Degli ori e dei gioielli nella esposizione di Parigi del mdccclxxviii
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DEGLI ORI
e
DEI GIOIELLI
nella
ESPOSIZIONE DI PARIGI
DEL MDCCCLXXVIII
RAPPORTO DI ALESSANDRO CASTELLANI
GIURATO DELLA CLASSE XXXIX
ALL'ONOR. COMM.
MINISTRO DI AGRICOLTURA INDUSTRIA
E COMMERCIO
ROMA
tipografia elzeviriana
MDCCCLXXIX
DEGLI ORI
e
DEI GIOIELLI
nella
ESPOSIZIONE DI PARIGI
del mdccclxxviii
Onorevole Sig. Ministro,
Nel portare a sua conoscenza i fatti che ho potuto raccogliere nella Esposizione universale del 1878, studiando le condizioni con cui vi fu rappresentata l’Arte dell’Orafo da varie Nazioni, ho creduto cosa utile premettere brevissime notizie sul modo di lavorare i metalli preziosi presso i popoli dell’antichità. Imperciocché senza tali ricordi mal riuscirebbe Io apprezzare l’opera degli uomini egregi d’Italia e di fuori, i quali posero ogni cura per restituire all’Oreficeria la purezza delle forme, propria agli ornamenti egizi, fenici, etruschi, greci, ed italo-greci; la robustezza che tanto si ammira nei gioielli romani; la sontuosità dei bizantini e di quelli delle varie scuole dei tempi di mezzo; finalmente il gusto finissimo che ebbe il Rinascimento italiano nei suoi lavori d’oro a massello, abbelliti da smalti e da gemme preziosissime.
Nella sala del Trocadero, ove l’esimio archeologo Augusto Mariette ha dimostrato così bene, con monumenti originali e con fac-simili, l’istoria delle arti e delle industrie dell’antico Egitto, veggonsi rappresentati in pittura, tra molti altri soggetti della vita privata di quel grande popolo, alcuni nani, intenti a lavorare collane ed a preparar metalli. Sopra di essi vi ha un’iscrizione geroglifica che dice: soffiano per fonder l’oro ne’ crogiuoli. Questo monumento non conta meno di seimila anni, e ne insegna che gli orafi assiri, fenici, greci ed etruschi furono i continuatori delle tradizioni egiziane, tanto nella tecnica, che nella riproduzione di alcuni tipi artistici.
Quali fossero questi primitivi gioielli noi lo apprendemmo, allorchè ci venne dato di studiare il tesoro scoperto dal Mariette nella tomba della regina Aah-Hoteh, custodito ora nel museo di Boulaq, e quando potemmo vedere gli ornamenti personali egizi del museo di Torino, del museo Britannico, del Louvre e di molti musei di Alemagna, e quelli bellissimi esistenti nella collezione della Società storica di Nuova York in America. Questi gioielli sono per lo più di oro pallido per lega di argento, e specialmente quelli antichissimi; e rappresentano rane, alligatori, oche, mosche, nilometri, occhi umani, fiori di loto, idoletti del Pantheon egizio, scarabei alati usati a modo di fibule, ovvero appesi a catene ammagliate, tonde e pieghevolissime, come quella che chiamano etrusca, perché una bellissima ne fu trovata nella tomba Regulini-Galassi a Cerveteri in Etruria1.
Questi simboli sono fatti a stampo, e pendono generalmente da catenuzze sottili, alternati con acinetti di corniola o con margherite di paste vitree colorate. Vediamo pure ricche armille e pettorali con fiori di loto, sparvieri ad ali aperte, e cani, tutti adorni di tassellature di pietre (non già smalti), incassate entro scompartimenti di teniette d’oro, molto rassomiglianti agli smalti cloisonnés dei chinesi, dei giapponesi e dei bizantini. Tali decorazioni policrome sono di un effetto bellissimo, ed il lavoro di lapidario, tanto minuto e ricercato, ci fa credere che dovessero essi destinarsi ai Re, alle Regine, ai Sacerdoti, ed ai grandi dignitari dello Stato.
Come ho detto di sopra, è facile cosa il dimostrare che questi primitivi adornamenti personali degli egizi servirono di tipo agli assiri ed ai fenici, che li trasmisero con poche alterazioni ai greci ed agli etruschi. Infatti sui bassorilievi di Ninive, scoperti dal Layard, sono rappresentati personaggi reali e sacerdotali, che portano armille con fiori di loto, ed orecchini, molto simili a quelli che vediamo sui monumenti figurati dell’Egitto. E nelle tombe assiro-fenicie ed egizio-fenicie di Cipro, di Rodi, e di Sardegna si sono trovati gioielli di pretto stile egiziano. Le tombe etrusche poi contengono di frequente scarabei, vasetti di terra invetriata ed ori di forma egizio-fenicia. Finalmente l’inestimabile tesoro prenestino, che tanto ammiriamo nel museo del Collegio Romano, è la più manifesta prova delle relazioni che corsero tra i popoli italici primitivi ed i mercatanti della Fenicia.
