sapessero quanto allora macchinavasi in Costantinopoli pel riacquisto di Ravenna e dell’Esarcato. E sebbene sia da credere che i più fossero favorevoli alle mire del governo imperiale, nondimeno v’ebbe chi o per vendicarsi di privala ingiuria o per amicizia all’arcivescovo Sergio, rivelò cautamente i secreti disegni di quella corte. Nell’anno seguente si accrescono i medesimi timori, ed il papa in una lettera a Pipino si mostra ognor più benevolo verso il re Desiderio, col quale dice di avere fissato un convegno a Ravenna per vedere come difenderci dalla malizia dei Greci che ogni giorno minacciano di rientrare in quella città7.
Così l’imminente pericolo del ritorno dei Greci in Ravenna avea fatto accostare i papi ai Longobardi, i quali, perchè più vicini, era da sperare che potessero più prontamente e più efficacemente difenderla.
Il Codice Carolino contiene poi qualche lettera di papa Adriano I a Carlomagno dove si tocca di cose ravennati. Ve n’ha una dell’anno 774 la quale è tutto un lamento contro Leone arcivescovo di Ravenna:
Lamenti dei papa contro Leone arcivescovo di Ravenna. «Abbiamo saputo» egli dice, «che quel protervo ed arrogantissimo Leone arcivescovo di Ravenna ha mandato nostro malgrado i suoi messi all’Eccellentissima Benignità Vostra per esporre cose falsissime. Ma sappiate, re grande ed eccellentissimo, che appena l’Eccellenza Vostra si partì di Pavia alla volta di Francia, ribellatosi a noi, si è impadronito di Faenza, di Forlimpopoli, di Forlì, di Cesena, di Bobbio.... del ducato di Ferrara, d’Imola e di Bologna, dicendo che l’Eccellenza Vostra gli ha concedute queste città insieme a tutta la Pentapoli. E per tutta questa ha inviato Teofilatto suo messo ad annunziarlo per toglierla alla nostra obbedienza; ma quei popoli non hanno voluto cessare dal servire al beato Pietro, ed a noi.
«Nondimeno ritenendo in suo potere le suddette città dell’Emilia, questo nefando arcivescovo ha scacciati i nostri uficiali e di nuovi ne ha nominati, e così la Chiesa è umiliata e noi impoveriti e spregiati, mentre che gli emuli del vostro e del nostro potere si adoperano di sottrarre al nostro dominio quello di cui eravamo padroni al tempo dei Longobardi.»
«Per questo noi siamo insultati da molti nostri nemici, che ci dicono: Che vi ha giovato che la stirpe dei Longobardi sia stata abolita e soggiogata dal regno dei Franchi? Ecco che già delle cose promesse nessuna fu mantenuta, e per di più ognuno sa che quanto è stato per lo innanzi conceduto al beato Pietro dalla santa memoria del re Pipino, tutto è stato tolto. Il nostro predecessore inviò da Roma a risiedere in Ravenna quei’ giudici che facevano ragione a tutti coloro che riceveano offesa, (vim patientibus) e questi furono allora il prete Filippo ed il duca Eustachio; e se la Cristianissima Eccellenza Vostra vuole conoscere pienamente il vero, si degni di chiamare e interrogare l’anzidetto Filippo arcivescovo»8.
Questo passo è assai notevole come quello che apertamente dichiara che in questi tempi la giustizia era amministrata in Ravenna da due giudici papali ed inviati da Roma, l’uno cherico, l’altro laico; e questo conferma l’opinione del Troya che in sul finire del secolo ottavo i papi governassero Ravenna, ma i re Franchi ne tenessero l’alto dominio.
Nell’anno seguente (775) il papa indirizza all’imperatore una seconda lettera sullo stesso argomento nella quale gli ricorda la promessa avuta di ricevere suoi messi, nell’autunno, i quali avendo aspettati indarno per tutto il settembre, l’ottobre ed il novembre, ha mandate lettere ai giudici imperiali che stavano a Pavia per saperne qualcosa, e questi gli hanno risposto che nessun messo dovea partire per Roma. Laonde si risolve di mandargli una ambasceria per significargli l’amore che porta a lui ed alla famiglia sua, e lo prega a credere quanto gli ambasciatori medesimi gli direbbero a viva voce. Segue una lunga aggiunta: Embolum de protervia Leonis archiepiscopi, dalla quale si rileva che in questo frattempo l’arcivescovo ravennate era stato alla corte di Francia e tornatone più superbo e più ribelle di prima, tuttora si manteneva a viva forza (brachio forti) in Imola ed in Bologna, dicendo che queste città erano state date a lui e non già a San Pietro nè al papa, ed un conte da esso papa nominato a capo di una città avea condotto prigione in Ravenna9.
III. Poco sappiamo sopra questo Leone, giacchè, per mala ventura, della vita che ne scrisse l’Agnello rimangono soltanto pochi cenni. Giova però ricordare come alquanti anni prima, essendo egli ancora diacono, grande sconforto invase tutto il clero ravennate alla novella che papa Stefano reduce dal suo viaggio in Francia sarebbe passato per Ravenna, dicendo i preti fra loro: Costui viene per scrutare i tesori e per spogliare tutte le chiese. Erant Inter eos incommoda verba, dice lo storico, volendo significare nel suo barbaro latino che andavano maturando inique proposte. E tenuto consiglio, vari erano i pareri: gli uni dicevano: Non potremo salvar nulla, e gli altri: Bisognerebbe vedere come strozzarlo e soffocarlo. Allora levatosi questo Leone diacono e vicario dell’arcivescovo, così disse ai sacerdoti: Quando il papa romano avrà, cominciato a metter le mani nei tesori, chiamiamolo in disparte come per fargli vedere qualche cosa, ed allora precipitiamolo, affogherà nell’acqua e non comparirà più. Fu accettato l’iniquo consiglio, ed alcuni tenendola cosa per fatta, pensavano già come giustificarsi dalla colpa.
Ma riferite queste cose ad Enrico arcidiacono, corre all’arcivescovado: i sacerdoti sorpresi nel discutere tale macchinazione al suo comparire si tacciono, ed egli battendo le mani esclama: Ma che follia meditate voi? Lasciate partire il papa sano e salvo e non vi macchiate le mani di sangue; piuttosto credete a me, quando verrà la notte i Romani saranno sepolti nel sonno e nel vino, e senza che il vescovo nostro lo sappia, nascondiamo quanto più si può. Aperto poscia il luogo del tesoro lasciamo prendere al papa romano quanto gli aggrada. Piacque la proposta. Al papa che giunse nella notte i custodi delle chiese portarono tutte le chiavi ed apersero tutte le porte, ed egli prese quelle reliquie che non si erano potute nascondere, più nove bilancie cariche d’oro e molti arredi d’oro e d’argento. I cittadini, risaputa la spogliazione, volevano assalire il carro che portava i metalli preziosi, ma non osarono di farlo. Papa Stefano ottenne poi che fossero mandati a Roma tutti coloro che aveano voluto metterlo a morte in Ravenna. E costoro mandati colà furono messi in carcere e poscia uccisi. Ma il diacono Leone, secondo che pare, scampò solo dalla morte e divenne arcivescovo. Non trovo poi come Carlo sedasse la lite tra lui ed il papa sul dominio delle città occupate: il Codice Carolino riporta un’altra lettera di papa Adriano al re, nella quale lo prega di non far buon viso ai messi di Eleuterio e Gregorio che gli impedivano di amministrare la giustizia in Ravenna, e perfino nelle ’chiese commettevano omicidj, ma dell’arcivescovo non fa motto10.
Ma la prima radice di questa contesa fra il papa e l’arcivescovo stava, a mio credere, in questo fatto. Quando Carlo condusse l’esercito in Italia nell’anno 773, una parte ne mandò pel monte San Bernardo, ed egli stesso guidò l’altra pel Cenisio e la Novalesa. Giunto che fu alle Chiuse fra il monte Caprario ed il Picheriano, sul quale ancor oggi s’inalza il monastero di San Michele, s’imbattè nelle fortezze erette dai Longobardi i quali sì fieramente gli contrastarono il passo che, disperando ormai di potere entrare in Italia, apparecchiavasi Carlo a proporre non so quali condizioni di pace, quando quel Leone arcivescovo di Ravenna, del quale abbiamo parlato di sopra, risaputa la cosa non si sa come ne dove, gli mandò un suo diacono per nome Martino, il quale mostrò una via per lo gole indifese di Giaveuo intorno al monte Picheriano. Così i Franchi poterono entrare nei piani di Torino e presero alle spallo i Longobardi in quei campi che per la grande uccisione che allora fu fatta, anche al dì d’oggi sono detti di Mortara.
