De mulieribus claris/Note
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NOTE DELL’EDITORE
(A) Nel leggere queste sentenze durerà fatica a credere il leggitore, essere state scritte da quel Boccaccio, che in tanta furia di laidezze trascorse nelle pagine del Decamerone. Ma poniamo mente al morale cangiamento della vita di M. Francesco, e sarà tolto ogni dubbio, anzi torremo argomento, avere il medesimo scritto il Libro delle Donne Illustri dopo il 1362, nel quale anno egli fu tornato a mente più pura dal P. Gioacchino Ciani Certosino. Boccaccio menava i giorni a mo’ di persona solo del presente sollecita, e dava sciolta la briglia a sua libidine; e dipingendo nel Decamerone la varia natura degli uomini in varia condizione di vita, propinava ad altrui quel veleno, del quale avea corrotta la mente ed il cuore. Quando, vicino a morte il Beato Pietroni Certosino, uomo tutto di Dio, quasi confortato da superno volere, mandò per M. Boccaccio un confratello di lui P. Gioacchino Ciani, perchè lo traesse di quella pozzanghera di vizj. Come il buon frate si fu al cospetto di Boccaccio, prendendo i modi di persona diputata da Dio, dissegli: Sovrastargli prossima e miseranda fine, se non rimetteva dalle turpitudini, e dal trarre altrui in lussuria co’ suoi scritti. Queste e simili cose dicendo il frate, Messer Boccaccio fu colto da grandissimo spavento; e tanto fermò l’animo suo nel divisamento di darsi a Dio, che forse in qualche convento avrebbe finiti i suoi giorni, se non l’avesse stornato l’amico di lui Petrarca. Se dunque in queste Vite, o leggitore, tu vedi Boccaccio dar documenti di morale differenti da quelli del Decamerone, tienlo per convertito; e poni, essere stato scritto questo Libro dopo il 1362, nel quale anno, cangiata la mente dell’autore, questi cangiò anche foggia di scrivere.
(B) Terribili ma veri sono i mali che ritrae Boccaccio, prodotti dal diabolico talento di quei genitori, i quali, per loro apparente utilità, legando a viva forza o per lusinghe, de’ monastici voti le figlie, sospingono queste a perdizione certissima. Solo non mi sembra, il Boccaccio aver dato nel vero, dicendo che la maggior parte per tirannide de’ parenti votano ne’ monasteri. Tanta nequizia poteva forse correre in usanza a suoi tempi, quando da nessuna legge ecclesiastica frenati i parenti cacciavano ne’ chiostri le fanciulle, e le astringevano a stendere sull’altare al giuramento una mano che in età provetta doveva poi asciugare le lagrime della sventura e alcuna volta dell’infamia. Oggidì poi le donzelle, non ignare, ma consapevoli, non fanciulle, ma adulte si rinchiudono ne’ chiostri, poichè benissimo provvide lo Sinodo di Trento, che uomo o donna che sia non potesse votare solennemente prima dell’anno sedicesimo.
(C) Messer Boccaccio ha qui ritratta la vita di quegli, che col ferro si apre la strada al trono, oppure per consiglio di popolo gli vien dato nelle mani la somma delle cose; e sembra che ponga non potersi mai scompagnare il vizio dai dominanti. Apriamo la mente dell’autore. Il Boccaccio tolse a dipingere i sovrani tali quali glie li offrivano i tempi in cui viveva, tempi veramente luttuosi per la misera Italia. Su i tanti e piccoli troni di questo paese o sedevano usurpatori, che col pugnale alla mano ci giunsero, o legittimi principi, che per far fronte a quelli usavano del vizio come a propugnacolo dello Stato. Quali scene di sangue non ne offre la storia delle dominazioni nel secolo di Boccaccio? Francesco da Carrara per usurpare la signoria di Padova fa morire nel carcere Iacopino da Carrara suo zio; Ludovico e Francesco Gonzaga uccidono il fratello di loro Ugolino per dominare in Mantova; Pino e Cecco degli Ordelaffi per la procurata morte del zio Sinibaldo ottengono Forlì: mentre che per reggersi sul trono Bernabò e Galeazzo Visconti fan tristo governo del popolo Milanese; e Secondotto, Marchese del Monferrato dà nelle follie Neroniane1; e la turba de’ Baronetti quanto più occulto altrettanto più crudele strazio fanno di que’ miseri che lo sdegno del Cielo loro volle soggetti. Per le quali cose potremo noi dire, venire i vizj dei dominanti, come da causa, dal potere? potremo noi dire, essere la porpora quella camicia di Nesso, che come questa traeva in follia quegli che indossavala, così quella metta nell’animo di chi la veste il mal talento, e la bramosia del sangue? No: tornati i popoli all’incivilimento, da esperienza veniamo chiariti, essere oggi i Principi intenti non a sbramare ambizione di regno, ma a procurare la felicità dei popoli per reggimento paterno.
