Delle antiche Relazioni fra Venezia e Ravenna/Capitolo II
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Capitolo II.
I Ravennati uniti ai Veneti riacquistano Ferrara alla contessa Matilde nel 1101. — Alleanze di Ravenna con Padova e Treviso contro Venezia. — Prima guerra nel 1110 vinta dai Veneziani. — Seconda nel 1143 vinta dai Veneziani che per la prima volta combattono in terraferma. — Terza nel 1214 dopo la festa di Treviso, vinta dai Veneziani nella quale è dubbio se vi fossero i Ravennati. — I Veneziani obbligano i Ravennati a staccarsi del tutto dall’alleanza dei Padovani con due capitoli del trattato del 1234. — Le nemicizie dei Veneziani con Padova cagionate dai lavori sul fiume Brenta per cui si colmavano le lagune. — Fano assalita da Ravennati, Pesaresi e Sinigalliesi, ricorre per aiuto a Venezia. — Accetta condizioni gravose, e di rimaner sottomessa a Venezia, ed è liberata. — Venezia iniziatrice della lega degli Italiani contro il Barbarossa. — I Veneziani ed i Ravennati all’assedio di Ancona. — Quali vantaggi ne ritraggano i Veneziani. — Federigo Barbarossa in Ravenna. — Alessandro III in Venezia. — Tradizioni e racconti di Obone ravennate. — Gli imperiali non vogliono trattare la pace che a Ravenna o a Venezia. — Scelta questa, le galere venete conducono Federigo da Ravenna a Venezia. — L’arcivescovo Ravennate si travaglia per la conclusione della pace di Costanza. — Trattato per cui Federigo accorda ai Veneziani privilegi di commercio a scapito de’ suoi sudditi. — Federigo ritorna a Ravenna. — Due arcivescovi Ravennati capi dell’armata veneta in Levante. — Imprese e morte dell’arcivescovo Gerardo. — Memorie sull’arcivescovo Alberto conservate nel monastero Portuense. — Se il Doge Pietro Ziani sia venuto a morte in Ravenna.
Ferrara restituita alla Matilde dai veneziani e dai Ravennati
I. Un’impresa comune ai Veneziani ed ai Ravennati si trova nel 1101; che nell’autunno di quest’anno entrambi accorsero con le loro navi sul Po ad assediare Ferrara per ricondurla all’obbedienza della contessa Matilde, alla quale erasi già da molto tempo ribellata. Infatti dice il Dandolo che nell’ultimo anno del Doge Vitale Micheli comitissa Mathildis cum navigio Venetorum et Ravennatum Ferrariam obsidet et denique superat1. Chè alla vista di tante navi sembra che i Ferraresi caduti di animo senza indugio si arrendessero, e della loro resa assai più che i Ravennati profittarono i Veneziani che d’allora in poi ebbero speciali diritti in Ferrara, come quello di tenervi un Visdomino a tutela dei loro commerci.
Devizone nella sua vita della contessa Matilde ricorda con questi versi la facile impresa di Ferrara:
Cantra quam gentes numero sine duxit et enses
Tuscos, Romanos, Longobardos galeatos
Et Ravennates quorum sunt maxime Naves.
Circumstant equidem multae maris atque carinae
A Duce praeclaro transmistae Venetiano.
Alleanze dei Ravennati coi Padovani contro Venezia. II. Ma accortisi che queste leghe altro non erano che società leonine, i Ravennati non vollero più lungamente rimanere nell’alleanza dei Veneziani che si facevano più rapaci mano mano che divenivan più forti, e si collegarono ai Padovani che andavan cercando come domarli. Vedemmo già quanto l’accrescimento di Venezia adombrasse Padova sino da’ suoi principi, e come quando Narsete traghettava la sua gente per le lagune muovendo contro ai Goti, i Padovani gli chiedessero di fare loro ragione contro ai Veneti, che di poveri pescatori s’erano fatti signori di tutte le isole vicine, e come Narsete li persuadesse a stare in pace ed a rivolgersi all’imperatore Greco. Ora poi correndo l’anno 1110 ed essendo la maggior parte delle forze de’ Veneziani distratte dalla guerra di Siria, i Padovani gridano la Repubblica usurpatrice delle isole, del porto di Rialto, delle foci de’ fiumi vicini, ed insieme ne invadono il territorio armata mano cogli aiuti de’ Trevisani e de’ Ravignani. Ma il quattro di ottobre uscita incontanente a difesa della patria una mano di Veneziani sconfigge gli alleati con grande uccisione, presso il castello delle Bebbe, e riconduce cinquecento e sette prigioni. I vinti ricorsero all’imperadore Arrigo V ch’era in Verona, il quale uditi anche i messi dei Veneti, terminò le querele facendo restituire ai Padovani i loro prigioni, e lasciando integro il territorio della Repubblica2. Ma la pace coi Padovani fu rotta di nuovo quando nel 1142 questi fecero un taglio nel fiume Brenta presso a Sant’Ilario, per cui grande quantità di sabbia entrava nelle lagune con danno dei Veneziani, i quali non si sbigottirono per nulla della necessità di guerreggiare in terraferma, cosa affatto nuova per loro. Apparecchiarono la cavalleria, ed un Guido da Montecchio o Montagone fu chiamato a guidarla come un Alberto da Bragacurta, che da altri è detto Pietro Gambacurta, a capitanare i fanti. E s’azzuffarono in un luogo detto la Tomba, dove i Padovani rotti con grande strage chiesero pace, e dichiarando di non aver fatto con mal animo il funesto taglio del Brenta, si dissero pronti di rimediare a tutti i danni.