Ora il leggere nelle lettere di papa Adriano che Leone diceva avergli Carlo concedute le città della Pentapoli, il vedere Leone andare in Francia, e tornato perseverare nelle antiche pretese adducendo le medesime ragioni, mi fa credere che veramente stretto fra i pericoli, Carlo avesse fatte all’arcivescovo ravennate concessioni o promesse che poi non trovò forse modo di riconoscere e mantenere. E mi conferma in questa opinione il vedere quel diacono Martino ch’era stato guida all’esercito di Carlo, essere poi fatto arcivescovo di Ravenna, ed appena eletto mandare in Francia un’ambasceria, della quale non apparisce altro fine che quello di fare omaggio all’imperatore che memore del salutare consiglio di Martino la accoglie con ogni benevolenza. Morto Carlomagno, Martino è chiamato a Roma. Quetamente sì parte da Ravenna, ma venutogli poi il sospetto che qualche gran pericolo non gli sovrastasse a Roma, si ferma dopo quindici miglia di viaggio, fingendosi malato così da non poter cavalcare.
Tanto narra l’Agnello, il quale aggiunge che questo Martino era tanto grande della persona che nella mano sinistra teneva duecento soldi d’oro.
Tali memorie congiungono l’istoria di Ravenna alle imprese di Carlomagno11, il quale nominando nel suo testamento le metropoli d’Italia dice: Nomina vero metropoleorum ad eadem Eleemosina sive largitione facienda haec sunt: Roma, Ravenna, Mediolanum, Forum Julii (Aquileia). Così l’Eginardo.
Carlomagno ed i Veneti. IV. Carlomagno ebbe dapprima co’ Veneti relazioni amichevoli, e le loro navi erano accorse all’assedio di Pavia, se non per combattere in favore di Carlo, almeno per trasportare le vettovaglie dei Franchi.
Circa questi tempi i Veneziani vendevano le loro merci così ai Longobardi come ai Franchi senza cercare altro fine che quello di far buon guadagno, e la varietà dei popoli e degli eserciti da’ quali era afflitta l’Italia, tornava forse a vantaggio de’ loro commerci. Accorrevano alle città, alle fiere, agli accampamenti, e con le ricche e sontuose merci dell’oriente faceano stupire i barbari tutti.
Così nell’anno 776 avendo portato a Pavia una grande quantità di vesti seriche tutte ricamate ad oro e risplendenti di vivacissimi colori, i Franchi ne comprarono in gran copia. Ma Carlo, tuttochè fosse il più grande propugnatore della civiltà, era alienissimo da que’ molli costumi che essa suole ingenerare, ne il commercio de’ Veneti piacevagli gran fatto; simile a quegli antichi Galli debellati da Cesare che cacciavano dai loro confini i mercanti di vino e di tutte quelle cose che temevano potessero affievolire gli animi. Si legge nella cronaca Sangallese che trovandosi Carlo nel Friuli un dì di festa nell’anno 776, per più efficacemente persuadere i suoi a ritornare all’antica’ semplicità di costume, chiamò i cortigiani per andare alla caccia, e questi comparvero con vesti di abbaglianti colori e risplendenti di ricami d’oro che i Veneziani aveano recato dall’oriente e vendute loro a gran prezzo. Carlo vestito di pelli conce di castrato secondo l’usanza germanica12, nè per la pioggia nè per lo impedimento degli spini si ristette dal cacciare tulio quel giorno, e la sera essendo grandissimo il freddo, si riscaldava co’ suoi intorno ad un gran fuoco. La mattina seguente rivestì le sue pelli e volle che tutti comparissero con le vesti del giorno innanzi.
E vedendo queste tutte scolorite per la pioggia, lacerate dagli spini, guaste dal fuoco, disse ai cortigiani: «Or guardate se più utile e preziosa veste sia la mia la vostra. Ecco che quella che io porto è tuttora quale era, e queste vostre che a sì caro prezzo comperaste da questi Veneziani non servono più a nulla».
Così Eginardo ci narra che egli non volle mai deporre le vesti germaniche. «Portava sempre le vesti de’ suoi padri, le vesti dei Franchi. Dispregiava, per quanto ornati si fossero, gli abbigliamenti degli stranieri e non sofferiva che i suoi li adoperassero. Due sole volte ne’ varj soggiorni che fece in Roma, prima per le preghiere di papa Adriano, poscia ad istanza di Leone suo successore, condiscese a vestire la lunga tunica, la clamide ed i calzari romani».
Non dovea essere adunque Carlomagno per sua natura troppo inchinevole a favorire i commerci dei Veneziani, e poco a poco si andò mutando in loro nemico, dopo che Fortunato patriarca di Grado, profugo dalla patria per avere cospirato contro al doge Giovanni, e quanti Veneti erano scontenti o traditori della patria, si rifugiarono alla sua corte ed a quella di Pipino suo figliuolo che avea fatto Ravenna capitale del regno d’Italia. E da costoro Carlo fu persuaso che i Veneti, siccome amici e sudditi fedelissimi dell’imperatore d’Oriente, odiavano il regno de’ Franchi e ne procuravano la rovina, che a null’altro erano intenti che al commercio di derrate, per cui i popoli erano affievoliti e corrotti, ed al traffico nefandissimo degli schiavi cristiani. E Carlo volendo indebolire i Veneti e porre un termine al loro ingrandimento, comandò a papa Adriano di cacciare quanti mercanti veneziani si trovassero in Ravenna ed in tutte l’altre terre della Chiesa; ed Adriano scrivendo a Carlo di avere obbedito al comando, dice: Mercanti veneti cacciati di Ravenna da Carlomagno. Quia dum vestra regalis et triumphalis Victoria precipiendum emisit ut a partibus Ravennae seu Pentapoleos expellerentur Venetici ad negotiandum, nos illico in partibus illis emisimus vestram adimplentes regulam et voluntatem. Insuper et ad archiepiscopum praeceptum direximus ut in quolibet territorio nostro et Jure sanctae Ravennatis Ecclesie ipsi Venetici presidia atque possessiones haberent omnino eos exinde expelleret et sic ecclesiae suae jura manibus suis teneret13.
E questo era contro i Veneziani nuovo ed acerbo modo di guerra. Usati sino dal tempo dei Goti a trattare in Ravenna la maggior parte de’ loro commerci, non potendo ora più profittare della ricchezza della città, si giovavano della sua debolezza, ed i mercanti per numero e per ricchezze potentissimi faceanvi impunemente ciò che piii loro piaceva. Già gran parte del contado di Ravenna che si stendeva verso il Po era stato comprato, occupato, usurpato forse in più luoghi dai Veneti che vi teneano presidii e stabilimenti. Nella città medesima da dugent’anni in poi, dal 600 incirca, vi aveano stabilito botteghe e taverne.
Ma contro al comando di Carlo nulla valse; i banchi, i magazzini furono chiusi, le merci tolte, e i mercatanti, dimenticati gli intrapresi negozj, scomparvero tutti.
N’ebbe allora Ravenna notevole danno o un poco di pace per esser libera da questi oltrepotenti? Ciò non apparisce in nessun modo.
Impresa di Pipino. Venezia sorge. V. Intanto il re Pipino, posta in Ravenna la capitale Italia, si brigava di accrescerla e di ricondurla a’ gloriosi tempi di Teodorico. E vedendosi signore di tanta parte del lido Adriatico, venne in pensiero di mostrarsi degno del padre e di accrescere il novello regno togliendo l’Istria all’imperatore Niceforo.
