Dalle novelle di Canterbury/Prologo
Questo testo è completo. |
Traduzione dall'inglese di Cino Chiarini (1897)
◄ | Prefazione | Novella del cavaliere | ► |
NOVELLE DI CANTERBURY
PROLOGO
Una sera, appunto in questa stagione, mentre me ne stavo all’osteria del Tabarro, in Southwerk, aspettando la mattina per mettermi divotamente in viaggio verso Canterbury, capitò all’improvviso una brigata di ventinove persone di varia condizione: tutti pellegrini, che si erano trovati, per caso, lí al Tabarro, per andare a Canterbury, come me. Le camere, e le stalle pei nostri cavalli, erano per fortuna abbastanza grandi, e ci accomodammo tutti alla meglio.
In un attimo (il sole era appena andato sotto) barattai una parola con ciascuno di loro, e senz’altro fui della brigata anch’io, colla promessa di esser su per tempo la mattina, pronto a prender la strada di Canterbury con loro.
Ma prima di cominciare il mio racconto, giacchè non ho fretta e il tempo non mi manca, mi pare molto naturale ch’io debba dirvi di questi miei compagni di viaggio, quello che potei raccapezzare: chi fossero, di che condizione, e come vestiti. Comincerò, per primo, da un cavaliere.
C’era, dunque, un cavaliere, una degna persona, il quale fin da quando montò la prima volta a cavallo, ebbe in alto rispetto la cavalleria, la lealtà e l’onore, la libertà e la cortesia. Si era segnalato in prodezza combattendo pel suo signore e non c’era fra i cristiani e gl’infedeli uno che avesse cavalcato quanto lui, sempre onorato per la sua dignità di valoroso cavaliere.
S’era trovato alla presa di Alessandria3; e in tutte le città della Prussia era stato piú di una volta capo tavola4. Nessun altro cristiano della sua condizione aveva mai viaggiato quanto lui in Lituania e in Russia. Fu all’assedio di Algezir a Granata; combattè a Belmaria 5; vide cadere in mano dei Turchi Layas e Satalia6, e nel mare Grande7 fece parte di molte illustri armate. Ben quindici volte si era trovato a ferali conflitti, e a Tremissen8, per la nostra fede, era sceso tre volte in lizza, uccidendo sempre l’avversario.
Questo prode cavaliere una volta, col signore di Palathia9, combatté contro un pagano di Turchia, e anche allora si segnalò. Sebbene fosse cosí valoroso, era tuttavia molto prudente; ed aveva un modo di fare modesto e semplice come quello di una fanciulla. Un atto sgarbato, una parola scortese, non gli sfuggí mai, in tutta la sua vita, neppure trattando con l’essere piú volgare di questo mondo. Insomma era veramente un compíto cavaliere. Perché sappiate, ora, in quale arnese egli cavalcava, vi dirò che aveva un bel cavallo, ma di poco brio. Portava una casacca di fustagno tutta macchiata dalla ruggine della corazza, poichè era di ritorno da un lungo viaggio per andare a Canterbury.
Aveva portato con sè suo figlio, un giovine scudiero, innamorato, di sangue molto caldo, coi capelli tutti ricci, che parevano arricciati artificialmente10. Poteva avere, tirando a indovinare, una ventina di anni. Era di corporatura piuttosto snella, di un’agilità meravigliosa, e fortissimo. Una volta era stato in Fiandra, in Artois e in Piccardia, facendo parte di una spedizione militare, e si era portato valorosamente, sebbene così giovane, con la speranza di entrare in grazia alla sua bella.
Era di una carnagione così fina, che il suo viso si sarebbe potuto paragonare a un prato coperto di fiori, bianchi e rossi. Cantava, o suonava il flauto, tutto il giorno; aveva, in somma, tutta la freschezza giovanile del mese di Maggio. Portava una tunica corta con maniche lunghe e larghe; stava molto bene a cavallo, ed era un bel cavaliere. Componeva canzoni, era buon parlatore, valente giostratore, bravo ballerino, e sapeva dipingere e scrivere assai bene. La notte, per fare all’amore, dormiva meno di un rosignolo.
Aveva modi molto cortesi, ed era modesto, e pronto a prestarsi in qualunque cosa: a tavola col padre era lui che tagliava e faceva da scalco.