Avvenne la vittoria de’ Veneziani nell’anno 1143, ed è ben da credere che a’ fianchi de’ Padovani combattessero nuovamente i Ravennati, poiché si legge nel manoscritto inedito del Carrari conservato nella biblioteca Classense di Ravenna, che in questo medesimo anno i Ravignani per terra e per mare combatterono coi Veneziani facendosi gli uni gli altri molti mali.
La nimicizia di Venezia coi Padovani durò poi gran tempo; che dopo esser rimasta lungamente dissimulata, un’aperta ingiuria manifestò il malanimo dei cittadini e li fece tornare più accaniti alle armi nell’anno 1214, quando accorsa in Treviso tutta la gioventù della Venezia ad assalire con pomi, con aranci, datteri, rose, gigli, garofani, il Castello d’Amore difeso da leggiadre fanciulle, i Padovani, vedendo che i nobili Veneziani per lo splendore delle vesti portavano il vanto su tutti, mentre fra gli applausi dell’universale stavano per entrare nel castello, corsero loro addosso e tolto il vessillo di san Marco, lo lacerarono. Da questa zuffa nacque una nuova guerra, nella quale i Trivigiani si allearono con Padova; il territorio della Repubblica fu corso e rubato e poco mancò che la torre delle Bebbe non fosse presa. Ma i Veneziani non stettero cheti, e vinsero i Padovani ed arrecarono gravissimi danni nel loro contado aiutati dai Chioggioti, i quali d’allora in poi furono dispensati dal tributo di venti paia di galline che ogni anno portavano al doge. Ed è da credere che anche questa volta in soccorso dei Padovani e dei Trivigiani accorressero i Ravennati, trovandosi come poscia fosse loro imposto di staccarsi del tutto da quella amicizia e di promettere di non aiutarli mai neppure indirettamente. E questo fu nel 1234 quando conchiusero il primo trattato con Venezia, che più avanti veneziani esporrò per disteso perchè inedito e rilevantissimo. I Ravennati sono costretti a cessare da ogni relazione con Padova.
Per esso s impegnavano i Ravennati a non mandare sale nè altre vettovaglie ai Padovani quando fossero stati in guerra con Venezia, e a non vendere derrate se non a chi giurasse che non sarebbero pervenute mai in modo alcuno ai Padovani. E questo giuramento occorreva ancora perchè da Ravenna o da’ suoi porti potessero uscire merci dei Padovani o credute appartenenti o destinate a loro.
Durava infatti l’antichissimo conflitto non già del possesso delle lagune come a’ tempi di Narsete, ma dei danni portati a queste dai lavori fatti dai Padovani sul Brenta. Il lido dell’Adriatico avanzatosi senza posa, aveva lasciate entro terra Aquileja, Cittanova ed Altino; Adria che avea dato il suo nome al mare era circondati da paludi e da terraferma; l’antichissima città di Spina stava quasi sepolta ne’ bassi stagni salmastri ne’ quali il Po avea cangiati con le sue alluvioni gli estuarii di Comacchio; Ravenna perduto il suo famoso porto di Classe, rimaneva più miglia discosta dal lido.
« Ma i Veneziani non cominciarono ad accorgersi che le loro lagune andar doveano soggette alla legge generale del protendersi delle spiagge per opera dello alluvioni dei fiumi, se non sei secoli dopo che Ravenna avea cessato di esser sede dell’Esarcato e che avea veduto perdersi intieramente il suo porto, cioè verso la metà del secolo XII. Ed intorno alla stessa epoca incominciarono le lotte coi Padovani; perciocchè mentre i Veneziani ergevano presso il lembo della terra arginature intese ad impedire che le acque disalveate del Brenta, venissero a scaricarsi in quella parte delle lamine che più da vicino fronteggiava e circondava la città, e che per ciò appunto chiamasi propriamente laguna di Venezia, i Padovani che da codesto impedimento vedevano danneggiati i loro territori, tagliavano e distruggevano le arginature stesse. Questa lotta durò fino a che i Veneziani, esteso alquanto il loro dominio in terraferma, poterono governare a lor talento con maggior sicurezza gli ultimi tronchi dei fiumi che sboccavano rimpetto a Venezia»3.
Rilevasi inoltre da un passo di Dante come
.......i Padovan lungo la Brenta |
innalzassero anch’essi grandi argini
Anzi che Chiarentana il caldo senta
cioè prima che il loro fiume potesse ingrossare per le nevi disciolte sulle Alpi. Correvano invece a disfare, quando ne risentivano danno, gli argini eretti dai Veneziani; i quali presaghi che avrebbero dovuto venir per questo nuovamente alle armi con essi, mirarono a privarli in avvenire dei loro fedeli alleati, costringendo i Ravennati col trattato del 1234 ad allontanarsi per sempre dall’amicizia dei Padovani ed a cessare ogni commercio e relazione comune.
Fano assalita dai Ravennati ricorre ai Veneziani.