Ma per questo era necessario l’aiuto dei Veneti, poco benevoli verso i Franchi dopo essere stati cacciati di Ravenna e nimici di chiunque crescesse loro vicino. E s’accese quella guerra nella quale sempre avanzandosi il naviglio dei Franchi, come Temistocle all’avvicinarsi di Serse condusse i cittadini nell’isola d’Egina e lasciò ai Persiani le sole mura di Atene, così il doge Partecipazio abbandonato a Pipino il deserto lido di Malamocco, raccoglie i Veneti nell’isoletta di Rialto; la bassa marea fa immobili le navi di Pipino e giova alle navicelle de’ Veneziani che le assalgono d’ogni lato, e per la grande uccisione de’ Franchi rimane il nome di Canal Orfano al luogo del combattimento. Con i pochi legni che gli rimangono sconquassati e scarsi di gente, Pipino ritorna a Ravenna, e la città tutta è in pianto al vedere quanti de’ nobili giovani saliti in sulle navi erano rimasti nella giornata di Rialto affogati ed uccisi. Fu questa rotta di Pipino l’anno 803. Nell’810 fu conchiusa pace fra l’imperatore Niceforo e Carlomagno per cui Venezia dovea rimanere soggetta a Costantinopoli. Qual fosse il modo e la misura di tal soggezione non è facile il dimostrare; per essa certamente Venezia non fu schiava, ed i suoi traffici la legavano per modo col Levante che a Costantinopoli piuttosto che a Roma o a Ravenna o ad Aquisgrana volea riconoscere il suo signore.
E da qui innanzi stabilitosi il convegno principale, raccolti i più ricchi dei Veneti intorno a Rialto, il nome di Venezia acquista il suo novello significato, che fu proprio di quella famosa e straordinaria città che surse dopo che un naviglio uscito di Ravenna e difeso in gran parte da nobili ravignani ebbe messi in fuga gli abitanti di Malamocco.
Di alcune somiglianze fra Carlomagno e Napoleone
VI. I Veneziani potrebbero dire tutta la loro istoria compresa fra i nomi dei due maggiori uomini dell’età di mezzo e della moderna: quello cioè di Carlomagno, che contrastando la loro crescente potenza cagionò la fondazione della loro città e della loro grandezza politica, e quello di Napoleone che tolse loro il libero reggimento con non più veduto esempio serbato per tanti secoli e fra tanto diverse fortune. E questo fatto, pel quale quasi fra due termini sta rinchiusa la storia di Venezia, ci fece assai meditare su quei due massimi uomini, e d’un pensiero in un altro ci parve di trovare alcune somiglianze fra loro.
Già e nel rinnovellato nome d’imperatore e nelle insegne imperiali, e più nell’assumere il Consolato il dì che segnava l’anno millesimo della incoronazione di Carlo, Napoleone mostrò di compiacersi imitandolo e ripetendolo in se medesimo, ma anche la fortuna sembra essersi, in tanta diversità di tempi, dilettata a metterlo ne’ medesimi casi.
E chi mai, leggendo che Carlomagno ha valicate le Alpi con l’oste de’ Franchi, ma allo scoprire le fortezze dei Longobardi che non vogliono dare il passo è quasi per rinunziare all’impresa finché ammaestrato di una novella via, entra in Italia e corre alla vittoria di Mortara, non ripensa a Napoleone fermo con l’oste francese dinanzi al forte di Bard che può render vano tutto il travaglio del viaggio, sinché scoperto il passo pel monte Albaredo entra esso pure in Italia e corre alla vittoria di Marengo?
Le pianure d’Italia, i campi della Germania li videro entrambi vincitori, e vinti entrambi la Spagna. la in questi particolari il parallelo non si può mantenere e non ha significato. Notevole fatto è piuttosto questo che entrambi dettero l’esempio dei divorzio14.
E per nostra mala ventura si assomigliarono ancora nello spogliare le città d’Italia dello più preziose opere a 1 a 2 a 3 d’arte, e nella brama di adornare la loro metropoli co’ più famosi lavori della civiltà italiana.
Chè venuto a Ravenna, Carlo stupì alla vista della statua equestre di Teodorico, confessò di non aver visto mai nulla di più meraviglioso, e nel partirsi volle portarla al suo palazzo in Aquisgrana. Si narra che Carlo, costretto dalle ribellioni de’ Sassoni ad affrettare molto il suo viaggio, la lasciasse a Pavia, dove lunghissimamente rimasta, fu poi creduta portata da Liutprando dopo la presa di Ravenna. Ma parmi più attendibile il racconto e la descrizione dell’Agnello, il quale scrivea soltanto trentotto anni dopo che la statua era stata levata. E per aver detto che gli uccelli facendo il loro nido nel ventre uscivano per le narici e per la bocca del gigantesco cavallo, prevede la incredulità dei posteri ed aggiunge: Qui non credit sumat Franciae iter et eum adspiciat. Era monumento greco destinato prima a rappresentare l’imperatore Zenone e poi ridotto a raffigurare Teodorico. Non contento di questo, Carlo dimandò al pontefice licenza di spogliare dei musaici e dei marmi e dell’altre cose poste sul pavimento e sulle pareti il palagio di Teodorico. E con sua lettera dell’anno 784, papa Adriano gli concede libenti animo et puro corde cum nimio amore vestrae Excellentiae di esportare dal palazzo tutti quei musaici e que’ marmi che gli piaceranno, poichè per cagione del suo valore la Chiesa godeva di molti beni.
Aggiunge poi che de’ due cavalli mandatigli in dono per il suo messo, uno solo è giunto servibile (utilem), poichè l’altro mandato insieme era morto per via. E nel ringraziarlo lo prega che secondo l’affetto che li lega gli mandi altri famosissimi cavalli: tales nobis famosissimos emittite equos qui ad nostram sessionem facere debeant, in ossibus atque plenitudine carnis decoratos, qui dum in omnibus adspectibus laudabiles exsistant, vestrum prefulgidum triumphis laudare valeant nomen ec. 15, con che viene a dire: Mandatemi due cavalli, tali ch’io possa cavalcare, di buona ossatura e così grassi e ben nutriti, che lodevoli in ogni loro parte compariscano degni del glorioso vostro nome. Questo può far credere che il cavallo giunto vivo fosse così mal ridotto pel disastroso viaggio, che il papa non potesse montarlo nè volesse pubblicamente comparirvi sopra.
E questa familiare dimanda può essere argomento dell’amicizia, della dimestichezza nata fra Carlo e papa Adriano.
VII. Carlomagno era stato spada e scudo della civiltà cristiana contro ai Saracini che ritemprati dall’Alcorano minacciavano di insignorirsi di tutta l’Europa. E già, più d’ogni altro stato ne temeva l’impero Greco, che nello ingrandimento de’ Saraceni vedeva forse la sua futura rovina, e sentendosi di dì in dì venir manco, chiedeva aiuti a quella giovine e crescente repubblica ognora piìi ricca e fiorente che nella varia fortuna avea tante volte sperimentata fedele, ed in guiderdone dell’aiuto accordava privilegi sempre maggiori a’ suoi mercatanti ed ai suoi dogi oziosi titoli di corte. Così quello di Protospatario parve al doge Tradenigo degnissimo premio per l’accorrere che fece con sessanta galere in aiuto all’armata greca contro i Saraceni.
- «Contrari ai voti poi furo i successi,
- «Che in fuga andò la gente battezzata»
E la sanguinosa disfatta dei cristiani nell’acque di Crotone l’anno 837, è rimasta pel rammentarla che fanno tutti gli storici mestamente famosa.
Concordia fra i Veneziani ed i sudditi imperiali. Non è invece così agevole il ritrovare ricordato negli scrittori che sogliono aversi più facilmente tra mano, il patto stretto fra i Veneziani ed i sudditi dell’imperatore Lotario in Italia, Pactum Inter subditos Lotharii imperatoris et subditos Tradenici ducis Venetiarum, conchiuso nell’imperiale palazzo di Pavia il dì 24 di febbraio dell’anno 84016.
In esso Ravenna è nel novero di quelle città che il patto lega per cinque anni a Venezia. Forse l’alleanza così poco avventurata con l’imperatore d’Oriente spinse i Veneziani a cercare amicizia ed appoggio da Lotario imperatore d’Occidente. Infatti si legge che questa concordia fu conchiusa per cinque anni suggerente ac supplicante Petro gloriosissimo duce Venetiarum inter Veneticos et vicinos earum, cioè le città imperiali vicine a Venezia.