Dei servitori, il nostro cavaliere non aveva portato con sè che un valletto, il quale aveva una veste verde, e un cappuccio dello stesso colore. Dalla sua cintola pendeva, con molta semplicità, un fascio di frecce adorne di penne di pavone, lucide e appuntate; che egli sapeva scagliare dritte e veloci da pari suo. In mano teneva un poderoso arco. Aveva la testa rapata e il colorito bruno. Conosceva molto bene il mestiere del boscaiuolo. Al braccio portava un lucido bracciale; a un fianco una spada e uno scudo, all’altro un bel pugnale ben montato, con la punta aguzza come quella di una lancia. Sul petto gli brillava un S. Cristoforo di argento. Portava a tracolla un corno, appeso ad un nastro verde. Se non m’inganno, doveva essere proprio un guardaboschi.
C’era anche una monaca, una madre superiora, che aveva un aspetto semplice e modesto; il suo più gran giuramento era per S. Luigi. Si chiamava suora Eglantina. Cantava molto bene la messa, intonandola dolcemente col naso; parlava benissimo e con garbo il francese che parla il popolo di Stratford, a Bowe11: ma non conosceva affatto quello di Parigi. Stava a tavola con tutte le regole: non c’era caso che le cascasse qualche cosa di bocca o che si ungesse le dita con la salsa. Portava il boccone alla bocca con tanta attenzione, che non le cadeva mai una briciola sul petto. Si compiaceva molto ad essere bene educata. Ogni volta che beveva, si asciugava, prima di bere, il labbro superiore; il quale non lasciava nel bicchiere la piú piccola macchia d’unto. Insomma cercava di mangiare con tutta l’eleganza e la correttezza possibile. La sua compagnia era molto divertente e piacevole; aveva un modo di fare che la rendeva amabile. Si studiava, con ogni cura, di imitare le maniere che usano a corte, e di avere modi gentili; poichè ambiva d’essere stimata una signora degna di riguardo.
Vi dirò delle qualità dell’animo suo: era cosí caritatevole e pietosa, che piangeva, solamente a vedere un topo preso in trappola, morto, o ferito. Aveva dei cagnolini che ingrassava a carne arrosto, latte, e schiacciata. E piangeva a calde lacrime se per caso uno di loro moriva, o buscava per la strada una bastonata un po’ forte. Era una donna piena di sincerità e di cuore. Il fisciú che portava al collo era appuntato con molto garbo. Aveva il naso lungo ma ben fatto; gli occhi grigi come il vetro la bocca molto piccola con labbra morbide e rosse come una rosa; bellissima fronte, larga quasi un palmo. Era piuttosto bassa; e raggiungeva a fatica la statura ordinaria di una donna.
Il mantello che aveva indosso era, per quello che ne posso giudicare io, fatto con gusto. Attorno al braccio portava una doppia corona di piccoli coralli, tutta guarnita di verde, dalla quale pendeva un bel medaglione d’oro. Sul medaglione era incisa un’A con sopra una corona; e dopo il motto: Amor vincit omnia. Aveva con sé un’altra monaca che le faceva da cappellano, e tre preti12.
C’era anche un monaco, un gran brav’uomo in verità: appassionato per andare a cavallo e per la caccia, di aspetto florido e degno proprio di un abate. Aveva nella stalla dei cavalli bellissimi; e quando passava col suo cavallo, si sentiva da lontano il rumore dei sonagli ben distinto; e qualche volta suonavano forte come la campana della cappella nella quale egli aveva la sua dimora religiosa.
Il buon monaco amava il progresso: la regola di S. Marco e di S. Benedetto, un po’ troppo rigorosa, a dire il vero, era roba vecchia; meglio, quindi, lasciarla stare, e seguire le pratiche del mondo nuovo. Del testo il quale dice: che chi va a caccia non può essere un sant’uomo, e che un monaco senza regola13 è un pesce fuor d’acqua, cioè un monaco senza monastero, non gliene importava proprio un’acca14. Un testo che dice queste cose, secondo lui, non valeva un soldo15.
E, badate, non la pensava mica male: perché rinchiudersi in un chiostro a logorarsi il cervello con lo studio, sempre col naso sul libro? O perché, come vorrebbe S. Agostino, fare i calli alle mani lavorando dalla mattina alla sera? Se tutti dovessero fare cosí, dove anderebbe a finire il mondo? Lasciamo pure a S. Agostino, se gli preme, il diritto di lavorare. Però era un forte ed abile cavaliere, ed aveva dei levrieri che volavano come uccelli. Per lui il cavallo e la caccia della lepre erano una vera passione; non ci avrebbe rinunziato a nessun costo.
Vidi, se ben ricordo, che aveva le maniche della veste, vicino alla mano, guarnite di pelliccia, della qualità piú fina che si trovasse nel suo paese. Per fermare il cappuccio sotto il mento portava uno spillo, molto curioso, lavorato in oro, che nella parte più grossa aveva un nodo d’amore16. Era interamente calvo, e aveva un cranio lucido come uno specchio.