Questi navigatori industriosi, che riuscirono ad impadronirsi di tutto il Mediterraneo, che fondarono stazioni e colonie nelle isole e lungo le coste dell’Italia, furono poi, a quanto sembra, i primi ad applicare all’oreficeria un sistema di decorazione ignoto agli egizi ed agli assiri, del quale troviamo i più antichi esempi negli ori delle necropoli di Kamiros, di Curion, di Præneste e di Cære. Voglio parlare di quell’arte che consisteva nel descriver linee, meandri e figure geometriche svariatissime sulla superficie piana od incurvata del prezioso metallo, non già proffilando l’ornato coll’aiuto del bolino, del pulzone o del cesello, ma si bene allineando sui contorni di esso tanti globuletti di oro, quasi impercettibili, che venivano poi saldati e fissati sul fondo con ammirabile precisione e nitidezza. Vi fu un età remota, forse tra il settimo ed il quinto secolo avanti l’êra volgare, nella quale l’orafo fenicio, stretto già dagli industriali avanzamenti dei greci e degli etruschi, superò se stesso, producendo tutti quei stupendi lavori di pulvisco aureo, che ai nostri giorni, si trassero dalle necropoli sopra indicate, e che rivelano l’eccellenza di una tecnica, la quale, perduta fino dai tempi dell’impero romano, ignota al medio evo ed al Rinascimento, fu in questo secolo ritrovata e restituita all’industria dalla nostra famiglia, dopo più di trent’anni di studio e di costanti ricerche.
E poiché io son venuto a parlare di questo pulvisco aureo, usato dagli antichi, credo opportuno, signor Ministro, di darle comunicazione di una mia scoperta sull’origine di tale sistema decorativo. Ei può ritenersi per assioma, che tutte le società primitive traessero dalla natura, che le circondava, gli elementi tipici delle loro ornamentazioni. Così gli egizi, che vivevano in mezzo ad una vegetazione palustre, e ritenevano come sacre le piante del Nilo, trovarono nel fiore del loto il principio del loro vasto sistema ornamentale. I chinesi, i giapponesi e gl’indiani copiarono i bei fiori e gli uccelli dell’Asia, e li adattarono ammirabilmente alla decorazione della ceramica, delle stoffe, delle lacche e dei metalli. Sono già molti anni che, studiando i lavori di pulvisco aureo del museo Gregoriano, del Britannico, e della collezione Campana nel Louvre, io andava chiedendo a me stesso quale avesse potuto essere il tipo originale, a cui i fenici, e poi gli etruschi, si fossero ispirati, nel produrre i loro lavori di granaglia d’oro. Ed essendomi di recente venuto per mano un libro importante sugli echini fossili, edito per cura del governo inglese, nell’esaminare le varie tavole ritraenti le specie denominate Diademie e Pseudo-Diademie, che sono una varietà degli orsini o ricci di mare, provenienti dalle coste del Mediterraneo, trovai, alla vista di quella elegantissima famiglia acquatica, la soluzione di tutto il problema. Egli è infatti assai naturale che i primi abitatori delle coste del Mediterraneo, errando sui lidi, trovassero belle quelle conchiglie variopinte, quei gusci calcarei, coperti di disegni geometrici punteggiati a rilievo, i ramoscelli di corallo, e le madrepore, che essi raccoglievano in riva al mare dopo la tempesta, o che s’impigliavano nelle reti durante la pesca. Ed è anche più naturale che le loro donne si adornassero da prima di quei prodotti marini, così come li rinvenivano, e che poi col tempo gli orafi li riproducessero, imitandone con le granette d’oro in su i gioielli le rugosità e le linee armoniose. Il tesoro scoperto a Micene dal dottore Schliemann contiene una numerosa serie di dischi d’oro con lavori a cesello, di stile antichissimo, tra i quali veggonsi rappresentati polipi, stelle di mare, orsini, onde convenzionali e madrepore. Il quale fatto viene ad avvalorare le idee qui dianzi espresse. Lascio ad altri il decidere, se questo medesimo sistema ornamentale, che esordisce come ho detto colle Diademie, colle Astree, e colle Meduse, servisse poi all’imaginazione dei greci per creare Nereidi, Ippocampi, Sirene, e finalmente per evocare dalle azzurre onde Afrodite, Teti e Galatea.
Il gusto ellenico si manifestò sublime anche nell’arte di lavorar l’oro. Studiando i maravigliosi gioielli, provenienti dalle necropoli della Grecia continentale, dalle isole, e dalle colonie della Magna-Grecia e di Panticapea, si sente che opere di sì puro disegno, e di fattura si nobile, non potevano uscire che dal grembo di una società, che avea per suo ideale il culto del bello. È notevole la sobrietà di linee, che distingue sopra tutti gli altri questi ornamenti di scuola greca. Direbbesi che gli artisti sentissero tutta la responsabilità che assumevano nel coprire, anche con sottile monile, un bel collo, e nel cingere con serpentelli e nodi elegantissimi le bianche braccia delle fanciulle di Atene o di Tanagra. Ma tutto questo rispetto per le forme umane non ebbero gli orafi etruschi, benché famosi, né quelli dei tempi romani e bizantini, né le altre scuole che si seguirono fino ai tempi nostri; nelle quali, per contrario, sembra che siasi voluto produrre piuttosto la sontuosità, che la pura eleganza artistica. Basta esaminare le pitture e sculture etrusche e romane, i musaici bizantini, e tutti quei veri arnesi equini, che nel medio evo e poi si mettevano addosso agli Imperatori, alle Imperatrici, ai dignitari della chiesa, ed ai nobili personaggi, che avevano l’alto godimento del sistema feudale; basta guardare le immagini che di essi ci serbano i molti codici alluminati dal ix al xvi secolo, ed i ritratti pomposi, eseguiti dai pittori dei secoli xvii e xviii, così sovraccaricati di gioiami di ogni fattura; basta finalmente fermarsi a vedere le vetrine di qualunque orafo celebre o non celebre dei nostri tempi, sì in Italia che fuori, per formarsi un concetto dei tormenti, ai quali la vanità, secondata dal pessimo gusto e dalla brama del guadagno, ha potuto e può tuttavia condannare la donna.