Questo è il più antico monumento che ci rimanga della diplomazia veneziana; in esso però si allude ad un altro accordo stretto in Ravenna con Lotario, e probabilmente nell’anno 823 (postquam pactum anterius factum fuit Ravennae), e violato poscia per la protezione data dall’imperatore a quanti andavano a far correrie nel territorio veneto, laonde nel presente trattato si promette la consegna dei fuggitivi.
Notevole è la enumerazione di quei vicini che erano compresi nel patto, i quali furono gli abitanti dell’Istria, del Friuli, quelli di Ceneda, di Treviso, di Vicenza, di Monselice, di Gavello17, di Comacchio, di Ravenna, di Cesena, di Rimini, di Pesaro, di Fano, di Sinigallia, d’Ancona, di Fermo, ec.
Nella commemorazione di tutti que’ paesi che si dichiaravano propriamente fermare il popolo Veneziano, primi sono nominati gli abitatori di Rialto, poi quelli di Olivolo, di Murano, di Malamocco, di Albiola, di Chioggia, di Brondolo, di Fossone, di Loredo e di Torcello. E qui, dopo una lacuna, è ricordata Cittanuova, Fine, Equilio, Cavole, Grado, Capodargine.
E si promette di dare nello mani ai Veneziani entro sessanta giorni chiunque facesse correrie nelle loro terre obbligandolo a rifare doppiamente il danno; e se a questo non si fosse riusciti, si promettono cinquecento soldi d’oro pro una quaque Persona quae ipsam malitiam perpetraverit.
Si promette poscia di restituire ai Veneziani, ove si fossero potuti trovare, alcuni loro facinorosi cittadini, i quali s’erano rifuggiti nelle terre dell’impero dopo l’altro più antico patto fermato a Ravenna. Dichiarano poi i Veneziani che d’allora innanzi non avrebbero più comperati nè venduti deliberatamente (scientes) cristiani nelle terre dell’impero per farli schiavi o per toglierli ai loro padroni e darli nelle mani dei pagani, e che avrebbero rimandati tutti gli schiavi che fossero stati trovati nei loro dominii (in Ducatibus nostris); sarebbero sempre sicuri gli epistolarii, gli ambasciatori ed i corrieri; i sudditi dell’imperatore non aiuterebbero mai i nemici dei Veneziani, anzi avviserebbero questi di quanto potesse macchinarsi contro di loro; ai Veneziani sarebbero lasciati i confini stabiliti fra il doge Pauluccio e Liutprando re dei Longobardi: lasciato libero il commercio (salvo quello dei cavalli) pagando il ripatico ed il quadragesimo sia il 2 ½ per cento. Così promettono i Veneziani di proteggere con le loro navi le città imperiali dai popoli, cioè dai corsari di Schiavonia. Si stabilisce che il furto commesso fra le parti assoggettate a questo patto sia compensato col quadruplo, restituito il servo l’ancella fuggitiva con tutte le cose portate: abbia un certo premio il magistrato che fa la restituzione, una multa gravissima quello che la nega.
Sono mantenuti i pedaggi per la navigazione dei canali e dei fiumi, la quale del resto deve essere libera siccome quella del mare per i sudditi di Lotario. In certi casi l’omicida deve accordarsi co’ parenti dell’ucciso, in altri pagare trecento soldi, se questi era uomo libero, soli cinquanta se era un servo. Cinquanta soldi si pagavano poi per le percosse date al libero, trenta per quelle inflitte al servo.
Si stabiliscono alcune norme per i depositi, le cauzioni e le pignorazioni, le quali sono sempre vietate sulle cose appartenenti alle chiese, tranne nelle cause coi sacerdoti a quelle addetti; e sotto pena di nullità e multa di 50 soldi sono vietate: 1.° sulle donne vergini o maritate; 2.° sulle mandre di cavalle; 3.° sulle frotte dei porci selvatici.
Succedono varie disposizioni che hanno riguardo a luoghi speciali, a boschi di dove i Veneziani potevano asportare i rami degli alberi, ma non i tronchi; ed il frammento (poichè manca la fine) termina condannando alla evirazione tutti coloro che secondo l’illecita usanza avessero fatto degli eunuchi, se pure non si riscattavano: a provare poi la propria innocenza richiedevansi dodici testimoni.
Così una grande salvatichezza e ferocità di costume rivela in questo trattato, dove troviamo le disposizioni della legge salica e longobarda che ancora vigeva in Italia, così nell’uso e nella forma dei giuramenti come nelle pene pecuniarie.
Molti liberi cristiani erano rapiti a tradimento; e venduti ai pagani passavano la loro vita in durissima servitù. Nè il trattato condanna per sè medesimi questi iniqui commerci; mira soltanto ad assicurare i sudditi dell’impero che tali violenze non avrebbero fatte i Veneziani nel loro territorio, e che scoverti i rei, quella Signoria li avrebbe puniti. Si ricordano le correrie dei pirati che tutto rendevano incerto e malsicuro: la giustizia offesa da un omicidio sembrava potesse essere soddisfatta con certa somma di danaro, e che l’uccisione, mutando la condizione della vittima, mutasse natura.
La donna parrebbe ancora tenuta in conto di cosa non di persona; nè si vede perchè sia equiparata specialmente alle cavalle ed ai porci selvatici. Si accenna alla evirazione siccome a cosa usitaia tuttoché illecita; a porvi riparo la legge ricorre al più antico e più irrazionale principio, a quello del taglione.
E questo mi conduce a far menzione di quel concilio di settanta vescovi che papa Giovanni VIII convocò in Ravenna il 1.° agosto dell’anno 877, per por fine alle contese col doge Orso Participazio, dopo che questi avea male accolto Dello, legato papale, mandato a comporle. Aveano queste incominciato quando Pietro Marturio, patriarca di Grado erasi rifiutato di consacrare a vescovo di Torcello Domenico Caloprini, abate già del monastero d’Aitino, appunto perchè erasi mutilato. Manifesto era il divieto dei sacri canoni, ma il doge persisteva nel volere convalidata quella elezione. Il papa, tentato ogni mezzo per persuaderlo, convocò il Concilio a Ravenna, dove i vescovi veneziani non giunsero se non quando era stato chiuso in fretta, e fra il timore delle vittorie dei Saraceni nelle parti meridionali d’Italia. Il pontefice corse ad affrettare la venuta ed i soccorsi di Carlo il Calvo, il Patriarca Marturio n’andò a Treviso, dove dopo un lungo negoziare col doge, stabilì che Domenico abitasse Torcello e godesse delle rendite del vescovado, ma non venisse consacrato che dopo la morte di esso patriarca. E così fu fatto. Al doge toccò poi la gloria di scacciare i Saracini da Grado e di pacificare in Venezia le cittadine discordie.
VIII. Difficile è lo affermare chi avesse la signoria di Ravenna in questi tempi, e fino a quanto e dove si estendesse la signoria dell’imperatore e del papa. Vediamo nell’anno 881 l’arcivescovo Romano, travagliato dalla tracotanza d’alcuni nobili, ricorre all’imperadore il quale vi manda certo Conte Alberigo forse come paciere: e il papa finallora di tutto inconsapevole s’accende d’ira contro l’arcivescovo che è poi scomunicato.
Contese sul possesso di Comacchio. L’incertezza del dominio traspare specialmente nella cessione di Comacchio che era soggetto a Ravenna: Lodovico II lo concede poscia ad Ottone d’Este, e questi al figliuolo Marino. Allora partono da Venezia ambasciatori per Roma, onde rappresentare al pontefice che se Comacchio dovea essere tolto a Ravenna ed all’esarcato, avrebbe dovuto aggiungersi a Venezia che lo bagnava con le sue lagune; concedesse adunque quella contea a Badoero fratello del doge. Ma come Marino seppe il fine del viaggio di Badoero, posta gente nella pineta di Ravenna, lo fece aggredire, e feritolo in una gamba, gli fa giurare che avrebbe dimesso ogni pensiero d’avere Comacchio, e di ricercare risarcimento o vendetta; e con questo lo lascia tornare a Venezia. Ma quivi il Badoero muore in pochi dì per la ferita; il doge Giovanni corre con grande naviglio a vendicare il fratello, e Comacchio è distrutta neir854.