III. Ma dell’arte mirabile per la quale i Veneziani intromettendosi fra i combattenti or come pacieri or come liberatori e partendosi ben compensati dell’aiuto, sapevano ingrandire mano mano per le discordie delle città italiane, niun esempio è più chiaro del trattato che strinsero coi cittadini di Fano nell’anno 1140. Questo accordo, notevolissimo per essere il primo della Repubblica con città italiana, fu dimenticato od accennato appena dagli storici; e poiché in esso si fa menzione di Ravenna, non ci par fuori di luogo il riportarlo per sommi capi.
Assalita da quelli di Ravenna, di Pesaro e di Sinigaglia, la città di Fano ricorse per aiuto al doge Polani, promettendogli fedeltà, privilegi ed esenzioni al commercio veneziano.
«.... I consoli, e tutto il popolo di Fano promettevano per se e successori in perpetuo a Dio e a san Marco apostolo ed evangelista, non che al doge Pietro Polani, di esser fedeli al pari di ogni altro abitante di Venezia, e che ogni nuovo console sarebbe tenuto di giurare di avere a cuore l’onore e la salvezza di quella come della propria città, e difenderne le proprietà come fossero quelle di qualunque Fanese. Ogni Veneziano sarebbe in Fano perfettamente sicuro per se e per le sue robe: sarebbe ai Veneziani fatta giustizia d’ogni lor debitore, contro il quale procederebbesi all’uopo alla pignorazione come se fosse a Venezia: insorgendo lite fra un Veneziano e un Fanese, sarebbe giudicato alla Curia dell’incaricato Veneziano: darebbero i Fanesi ogni anno un migliaio d’olio per l’illuminazione della chiesa di san Marco, ed un altro centinaio alla Camera Ducalo: rinunzicrcbbero ai Veneziani il reddito delle imposte sulle misure e sui pesi dei forestieri trafficanti in Fano: manterrebbero a proprie spese i legati Veneziani tino a che tra loro dimorassero: quando i Veneziani facessero armata da Ragusa fino a Ravenna, fornirebbero una galera armata ed equipaggiata a proprie spese, e quando non la possedessero, allestirebbero del proprio in Fano o a Venezia quella che venisse loro somministrata. Se poi facessero i Veneziani armata da Ancona a Ravenna, s’impegnavano i Fanesi di prendervi parte per servigio e sussidio della Veneziana Repubblica: i richiami dei forestieri avrebbero a trattarsi ed a giudicarsi secondo la legge e le consuetudini venete. Finalmente prometteva il Comune di Fano che i suoi Savii si recherebbero al Collegio di Venezia ogni qualvolta fossero chiamati come fanno tutti gli altri deditizj (fideles); ciò tutto giurando di eseguire salvo però il servigio al re di Germania.
«Dal canto suo prometteva con altra carta il Doge ai Fanesi libero commercio in tutte le terre venete; di assistere e proteggere la città di Fano e i suoi abitanti come fossero di Venezia; di somministrare infìno galere a spese dei Fanesi a loro difesa»5.
E la fama della potenza e della fortuna dei Veneziani era ormai tanta, che il Doge senza neppur combattere, liberava i suoi novelli alleati, che partito da Venezia con buon naviglio, mostratosi appena per la marina di Ravenna e poscia accostatosi ai porti di Pesaro e Sinigallia minacciando di espugnare le città, sparse tanto timore, che i Fanesi ottennero subito pace dai Ravignani e dagli altri nemici a buonissimi patti.
Ma era pur forza che stessero fermi quelli imposti dai Veneziani liberatori pe’ quali essi rimanevano a Fano in condizione migliore de’ cittadini medesimi, che aveano consentito ad essere impoveriti, a perdere nell’interna amministrazione della giustizia e nelle vicende politiche l’antica indipendenza, riducendosi a divenire fideles, cioè quasi vassalli della Repubblica.
E così fu un’altra volta avverato l’antichissimo apologo in cui il cavallo liberatosi dal cervo con l’aiuto dell’uomo:
- Non equitem dorso, non fraenum depulit ore.
Ravenna co’ Ghibellini IV. Cercando ora la storia di Venezia e quella di Ravenna durante l’eroica guerra combattuta dagli Italiani contro al Barbarossa, troviamo che Ravenna, memore del suo manto imperiale e che oramai soltanto dalie sue antiche memorie poteva sperare migliori fortune, rimanendo dapprima fedele agli ordini antichi, seguìa la parte imperiale, e le schiere de’ Ravennati furono fra que’ centomila uomini coi quali il Barbarossa poneva l’assedio alle mura di Milano il 6 d’agosto 1158.
Venezia a capo de11a parte Guelfa e della Lega Lombarda
Per contrario l’ardita idea di collegare tutte le forze d’Italia era nata in Venezia od almeno vi era stata nu- drita ed accresciuta per modo che tra gli apparecchi di guerra e gli aiuti alle città confederate perchè tutte potessero levarsi in arme contro a Federigo, la Repubblica disperdeva in due anni tutto il pubblico tesoro, sì che per non gravare il popolo di novelle imposte, fece un imprestito di 1150 marchi d’argento co’ suoi più ricchi cittadini, concedendo loro per undici anni le rendite del mercato di Rialto. E Federigo non sapendo come quetarla, permise ai Consoli Genovesi nell’anno 1102 di cacciare tutti i Veneziani, poi spinse loro addosso e Padovani e Veronesi e Trevigiani e Ferraresi, ma tutti rimasero vin i come si legge nella cronaca Altinate: da ultimo venuto egli medesimo a battaglia con essi tra Pirano e Parenzo in luogo detto Salvore, ebbe le sue navi affondate e disperse. Nondimeno quando novellamente vinto dagli Italiani a Legnano fu ridotto a chieder pace, si pensava di valersi de’ Veneziani per conchiuderla; anzi faceali arbitri delle sue quistioni con la Chiesa: in tantum ducem et Venetos diligere coepit ut scriberet multoties duci quod ejus arbitrio et laudationi de pace ecclesiae informanda stare vellet libenter, come leggesi nella cronaca Altinate6.