Dopo questi brevi ricordi, i quali reputo sufficienti a dimostrare come sarebbe utile che prevalesse la sobrietà, tanto in chi usa, quanto in chi crea i gioielli, eccomi ad esporre le considerazioni che ho potuto far, a profitto della nostra industria, adempiendo l’onorevole incarico di Giurato nella classe xxxix.
Le nazioni che hanno esposto ori e gioielli in questo concorso universale del 1878 sono: l’Austria–Ungheria, l’America, il Belgio, la Danimarca, la Francia, l’Italia, l’Inghilterra e l’India, la Norvegia, l’Olanda, la Russia, la Svizzera. Ma tra tutte queste, tre soltanto debbono maggiormente richiamare la nostra attenzione, e sono la Francia, l’Italia e l’Inghilterra.
La Francia ha mostrato, anche in questa parte, quanto sia forte la sua potenza produttiva, e quanto copioso il suo ingegno nell’inventare. Né ciò solamente; ma ha mostrato pure quali ricchezze ha potuto accumulare, dopo aver sofferto, per catastrofe quasi unica nella storia del mondo. Giammai nelle precedenti esposizioni si videro riuniti tanti brillanti e tante pietre preziose, quante ne mostrò la sezione francese in quest’anno. Né l’arte di legar brillanti fu in alcun tempo, a creder mio, portata a così alta perfezione.
Il brillante invade oggi tutto il campo del commercio, come la rugiada un prato fiorito. Altra volta esso era la gemma riserbata alle grandi fortune; e di rado usciva dalla cerchia di quelle classi, che sono poste ai sommi gradi della scala sociale. Oggi invece, non appena il dono nuziale, od il ricordo d’amore, tocca il valore di alcune centinaia di lire, si può esser certi che l’ornamento di qualche brillante non gli farà difetto. Da ciò avviene che nella Francia non esiste quasi più l’oreficeria puramente artistica, quale già fioriva con Froment Meurice e con tutta quella schiera di grandi orafi, che lavoravano di massello, e smaltavano nello stile del Rinascimento. Vero è che il Fontenay ed il Falize, opponendosi per quanto possono a questa invasione di pietre brasiliane, ed applicando pei primi in Francia la tecnica degli orafi antichissimi, che la nostra famiglia ha rimesso in uso in Italia da oltre quarant’anni, dimostrarono esser vivo in essi l’amore delle buone tradizioni dell’arte.
Credo dovermi fermare un poco sulle cause che hanno dato tanta parte al brillante nell’oreficeria francese in questa esposizione, poiché ciò ha prodotto grande impressione sui Giurati, e portato gran peso nelle loro deliberazioni. L’impiego così esteso del brillante, che si adatta oramai anche ai gioielli di mite valore, devesi all’operosità della Camera sindacale dei brillanti e pietre preziose di Parigi, la quale ha tanto favorita l’introduzione dell’arte di lavorare e di brillantare i diamanti, utilizzando la straordinaria quantità di gemme grezze, che dal Brasile e dal Sud dell’Affrica arrivano annualmente sul mercato di Parigi, in forza di bene organizzate ed estese operazioni di commercio.
La Camera sindacale dei brillanti e pietre preziose di Parigi espone una serie numerosa di diamanti grezzi e di brillanti. Fra questi è notevole un brillante, denominato la Stella del Sud, trovato a Waldecks in Affrica. Esso é quadrangolare, alquanto pagliesco, e pesa ora carati 128 1/2, mentre prima della lavorazione ne pesava 288 3/8. Figurano, accanto a questa gemma insigne, gemme bellissime, sino alle grandezze più ridotte, seguite poi dalle impercettibili rose di Olanda o ballette, come le denominano i nostri gioiellieri.
Tanta è oramai la quantità dei frammenti di diamanti utilizzati pei nuovi congegni meccanici, che ne facilitano la lavorazione, che abbiamo veduto all’esposizione del Campo di Marte potersi vendere anelli d’oro con un brillantino vero, per soli franchi dodici ciascuno; e non in piccolo numero, ma a centinaia ed a migliaia. Le case principali, che ora contendono in qualche modo pel primato coi vecchi arrotini d’Amsterdam, sono quelle di Roulina e di Rouvenat di Parigi. Ambedue hanno esposte, in recinti circondati da cristalli, tutte le macchine occorrenti alla lavorazione geometrica del diamante, le quali macchine, messe in moto dal vapore, e guidate da esperti operai, fanno l’ammirazione di tutta la gente, che s’accalca curiosa d’intorno ad esse.
La lavorazione del diamante è in gran parte affidata alle donne ed ai ragazzi, meno l’operazione del clivage, o separazione e sfaldatura dei cristalli natii, la quale viene eseguita da uomini di celebrata esperienza.
Parigi abbonda inoltre di lapidari espertissimi, che lavorano ogni specie di pietre dure, dal corindone sino al quarzo jalino, dando ad esse le sagome e le sfacciature le più svariate, secondo il capriccio della moda. La lavorazione dei vasi e delle coppe di onice, di lapislazuli, di giada e di cristallo di monte, è si perfetta da minacciare l’antica riputazione dei lapidari romani e fiorentini, se essi non provveggono a tempo ai casi loro, collo studio e col miglioramento degli istrumenti.