Nell’anno 879 venne a Ravenna Carlo il Grosso coronato imperatore; e nel codice Trevisano si conserva il patto che a richiesta del doge Orso Participazio si stabilì fra i Veneziani ed i suoi sudditi in Italia18. È in tutto consimile a quello ch’io ho dichiarato di sopra.
Molti fatti portano a credere che l’autorità dell’imperatore prevalesse oramai in Ravenna a quella del pontefice: vediamo che nel 921 l’arcivescovo Onesto vi tiene un placito insieme ad un Olderico vassallo o messo di Berengario, e così nelle carte degli anni che seguono trovasi prima posto il nome dell’imperatore regnante, poscia quello del papa. Adalberto fa capitale Ravenna. Ad ogni modo certo è che Ravenna fu Capitale del regno di Adalberto circa la metà del secolo decimo.
Erano allora i mercanti veneziani, scacciati già da Carlomagno per mezzo di papa Adriano, ricomparsi in Ravenna, e per le loro ricchezze e per la cresciuta autorità del nome veneto n’erano quasi signori. È vinto dai VenezianiAdalberto li volle assoggettare a fastidiose leggi ed a novelli gravami, e per questo inimicatosì con la repubblica, toccò una gran rotta, della quale mi duole non saper ritrovare i particolari.
Ma sebbene sì crudelmente domati nell’854, i Comacchiesi non posarono mai, e per odio de’ Veneziani favorirono le parti di Adalberto e quelle de’ Ravennati loro antichi signori; infelice proposito per cui ebbero la loro città cosiffattamente distrutta dal ferro e dal fuoco dei Veneziani, che solo una piccola terra potè risorgere e mantenere il nome dell’antica e popolosa città.
I Ravennati accolgono Pietro Badoero profugo che fu poi il doge Pietro Candiano IV. IX. Circa questo tempo la storia di Venezia ha un singolare anello con quella di Ravenna per l’esilio e le vicende di Pietro Badoero. Il quale, associato al governo secondo il malcostume di questi antichi dogi, da quel savio ed avventurato principe che fu Pietro Candiano suo padre, volse l’animo al mal fare e venne in odio a tutti i buoni; ma sicuro dell’aiuto di quanti malvagi avea in Venezia, perdurò nelle scelleratezze infine a che passata ogni misura, fu preso dal popolo, posto in ceppi e condannato nel capo: ma per la pietà del vecchio padre la pena capitale ebbe poi commutata in quella del perpetuo bando. Allora Pietro Badoero riparò a re Berengario, ed aiutatolo nella guerra contro la Marca spoletana, chiese licenza di vendicarsi dei Veneziani, e per questo sen venne a Ravenna, che inasprita dalla rovina della sua fedele Comacchio (935) faceva buon viso a quanti venivano da Venezia malmenati e scontenti.
Infatti al Badoero sono aperte le braccia, è accolto con onori quasi regali, trattenuto ed aiutato con generale benevolenza. Egli poi, per non passare inerti i giorni dell’esilio, armate alcune navi si mise per l’Adriatico, e veneziano e figlio del doge, assaliva e rubava le navi de’ suoi concittadini, dilettandosi del nome di corsaro sovra ogni altro odiatissimo nella sua patria19. Ma intanto il vecchio padre ne moriva di dolore, e trattandosi la elezione del novello doge, ragunato il gran Consiglio del popolo, al quale intervennero vescovi ed abati, costui fu eletto doge da quei cittadini medesimi, che inducendosi a fatica a lasciarlo vivo, nel condannarlo a perpetuo bando aveano giurato di non sopportare più mai il suo aspetto nel territorio della repubblica.
E non andò molto che ben trecento vele apparvero nelle acque di Ravenna: erano quelle de’ Veneziani che tutti festevoli accorrevano a prendere il novello doge, il quale con esse e con altre navi de’ Ravignani, che per fargli onore vollero seguitarlo in grandissimo numero, se ne tornò trionfante in Venezia. Le liete accoglienze, le clamorose feste fatte a questo iniquo furono di grande scandolo a popoli vicini. Ma non fu poi il Badoero principe tanto perduto quanto c’era ragione di crederlo. Che lui dogante col nome di Pietro Candiano IV, fu rinnovato il divieto di comprare dai corsari schiavi cristiani per rivenderli ai Saraceni, e stabilite gravi pene temporali e spirituali a chi lo avesse violato. Venezia e l'impero Bizantino. Circa questi tempi è da dubitare che si raffreddasse alcun poco l’antica amicizia dei Veneziani con l’imperatore d’Oriente, il quale incominciò ad inceppare il commercio veneto per tutto il Levante. E per ogni carico fu imposto un dazio di settanta soldi ad ogni nave veneta, che prima della partenza dovea essere minutamente visitata per vedere se esportava merci vietate. Ma poi nell’anno 991 fu alleggerito quel dazio, e la visita forse divenne meno severa, finchè l’imperatore, intento al riacquisto di Gerusalemme ed alla guerra coi Moscoviti, mosse gravissime lagnanze al doge Candiano IV perchè i mercanti veneziani cupidi di vietati guadagni fornivano a’ Saraceni legnami, ferro e quanto lor giovava alla guerra. Il doge, il clero ed il popolo condannarono, chiunque in futuro l’avesse osato dì fare, in cento libbre d’oro o nella perdita del capo.
Solevano i mercanti veneziani portare ancora a Costantinopoli tutte le lettere colà dirette dalla Germania pero Bizantino. e dall’Italia superiore, e massime di Lombardia, ma o per istanza di Berengario re d’Italia insospettito dalle relazioni cotanto agevolate, o più. probabilmente dopo i richiami della corte di Costantinopoli20 che in esse lettere asseriva contenersi spesso pensieri e novelle a lei pericolosi e spiacevoli, fu vietato d’allora innanzi ai naviganti quel commercio di lettere tanto proficuo quanto di poca fatica.
Candiano IV aiutò ancora l’imperatore Alessio contro i Normanni, e sebbene in tutte queste imprese conducesse con dignità e fortuna le cose dei Veneziani, tanto commosse i cittadini con la superbia sua, con le turpitudini della vita privata, che il popolo appiccò il fuoco al palazzo, ed uccisolo insieme ad un suo figliuoletto strappato in seno alla balia, i loro corpi precipitò in una cloaca. Arsero in quel giorno un trecento case, che tutte erano ancora di legno, arse la chiesa di S. Maria Zobenigo e la basilica di S. Marco. E da quel giorno ha principio la lunga serie de’ Procuratori di S. Marco.
Tale è la storia di quel veneto che Ravenna accolse profugo, ricettò come corsaro, applaudì ed onorò siccome doge; storia che viene spesso recata ad esempio della incostanza del popolo e de’ governi popolari, del favore che i ribaldi trovano sempre là dove sono odj e fazioni, e della divina giustizia che prepara amari frutti alla iniquità. A me poi sembra opera vana il cercare in questa successione di umane vicende, di che si compone la storia, l’opera della giustizia divina ed il trarne morali esservazioni, le quali ancorchè buone sogliono per lo più fondarsi sulla ingannevole apparenza delle cose, spesso riescono false, spessissimo oziose, e fanno inutilmente fuorviare dalla critica più piana e sicura.
Ottone di Germania in Ravenna. X. Glorioso appo i Tedeschi dovrebbe essere il nome di Ottone il Grande, che primo portò quella corona che de poscia per più di ottocento anni dette loro forza e splendore, caro agli Italiani che da lui ebbero le prime franchigie municipali, e fra gli Italiani ai Ravennati, poichè egli rinnovando l’impero tentò di ricondurre la diserta metropoli all’antico suo stato. Che trovandosi l’antico palagio di Teodorico cadente per l’ingiuria dei tempi e le spogliazioni di Carlomagno, egli ne fece innalzare uno nuovo in luogo detto Sabionara presso il tempio di S. Paolo fuori la porta che oggi è detta Nuova e che allora diceasi di S. Lorenzo.