Ancona assediata dai Veneziani e dai Ravennati. V. A condurlo all’amicizia dei Veneziani molto valse l’aiuto prestato da questi sino dal 1173 a Cristiano arcivescovo di Magonza suo Legato nell’assedio di Ancona tenuta dall’imperatore Bizantino. Nè a Federigo, che aspirava alla signoria dell’Italia tutta, nè a’ Veneziani che voleano esser signori dell’Adriatico, piaceva che colà dominassero i Greci. Andarono adunque concordi a questa impresa, nella quale i Veneziani si trovarono uniti a’ Ravennati che vi furon condotti dal Legato imperiale; ma il maggior vanto riportarono gli Anconitani per il paziente durare nella penuria di viveri. E già stremati di fame, ogni più immonda cosa si recavano alla bocca nè oramai rimaneva ai difensori tanto di forza da portare l’armatura. E qui, sebbene a molti sia noto, non so tacere il fatto di quella gentildonna che accostatasi col suo bambino in collo ad uno di coloro che stava a guardia della porta Balista, il domandò perchè giacesse, e quegli «in breve, disse, verrò meno per il lungo digiuno». -«E pur da quindici giorni, risposegli impiesita la giovine donna, d’altro io non vivo che di cuoia bollite e già il latte mi manca per il mio figliuolo; ma leva su, e se nel mio povero seno ancor ne rimano , presto accosta le labbra e rinforzato corri alle mura». Allora il soldato levò il capo, e raffigurata la gentildonna ed accortosi al pallore del suo bellissimo viso quanto dovea aver sofferto per la fame, vergognò del lamento e gittatosi alla disperata tra’ nemici, quattro ne uccise, ed assalito il quinto, fu morto.
E Iddio non volle lasciare tal virtù senza aiuto. Chè notte tempo grande moltitudine di lumi si vide discendere per le pendici del monte di Falconara. Era la gente di Aldruda Frangipani contessa di Bertinoro, la quale sebbene riconoscesse i suoi castelli dall’impero, all’udire che perfino le misere donne di Ancona erano state vituperate dal Legato imperiale, gli si era mossa contro, e traversato con grande rischio il contado della nemica Ravenna, dopo quattro giornate giungeva con i suoi vassalli e coi Lombardi assoldati da Guglielmo Marcheselli. Gli avamposti dell’oste imperiale non immaginavano mai che il numero de’ lumi era triplice di quello dei nemici e che ogni soldato avea appeso tre lumicini alla lancia, e corsero spaventati all’arcivescovo annunziando che una poderosa oste con schiere bene ordinate e compatte era vicina. E già udivansi le voci di que’ guerrieri che scorgendo le torri d’Ancona acclamavano alla loro ardita e generosa signora, e poscia le grida dei cittadini che dai portici della chiesa maggiore rispondevano ai loro liberatori, sì che l’arcivescovo per non esser preso in mezzo in quella notte medesima, levò l’assedio.
Ma i Veneziani, come quelli che erano molto accorti e tenaci, seppero trarre vantaggio anche da questa impresa così fallita, e richiamando le loro navi per lo avvicinarsi del verno, conchiuso prima un vantaggioso trattato coi Riminesi, per lungo tempo impedirono agli Anconitani perfino l’uscita dal porto, e d’allora in poi si fecero custodi del golfo d’Ancona.
Federigo a Rarenna nell’anno 1177. VI. L’arcivescovo Cristiano condusse i Ravennati ad imprese minori propugnando in vari luoghi la parte imperiale, poscia, insieme agli arcivescovi di Magdeburgo e di Worms, fu mandato da Federigo in Anagni, dove si convenne che l’imperatore, lasciato lo scisma, riconoscerebbe come legittimo pontefice Alessandro III, il quale sarebbe venuto nelle parti settentrionali d’Italia per farsi mediatore nella futura pace con la Lega.
Ed ottenuto un salvacondotto, papa Alessandro partiva da Anagui e si faceva precedere a Ravenna da sei cardinali che presentanosi a Federigo che ivi o lì presso dimorava, come è provato da un documento certissimo, ciò è dalla conferma ne’ suoi beni che l’imperatore fece all’abate del monastero di S. Lorenzo in Cesarea l’11 di maggio 1177:
Datum apud Ravennam 5.a id. Maji Feliciter Amen7.
Ma il papa non andò a Ravenna dove prima pareva indirizzato, e presa la via di mare, fino dal dì 24 marzo, giunto a S. Niccolò di Lido dai vescovi e dal clero con le croci alzate fu onorevolissimamente ricevuto, ed entrato nella barca ducale, sedendogli il doge alla destra, il patriarca alla sinistra, fra le liete grida di tutto il popolo scendeva in Venezia alla piazza di S. Marco.