Trattando qui delle pietre preziose, che, insieme agli smalti, formano, per così esprimermi, la tavolozza dell’orafo, io credo opportuno di dare alcune brevi notizie intorno allo straordinario incremento, che ha avuto in Francia la fabbricazione ed il commercio delle pietre falsificate. I chimici più insigni sono chiamati a sorprendere i processi arcani, pei quali la natura compone le pietre preziose; e, sino ad un certo punto, essi giunsero a riprodurre i composti mineralogici, ma non già il fulgore, né la bellezza delle gemme vere. Sono adunque le materie vitree e gli ossidi metallici, che servono tuttora di base all’imitazione dei brillanti e delle gemme colorate. Le case di I. David, di Regad, di Savary, e di Audy di Parigi espongono molti saggi di queste imitazioni di gemme, veramente sorprendenti. È questo un altro ramo di industria, che é di forte aiuto al grande commercio delle oreficerie false, ed al lavoro di doublé (placcato), di cui parlerò a suo tempo. Ho potuto osservare che fra tutte le imitazioni, quelle degli smeraldi sono tali da raggiungere proprio l’eccellenza; e che solo il saggio di durezza e del peso specifico può tradirle. In prova di ciò narro un fatto molto singolare.
Una dama, posta nel più alto grado della società francese, possedeva una guarnizione di smeraldi di grande valore. Essendosi cangiata la sua fortuna, diede ordine al tesoriere di vendere quegli smeraldi; ed un celebre mercante di Londra recossi a Parigi espressamente per farne acquisto. Gli fu presentata la guarnizione da due dei più rinomati gioiellieri di Parigi, i quali per conto della dama trattavano l’affare. Convenuto e pagato il prezzo, il mercante inglese ripassò la Manica col suo tesoro; e, benché egli conoscesse dal catalogo il peso di ciascuno smeraldo, pure, giunto a Londra, volle accertarsene meglio; e quindi, presi i ferri, si diede a scastonare una delle principali pietre. Ma osservandola attentamente, spogliata dei brillanti che l’attorniavano, s’avvide con sua ben grande sorpresa, che essa era falsa, e che pure false erano tutte le altre. Tornato a Parigi, senza por tempo di mezzo, e narrato il caso ai venditori, questi, vinti dall’evidenza, fecero si che fosse incontanente reso il denaro al mercante inglese, non senza porger lui le più vive scuse per l’abbaglio da essi preso. Seppesi di poi che, in un momento di bisogno, il marito della grande dama, all’insaputa di tutti, aveva fatto vendere i veri smeraldi, facendo ad essi sostituire pietre false di tanta perfezione, da ingannare tre dei più rinomati conoscitori di Europa.
I legatori dì gioie più distinti nella sezione francese sono: Massin, Boucheron, e Falize; e tutti e tre ottennero il diploma. Il primo è il vero caposcuola, e tutti s’inchinano davanti a lui. Il Boucheron ed il Falize rivaleggiano con lui nell’arte di legar brillanti, ma essi espongono anche gioielli d’oro smaltati di un gusto assai perfetto. Intorno a questi maestri fanno degna corona, tra i molti altri, i Fontenay, Paul Bernard, Rouvenat, Vever, Millerio e Bapst. Questo veterano nell’arte di legar gioie, fedele alla scuola, conduce i lavori sopra un sol piano, con molto vantaggio delle gemme, le quali, libere da ogni ombra, si mostrano all’occhio tutte ad un tempo, con bellissimo effetto, mentre ciò non avviene nelle legature, in cui predomina la modellazione a rilievo, coi diversi piani or alti or bassi. Non è qui il caso di esaminare minutamente gli oggetti esposti in questa sezione. Basti il dire che ne è tale la sontuosità, da non potersi concepire nulla di più bello. Ricordo solo che nella vetrina di Rouvenat mostrasi il celebre zaffiro, appartenente al conte Branicky, che passa a giusto titolo per una delle più belle gemme conosciute. Vi sono anche gli orecchini con quattro grossi brillanti, venduti alcuni mesi or sono all’auzione pubblica dall’ex regina di Spagna, ed acquistati dallo stesso conte Branicky per franchi 250,000. L’importanza dei lavori, che non hanno per ausiliario il brillante, è comparativamente minore, quantunque il Fontenay, il Falize, il Boucheron ed altri molti, espongano dei saggi dei lavori a cordelle sul sistema nostro, ma colla giunta di smalti traslucidi vivissimi, che sono riputati assai perfetti.
Poco dirò dell’oreficeria comune, la quale cambia di tipo col cambiar della moda, ma che pur sempre riesce a produrre effetti inaspettati per capriccio ed arditezza, così da mantenere alla Francia il primato dei ben noti articoli di Parigi. Questa mercanzia corrente è d’una importanza commerciale grandissima, ed è per lo più fatta assai bene. I modelli variano più volte all’anno; fanno il giro di tutte le mostre sui Boulevards e quindi, imitati in falso, cadono nel generale abbandono. Ho osservato in questa esposizione, che ora incomincia ad operarsi nelle città delle provincie francesi un movimento industriale assai notevole. Mentre altra volta il monopolio di certe industrie era tutto concentrato nella sola città di Parigi, adesso avviene che in vari punti della Francia esse sorgono e prendono vigore sotto buonissimi auspicî. Così vediamo le oreficerie di Lione, e di altre città, che insieme ai vetri di Amiens, alle porcellane limosine ed a tante altre manifatture, fanno concorrenza a quelle della capitale. E questo è un bene. Perchè il grande accentramento industriale è, come quello politico, sempre fatale alle Nazioni, e produce di tratto in tratto quelle grandi e tremende congestioni cerebrali, che colpiscono di paralisi tutto un paese.