Il Rossi ricorda un Concilio tenuto in Ravenna da Ottone, presente papa Leone VIII, al quale l’imperatore avrebbe confermata la signoria dell’esarcato concedutagli già dai Carolingi. Certo è che Ottone pensò collegarsi all’imperatore d’Oriente, chiedendogli la figliuola Teofania per moglie ad Ottone suo figliuolo, ed avutone scortese rifiuto, non dubitò di guerreggiare quattr’anni, finchè nel 972 le sospirate nozze parvero riunire i due imperii e con essi tutti i popoli cristiani, E così già vecchio, e dopo avere fatte e preparate grandi cose, moriva Ottone il Grande, e di lui mostravasi degnissimo Ottone II, il quale morto a 28 anni nel 984, lasciava la corona ad Ottone III fanciullo, e le redini del governo a Teofania imperatrice, che per questo forse si trova ricordata come signora di Ravenna. Ottone III concede in Ravenna privilegi ai Veneziani. Ed in Ravenna trovandosi Ottone III all’età di 17 anni, cioè nel 996, accolse Marco Gradenigo e Giovanni diacono ambasciadori del doge Pietro Orseolo, e con un privilegio riportato nel Codice Trevisano e pubblicato poi dal Fantuzzi nel tomo sesto dei suoi Monumenti21, concedette alla Repubblica di aprire tre novelli porti in tribus locis suae ditionis, lasciando a questa il provento dei dazi e dei pedaggi, fissando la pena di chi infrangesse gli ordinamenti di questo accordo a mille libbre d’oro, da dividersi per metà fra il doge e la camera imperiale.
Così stabilito un porto e nuovi mercati sul Sile, sul Piave ed a S. Michele del Quarto presso le rovine di Altino sulla via Claudia Augusta, che pe’ territori di Treviso, di Belluno e per il Cadore conduceva in Germania, molto s’avvantaggiava il commercio veneto di terraferma.
Secreto viaggio di Ottone da Ravenna a Venezia Buona amicizia dopo queste concessioni sembra rimanesse fra i Veneziani ed Ottone, il quale tornato di Germania nel 998 e celebrata la pasqua in Ravenna, udendo ivi tanto vantare il maraviglioso aspetto di Venezia, disse un giorno di voler andare al monastero di Pomposa, che allora era in un’isola da una parte cinta dal Po, dall’altra dal mare, per ristorarsi col bere l’acqua salsa; e colà pervenuto, fecesi preparare una cameretta dall’abate, ma invece in una barchetta condotta da un messo del doge continuò il suo viaggio sino a Venezia.
Lo attendeva il doge all’isola di S. Servolo, ma non svelò chi fosse l’incognito garzoncello, e nel giorno lasciavalo visitare le chiese ed i monumenti di Venezia siccome un privato, anzi l’imperatore girava in abito assai dimesso, erat sane cili ne agnosceretur habitu indutus, dice il Sagornino. Venuta poi la notte, il doge lo riceveva a lauta cena e lungamente conversava con lui. Abitava l’imperatore nella torre orientale del palazzo ducale, e ben più onorevole stanza ebbero in esso i suoi compagni pubblicamente ricevuti come messi dell’imperatore che si diceva essere alla badia di Pomposa. Intanto il doge Orseolo acquistava per modo l’affetto del giovine Ottone che facilmente n’ottenne la rinunzia all’annuo tributo del pallio d’oro, nuove agevolezze per il commercio, e più acconci confini al territorio della Repubblica. Volle pure Ottone tenere al sacro fonte un figliuolo del doge, rinnovando così l’esempio di pace dato nell’856 dall’imperatore Lodovico II quando venne in Venezia con l’imperatrice Angilberga, e dopo essersi indotto a stento ad accettare i doni offertigli, che furono un vaso di pregiatissimo lavoro, una tazza d’argento ed una sedia d’avorio, soddisfatta in tre giorni la sua curiosità, se ne tornò a Ravenna, dove i cittadini tutti stupirono udendo che era stato a Venezia; poiché ricorda il Sagornino che difficile credere volentes admodum mirabantur. E da Ravenna e da Pavia inviava poi Ottone due imperiali ornamenti al doge che lo contraccambiava mandandogli un trono ricoperto di avorio mirabilmente intagliato e scolpito.
Non è mio uficio il narrare quanto avessero progredito i commerci di Venezia verso il mille, ne quanto la sua interna quiete fosse stata turbata per le fazioni de’ Morosini e de’ Caloprini allora potentissimi, che queste notizie si ritrovano in tutti gli storici; ma ricorderò ciò che, per quanto mi sappia, dal solo Rossi è riferito, cioè che la tanto parziale famiglia de’ Caloprini si riteneva oriunda di Ravenna, e venuta a Venezia essersi quivi levata in altezza di stato. I Caloprini oriundi di Ravenna. Costoro cacciati dalla città, poiché ebbero morto in chiesa a tradimento uno de’ Morosini, erano andati a gittarsi a’ piedi di Ottone II offerendogli la signoria della repubblica ove ad essi ne fosse pervenuto il governo; e tanto fecero che lo persuasero a cacciare da’ suoi dominj tutti i mercanti e ad impedirvi i commerci dei Veneziani. In tal modo i Caloprini impoverirono ed affamarono la patria loro, e molte città per avere alimenti si dettero all’imperatore; ma morto questo, per l’intercessione di Teofania imperatrice i Caloprini poterono tornare a Venezia, dove giunti appena, furono uccisi da’ Morosini che con feroce compiacenza mandarono gli insanguinati corpi alla madre di quegli infelici.
XI. Così tra ’l frequente avvicendarsi di atrocissimi fatti s’avvicinava l’anno millesimo di nostra salute, aspettalo non pur dalle plebi ma ancora da’sapienti, dai doviziosi e dai principi, con tanto religioso timore, che chiese e monasteri straordinariamente arricchirono per legati ed offerte.
Comparvero allora uomini cui la contemplazione delle cose divine portava a virtù singolarmente austera. Ravenna n’ebbe uno de’ più autorevoli di quella età, e fu S. Romualdo, al quale mentre garzoncello andava ad uccellare, il vasto ed ombroso pinete inalzò la giovine fantasia all’amore della solitudine ed al desiderio delle cose sovraumane. S. Romualdo ravennate va a Venezia Un dì vede suo padre uccidere un parente che odiava; Romualdo corre al monastero di Classe e con aspre penitenze vuole espiare il delitto paterno. Udendo poscia che un altro ravennate, per nome Marino, menava in quel di Venezia santa e penitentissima vita, andato colà, lo supera in astinenza e compunzione di cuore.
Si legge poi come Marino fosse «uomo semplice ed idiota ma che senza maestro avea apparata la scienza dei santi perchè Dio era sua guida. Viveva quell’uomo santo con grande asprezza ed astinenza, tre giorni della settimana mangiando un pezzo di pane con un pugno di fave e bevendo dell’acqua, negli altri beveva un poco di vino e mangiava qualche cosa cotta però una cosa sola. In ciascuno dei primi giorni leggeva tutto il Salterio e negli altri faceva orazione mentale ma assai lunga. Usciva ogni giorno dalia cella in compagnia di Romualdo e trovando degli albori, si fermava a pie di ciascuno, e ivi facendo quasi tante stazioni cantavano insieme trenta, quaranta salmi come loro pareva. Era stato Romualdo allevato dal padre con molta diligenza, ma non avea pratica del salterio ne d’altre cose quali il maestro voleva ch’egli dicesse, e se alle volte errava ciò gli era grande occasione di pazienza, nella quale Marino apposta l’esercitava. Si ponevano talora amendue a dire il Salterio, e quando Romualdo errava, ch’era ben spesso, il maestro lo percuoteva fortemente con una bacchetta sulla testa, acciò egli meritasse ed imparasse a sopportare. Romualdo pazientissimo non replicava cosa alcuna se non ch’essendo passati molti giorni e sentendosi mal disposto del capo, disse al suo maestro con semplicità ed umiltà grande: Padre, pregavi, se vi piace, che di qui in avanti mi diate dall’altro canto, perchè vado perdendo l’udito per causa delle percosse che mi date. Marino vi pose mente e vide esser così come Romualdo diceva e restò maravigliato della pazienza grande che egli aveva avuta, simile a quella di S. Lorenzo quante do stando sopra al fuoco, disse: voltatemi dall’altra parte che questa è già arrostita. Ebbe da poi Marino più avvertenza nel suo procedere e di giorno in giorno trovava nel suo discepolo maggior virtù e lo guardava con occhi differenti da quelli di prima»22.