(D) Più da novelliere che da storico il Boccaccio ha discorso di Costanza rinchiusa nel chiostro, e della solenne professione di lei: falso è ancora che Arrigo, figlio di Federigo, menasse sposa la figlia di Ruggiero, che contava il cinquantesimo anno; e falsissimo si è anche avere Papa Urbano sciolta da’ voti solenni Costanza, Ruggiero morì nell’anno mille cento cinquantaquattro; Costanza fu tolta sposa nel mille cento ottantasei, e perciò era nel trentesimosecondo anno e non nel cinquantesimo di sua vita; essendo nata dopo la morte di suo padre di Beatrice sorella del conte di Retesta. Come possiamo ammettere il consenso, anzi l’opera di Papa Urbano in queste nozze che furono seme di guerra tra il Pontefice e Federigo? Per non intertenere il leggitore in più prolissa confutazione lo mandiamo pel Baronio e pel Capecelatro che la cosa più chiaro addimostrarono.
(E) Molti furono nella storia i fatti ai quali gli uomini prestarono fede, infino che i filosofi non avessero gettato un lume su di quelli, e li avessero trasformati in favole agli occhi di coloro che, vergognando, risero di lor credenza. Ma alcuno ancor ve n’ha che, conquiso dalla critica, come idolo s’erge nella storia, ed al quale fanno tuttor riverenza coloro che, allusingati dallo spirito di parte, soffrono buon grado che lor ragione invilisca sotto la tirannide del pregiudizio. Chi non ha contezza d’una Papessa Giovanna? e chi non ne ascolta la storia col sogghigno del disprezzo, simile a racconto nato fra il cicalare di muliebre brigata? Eppure siccome i Protestanti posero tutt’opera a rivestire cotesta favoletta del manto della verità, come se dall’esistenza di Papessa Giovanna venisse compiuto trionfo alle congreghe di loro sulla Chiesa di Cristo; e perchè gli argomenti di questi non menassero in errore quei che della cosa poco o niente sapessero, mi cadde in animo dire di questa Giovanna e provarne falsa l’esistenza: e di corto vengo alle pruove. Sebbene siano gli eruditi discordevoli, pure la Cronica di Mariano Scoto è il libro più antico, nel quale si legge della Papessa Giovanna, e queste ne sono le parole: Leo Papa obiit Kalendis Augusti. Huic successit Joanna annis duobus, mensibus quinque, diebus quatuor. Scoto nacque nell’anno 1028, morì nell’anno 86 dello stesso secolo, 236 anni dopo la elezione di Benedetto III; dunque circa due secoli e mezzo lo divisero dal riferito avvenimento: egli non è scrittore coevo; se non lo è, vediamo se dagli scrittori sincroni egli abbia ricevuto sì bello raeconto. Fra questi maggior fede è da prestarsi a colui che non solamente visse nello stesso secolo, ma nell’anno istesso, e nel luogo medesimo ove il fatto avvenne questi è Anastagio Bibliotecario, il quale, testimone oculare in Roma della morte di Leone IV e dello immediato innalzamento di Benedetto III, non fa motto di sorte di Giovanna, che fra questi due pontefici abbia tenuto nelle mani la somma delle cose Cristiane. Adone, Arcivescovo di Vienna, Guglielmo, Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, gli Annali de’ Franchi detti Bertiniani, Reginone, Abate di Pruim, Incmaro Remense, i quali tutti vissero nel nono secolo, tacquero di questa Papessa, ed il loro silenzio è argomento vigoroso