Tradizioni favolose. Così i migliori documenti raccontano, e così la critica storica rimane appagata, rifiutate tradizioni antichissime, le quali, confondendo a quanto sembra, la fuga del papa da Roma a Benevento nel 1167 col suo arrivo in Venezia che seguì dieci anni dopo, narrano che Il santo papa, timoroso della crudeltà di lui (ciò è di Federigo), prese il vestimento del suo cuoco, e così travisato a Venezia fuggi dove servì per qualche tempo come se giardiniere od ortolano fosse8. E la popolare novella lo dipinge ancora errante alla ventura per le tenebrose calli di Venezia nella prima notte della sua venuta ed addormentato per terra presso S. Apollinare o S. Salvatore o altra chiesa; narra poi come capitasse al monastero di S. Maria della Carità, dove a gran mercè ricevuto, per quasi sei mesi fosse abbassato a vilissimi uffici nella cucina, finchè, riconosciuto da un pellegrino ed avvisato il Doge, fu con grandissimo onore portato a S. Silvestro nel palazzo del Patriarca di Grado.
Allora, continua la favola, la Repubblica mandò ambasciatori di pace al Barbarossa in Pavia, il quale arrogantemente rispose «che gli consegnassero quel fuggitivo o egli, assaliti i Veneziani per terra e per mare, avrebbe piantate le sue aquile dinanzi alla basilica di San Marco». Ed il raccontatore più famoso di questa favolosa istoria, è Obone prete ravignano, il quale fu citato in testimonio da D. Fortunato Olmo, monaco Benedettino che nel 1629 credette di poter dimostrare che le tradizioni dicevano il vero9.
Obone rammenta la vittoria navale dei Veneziani a Salvore, ma la pone assai più tardi che ella non fu, dice fatto prigioniero Ottone figliuolo di Federigo, e che da’ fuggiaschi riparati a Ravenna udiva 1* imperatore la infausta novella. Poco dopo fa giungere in Ravenna lo stesso Ottone, mandato dai Veneziani a trattar della pace col padre il quale sarebbe poscia venuto a Venezia ad abboccarsi col Papa.
Ma il vero è che papa Alessandro, accolto in Venezia con quell’onore che abbiamo detto, incominciò subito a trattare per lettere e per messi con l’imperatore che ancora era a Ravenna, e se questi inviava i suoi primi legati da Cesena, come dice il Muratori10, dovette presto tornare a Ravenna, poiché si legge: Molte ambascerie’ intorno alla pace si scambiarono fra l’imperatore che stava a Ravenna ed il Papa che era in Venezia11.
Federigo non vuol trattare la pace cha a Ravenna od a Venezia. E per diciassette giorni durò la contesa del luogo dove trattare la pace, e non volendo Federigo andare a Bologna tanto avversa al nome imperiale dopo le sevizie sofferte dall’arcivescovo Cristiano suo legato, proponeva si scegliesse Ravenna oppure Venezia.
Rispondeva il papa, che Bologna era già stata scelta come luogo dei convegno, che, senza consenso de’ suoi alleati, non l’avrebbe voluto mutare: sarebbe egli andato a Ferrara a tener parlamento con essi. Ed in Ferrara fu il 10 d’aprile, ricevuto dagli arcivescovi di Ravenna e di Milano, principalissimi dignitari della Chiesa d’Italia, con tutti i loro suffraganei, e dai consoli delle città lombarde. I quali voleano trattata la pace in ogni modo in Bologna o io Ferrara, in Padova od in Piacenza; ma i legati imperiali si mantennero così saldi nel proporre Ravenna o Venezia, che i Lombardi alfine si piegarono, e fu scelta Venezia come quella città che aveva i cittadini più queti ed amanti della pace e che era più grata e più sicura per tutti12. Ed il papa ritornato il 9 maggio a quella volta, fu nuovamente accolto con onori grandissimi; ma non potendosi accordare le parti, papa Alessandro propose una tregua di sei anni coi Lombardi e di quindici col re di Sicilia, durante i quali l’imperatore avrebbe goduto i beni della contessa Matilde. Ne fu scontento Federigo, ne infuriarono i Lombardi che aveano sostenute tante spese e patiti i danni della lunga guerra, ma tutti aveano crmai necessità di quiete. Ed accettata la tregua, il doge Sebastiano Ziani inviò Pietro suo figliuolo con sei galere a Ravenna acciocché conducesse Federigo in Venezia. E l’imperatore si mise in mare in compagnia di Pietro Traversari assai potente fra i cittadini ravignani; e tosto che il minuto popolo di Venezia seppe che Federigo era giunto a Chioggia, si Federigo da Ravenna va a Venezia. levò a romore volendo movergli incontro e condurlo in città; tanto presto erasi usato a godere nelle feste e nelle solennità della venuta dei principi; ma il doge non lo permise. Il 24 di luglio Federigo, già assolto dalla scomunica, entrava solennemente in Venezia dove liete ed amorevoli accoglienze ebbe dal papa, al quale poscia fu attribuito il famoso detto: Super aspidem et basiliscum ambulabis, ed a Federigo la risposta: Non tibi sed Petro, tanto per ornare di un’altra favola la memoria di quella solenne giornata.
