De mulieribus claris/Lettera I

Copia della Lettera del Gran Turco a Papa Nicolò Quinto

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Giovanni Boccaccio - De mulieribus claris (1361)
Traduzione dal latino di Donato Albanzani (1397)
Copia della Lettera del Gran Turco a Papa Nicolò Quinto
Protesto Lettera II

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COPIA

DELLA LETTERA DEL GRAN TURCO

A PAPA

NICOLÒ QUINTO

tradotta d’arabico in greco, e di greco
in latino, e di latino in volgare
1

RE de’ re, Signore de’ signori Machabec, admiraglio, grande soldano Begri, figliuolo del gran soldano Marath, rettore de’ sette Musaphy dice quella salute, di chi è degno, a Nicola vicario di Iesu Cristo crocifisso dai Giudei. Non per ritrarti dal tuo sciocco proposito, il quale ha da essere moltiplicazione di nostra vittoriosa gloria, la quale di tanto pregio si dee stimare, quanto è chi perde; ma per mostrarti i tuoi non pochi errori e il nostro accuratissimo apparato; acciocchè forse per quelli illuminandoti l’intelletto senza fare [p. 470 modifica]spargere tanto sangue quanto ci mostrano le stelle (se fra noi è notizia alcuna dell’influenzie celesti) nel tuo pensiero non venghi falsa opinione di nostra crudeltà la quale è da noi e da’ nostri eserciti alienissima; mi degno a scriverti questa nostra lettera la quale abbia ad essere scarco nel cospetto di Dio di nostra coscienza e di tua; stando eterno supplicio in carico de’ tuoi cristiani medesimi, o Vicario di Iesu Crocifisso, uomini assai degni di fede. Presso tali uomini siamo stati notificati, come vilificando il nome del nostro patriarca Maumeth, e la nostra maestà imperiale esecrando. Tu trai per virtù della temeraria obbedienza la quale ti porta chi volontario confessa il battesimo, promulgato tuo pubblico editto col quale tu inciti, commuovi, e sforzi la Cristianità ad opponersi a nostre alte imprese, e magnanimi concetti, promettendo eterna salute a chi a’ nostri ostacoli dispone sua vita: ma esamina alquanto l’intelligenza tua, o terrestre oracolo de’ Cristiani, e troverai in quanto pericolo tu poni te, poi chi te obbedisce, facendo morire tante migliaia d’uomini per difendere il torto. Leggi tue Scritture, e questa nostra lettera, la quale [p. 471 modifica]è di nostra giusta intenzione, succintamente ti farà chiaro che noi, vendicatore dello effuso ingiustamente sangue d’Ettor e degli altri Trojani, con maturissimo consiglio avemo presa la spada a vendicarci di tutta la Grecia e de’ suoi aderenti, deliberati spegnere e recare al fondo qualunque che con pertinacia vorrà absistere a non ci dare obbedienza, e a chiedere misericordia con buon core. Poi come vero e legittimo erede e successore del primo Cesare, disceso per dritta linea dal vero sangue del nostro Enea, intendiamo volere sotto il nostro dominio la nostra gratissima città di Roma con quanto a quella di ragione s’aspetta: la quale non tu, ma i tuoi antecessori ce l’hanno di madonna del mondo fatta casa di schiavi e di Tedeschi, e stalla di cavagli, e ridotto il sacro nostro Campidoglio a macello d’uomini; atterrando il famoso Coliseo, e profondato ogni nostro tempio e triunfo. E acciocchè tu possa comprendere chiaro quanto tu e tuoi seguaci non possa non solamente impedire, ma di niuno attimo d’ora tardare nostra intenzione, e anche perchè tu sappia quanto sia la mia impresa; di sua spontanea volontà mi si sono offerti, e io [p. 472 modifica]allegramente ho accolto non per bisogno, ma per la mia giusta impresa, e per dare loro sicurtà che ne’ loro bisogni piglino sicurtà di noi, prima i tre regali vecchi d’Egitto, di senno naturale non inferiore all’antico Salomone, chiascheduno con sessantamila arcieri, e il re di Cappadocia con centomila cavalieri, e il famosissimo Ciamberlano, e il re di Media con trecentomila combattenti; e se io mi credessi che le vettovaglie bastassero a vivere, la terra ad abitare, i fiumi a bere, io non lascerei il re di Dibras, di Getulia, di Barachei, e di quante potenzie sono nell’ Africa che io non menassi meco. Sicchè adunque, o sommo Sacerdote de’ Cristani, sii conoscente della dignità nella quale t’ha posto Iddio per sua somma clemenza, e, mentre che hai tempo a provedere, rimuoviti dal tuo non savio incetto, nè essere cagione della perdita di tante anime; e che la nostra città di Roma qualche volta finisca la sua calamità e ritorni sotto il governo de’ suoi antichi. La quale io intendo più che mai di ricchezze asiatiche riadornare, e i suoi templi di carbonchi di zaffiri, di topazj; delle quali cose la nostra Asia, madre di ricchezze, è copiosissima. E poichè per [p. 473 modifica]difetto dei tuoi antecessori la Grecia, la Tracia, la Boezia, la Tessaglia, la Lacedemonia, Atene e gli altri luoghi a noi inimici al nostro popolo erano fatti ribelli, soffri che io con mia ricca possa gli rimetta il giogo. Come non è errore innarrabile il tuo, che tu e tutti i tuoi seguaci, nati dell’antica nostra origine, sii ora contrario a me e a mia gente, desiderosi di ponere in supplicio chi tanto tempo ve n’ha tenuti in amaro esilio? Io non vengo per mutare o innovare religione per forza, come può fare di ciò testimonio il nostro Bisanzio, o vogli Costantinopoli, nuovamente ridutto alla nostra obbedienza, e simile Pera città, Ragusa e gli altri luoghi: anzi sarà forse possibile che quando io avrò rimesso il mondo in assetto; e fatto chiaro da te dai tuoi predicatori della santa vita e de’ miracoli grandi del vostro Jesu Cristo, io mi convertirò a vostra religione: della qual cosa, i miei grandi Astrologhi dicono, i cieli minacciano; e io, incerto del migliore partito, mi guiderò per li corsi del Cielo, prima messo ad effetto il proposito mio.