Ma la semplice virtù di questi uomini che compiacevansi nel farsi meschini e nell’esser reputati stolti per Cristo, portò talora mirabili frutti, e così Romualdo seppe far mutare al doge Orseolo nella ruvida veste di frate il male acquistato manto ducale. Ed ecco come questo avvenne . se vogliamo prestar fede alle tradizioni rimaste fra i monaci di S. Benedetto.
Venuto in pellegrinaggio a Venezia certo abate francese per nome Guarino, andò tosto a visitare Romualdo ed il suo compagno di penitenza. E dalle cose spirituali passando alle politiche, vennero a parlare di Orseolo e dell’ingiusto modo pel quale era pervenuto al dogado. «Ora udite (dicevano i romiti al loro ospite) come andò la cosa. Prima di costui era doge Vitale Candiano il quale era venuto in tanto odio dei cittadini che essi deliberarono di metterlo a morte. Ma sia che taluno palesasse la congiura, sia che tutti poco cautamente la ordinassero, certo è che Vitale n’ebbe sentore e sotto buona guardia si rinchiuse nel suo palagio che per mala ventura era accosto alla casa di Pietro Orseolo. Ed i congiurati vanno allora a questo Orseolo e gli promettono di farlo doge se avesse consentito che essi appiccassero il fuoco alla sua magione acciocchè cresciuto l’incendio, ardesse pur quella di Vitale per modo che egli dovesse perire tra le fiamme o potesse esser morto mentre tentava la fuga. E tra il timore de’ congiurati e la speranza del principato, Orseolo rispose che facessero, e poscia con somma allegrezza stava a contemplare le fiamme che abbruciavano le sue case pensando a quanta dignità per quel fuoco sarebbe tosto salito. E per tal modo Orseolo è nostro doge ma non con buona coscienza e con grande offesa della giustizia divina, sì che ne piange il cuore pensando che i Veneziani tutti debbono ubbidirgli ed averlo in reverenza». E così discorrendo fra loro i tre santi uomini risolvettero di andare a lui ed ammonirlo che rivolgesse l’animo a penitenza. - La virtù ha per se sola tanta autorità e «la cattiva coscienza tanto avvilisce altri e tanto può la ragione, che Pietro sebbene era principe tremava di paura alla presenza di questi tre poveri monaci»23 e tutto si rimise al loro parere. Ed essi di comune accordo gli risposero che gli convenia di troncare il male dalla radice e di lasciare non pur la signoria, ma ancora il mondo che era stato occasione del suo peccato, facendosi monaco. Ne il doge cercò medicina più leggera al suo male, anzi acciocchè la soddisfazione fosse più completa, volle servirsi per fare il bene di colui che più lo aveva aiutato a mal fare, ed in compagnia di Giovanni Gradenigo che era stato uno de’ congiurati contro a Vitale, radunata grande quantità di danaro e di gioie, fingendo di andare ad un convito in un suo podere, segretamente si partì di Venezia ed andò a gettarsi ai piedi di Romualdo e dell’abate Guarino.
E fugge in Francia col doge Pietro Orseolo I. Era la notte del 1.° settembre dell’anno 978, e trovati i cavalli a S. Ilario insieme fuggono in Francia al monastero di S. Michele nell’Aquitania. Tre anni sta con Romualdo il santo doge, specchiandosi nelle vite de’ Padri e coltivando di sua mano la terra da cui traeva alimento. Torna poscia Romualdo a Venezia, ed a Marino suo maestro di penitenza, e con lui vive alquanto nell’isola di S. Michele a Murano.
Cento e vent’anni rimase Romualdo nel mondo, di cui cento nella religione. Fondò il monastero di S. Adalberto e l’ordine Camaldolese. Umile innanzi a Dio mantenevasi franco d’ogni soggezione umana. Ottone III giovinetto andò a lui di persona nell’isola del Pereo e tutta notte rimase nella sua cella pregandolo ad accettare la dignità di abate di Classe, fu cortesemente ricevuto, riaccompagnato a Ravenna, ma fu obbedito. Cedette poscia Romualdo alle istanze dei Vescovi allora adunati in Ravenna, ma presto si partì dal cenobio di Classe, stomacato dalla rilassatezza di que’ monaci ai quali l’austerità di Romualdo sembrava d’incomportabile peso. E nel monastero di Classe invaghito per le parole di Romualdo della contemplazione delle cose celesti, paventando il finale giudizio nell’anno millesimo, fra divote pratiche ed aspre penitenze lungamente si tratteneva l’imperatore Ottone, il quale oramai per più poco avea a travagliarsi fra le vicende terrene, che nel 1002, forse per veleno periva a ventidue anni.
E perchè sono venuto a parlare de’ grandi uomini che furono intorno al mille, e di questo illustre principe, ricorderò quel Gerberto suo maestro, cui la perizia della meccanica fece credere negromante alle ignorantissime moltitudini d’allora, e che fatto arcivescovo molto bene meritò della Chiesa ravennate come poscia della universale, quando fu eletto papa col nome di Silvestro II. Era poi Gerberto morto di poco, ed avvicinandosi al centesimo anno di sua vita s’affievoliva lo spirito di Romualdo, quando venne nel mondo l’anima di Pietro Damiano, la quale per forza e lucidità d’intelletto ebbe poche pari, per ardore e vivezza d’affetti forse nessuna. S. Pietro Damiano.A lui pargoletto, nato di poveri ravignani, la madre negava il latte, nè poscia fu giudicato buono ad altro che a guardare gli armenti: ma appena fu nutrito di pochi studj, tanto seppe conoscere e trattare le cose del mondo, che acquistò ricchezze e quanto è dato d’avere sotto del sole; e pur affliggendosi al pensiero della vanità di tutte le cose umane, per meglio contemplare le immutabili e celesti, riparò all’eremo di Fonte Avellana dove tanto beavasi di aspre penitenze:
Che pur con cibi di liquor d’ulivi
Lievemente passava i caldi e i geli
Contento ne’ pensier contemplativi.
Ma la solitaria e penitente contemplazione era in que’ tempi la via più certa e sicura per farsi arbitri delle faccende umane, e Pietro Damiano divenuto consigliere dimestico di papi, d’imperadori e di re, autorevolissimo ne’ sinodi e ne’ concilii, tanto scrisse, tanto fece, tanto sofferse per la Chiesa, che essa lo noverò fra que’ santi che più strenuamente militarono a sua esaltazione e difesa.
Dante, ottimo apprezzatore di cotali uomini, finge d’intrattenersi con lui nel vigesimoprimo canto del Paradiso, e col nome di Pietro Damiano, severissimo censore dell’antico clero, aggiunge gravità alle amare parole che egli indirizza a’ chierici del secolo decimoquarto24.
Domenico Orseolo doge cacciato ripara a Ravenna dove fluisce la stirpe degli Orseoli. XII. Teneva intanto la dignità ducale Ottone Orseolo con grande soddisfazione de’ Veneziani che pacificati finalmente fra loro, lieti di vedere il loro doge menare in donna la figliuola del re d’Ungheria, sicuri della fedeltà dei vicini dopo l’espugnazione di Adria, dell’amore de’ Dalmati e della sottomissione dei Croati, levavano a cielo questo ottimo doge, il quale per le glorie acquistate non levavasi a pericolosa superbia.