per chiarirci della falsità del racconto di Scoto. Imperocchè non può cadere in animo ragionevole, esser questi venuti in comune mento nel tralasciare storica verità. Che se poi tutti gli scrittori coevi, come membri della Chiesa Romana avessero consentito nell’occultare ai posteri fatto che a vergogna di loro Chiesa tornava, da quale cagione faremo noi derivare il silenzio di altri scrittori coevi, nimicissimi del seggio di S. Pietro, e bramosi (come tra gli eretici corre usanza) di apporre delitto o errore alla Chiesa Romana? Una donnicciattola di mal partito assisa su la cattedra di S. Pietro, la quale nel nono secolo per benevolenza di Carlo Magno, e di Pipino non poco s’innalzava su i troni delle potestà laicali per innata spirituale possanza e per acquisita signoria, era forse oscuro personaggio che poteva aggirarsi nelle tenebre della corte pontificia senza che gli eretici ne avessero contezza? e gli stessi cattolici non ne avrebbero fatto pubblico e grande ragionare? Fozio, vivente nel nono secolo e nell’anno a cui Scoto assegna l’elezione di Giovanna alla santa Sede, uomo fornito di grandissimo ingegno, colto in molta parte di studj, di cuore corrotto, astutissimo quanto ne cape in Greco imbroglione, per ambizione e per ripetuti anatemi furente contro a’ Romani Pontefici, il quale nella corte di questi avea suoi satelliti, che i fatti di loro gli rapportassero, per avere onde calunniarli, e dare un varco alla bile che gli bolliva nel petto, Fozio, dissi, non solo si astiene delle querele contro ai cattolici, e non li mette in beffe, come quei che soffrivano reggersi la Chiesa per mano di laida cortigiana; ma anzi in un suo libronse 1 chiaramente dice a Leone IV, essere succeduto Benedetto III, e poi Niccolò I, Adriano II, e Giovanni VIII. Il silenzio di Fozio è troppo nemico di Papessa Giovanna; se non vogliamo porre che quel terribile padre dello scisma greco per modestia o per timore sia andato più rattenuto in questo avvenimento nell’apporre tanto errore alla Chiesa Romana.
Metrofane Smirneo, pur vissuto nel IX secolo, che non meno di Fozio furiava contro nostra Chiesa, tace di questa Giovanna.
Ma se non vollero levar la voce gli eretici alla mostruosa elezione di Giovanna, non sarebbero trascorsi in risa ed in beffe i seguaci di Fozio, allorchè nel primo anno del pontificato di Papa Formoso, venne a chiari caratteri scolpita la serie dei Pontefici che avevano bandito l’anatema nel corso di 45 anni a quell’eresiarca, nel portico della Chiesa patriarcale di Costantinopoli, non leggendosi il nome di Giovanna Papessa per due anni e cinque mesi? Quando Leone IX rinfacciava a Michele, patriarca Costantinopolitano, una femmina aver governata sua Chiesa, non avrebbe il Greco rimbeccato il Pontefice di simile elezione avvenuta al soglio di S. Pietro? Eppure e i seguaci di Fozio tacquero di Giovanna quando non la videro nel ruolo dei Pontefici, e si tacque Michele, rampognato dal Pontefice. Se mai sono tutt’ora fautori di questa favoletta non andranno poco stretti al nodo di questo argomento.
Le parole di Mariano Scoto risguardanti Giovanna furono come il seme gettato dal quale doveva nascere mostro gigante, delizia della Chiesa Riformata e de’ gonzi.