  1. Una lettera scritta dal Gran Turco Maometto Secondo a Papa Niccolò Quinto, e la risposta di questi a quel Conquistatore sono monumenti storici che, come mi sembra, non vennero finora a notizia d’alcuno. Ed è veramente da stupire che il Baronio, il quale ampiamente discorse le cose operate da Niccolò in occasione dello smisurato ingrandire della possanza turca, abbia poi taciute queste due lettere che di poco rilievo non vanno al certo stimate. Dal silenzio di questo chiaro Annalista non deve derivare sospetto sulla veracità di queste scritture, sì perchè le cose che in esse contengonsi non si oppongono alla storia del tempo, e sì anche perchè il Lambecci nel II Tomo, al foglio 631 dellasua Biblioteca Cesarea, fa pure ricordanza di una lettera dell’Imperadore de’ Turchi volta in favella germana; e forse non sarà diversa da questa che mandiamo a luce. L’Impero Greco, fondato sulle rovine di quel di Roma, nacque barcollante, e nel corso di 1123 anni che stette in piedi corse grandissimi pericoli e per le esterne aggressioni de’ Barbari, per intestine discordie, e per imbecilli governanti che a quisquiglie teologiche più che a’ maneggi de’ negozj dello stato avevano l’animo rivolto. Tra i Barbari, co’ quali i Greci sostennero più fiera lotta, furono i Turchi. Le opinioni religiose che predicò quel solenne impostore Maometto avea in certa guisa cangiata la condizione delle menti degli Arabi: un paradiso di voluttà carnali promesso a’ morienti in battaglia rendeva gli uomini oltre modo ardenti nelle zuffe, e sprezzatori per non dire cercatori della morte; e perciò loro possanza nel nascere fu come torrente che subita piena crebbe, innondò, devastò. I Turchi nell’undecimo secolo escirono dalle gole del Caucaso, e piombando sulla Persia, infiacchita per guerre durate coi signori di Costantinopoli, le posero il giogo, e minacciarono di rovina la stessa sede dell’Impero Greco. Sotto l’imperio di Costantino Ducas nell’undecimo secolo mettono a soqquadro gli stati della Grecia. Il prode Romano Diogene in molte battaglie avea rintuzzato loro orgoglio, ma finalmente sconfitto, fu preso ed acciecato. Il successivo cadere e sorgere de’ principi sul trono di Costantino, al quale per delitto vi ascendevano e per delitto ne venivano tratti, per lunga pezza facendo ondeggiare le redini del governo aggiungeva baldanza all’inimico. Alessio Comneno vede rapirsi da’ Turchi le isole di Scio, Lesbo, Rodi e Samo; sotto Andronico nel secolo XIV nel cuore dell’impero stendono i Turchi loro dominazione su tutta l’Asia Minore, che divisa in sette governi conobbe suo signore Ottomano; e finalmente sotto Giovanni Paleologo nel 1372 Amurat, spinge sue conquiste nella Tracia, prende Adrianopoli, e destina quella città a capitale del suo impero. I Turchi testimoni di quanta ricchezza andasse ricca la sedia del Greco allorchè da Niceforo Botoniate vi vennero menati per togliere a Michele VII Ducas la corona; ora che si vedevano quella vicinissima cominciarono più che mai a macchinarne il conquisto. E ai loro disegni non poco favoriva l’infievolir dell’impero, smembrato per lo innanzi in due altri imperi, in quello cioè di Trabisonda e di Adrianopoli, tenendo i Latini in Costantinopoli la somma delle cose. Era in sul principiare il secolo XV, ed