La lavorazione dell’oreficeria falsa e di quella placcata ha in Francia un posto importante tra le industrie più produttive; e le macchine usate per cilindrare, traforare e stampare tutti gli elementi, che devono poi comporre questi gioielli, sono proprio ammirabili. Nel vedere con quanta facilità e sollecitudine si producono a macchina i pezzi più complicati, si comprende di leggieri come possa esser poi sì tenue il costo di tutti questi oggetti falsi, che avvelenano il senso morale delle classi povere della società. Tutta la produzione fecondissima di questa parte sì spiccata della menzogna umana è dovuta alla grande divisione del lavoro. Egli è certo degno di nota l’ingegno che esercitano i capi d’arte di queste officine, per far sì che il parere sia sostituito all’essere. E qual tema non offrirebbe al filosofo la ricerca di quanto possa contribuire sul carattere di un popolo lo smodato uso degli adornamenti falsi! Ho sollevato tale questione in seno ai Giurati, ma mentre tutti convenivano meco sui principii, non cessavano poi di difendere un’industria cotanto proficua, a colui che l’esercita. Accade in questo caso quello che accade nella vendita dell’oppio, e nel mantenimento del giuoco del lotto. L’utilitarismo la vince sopra ogni altra considerazione. A me sembra per altro che l’ultima parola dovrebbero dirla coloro, che sono responsabili dell’educazione del popolo, aggiungendo un articolo nel nuovo catechismo civile delle scuole primarie. E l’esempio buono dovrebbero darlo pei primi gli uomini di chiesa, togliendo via gli sfarzosi orpelli, dei quali essi si vestono, e vestono santi e madonne, lasciando solo alle corifee de’ teatri ed alle guardarobe dei circoli equestri la pompa bugiarda delle cose false. Ma non varrebbe meglio, a parità di prezzo, comprare un gioielletto piccolo, ma vero, che non uno pomposo, ma falso? Quando si è giunto a poter vendere un anello d’oro, con un brillantino buono, per dodici lire, a me sembra risoluto il quesito.
Crederei incompleti questi rapidi cenni sulla sezione francese, se non facessi motto delle gioie della Corona di Francia, tanto ammirate, ed intorno alle quali non cessa mai di accalcarsi la gente da mane a sera.
Esposte in una grande vetrina poligona, nel bel mezzo dell’ampia galleria d’ingresso, che fronteggia il Trocadero, sono esse sorvegliate da guardie speciali, che regolano il turno dei visitatori. Questo tesoro conta:
Brillanti | 51,403 | che pesano carati | 9,910 09 | 1/2 |
Rose di Olanda | 21,119 | 471 06 | ||
Perle | 2,963 | 7,034 50 | ||
Rubini | 507 | 586 01 | ||
Zaffiri | 136 | 912 17 | ||
Smeraldi | 312 | 226 20 | ||
Turchine | 528 | — — | ||
Opali | 22 | — — | ||
Pietre varie | 496 | — — | ||
Totale | 77,486 | 19 141 | 19/32 |
Di tutte queste gemme la più celebre è certamente quel meraviglioso brillante, denominato Il Reggente, perchè fu acquistato dal duca d’Orleans, reggente di Francia, durante la minorità di Luigi XV, nell’anno 1717. Fu da lui pagato la somma di 3,375,000 franchi. Pesa carati 136 1/4, e si dice che grezzo ne pesasse 400. È quasi senza difetti, e la sua forma è bellissima; e, se non il più grande, esso è per fermo il più puro dei brillanti conosciuti.
Il tesoro della Corona è stimato ottanta milioni di franchi. Ma ora che la monarchia è abolita in Francia, uno dei rappresentanti della Nazione, fra i più autorevoli, si dice pronto a proporre una legge, per la quale venga autorizzato il governo a venderlo. E ciò a condizione di mettere la somma, che se ne ritrarrà, ad interesse, destinando il provento annuale a dotare i Musei pubblici e gl’Istituti di Belle Arti, e lasciando intatto il capitale, di cui la Nazione sola potrebbe disporre, ed acquistarne altre gioie pei suoi sovrani, quante volte piacesse a lei di rieleggerne.
L’Inghilterra conta tre scuole ben distinte nell’arte dell’Orafo. La prima è quella che ha sede nella Scozia, e che, a mio credere, s’ispira alle antiche tradizioni anglo—sassoni e celtiche. Le case Aitchison e Marchall di Edimburgo hanno esposto ricche serie di gioielli di oro di basso titolo, e di argento, adorni di tassellature di diaspri di vari colori, di amatiste, di topazi e di altri quarzi affumicati, provenienti dalle rocciose montagne della Caledonia. Nelle fibule grandiose si possono ancora ravvisare i tipi antichissimi celto—romani ed anglo–sassoni, colla differenza che all’impiego delle paste vitree, che caratterizza le primitive, si è oggi sostituito l’uso delle pietre dure. Ma il sistema dei fermagli dei plaids dei montanari scozzesi resta sempre quello classico a spillo girante. I disegni di foggia runica dei braccialetti, le fibule in forma di pugnaletti, quelle colle zampe di uccelli montanini, coi mosconi scintillanti di quarzi colorati e vivissimi, dànno a questa oreficeria una fisonomia tutta propria, e tale da renderla assai ricercata anche fuori di paese. È bene eseguita, e di tenue costo.