Ravenna fra le città imperiali VII. L’imperatore rimase in Venezia sino al mese di settembre, nè i giorni gli passarono inerti. Che pacificatosi q, con la Chiesa il 16 agosto 117713 volle confermare e riordinare gli antichi patti fra le città che riconoscevano la suprema signoria dell’imperatore, e la Repubblica di Venezia, la quale consideravasi come fuori del regno d’Italia ed indipendente del tutto, sì che il nome di Venezia non si ritrova fra quelli delle città italiane che sottosegnarono l’atto della pace di Costanza nel 1183. Incominciando con molte attestazioni di affetto e di amicizia per il doge, l’imperatore dichiara di confermare i diritti stabiliti nei patti di Ottone, di Enrico e di Lotario. Il trattato è perpetuo ed immutabile ed in esso sono scritti l’un sotto dell’altro i nomi dei sudditi dell’imperatore che il Privilegio presente avrebbe obbligati, e sono i
Pavesi | Lucchesi | Piacentini |
Milanesi | Pisani | Fiorentini |
Cremonesi | Genovesi | Ferraresi |
Ravignani | Pesaresi | Sinigalliesi |
Comacchiesi | Cremaschi | Anconitani |
Riminesi | Fanesi | Umanesi |
Fermesi | Epinenses | Montesilicesi |
Gavellesi | Vicentini | Padovani |
Trivigiani | Cenedesi | Aquilejesi |
e così gli abitanti dell’Istria e tutti coloro che già erano o sarebbero divenuti sudditi del regno Italico.
Città del Ducato di Venezia. Le città e le terre che costituivano il Ducato di Venezia erano poi queste:
Rialto | Brondolo | Caprula |
Malamocco | Loredo | Cividale |
Torcello | Murano | Fine |
Chioggia | Ainiano | Grado |
Palestrina | Burano | Equilo |
Privilegio conceduto da Federigo ai Veneziani. Si dichiarano i confini de’ Veneziani inviolabili, il doge ed il suo patriarca, i vescovi, gli abati, sempre liberi nei loro possessi di case e di campi, di boschi, di paludi, di prati, di vigne, di saliceti, di seminati e di pescagioni, ed è vietata la caccia ed il pascolo senza licenza del padrone del terreno. E sotto pena di cento libbre di purgatissimo oro, è vietato in tutte le spiagge dell’impero di rubare una nave veneziana avariata, e di molestare i naufraghi. Avvenuta una correria, il capo sia preso e consegnato entro sessanta giorni alla parte danneggiata e il danno rifatto col doppio. Non potendosi consegnare il capo e rifare il danno, un complice paghi cinquecento monete d’oro. Il furto commesso fra le parti, sia ricompensato con la restituzione del quadruplo. I servi e le ancelle fuggitive sieno restituiti da ambe le parti con le cose portate: il giudice che ne farà la restituzione avrà diritto ad un soldo d’oro per capo, ma ne pagherà settantadue se dopo averli ricoverati non li avrà voluti restituire e sarà fuggito. Nel dubbio, negando il giudice che siensi rifuggiti servi là ove sono cercati, occorre il giuramento di dodici testimoni. Le cause non debbono durare più di sei mesi.
Si restituiscano i cavalli e gli armenti fuggitivi, noi doppio, se rubati.
Si dia ai Veneziani il diritto di esigere il ripatico ed il quadragesimo (dazio del 2 1/2 per cento sulle merci nelle navi che approdavano al loro porto) secondo l’antica consuetudine.
Avvenuta un’offesa fra le parti, i messi non sieno ritenuti, sotto pena di rilasciarli pagando trecento soldi: e se (nol voglia Iddio) saranno uccisi, si paghino a’ loro parenti mille soldi. Commesso in qualsiasi modo un omicidio, il reo e tutti i complici sieno consegnati legati alla parte offesa o invece di ciascuno di essi trecento soldi d’oro; e ucciso un uomo libero, si paghino trecento soldi d’oro, cinquanta per un servo: per una ferita non mortale ad un uomo libero cinquanta, ad un servo solo trenta. Sia condannato a trecento soldi d’oro chiunque eccitando il popolo a romore ne’ pubblici mercati avrà commesso un omicidio. Il ducato di Venezia promette all’imperatore ed ai suoi successori di pagargli ogni anno nel mese di marzo cinquanta lire venete ed altrettante libbre di pepe ed un pallio in compenso di questo trattato che qui è esposto per sommi capi.
«E se un Duca, un Marchese, un Conte, un Visconte o alcuna grande o piccola persona violerà questa nostra pagina imperiale, lo che non crediamo, sappia che dovrà pagare mille libbre d’ottimo oro, metà al Fisco imperiale, metà al doge dei Veneziani. E perchè tanto si creda e da tutti si osservi, confermando questa pagina abbiamo comandato che sia insignita della impressione del nostro sigillo sotto la testimonianza de’ Principi, i nomi de’ quali si leggono scritti qui sotto».
Ed il nome di Federigo è posto dopo le firme di diciotto testimoni14, fra i quali si legge sottoscritto per decimo.
- Sebastianus Zianus Dux Venetiae, e per ultimo
- Petrus Traversarius de Ravenna.
La navigazione delle città italiane limitata a vantaggio dei Veneziani.
Il capitolo più notevole di questo trattato si è quello per il quale conceduto libero da ogni gabella il commercio ai Veneziani in terraferma per tutto l’impero, l’imperatore vincola i suoi sudditi a non passare oltre a Venezia nei loro viaggi marittimi dicendo: licentiam habeant homines ipsius Ducis ambulandi per terram seu per flumina totius Imperli nostri, similiter et nostri per mare usque ad eos et non amplius.