Anche la faccia era senza un pelo, e liscia come se gli ci avessero passato una mano d’olio, tanto egli era grasso e ben pasciuto. Aveva gli occhi infossati, e li stralunava come un matto, mentre la testa gli fumava come il camino d’una fornace17. Calzava un bel paio di stivaloni di pelle molto fine, e aveva il cavallo bardato con lusso; insomma era un gran bel prelato. Non era pallido, né pareva che avesse l’animo tormentato; e per lui un buon papero, bello grasso, era il migliore arrosto del mondo. Cavalcava un palafreno scuro come una bacca di cipresso.
C’era anche un cercatore, un fratacchiotto svelto e d’umore allegro, il quale viveva d’elemosina: l’avresti detto un sant’uomo. In tutti e quattro gli ordini di quei frati non c’era un altro che sapesse scherzare e chiacchierare come lui. Piú di una volta aveva combinato, a spese sue, il matrimonio di qualche bella ragazza. Tra i frati del suo ordine era un pezzo grosso. Ben veduto da tutti, bazzicava dappertutto, ed era accolto famigliarmente dai signorotti di campagna, non solo, ma anche dalle signore piú cospicue della città: perchè, com’egli stesso diceva, avendo la licenza del suo ordine, egli poteva confessare meglio di un curato. Ascoltava con molto amore la confessione, ed era molto indulgente nel dare l’assoluzione. Quando sapeva che c’era da buscare qualche cosa andava molto adagio con la penitenza: chi era pronto a fare un po’ di elemosina a un povero ordine di frati, non poteva avere macchia nella coscienza, e l’assoluzione l’aveva in saccoccia prima di confessarsi. Uno che fa l’elemosina, diceva egli, quasi vantandosi della scoperta, è già pentito dei suoi peccati. Non c’è mica bisogno di piangere: c’è della gente che ha il cuore cosí duro, che non sa tirare una lacrima neppure se è ferita a sangue. Quindi fa molto meglio chi senza tanti piagnistei e senza tanti paternostri, lascia guadagnare qualche cosa ai poveri frati.
Dentro il cappuccio portava sempre una quantità di piccoli coltelli18 e di spilli, per offrirli alle belle donne che ne avessero bisogno. Aveva un bel timbro di voce, e sapeva cantare e suonare a memoria. C’era una specie di canto, poi, nella quale era insuperabile.19 Il suo viso era bianco come un giglio. Da valoroso campione conosceva a menadito le bettole di tutte le città dove era stato, ed era amico di tutti gli osti e di tutti i piú allegri cantinieri, come un lazzarone o uno straccione qualunque. Se non che, ad una persona come lui non stava bene, almeno fin dove gli era possibile farne a meno, trattare con simile canaglia. Quella non era davvero una compagnia che gli facesse onore, e potesse giovargli; perciò era meglio accompagnarsi con chi aveva soldi, e grazia di Dio da vendere. Quando sapeva che c’era da beccare qualche cosa, correva subito, tutto gentilezza, e pronto a rendere qualunque servizio. Non c’era al mondo un uomo che avesse le sue virtú: in tutta la confraternita non era possibile trovare un altro frate piú bravo di lui per domandare l’elemosina20. Poichè anche se andava da una povera vedova, che non avesse da dargli, per modo di dire, un paio di scarpe rotte21, qualche cosina, prima di andar via, buscava sempre; con tanta dolcezza sapeva dire il suo: In principio. Era, poi, cosí accorto nel comprare e rivendere, che rimediava più col suo piccolo commercio che con la tonaca. Quando una cosa non andava a modo suo, abbaiava come un cane cucciolo; perciò quando c’era da comporre qualche questione poteva prestare un valido aiuto. Non credete che avesse l’aria di uno di quei poveri diavoli, che vanno in giro con una tonaca frusta frusta: pareva un canonico, anzi un papa addirittura. Portava una mezza cappa di lana filata a doppio, tonda e tutta d’un pezzo come una campana22. Quando parlava, faceva sentire, per vezzo, un po’ di lisca, affinchè la lingua inglese in bocca sua suonasse piú dolce. Allorchè, finito il canto, toccava l’arpa, gli occhi gli brillavano come due stelle in una serena notte d’inverno. Questo rispettabile frate si chiamava Uberto.