Martino Polono, morto 184 anni dopo Scoto e 425 dopo l’elezione di Benedetto III, riproduce la favola di Mariano, di altre circostanze adornandola, cioè, essere la Papessa di Magonza, e fatta Papa; in solenne processione, colta da subitano dolore di parto, nella pubblica via tra il Coliseo e la Chiesa di S. Clemente avere sposto il feto. Per avere poi contezza della statua innalzata nel sitɔ ove sgravossi questa femmina, in memoria di fatto tanto vituperoso alla Chiesa, e di non so qual sedia perforata, della quale poi usarono per non andare di bel nuovo falliti intorno al sesso del novello Papa, ti fa mestieri, o lettor mio, che tu percorra circa due secoli dopo la morte di Martino Polono per dare in un tal Teodorico Niemeo che ti dia sicurtà della sopraddetta statua, e dopo Niemeo circa altro secolo percorri, e venghi nel finir del secolo XV, perchè Guglielmo Brevin e il Platina ti faccian consapevole della sedia perforata. Oh la nuova foggia di cercare storiche verità! Tutti gli uomini che hanno un cotal pocolino di senno per accertarsi de’ fatti tengono via retrograda e non progressiva: sarebbe assai gonzo colui, che per sapere delle gesta de’ Romani, mettendo d’un canto Livio, e tutti gli antichi scrittori, si stesse colle mani alla cintola aspettando qualcuno del tempo venturo, che, indipendente dall’autorità degli antichi storici, gli spacciasse cose da maraviglia. Ma tutto il nostro argomentare, che dal silenzio degli scrittori coevi prende forza, sembra che indebolisca, allor quando gli eretici, af fibbiando di nuovo la giornea, scendono ardimentosi nell’arena, e di fermo seguono a dire: Non esser favola la elezione di Papessa Giovanna; ma fatto storico, del quale racconta Anastagio Bibliotecario scrittore sincrono; e di alcuni esemplari della cronica di questi fanno copia a tutti in conferma di lor folleggiare. Ma noi, ponendo da banda Claudio Servio, che nella lettera a Claudio Salmasio con molto fior di senno ne chiarisce, il racconto della Papessa essere spurio accozzamento alla cronica di Anastagio, poichè dalla foggia del dire, e fin dalle parole chiaro si addimostra il racconto non essere del nono secolo; ad un tal Sarrau, zelante protestante citato da Baylense 2 mi rivolgo per soccorso. Questi negli esemplari di Anastagio avvertì le parole ut asseritur, ut dicitur, delle quali il Romano Bibliotecario usava nella narrazione della Papessa; e benissimo conchiude, non essere questo modo di raccontare cosa, e cosa di rilievo veduta coi proprj occhi, ma bensì novella raccolta veramente al trivio. Questo solo avvertimento del Sarrau, che scopre hastevolmente la frode dell’impostore che cacciò questa favola nella cronica di Anastagio, ne toglie l’obbligo di andar più per le lunghe. Ma a che t’interniamo, o leggitore? Gravissime ragioni, che nel Labbè, nel Natale Alessandro, nell’Allazio ed in cento altri non volgari scrittori tu potrai rinvenire, e che per amore di brevità tralasciamo, molto fortemente guarentiscono nostro avviso da qualunque opposizione; dappoichè nè Mariano Scoto, nè Martino Polono hanno lasciato scritto nelle di loro croniche il fatto di Giovanna, ma fuvvi da mano corruttrice messo per forza.
Noi da questo assai brieve argomentare ne avvisiamo andar chiarita la questione; che se poi agli eretici specialmente non vadano a sangue le nostre parole, e amano battersi a battaglia finita noi ci chiamiamo da parte, ed il solo Blondel Protestante terrà nostro campo. Egli, sordo ai richiami dei suoi confratelli, che lo predicavano traditore di loro Chiesa, e corrotto da’ danari dei Papisti, avendo dato il nome alla Riforma, e non la ragione, scrisse un libro a bella posta per confutare la favola della Papessa. Il suo libro intitolato: Ecclaircissement de la question si une femme a estè assise au siegs papal de Rome, sarà come nostro propugnacolo, e dal quale torremo queste sole parole a conchiusione del nostro dire: C’est un conte qui a estè enrichi avec le tempsnse 3.
(F) Una lettera scritta dal Gran Turco Maometto Secondo a Papa Niccolò Quinto, e la risposta di questi a quel Conquistatore sono monumenti storici che, come mi sembra, non vennero finora a notizia d’alcuno. Ed è veramente da stupire che il Baronio, il quale ampiamente discorse le cose operate da Niccolò in occasione dello smisurato ingrandire della possanza turca, abbia poi taciute queste due lettere che di poco rilievo non vanno al certo stimate. Dal silenzio di questo chiaro Annalista non deve derivare sospetto sulla veracità di queste scritture, sì perchè le cose che in esse contengonsi non si oppongono alla storia del tempo, e sì anche perchè il Lambecci nel II Tomo, al foglio 631 della sua Biblioteca Cesarea, fa pure ricordanza di una lettera dell’Imperadore de’ Turchi volta in favella germana; e forse non sarà diversa da questa che mandiamo a luce.