Così i Veneziani, tanto pertinaci nel cercare l’assoluto dominio dell’Adriatico, prevalevano già in Ravenna ed in Rimini, erano quasi signori di Fano, chiudevano tutti i porti del golfo d’Ancona, e col trattato suddetto costringevano Federigo ad indirizzare a Venezia tutto il commercio delle città imperiali. E mentre ottenevano per se medesimi la libera navigazione per i fiumi ed il libero esercizio de’ loro traffici nelle provincie dell’impero, toglievano ogni guadagno, ogni speranza al commercio marittimo delle altre città italiane, alle quali fu forza di inviare le loro merci a Venezia ed ivi sottoporle a gravissimi dazi. E tanto seppero ancora fare i Veneziani senza odio, senza invidia degli altri Italiani a cui la vittoria di Legnano avea portato frutti mollo più scarsi.
Che fermata la tregua, i consoli, i deputati delle città della Lega, come attesta la cronica Altinate, partivansi benedicendo a Venezia ispiratrice della italiana concordia, e mediatrico della pace, per cui rimarrebbe eternamente famosa e benomerita.
E l’imperatore, perduta ogni speranza di contrastare novellamente ai Veneziani l’imperio del mare, in sul finire di sottombre fece vela per Ravenna, dove Pietro Traversari lo accoglieva nelle sue case e con recale magnificenza lo ospitava più giorni.
L'arcivescovo Ravennate si adopera in Costanza per la pace. E nella conclusione della pace di Costanza, avrebbe poi avuta gran parte l’arcivescovo di Ravenna, secondo la cronaca di Iacopo Malvezzi da Brescia: Intercurrentibus autem multo tempore legatis hinc inde, venerabilis pater et Civis noster memorandus Dom. Gulielmus de Cardinalibus tunc archiepiscopus Ravennatum pro Lombardis ad Imperatorem profectus est. E più sotto: Anno Christi Domini 1183, Iulio mense in Constantia urbe Alemaniae idem Dom. Guglielmus pacem inter Longobardos et Imperatorem composuit15.
Gerardo ed Alberto arcivescovi Ravennati guidano i navigli veneti in Terrasanta.
VIII. E pure in quella parte di storia veneta che riguarda le Crociate, troviamo il nome di Ravenna, che i navigli veneti furono capitanati da due arcivescovi ravignani ciò è Gerardo ed Alberto.
Del primo parlò anche l’Ammirato, e sembra abbia ricavato dalle croniche di S. Antonino, che papa Clemente III facendo predicare la crociata nell’anno 1188, «mandò fra gli altri l’arcivescovo di Ravenna, monaco di Cistello a Firenze, per predicare la Croce per lo detto passaggio: le cui parole sì fattamente commossero gli animi dei Fiorentini, che grande fu il numero di coloro che andavano a farsi segnare»16.
Ma il nome di Gerardo eletto arcivescovo di Ravenna non si ritrova nè negli annali nè nelle croniche dell’ordine Cistercense17.
Ad ogni modo Gerardo, lasciata la cura della sua diocesi ad un Alessandro vescovo di Forlì, parte a capo del naviglio veneto; libera Tiro mentre era per cadere nelle mani del Saladino, ma in quello che va contro a Tolemaide o S. Giovanni d’Acri, assalito dagli infedeli, muore combattendo sulla sua nave a dì 4 di ottobre dell’anno 1190, ed al suo lato cade anche Giovanni vescovo di Faenza.
Nell’archivio arcivescovile di Ravenna18 rimane l’atto scritto a Tiro il 2 di febbraio dell’anno 1189, pel quale Gerardo dona una panziera (unam Panceriam), parte dell’armatura di certo Guirisio Paganello morto in quella città, a più persone in comune, come ricordo della promessa che esse aveano fatta sotto pena di cento soldi di Lucca per ciascuna, di difendere la Chiesa di Ravenna da tutti i danni che avrebbe potuto arrecargli il Paganello o qualcuno de’ suoi successori. La panziera è data senza alcuna condizione: libere etiam vobis illam trado ad faciendum quidquid vobis ex ea placuerit.
Di Alberto da Imola, eletto arcivescovo di Ravenna dopo il 16 di gennaio dell’anno 1202, dice il Fabbri nelle Sacre memorie di Ravenna: «Egli è poi fama, e lo narrano le noslre istorie, ch’ei pure, ad imitazion di Gerardo, nutrendo spiriti militari, destinato fosse condottiere e capo dell’armata veneta che nuovamente allora erasi allestita contra i Saraceni, e così carco di meriti e di gloria, finì di vivere circa l’anno milledugentosette»19. Con maggiore sicurezza afferma il fatto, e con più minuti particolari lo ricorda Serafino Pasolini, il quale, sebbene non usasse diligente cura nell’appurare le cose e le mettesse in carta così come le veniva raccogliendo da ogni fatta di libri o le udiva dalle credule genti20, fu nondimeno diligentissimo raccoglitore delle tradizioni e delle memorie del suo ordine, molte delle quali ricavò da scritture antichissime del monastero di Porto che ad ogni altro erano ignote. E le sue parole sono queste:
«Quest’anno (1205) fu molto celebre e glorioso, per la magnifica pompa e singolar concorso alla solennità della Domenica in Albis, perchè, fatto Alberto arcivescovo di Ravenna, condottiero dell’armata veneta contro ai Saraceni, videsi il Porto della città tutto ripieno di navi e vascelli di soldati e capitani, con l’assistenza di valorosi generali, li quali tutti seguendo il loro duce Alberto, con militare sì, ma divoto applauso vennero a presentare, a nome della serenissima Repubblica veneta, una ricca città d’argento, rappresentante la medesima città di Venezia, per la gratia ricevuta dalla Vergine greca d’haverla liberata da un pericolosissimo male nascente che serpeggiando per quella regia città faceva danni straordinarii. Il che seguito, Alberto esortò tutta la militia e popolo ad una divotissima processione che, mentre si prostendeva, non udivasi che implorare l’aiuto di Maria: questa terminata, e benedetta l’armata con la Vergine, l’arcivescovo con la più cospicua nobiltà d’Italia incamminossi verso levante come dalla nostra Relatione».