C’era anche un mercante con la barba forcuta e il vestito di vari colori, il quale se ne stava sul suo cavallo, con un gran cappello di castoro in capo. Aveva un bel paio di stivali elegantemente affibbiati. Diceva le sue ragioni con molto calore, e in ogni occasione tastava accortamente il terreno, per vedere se c’era modo di guadagnare qualche cosa. Avrebbe desiderato che il tratto di mare fra Middelburg e Orewel fosse, per ogni buon fine, guardato e reso sicuro dai pirati. Era molto abile a cambiare, ad interesse, gli scudi con le altre monete. Questo bravo mercante sapeva valersi molto bene della sua abilità: e con tanta accortezza faceva gli affari, stringeva contratti, prendeva denari in prestito, che non c’era mai caso di sentir dire che avesse qualche debito. Era, in somma, una persona veramente degna; ma se devo dire la verità, non so come si chiamasse.
C’era anche un chierico di Oxford, che da un gran pezzo almanaccava con la logica. Aveva un cavallo che reggeva l’anima coi denti, ed anche lui, per dire la verità, del grasso non ne aveva da buttar via, ma era smunto e malandato. Portava un mantello tutto logoro, e non poteva comprarsene un altro, perché ancora non godeva nessun beneficio, e non era adatto a un altro impiego qualunque. Era piú contento di avere a capo del letto una ventina di volumi delle opere di Aristotile, ben rilegati in pelle nera e rossa, che dei begli abiti, o un violino, o un altro strumento a corda, per divertirsi a suonare23. Con tutta la sua filosofia, era sempre al verde; perché tutto quello che poteva raccapezzare dagli amici, lo spendeva in libri o per imparare qualche cosa. E pregava giorno e notte per l’anima di coloro, che contribuivano, in qualche modo, a procurargli i mezzi di studiare, non avendo egli al mondo altro pensiero, altro desiderio che lo studio. Non diceva mai una parola più del necessario e parlava sempre correttamente, e con modestia, in poche parole, e sempre con molto criterio. I suoi discorsi erano pieni di virtù e di morale, e con ugual piacere era sempre disposto a imparare e ad insegnare.
C’era, con noi, anche un impiegato del tribunale,24 colta e intelligente persona, il quale aveva passeggiato più di una volta su e giú per il portico di Westminster25. Era un uomo che aveva realmente delle ottime qualità; sempre prudente e pieno di buon senso, ispirava a tutti un certo rispetto. Godeva tale stima, ed erano cosí apprezzati i suoi savi discorsi, che molto spesso era invitato a sedere giudice in tribunale, a nome di una intera commissione26. Con la sua dottrina, e col nome che s’era fatto, guadagnava quanto voleva, e d’ogni parte gli piovevano regali. Era difficile trovare un altro che sapesse fare i proprî interessi come lui. I suoi beni erano tutti libera proprietà; e non si poteva fare sospetti su quel ch’egli comprava. Era un uomo d’affari, senza dubbio, ma aveva un po’ la smania di darsi da fare anche piú del bisogno. In tribunale citava tutti i momenti casi e giudizi che risalivano, nientemeno, al tempo del re Guglielmo27. Aveva l’abilità di redigere e presentare un verbale in modo, che nessuno vi trovava mai da ridire; e sapeva a mente tutti gli articoli del codice. Cavalcava alla meglio, con una veste di stoffa a varî colori, stretta alla vita da una cintura di seta a striscie. Ma basta del suo vestiario.
Faceva parte della brigata anche un possidente28, con la barba bianca come un fiore di margherita e col viso molto colorito. La mattina, appena alzato, cominciava sempre con una buona zuppa nel vino. Da vero figlio di Epicuro era solito passarsela allegramente, e pensava che la vera felicità è riposta nel pieno godimento del piacere. Proprietario di case, ed uno di quelli grossi, era il S. Giuliano del suo paese29. Pane e birra, alla sua tavola, erano sempre della migliore qualità30; nessuno aveva in cantina le botti di vino che aveva lui, e in casa sua c’era sempre pronto, a tutte l’ore, qualche buon piatto, cotto al forno, di pesce o di carne, e in grande abbondanza. Da mangiare e da bere gli pioveva in casa d’ogni parte, con tutto ciò che di piú squisito si può desiderare. Il suo pranzo e la sua cena variavano col variare delle stagioni. Teneva ad ingrassare in gabbia molte buone pernici, nel vivaio nuotavano a dozzine le regine e i lucci: e guai al cuoco, se la salsa non era piccante e saporita, se in cucina non andava tutto come un orologio. Nel suo salotto da pranzo c’era sempre la tavola apparecchiata, dalla mattina alla sera.