L’Impero Greco, fondato sulle rovine di quel di Roma, nacque barcollante, e nel corso di 1123 anni che stette in piedi corse grandissimi pericoli e per le esterne aggressioni de’ Barbari, per intestine discordie, e per imbecilli governanti che a quisquiglie teologiche più che a’ maneggi de’ negozj dello stato avevano l’animo rivolto. Tra i Barbari, co’ quali i Greci sostennero più fiera lotta, furono i Turchi. Le opinioni religiose che predicò quel solenne impostore Maometto avea in certa guisa cangiata la condizione delle menti degli Arabi: un paradiso di voluttà carnali promesso a’ morienti in battaglia rendeva gli uomini oltre modo ardenti nelle zuffe, e sprezzatori per non dire cercatori della morte; e perciò loro possanza nel nascere fu come torrente che subita piena crebbe, innondò, devastò.
I Turchi nell’undecimo secolo escirono dalle gole del Caucaso, e piombando sulla Persia, infiacchita per guerre durate coi signori di Costantinopoli, le posero il giogo, e minacciarono di rovina la stessa sede dell’Impero Greco.
Sotto l’imperio di Costantino Ducas nell’undecimo secolo mettono a soqquadro gli stati della Grecia. Il prode Romano Diogene in molte battaglie avea rintuzzato loro orgoglio, ma finalmente sconfitto, fu preso ed acciecato. Il successivo cadere e sorgere de’ principi sul trono di Costantino, al quale per delitto vi ascendevano e per delitto ne venivano tratti, per lunga pezza facendo ondeggiare le redini del governo aggiungeva baldanza all’inimico. Alessio Comneno vede rapirsi da’ Turchi le isole di Scio, Lesbo, Rodi e Samo; sotto Andronico nel secolo XIV nel cuore dell’impero stendono i Turchi loro dominazione su tutta l’Asia Minore, che divisa in sette governi conobbe suo signore Ottomano; e finalmente sotto Giovanni Paleologo nel 1372 Amurat, spinge sue conquiste nella Tracia, prende Adrianopoli, e destina quella città a capitale del suo impero. I Turchi testimoni di quanta ricchezza andasse ricca la sedia del Greco allorchè da Niceforo Botoniate vi vennero menati per togliere a Michele VII Ducas la corona; ora che si vedevano quella vicinissima cominciarono più che mai a macchinarne il conquisto. E ai loro disegni non poco favoriva l’infievolir dell’impero, smembrato per lo innanzi in due altri imperi, in quello cioè di Trabisonda e di Adrianopoli, tenendo i Latini in Costantinopoli la somma delle cose.
Era in sul principiare il secolo XV, ed Amurat II, poichè ebbe messo poco meno che in fondo la monarchia Greca, poichè su i campi di Varna ebbe rotto l’oste Ungarese e morto Uladislao che comandavala col famoso Uniade, tolse ogni ostacolo, ed aprì la via a Maometto II suo figlio per salire il trono di Costantinopoli. Maometto in robustissime membra chiudeva anima di conquistatore, e tutti i vizj e le virtù che da quella non mai si scompagnano. Nel 1433 stringe Costantinopoli di fiero assedio, e solo quando per ferite il prode Giustiniani si tolse dalle mura, egli per assalto l’ottenne; come se il petto d’un Italiano fosse il propugnacolo massimo del morente imperio di Roma. La caduta del Greco Impero mise grandissima temenza negli animi de’ potentati d’Italia, ma non li volse a miglior talento. Niccolò V, allora pontefice, a cui riuscì acerba la nuova di questo conquisto, non si stette con le mani alla cintola come a spettacolo da vedere e non altro. Egli che dal 1451 avea mandato in Alemagna il Cardinal di Cusa per accordare le menti e spronarle alla guerra contro il Turco, in Francia il Cardinal Estoutville, in Inghilterra l’Arcivescovo di Ravenna Orsini per racconciare e rimettere in buona pace questi due regni guerreggianti, ora più che mai fe’ sentire sua voce dalla sedia di S. Pietro. Ma l’Italia bolliva, ed era in discordia. Ferdinando, re di Napoli, guerreggiava con Firenze, Venezia con Milano, i Fregosi e gli Adorni con intestine discordie ponevano a mal partito Genova; Francia con Brettagna... ma che dico de’ Transalpini? Italia solo in quella età sua virile bastava alla comune salvezza; ma l’Italia nel fragore delle armi che, mosse dall’ambizione de’ suoi padroni, si cacciavano ne’ petti, non ascoltò la voce del Pontefice, ed invilì sempre più. La Bolla di Niccolò per convocare popoli alla guerra e alla ricuperazione di Costantinopoli fu come fiaccola di che si spense nel freddo deliberare del Parlamento dei principi a Francfort, ove grandi e salutevoli di visamenti furono fatti, che rimasero in erba con la morte di Niccolò.