La seconda scuola, in tutto moderna, è quella conosciuta nel mondo elegante sotto il nome di Mortimer, da uno dei suoi primi fondatori. Appartengono a questa tutti quei gioielli sontuosissimi di oro massiccio, con gemme e senza, condotti con inappuntabile e geometrica precisione. Se difettano nel disegno, essi hanno invece un’appariscenza di lusso confortabile, che dà loro un fascino particolare. Entrano in questa categoria le catene da oriuolo, e le tenie molli, usate per collane ed armille, che a buon diritto acquistarono fama europea; nonchè quei nobili gioielli di brillanti, rubini, smeraldi, zaffiri, e perle, e gli anelli sontuosi e fulgenti, che adornano le bianche mani delle bellissime figlie di Albione.
La terza scuola ha avuto origine dallo studio dei lavori nostri italiani, eseguiti coi sistemi dei popoli antichissimi. Oggi a Londra si lavora l’oro a granaglie assai bene, ed il difetto stilistico è spesso compensato dalla buona esecuzione. Ciò che ha presentato il signor John Brogden di Londra, basta a provare qual miglioramento vi sia stato in questa industria in Inghilterra.
Vero è che molti operai italiani, dopo l’incoraggiamento che diede Roberto Philips a questa industria hanno piantate le loro tende in Londra, e che quivi hanno ammaestrato gl’indigeni negli ardui processi dell’arte nostra. Il Giugliano di Napoli ed il Solustri di Roma sono, per dir così, i due capiscuola riconosciuti.
Oltre alla fabbricazione dei gioielli di oro di buona e di bassa lega, e dei gioielli d’argento, l’Inghilterra, come la Francia, produce pure ornamenti falsi in abbondanza, ed ornamenti di jet, usati dalle dame nei periodi di lutto. Questo jet è una sostanza lignea resinosa, nerissima e lucente, del genere dei carboni fossili, che veniva adoperata anche dagli antichi per gli ornamenti liturgici delle sacerdotesse di Iside. E nell’esecuzione di questi gioielli falsi spiegasi in Inghilterra un’industria sorprendente.
Ma prima di lasciare l’Inghilterra credo utile di far parola di altra scuola di oreficeria, la quale, se non può chiamarsi assolutamente inglese, ha nullameno sede nel gran paese asiatico, che trovasi sotto il dominio Britannico. Intendo parlare della scuola indiana. Fra le stupende collezioni dei prodotti industriali dell’India, che il principe di Galles ha esposte al Campo di Marte, ve n’è una degna di speciale considerazione, ed è quella degli ornamenti personali delle varie tribù, che sono al di là del Gange. Si resta colpiti nel riconoscere in molti di tali gioielli la riproduzione di certi tipi ellenici, familiari a chiunque abbia anche di volo studiato l’arte antica. Ma questo fatto è d’altronde spiegabile, allorchè si considera quanta influenza devono avere esercitato sull’arte dell’India le conquiste di Alessandro il Grande. Il Buddismo combattuto da altre sètte religiose, trovò utile avvalersi dell’arte figurata, che esso aveva appreso dai greci invasori, per scolpire nel marmo e nel bronzo i simboli mistici della sua fede. Infatti può dirsi che, prima della conquista macedonica, l’India fosse pressochè ignara dell’arte figurata, e che le rappresentazioni del Buddismo, giunte sino a noi, s’abbiano tal profumo di ellenismo, da non lasciarci punto in dubbio intorno alla loro vera origine. Queste idee sono avvalorate maggiormente dallo studio comparativo dei gioielli greci e di quelli indiani. Ed abbiamo avuto l’opportunità di fare questi confronti, visitando le collezioni esposte dal principe di Galles. Oltre a questi gioielli, di carattere prettamente greco, l’India ci offre altri tipi suoi proprii, forse più sontuosi, ma meno classici. Sono quelli, nei quali gli orafi indiani, applicano sull’oro smalti traslucidi di vivissimi colori, rabescati a bulino e sì vagamente condotti, da ricordare l’armonia dei colori, ed il carattere di disegno, tanto ammirati nei scialli di Caschemir. Essi sono anche adorni di perle, di rubini, di smeraldi, di zaffiri, e di certi diamanti piatti, denominati in commercio lustri d’India. Su questo sistema di lavoro gl’indiani producono cose di un lusso veramente asiatico: come sarebbe a dire collane, armille, else e foderi di grandi sciabole lunate, orecchini con lunghi fiocchi di perle, grandi amuleti con sopra le impronte dei due piedi di Brama, targhette circolari da difesa e da parata, vaselli d’oro, scettri, flabelli, e cofanetti di ogni grandezza. Ricorderò le collezioni esposte dalla Commissione del Ceylan, sì ricche di gioielli a tassellature di rubini; quelle dei signori Rivet-Cornac; la mia propria collezione, che riunisce i tipi indiani più antichi e più grecizzanti; e finalmente quella di lavori moderni eseguiti a Bombay dal signor Watson, che segnano la trasformazione dei bei gioielli indiani nei brutti e pesanti gioielli indo-europei.
Nella sezione americana l’arte dell’orafo fu degnamente rappresentata dal Tiffany di Nuova York. Trovammo nelle sue vetrine gli elementi più serii di buona lavorazione, accoppiati a gusto assai squisito. Anch’egli lavora coi metodi nostri, ed ha voluto darci un saggio della sua valentìa, esponendo i fac-simili dei gioielli d’oro trovati a Cipro nel tesoro di Curion. Quelle copie sono fatte benissimo, e sono state molto ammirate. Conviene però osservare che a Nuova York sono operai italiani che hanno formata la scuola, e che fanno i lavori più notevoli.
Il merito di Tiffany è principalmente nei gioielli di argento a geminatura di vari metalli. Per lo più ei segue lo stile di decorazione che è in uso presso i chinesi ed i giapponesi, ed ottiene gioielli elegantissimi. Questa oreficeria americana è degna di tutta la nostra attenzione, e deve ammonirci che al di là dell’Atlantico ci è suscitata una concorrenza molto seria.