E poiché qui abbiamo fatta menzione del monastero di Porto, ci pare che non sia da tacere come al Beato Pietro degli Onesti fondatore di quel sodalizio, succedesse nel Priorato un Giovanni Decabono veneziano, il quale in una pergamena del 21 dicembre 1142 ricorda che, come gli imperatori di Germania ed i re di Francia e di Spagna, così ancora i dogi di Venezia erano usati di farsi scrivere nella divota compagnia della Vergine Greca custodita in quella basilica.
Della fine di Pietro Ziani.
Ed in questo santuario di Porto dicono gli storici ravennati essere venuto (insieme a Tommaso patriarca di Costantinopoli e ad Ubaldo arcivescovo di Ravenna) Pietro Ziani tanto illustre fra’ veneti dogi dopo ventitré anni di principato. «Rinunziati i governi e disprezzati gli «cuori del mar procelloso delle mondane cure fermanti l’anchore io questo Porto», dice il Fabbri da buon secentista21, ed a lui s’accorda il Rossi22 nello affermare il fatto, e nel porlo all’anno 1215.
Ma qui mi sembrano meritare maggior fede gli storici veneziani che dicono Pietro Ziani, lasciato il governo, esser tornato alle sue case a Santa Giustina in Venezia, e quivi quetamente essere venuto a morte il 13 marzo 1229.
Note
- ↑ Lib. II, c. 13.
- ↑ Leggesi nella vita di papa Onorio II, ch’egli delegò Petrum Pretrum Presbyterum cardinalem tituli sancti Atanasii ad partes Ravennae qui deposuit Aquilejensem et Venetum patriarchas, e Bernardo di Guidone aggiunge, quia invenit eos schismaticis favorabiles extitisse. E così altri scrittori di cronache nella raccolta del Muratori, il quale crede col Sigonio che non avessero altro peccato fuorché quello di avere favorito Corrado usurpatore della corona d’Italia dopo aver prestato giuramento al re Lotario.
- ↑ Paleocapa. Esposizione dello stato antico delle vicende e della condizione attuale degli Estuarii Veneti. Venezia, 1867.
- ↑ Inf. Canto XV, 3. Era Dante in Padova nell'anno 1306, trovandosi un atto privato di Donna Amata Papafava fatto d 27 agosto, nel quale serve di testimonio Dantino quondam Aligerii de Florentia, et nunc stat Padue in contrata Sancti Laurentii. - Murat. Ann. 1306.
- ↑ Romanin, Storia documentata di Venezia, T. II, p. 55-57, cap. III.
- ↑ Pag. 173.
- ↑ Fant., Mon. Rav., Tom. II. N - 78. Ex Tabulano Portuensi.
- ↑ Così si legge nella Cronaca di Savoia di Guglielmo Paradin; Lione, 1552, pag. 143.
- ↑ Ved. anche Zon. e Cicogna, Iscris. Venet., Tom. IV; e Daru, Lib. III.
- ↑ Annali, 1177.
- ↑ Mon. Germ. Hist., Tom. IV.
- ↑ Quia Veneta tuta erat omnibus et fertilis et abundans et gens ejus quieta et vocis amatrix. Altinate.
- ↑ Fant. Mon. Rav., Tom. VI, N.° cii.; Cod. Trevis., N. 265. Privilegium Federici Barharossae Imperatoris.
- ↑ I nomi dei testimoni sembrano apposti per ordine di gerarchia, e sono i seguenti:
Ulrico Patriarca di Aquilea - Enrico Patriarca di Grado - Cristiano Arcivescovo di Magonza - Filippo Arcivescovo di Colonia - Arnaldo Arcivescovo di Treveri - Vicmaro Arcivescovo di Magdeburgo - Artunico Vescovo di Augusta - Corrado Eletto di Vormanzia - Vortuino Protonotario - Sebastiano Ziani Doge di Venezia - Florenzio Conte di Olanda - Enrico Conte de Dietha – Teodorico Marchese di Landerherc e il suo fratello Diedo - Corrado Marchese di Ancona - Uberto Conte di Biandrate - Pietro Traversari di Ravenna – Torello Ferrarese.
Firma di Federigo Imperatore autenticata da Gotifredo Cancelliere in nome dell’Arcivescovo di Colonia, Arcicancelliere del Regno Italico.
Dato a Venezia nel Palazzo Ducale. - ↑ Rer. Italie. Script., Tom. XIV. col. 881.
- ↑ Storie Fiorentine, Tom. I.
- ↑ Amadesii, Chronotaxim, Tom. III, pag. 19.
- ↑ Capsa G. N.° 2503
- ↑ Pag. 498.
- ↑ Mordani, Uomini illustri della città di Ravenna.
- ↑ Pag. 274.
- ↑ Lib. VI. pag. 378.