Ma pur non potè campare dalle insidie della fazione capitanata dai Flabenigo, e perchè rifiutavasi a confermare nel vescovado d’Olivolo un giovinetto di diciotto anni della casa Gradenigo, la città si levò a remore: Ottone fu preso, e rasagli la barba fa relegato a Costantinopoli. La stessa fine ebbe Domenico Centranigo suo successore, e l’ambasceria mandata a Costantinopoli a richiamare Ottone lo trovava già morto. Frattanto durando l’incertezza e il contrastare delle parti, Domenico Orseolo assunse il nome di doge. Ma esercitatane l’autorità per un solo giorno, fu assalito dal popolo e confinato a Ravenna.
Ed ivi passava quetamente il resto di sua vita, ed ivi circa il 1032 con lui pare si spengesse la gloriosa schiatta degli Orseoli, il cui nome, finché dura quel di Venezia, non può venir manco nella memoria dei posteri.
Note
- ↑ Ed anche: Haec antem civitas vexabatur a Langobardis et Veneticis. In Vita Sergi.
- ↑ E questo era già stato più volte fonte di sanguinosi tumulti, come quando l’arcivescovo Felice, fattosi indipendente dal papa nella Chiesa e dall’imperatore nel governo di Ravenna, come seppe che Teodoro patrizio veniva con un naviglio da Bisanzio per saccheggiare la città, chiamali gli aiuti di tutte le terre e di tutte le chiese di Romagna, fece tagliare il Po, si che tutto il territorio di Ravenna fu allagato e l’armata imperiale non avrebbe potuto offenderla senza l’aiuto consueto delle piatte ed agili navicelle dei Veneti. I quali per i vantaggi de’ loro commerci avrebbero voluto che Ravenna fosse grande e splendida metropoli, ma insieme queta e sicura, e queste continue ribellioni non amavan per nulla. La città assalita dagli imperiali sulle navi dei Veneti, fu presa e molli cittadini uccisi, e fra questi quel Giovannicio già segretario di Giustiniano che fu fatto morire fra due muri come un topo. E fra i nobili ravennati fatti venire a tradimento in sulle navi fu anche Felice arcivescovo, che acciecato con un ferro rovente fu mandato esule nel Ponto e poi restituito con sommo onore alla sua sede. Volle prima di morire fossero abbruciati i suoi libri, poiché sono cieco, diceva, e non posso rivederli e ritrattarli. E venerato qual santo fu sepolto in S. Apollinare in Classe, dove il suo sarcofago ancora rimane a mano destra di chi entra la vetusta basilica, e sopra di esso da più di mille e cent’anni sta scritto: Hic tumulus clausum servat corpus domini Felicis sanctissimi ac terbeatissimi Archiepiscopi.
- ↑ Fantuzzi, Mon. Rac., T. V, N.° 7.
- ↑ Fantuzzi, T. V, N.° 8. Ex registro Farfen. in Fulsoaldo abbate, N.° 23.
- ↑ Fant., Mon. Rav., T. VI, pag. 254.
- ↑ Fant., Mon. Rav, T. V, N.° 14. Ex Codice Carolino, Car. XXVIII.
- ↑ Ibid., N.° 15.
- ↑ Fant., Mon. Rav. T. V, N.° 17, Ex Codice Carolino, Car. LIV.
- ↑ Fant., Mon. Rav., Tom. V, N.° 18, Ex Cod. Carolino, Car. LI.
- ↑ Fant. Mon. Rav., T. V, N.° 19,’ Ex Cod. Car. Car. LXXV.
- ↑ Vedi l’Agnello sulla venuta di Carlomagno in Ravenna, nella vita dell’arcivescovo Grazioso di cui ricorda la semplicità.
- ↑ Tout en lui était Germain sans l’ambilion de sa pensée, c’était vers l’Empire romain, vers la civilisation romaine qu’elle se portali: c’était là ce qu’il voulait établir avec des Barbares pour instruments.
C’était là, en lui la part de l’égoisme et du réve: ce fut en cela aussi qu’il échoua, Guizot, Histoire de la civilisati’m en Frawe. Vingtième Leçon). - ↑ Codex Carolinus. Ep. Adriani I ad Car. M.
Ved. anche Tintori, Storia civile ed ecclesiastica di Venezia. T. II, Dissert. XIX. - ↑ Le nozze di Carlo con la figliuola del re Desiderio erano pegno di pace o almeno di tregua fra i Franchi ed i Longobardi stanchi dal lungo combattere: ma queste nozze non piacquero per nulla al papa che per esse vedea Carlo intiepidito nell’antico proposito di difendere ed arricchire la Chiesa, e le felicitazioni e gli augurii che gli mandò per le sue nozze furono questi: Quae est enim praecellentissimi filii, magni regis talis desipientia ut penitus vel dici liceat quod vestra praeclara Francorum gens quae super omnes enitet et tam splendiflua ac nobilissima regalis vestrae potentiae proles perfida quod absit ac faetentissima Langobardorum gente polluantur quae in numero gentium nequaquam computatur da cujus natione et leprorsum genus oriri certum est? (a) E per questo con quello che segue viene a dire: Non c’è che un pazzo che possa credere che vi vogliate impacciare in sì abbominevole contagio: che la nobilissima prole de’ Franchi voglia macchiarsi con la perfida e puzzolentissima gente dei Longobardi che non si conta fra le nazioni e che dette per certo origine ai lebbrosi.
Questa nimicizia del papa persuase forse a Carlo di ripudiare Ermengarda, e per quanto il Muratori, per ossequio alla dignità di chi la scrisse, mostri di sperare che la lettera può essere apocrifa, essa è sempre più autorevole della cronaca del monaco di San Gallo mista di favole e scritta un secolo dopo, nella quale si legge che Ermengarda fu ripudiata Quia esset clinica ad propagandam prolem inhabilis judicio sanctissimorum sacerdotum relicta velut mortua(b). E pur non è inverosimile che anche il monaco dica vero, e che senza diretta ingiunzione persuasione del papa, quei sacerdoti, conoscendo l’ira sua pel matrimonio di Carlo, si conducessero a credere che la sposa fosse inferma e si potesse, siccome sterile, legittimamente ripudiare.
Nondimeno non si è mai ritrovato che il ripudio fosse fatto con l’autorità della Chiesa, ed apparisce manifesto che apportò grande scandolo fra le genti.
Eginardo, notaio di Carlomagno e tanto bene informato delle azioni sue, sembra rifuggire dai particolari di questo fatto, del quale forse biasimava egli e senti biasimare da altri il suo signore: ricordata la cosa, dice non averne saputo il motivo, e passa oltre. Ma Pascasio Radberto, che scrisse la vita di S. Adalardo cugino di Carlomagno, narra che sendo questi ancor garzoncello alla corte, veduto Carlo menare in moglie Ildegarda e villanamente cacciare la speciosa ed innocente figliuola del re Desiderio, fu così commosso nel cuore clic acceso di santo sdegno volle ancor giovinetto rinunziare al secolo onde non essere più impacciato in queste turpitudini. - ↑ Fant., Mon. Rav, T. V, N.° 20. Cod. Carol, Car. LXVII.
- ↑ Fant., Mon. Rav., T. VI, N.° 100. In Cod. Trevis. venet., pag. 49. Sopra l’autenticità tanto contrastata di questo documento, vedi Romanin, Documenti, T. I, pag. 351-54.
- ↑ Città distrutta; sorgeva presso Ferrara.
- ↑ Hic primo anno regni sui Ravennae existens, etc. Dandolo.
- ↑ Con sei navi armate prese vicino ai porto di Primaro sette navi veneziane che cariche di merci n’andavano a Fano. Così il Dandolo.
- ↑ Ved. Tafel e Thomas, Venezia e l’Impero Bizantino.
- ↑ Pag. 273.
- ↑ «Historia della Vita di S. Romualdo composta dal R. P. D. Gio. da Castagnizza monaco dell’Ordine di S. Benedetto, trasportata dalla lingua spagnola nella italiana da D. Timoteo da Bagno Monaco della Congregazione Camaldolese di ordine del Revmo. P. D. G. Lodovico Pasolini Abbate Generale della suddetta Congregazione Camaldolese. - In Venezia MDCV, appresso Domenico Imberti». È dedicato dal traduttore al medesimo P. Lodovico Pasolini Generale de’ Camallesi e Vescovo di Segna in Dalmazia. Libro assai raro.
- ↑ Ibid.
- ↑ Par. Canto XXI.