La Russia, sì celebrata per le sue legature di brillanti, e più pei lavori a niello di stile caucasiano, poco ha esposto nella nostra classe. In una sola vetrina veggonsi alcuni buoni lavori d’oro, smaltati con perline appiccagliate, e con pietre di colore, condotti con finissimo artificio, giusta le leggi del vecchio e sontuoso stile del Crimenlino. Escono dall’officina del signor Tchitcheleff di Mosca.
Taccio di altra vetrina, nella quale fanno di sé non bella mostra certi gioielli d’oro di varia lega, di disegno tanto scadente, da far creder cosa impossibile che essi sian fatti nel paese, che ha il vanto di possedere il museo dell’Eremitaggio, con gli ori greci finissimi, provenienti dalle tombe di Panticapea.
La Danimarca ha presentato le belle oreficerie di stile scandinavo, di già tanto encomiate nelle precedenti esposizioni. Le vetrine del signor Christsen e quella del Birch di Copenaghen offrono una ricca scelta di torques, di armille e di fibule, tratte dagli originali esistenti nel museo della loro città. Questa scuola di oreficeria ha tanta originalità nei modelli, tanta accuratezza nell’esecuzione, da meritare non piccola lode. 11 carattere di tali ornamenti scandinavi ricorda in generale quello degli ori del basso Impero, se si eccettua l’elemento decorativo, dovuto in tutto alle tradizioni indo-runiche.
È strano che gli abitanti di una regione di quel
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quale è la Norvegia, colle mani agghiacciate dal freddo, e più atte a trattare gli istrumenti agricoli ed il martello del fabbro, che gli attrezzi dell’orafo, possano prestarsi così agevolmente al lavoro delicatissimo della filigrana di argento, di questa vera tela di Aracne, come io l’ho già definita in altra occasione. Eppure così è, gli argentieri Olsen ed Alie di Cristiania han fatto lavori di filigrana di candido argento, ed anche dorati, che, come nelle precedenti mostre mondiali, produssero sul pubblico e sui Giurati la più favorevole impressione. Debbo pur dirlo a malincuore, ma questa scuola norvega è assai superiore nel disegno e nel gusto a quella nostra di Genova; il che non dovrebbe verificarsi, per poco che i valenti maestri genovesi, invece di ispirarsi alle sagome casuali del caleidoscopio, e di condurre i loro lavori a sola retina, riafferrassero le belle tradizioni degli antenati, i quali armonizzavano sempre coll’ossatura solida dell’oggetto una decorazione di eccellente disegno.
Nella sezione austriaca è il signor Bacher di Vienna, che colle sue riproduzioni di gioielli greci rivela a noi, che sul Danubio può anche allignare l’arte classica. Osservai nella sua mostra collane d’oro, di eccelente lavorazione e di corretto stile. Ed in Austria è somma la necessità dei buoni esempi, perchè quivi la oreficeria è in generale assai volgare, e priva d’ogni impronta artistica. Non è così per la oreficeria ungherese, la quale, benchè non sempre bene eseguita, pure riveste ancora tale carattere, da ricordare l’epoca bella di Matteo Corvino. Non parlo dei gioielli tempestati di granate boeme e di turchine, che inondano i mercati. Se essi segnano un trionfo nel campo finanziario, rivelano pur troppo una vera disfatta nel campo del gusto. È sperabile che la bella istituzione del Museo Industriale viennese possa presto far rialzare anche l’arte dell’orafo, come fece per altre industrie, per quelle cioè dei tessili, dei merletti, dei vetri, e via dicendo, le quali, mercè questa scuola, possono oggi tener fronte ai migliori prodotti degli altri paesi.
Mi è doloroso il dire delle condizioni presenti dell’arte nostra nella Svizzera; ma l’amicizia e l’affetto che mi legano a quel nobilissimo paese, mi obbligano ad usar franche parole. Confido per altro che i miei amici dei forti Cantoni riconosceranno nel mio schietto giudizio il vivissimo desiderio che ho di essere loro utile.
La Svizzera, già maestra nell’arte di lavorare l’oro, per modo che i suoi gioielli rivaleggiavano in sui mercati con quelli dei paesi più civili, venne poi decadendo sì fattamente negli ultimi anni, che in questa esposizione del 1878, meno poche eccezioni, i suoi lavori furono disapprovati dai Giurati internazionali e da tutte le persone dotate di fino gusto. Non già perchè mancassero di esattezza nell’esecuzione, che anzi in questo campo essi sono inappuntabili, avendo smalti vivaci, gemme bene incassate, sagome geometricamente fatte, angolature e piani perfettissimi. Ma egli è nell’applicazione dell’arte del disegno che la Svizzera rimane indietro alle altre nazioni. Onde è, che io faccio appello ai suoi uomini più autorevoli, affinchè provveggano all’avvenire di un’industria nobilissima, e tutelino interessi economici che potrebbero altrimenti pericolare. Consiglio adunque la fondazione di Musei Industriali nei centri più importanti, con esposizioni di disegni di modelli e di opere originali da illustrare l’istoria delle arti sontuarie e della oreficeria presso i grandi popoli, e con alcune scuole dirette da maestri, capaci di riformare il gusto. È questione di alta educazione, la cui importanza non isfuggirà certamente ai pensatori della civile Elvezia.
L’oreficeria italiana è stata rappresentata in tutte le sue parti, cominciando da quei gioielli contadineschi, per mezzo dei quali ci pervennero molte tradizioni della buona tecnica.