Amurat II, poichè ebbe messo poco meno che in fondo la monarchia Greca, poichè su i campi di Varna ebbe rotto l’oste Ungarese e morto Uladislao che comandavala col famoso Uniade, tolse ogni l’Italia nel fragore delle armi che, mosse dall’ambizione de’ suoi padroni, si cacciavano ne’ petti, non ascoltò la voce del Pontefice, ed invilì sempre più. La Bolla di Niccolò per convocare popoli alla guerra e alla ricuperazione di Costantinopoli fu come fiaccola di che si spense nel freddo deliberare del Parlamento dei principi a Francfort, ove grandi e salutevoli di visamenti furono fatti, che rimasero in erba con la morte di Niccolò. La suddetta bolla sembra che sia quella che ha cominciamento: Fuit jam olim Ecclesiæ Christi hostis acerrimus, crudelissimus persecutor Mahometes, filius Satanæ, ecc., nella quale poi che ebbe il Pontefice assomigliato Maometto al dragone visto da S. Giovanni che di un colpo di sua coda trasse in terra la terza parte delle stelle; e dopo aver descritte le iniquità nelle quali il Turco nella presa di Costantinopoli trascorse, ed il divisamento di lui di stendere sua dominazione in Occidente, tentò di aggiungere animo ai principi cristiani eccitando le menti con sante esortazioni ad una Crociata, e promettendo paghe vive e sonanti, delle quali avrebbero forniti gli eserciti le decime da pagarsi non solamente dai Cherici, ma da’ Cardinali, e da sè stesso finanche. Un tanto gridare all’armi volse al Pontefice la mente del Conquistatore che nell’ebbrezza del trionfo ben si avvisava di quanto nocumento potessero tornargli le armi collegate de’ Cristiani: e perciò gli cadde in animo indirizzare a Niccolò V una lettera che, per timore o per isperanza, potesse farlo andare più rattenuto nel bandirgli la croce. Imperocchè, come a’ leggitori è facile scorgere, il Turco, premesso tutti quei titoli di che largheggiava l’alterigia turchesca, dei suoi diritti alla città di Roma, delle sue forze fa grandissima jattanza, e dice alcuna cosa della sua probabile conversione alla fede di Cristo. Ed infatti non doveva sembrare discorso d’impostore quello di Maometto, come se volesse menare in parole il Pontefice; imperocchè, cessata la strage ed i furori della soldatesca, Maometto trattò con meno aspro governo le cose de’ Cristiani, sì che di onori abbondò verso Giorgio Scolario da lui chiamato a reggere la chiesa de’ Cristiani in Costantinopoli. Papa Niccolò non si mostra gran fatto atterrito della lettera del Turco, ma per una fidanza nelle proprie e nelle forze de’ Principi Cristiani usa d’una foggia di scrivere, che doveva chiarire ilConquistatore, che egli attendevalo a piè fermo. E poichè come principe diè argomento di fermezza, come padre de’ fedeli si volge amorevole a Maometto per tornarlo alla via della verità. Gregorio Castellano, nominato nel Codice, che scrisse la lettera in arabico e poi la portò in volgare, è quel medesimo, come a noi pare, del quale fa menzione il Tiraboschi parlando deiletterati i quali teneva in corte Niccolò. Era quegli di Città di Castello, e dal nome di sua patria tolse il cognome. Se dal Tiraboschi vien predicato Gregorio quale uomo peritissimo delle greche lettere, crescerà la fama di lui dandoci contezza il nostro codice essere stato egli anche saputo dell’arabica favella.