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fra venezia e ravenna 35

sero, certo è che Vitale n’ebbe sentore e sotto buona guardia si rinchiuse nel suo palagio che per mala ventura era accosto alla casa di Pietro Orseolo. Ed i congiurati vanno allora a questo Orseolo e gli promettono di farlo doge se avesse consentito che essi appiccassero il fuoco alla sua magione acciocchè cresciuto l’incendio, ardesse pur quella di Vitale per modo che egli dovesse perire tra le fiamme o potesse esser morto mentre tentava la fuga. E tra il timore de’ congiurati e la speranza del principato, Orseolo rispose che facessero, e poscia con somma allegrezza stava a contemplare le fiamme che abbruciavano le sue case pensando a quanta dignità per quel fuoco sarebbe tosto salito. E per tal modo Orseolo è nostro doge ma non con buona coscienza e con grande offesa della giustizia divina, sì che ne piange il cuore pensando che i Veneziani tutti debbono ubbidirgli ed averlo in reverenza». E così discorrendo fra loro i tre santi uomini risolvettero di andare a lui ed ammonirlo che rivolgesse l’animo a penitenza. - La virtù ha per se sola tanta autorità e «la cattiva coscienza tanto avvilisce altri e tanto può la ragione, che Pietro sebbene era principe tremava di paura alla presenza di questi tre poveri monaci»1 e tutto si rimise al loro parere. Ed essi di comune accordo gli risposero che gli convenia di troncare il male dalla radice e di lasciare non pur la signoria, ma ancora il mondo che era stato occasione del suo peccato, facendosi monaco. Ne il doge cercò medicina più leggera al suo male, anzi acciocchè la soddisfazione fosse più completa, volle servirsi per fare il bene di colui che più lo aveva aiutato a mal fare, ed in compagnia di Giovanni Gradenigo che era stato uno de’ congiurati contro a Vitale, radunata grande quantità di danaro e di gioie, fingendo di andare ad un convito in un suo podere, segretamente si partì di Venezia ed andò a gettarsi ai piedi di Romualdo e dell’abate Guarino.


  1. Ibid.