In mezzo ai divagamenti di alcuni, che si ostinano a voler ancora introdurre negli ornamenti muliebri pezzi enormi di musaico, di conchiglie incise, di lave e di tante altre materie di discordanti colori, che dànno aspetto di grande trivialità, è un fatto oramai evidentissimo, che il ritorno allo stile ed ai metodi di lavoro, usati dagli antichi, ha rialzato l’industria nelle varie provincie nostre. E questo beneficio si è potuto ottenere mediante la scuola, che col consiglio e la cooperazione intelligente del Duca Don Michelangelo Caetani, la nostra famiglia riuscì a fondare in Roma verso il 1840. L’ammirazione, che questo ritorno alle vecchie tradizioni seppe destare negl’intelligenti di ogni paese, spronò dapprima gli orafi romani sì fattamente, che potemmo vedere in pochi anni aprirsi in Roma varie officine l’una dopo l’altra, come per incanto. Seguirono il buon esempio i napoletani ed i toscani; nè all’arte rinnovellata bastò poi l’Italia, ma la vedemmo passare le Alpi ed il mare, per prender sede in Francia, in Inghilterra ed in America.
Questa scuola adunque, che è ora diretta in Roma da mio fratello Augusto, e che é rappresentata in Napoli da Giacinto Melillo, ha prodotto gioielli che sono stati molto lodati, ed hanno ottenuto il premio di medaglie d’oro dai giurati internazionali.
Devesi anche ad essa la riforma introdotta nella legatura dei coralli napoletani, nei quali, smesse le goffe sagome di un tempo, si ammira oggi un gusto classico di disegno. E di questa trasformazione danno prova le vetrine dei signori Casalta, Morabito, Melillo, Piscione, Gioiuzza ed altri.
Ma molte delle nostre officine, che imitano questo vecchio stile, e che pure producono bei lavori, come ad esempio quelle dei signori Civilotti, Fasoli e Geraldini e di altri di Roma e delle provincie, non sempre si attengono alla purezza delle forme, facendone spesso una interpretazione non corretta, ed introducendovi elementi discordanti, che producono effetto non certo gradevole. E ciò deriva dal perchè gli artefici, e più di tutti chi li dirige, non han sempre idea ben chiara di quello che fanno. Ed è un vero peccato, poichè si vede bene che alle opere non manca la buona esecuzione, e per poco che vi si aggiungesse l’intelligenza, si otterrebbe un profitto commerciale fortissimo.
Solo rimedio al difetto di stile e di gusto, che si deplora in quasi tutte le nostre arti industriali, sarebbe l’impianto di Musei industriali nei centri maggiori di produzione. Questi Istituti diedero maravigliosi risultati in Inghilterra, in Austria, in Alemagna, ed in Russia; e dell’esempio, dato dalle altre nazioni, profitterà ben presto la Francia, la quale in questa esposizione ha riconosciuto che, a far vittoriosa concorrenza sui mercati, non basta più ai produttori francesi la loro straordinaria fecondità in quell’inventiva sbrigliata, che forma la così detta moda, se manca il freno delle buone tradizioni. La Francia si è accorta, che il primato in molte industrie le verrebbe meno, se non provvedesse a tempo; ed ha subito provveduto. Ho letto un manifesto sottoscritto da uomini eminenti, che può chiamarsi un vero grido d’allarme, per scongiurare il pericolo. Questi signori si sono riuniti in comitato direttivo per la fondazione di un Museo industriale con apposite scuole di perfezionamento; ed il governo ha messo a loro disposizione il Padiglione di Flora nel palazzo delle Tuileries. Già l’opera ferve, e fra qualche mese sarà aperta una prima esposizione comparativa dei prodotti industriali francesi e forestieri. Una sottoscrizione pei fondi occorrenti ha dato in pochi giorni centinaia di migliaia di franchi. Ed il governo ha promesso maggiori aiuti.
Auguriamoci che anche fra noi si riconosca finalmente dal governo, dai municipii e dai cittadini l’urgente bisogno di ben educare l’ingegno dei nostri operai, dando loro un indirizzo sicuro per mezzo di scuole aperte nei Musei. Ed a questo proposito debbo ricordare a titolo di benemerenza il municipio di Roma, che da vari anni iniziò uno di tali Musei industriali, il quale, benchè circondato da mille difficoltà, e ricacciato malamente in un quinto piano del Collegio Romano, pure potè esibire in questa mostra di Parigi saggi di disegno eseguiti dai suoi alunni così bene, che ottennero alla nostra rappresentanza cittadina premi ed onoranze. Che il governo e la provincia diano aiuto alla nascente istituzione nostra, ed a tutte quelle che potranno sorgere in altre città d’Italia, ed io mi faccio garante che in poco volger di tempo le industrie nostre si rialzeranno.
- Parigi, ottobre 1878.
Alessandro Castellani.
Note
- ↑ Questa catena, simile in tutto a quella del Museo di Boulaq, fa parte delle antichità etrusche del Museo Vaticano. Seppero farla i greci e gli etruschi, e fu in grande uso pei monili romani. Fecesi anche di bronzo, come la vediamo nelle bilance, negli unguentari, e nelle lucerne di Pompei; ed io ne ho potuto seguire la traccia nei tempi posteriori, fino al secolo XVII. Fu allora perduta l’arte di ammagliarla, e, soltanto dopo la scoperta della tomba Regulini-Galassi, mio padre Fortunato Pio riuscì a riprodurla. D’allora in poi essa è divenuta la catena più popolare, tanto in Europa che in America.