La suddetta bolla sembra che sia quella che ha cominciamento: Fuit jam olim Ecclesiæ Christi hostis acerrimus, crudelissimus persecutor Mahometes, filius Satanæ, ecc., nella quale poi che ebbe il Pontefice assomigliato Maometto al dragone visto da S. Giovanni che di un colpo di sua coda trasse in terra la terza parte delle stelle; e dopo aver descritte le iniquità nelle quali il Turco nella presa di Costantinopoli trascorse, ed il divisamento di lui di stendere sua dominazione in Occidente, tentò di aggiungere animo ai principi cristiani eccitando le menti con sante esortazioni ad una Crociata, e promettendo paghe vive e sonanti, delle quali avrebbero forniti gli eserciti le decime da pagarsi non solamente dai Cherici, ma da’ Cardinali, e da sè stesso finanche.
Un tanto gridare all’armi volse al Pontefice la mente del Conquistatore che nell’ebbrezza del trionfo ben si avvisava di quanto nocumento potessero tornargli le armi collegate de’ Cristiani: e perciò gli cadde in animo indirizzare a Niccolò V una lettera che, per timore o per isperanza, potesse farlo andare più rattenuto nel bandirgli la croce. Imperocchè, come a’ leggitori è facile scorgere, il Turco, premesso tutti quei titoli di che largheggiava l’alterigia turchesca, dei suoi diritti alla città di Roma, delle sue forze fa grandissima jattanza, e dice alcuna cosa della sua probabile conversione alla fede di Cristo. Ed infatti non doveva sembrare discorso d’impostore quello di Maometto, come se volesse menare in parole il Pontefice; imperocchè, cessata la strage ed i furori della soldatesca, Maometto trattò con meno aspro governo le cose de’ Cristiani, sì che di onori abbondò verso Giorgio Scolario da lui chiamato a reggere la chiesa de’ Cristiani in Costantinopoli.
Papa Niccolò non si mostra gran fatto atterrito della lettera del Turco, ma per una fidanza nelle proprie e nelle forze de’ Principi Cristiani usa d’una foggia di scrivere, che doveva chiarire ilConquistatore, che egli attendevalo a piè fermo.
E poichè come principe diè argomento di fermezza, come padre de’ fedeli si volge amorevole a Maometto per tornarlo alla via della verità.
Gregorio Castellano, nominato nel Codice, che scrisse la lettera in arabico e poi la portò in volgare, è quel medesimo, come a noi pare, del quale fa menzione il Tiraboschi parlando dei letterati i quali teneva in corte Niccolò. Era quegli di Città di Castello, e dal nome di sua patria tolse il cognome. Se dal Tiraboschi vien predicato Gregorio quale uomo peritissimo delle greche lettere, crescerà la fama di lui dandoci contezza il nostro codice essere stato egli anche saputo dell’arabica favella.
FINE
Note
- ↑ Phot. de Spir. San. Proces, Lib. I.
- ↑ Diction. Martin. Polon.
- ↑ Su quanto si è detto veggasi Labbè, Coll. Conci. e di Parisi: Tom. XV ad an. 855. Ioannæ papissæ Cænotaphium eversum Natalis. Alessan. Hist. Eccl. ad an. 855. Leone Allazio Byzant. Script. Hist. Tom. XXIII, pag. 82. Confut. fabu. Papis. Ioan. ·
- ↑ Murat. An. It., An. 1355, 1363, 1385.