In consiglio la faceva sempre da padrone, come quegli che era stato, non so quante volte, deputato della provincia. Alla cintola, che era bianca come latte appena munto gli pendeva una daga e una borsa di seta. Aveva fatto anche il pretore e il ragioniere31; insomma un proprietario bravo come lui non s’era mai visto.
Erano venuti con noi anche un merciaio, un legnaiuolo, un tessitore, un tintore e un tappezziere, vestiti nell’uniforme della importante e numerosa società alla quale appartenevano; ed era tutta roba nuova e pulita. Il pugnale non aveva il manico di rame, ma tutto ben lavorato in argento, e d’argento erano anche la cintura e la borsa. Avevano tutti e cinque l’aria di persone per bene, e ognuno di loro avrebbe potuto sedere benissimo, in una sala dorata, alla tavola d’onore32. Per senno, poi, sarebbero stati ottimi consiglieri municipali; molto piú che avevano tutti qualche cosa al sole. Le loro mogli naturalmente sarebbero state contentissime, ed avrebbero fatto male a non essere: sentirsi chiamare “signora„ e la sera, andando ai ritrovi festivi in chiesa con una elegante mantiglia, prendere, senza tante cerimonie, i primi posti, è una bella soddisfazione.
Insieme con loro c’era un cuoco, che avevano portato apposta, per fargli cucinare, all’occorrenza, un buon pollo lesso con la gelatina, e una torta di farina e di galanga33. Costui era un famoso bevitore di birra, e un bicchiere di quella di Londra lo sapeva giudicare senza sbagliare. Era molto bravo per cuocere l’arrosto allo spiede e sulla gratella, per il bollito, pel fritto, per fare brodi di carne battuta, e per la torta al forno. Peccato però, pensavo, che avesse il cancro ad una gamba: cucinava cosí bene il cappone in galantina34!
C’era anche un marinaro, che veniva dal lontano Occidente, ed era, per quello che potei capire, di Dartmouth. Cavalcava, alla meglio, un ronzino preso a nolo, e indossava una veste grossolana, che gli arrivava giú fino al ginocchio. A tracolla, appesa a un cordone, portava una daga; i cocenti calori dell’estate gli avevano abbronzato il viso. In fondo era davvero un buon diavolo, sebbene nel suo viaggio a Bordeaux, mentre il mercante se la dormiva tranquillamente sulla nave, spillasse ogni tanto, dalla botte, qualche bicchiere di vino, senza tanti scrupoli di coscienza. . . . . . . . . . . . . . . . . . .35
Come marinaro però e come pilota, per abilità nel conoscere le maree, le correnti e le secche per le quali doveva passare, e per calcolare l’altezza del sole e della luna, non se ne trovava uno compagno, neppure a cercarlo da Hull36 a Cartagine. Era coraggioso, e nello stesso tempo aveva molta prudenza nell’avventurarsi37; più di una tempesta gli aveva arruffato la barba. Conosceva a occhi chiusi tutti i porti, da Gothland fino al capo di Finistere38, e tutti i golfi della Bretagna e della Spagna. La sua nave si chiamava Maddalena.
Era venuto con noi anche un dottore, di cui non c’era in tutto il mondo l’eguale in medicina e in chirurgia, poiché conosceva a fondo anche l’astrologia. Si occupava moltissimo dei suoi malati, intrattenendoli delle ore intere con esperimenti magici; e con molta abilità sapeva rendere oroscopo39 favorevole all’ammalato.
Trovava subito la causa di qualunque malattia, sia che provenisse dal freddo, sia dal caldo, o dall’umidità o dalla siccità dell’aria; con un’occhiata, vedeva dov’era il germe del male e come si era formato. Era in verità un ottimo pratico. Conosciuta la causa e trovato il germe della malattia, lasciava la sua ricetta, e c’erano subito pronti gli speziali, che mandavano droghe e pillole, d’accordo con lui, da buoni e vecchi amici, nel cavar sangue al prossimo. Aveva studiato a fondo il vecchio Esculapio, Dioscoride, Rufo, il vecchio Ippocrate, Hali e Galeno, Serapion, Rasis, e Aviceno, Averrois, Damasceno e Costantino, Bernardo, Gatisdeno e Gilbertino40.
Mangiava poco, ma cercava che quel poco fosse roba nutritiva e facile a digerirsi. Sulla Bibbia non ci perdeva molto tempo; aveva un vestito rosso-sangue e celeste, foderato di taffetà e di seta piuttosto fina. Quando si trattava di spendere, andava molto adagio, e in questo modo s’era messo da parte tutto quello che aveva guadagnato nell’anno, in cui ci fu quella famosa pestilenza41. Poichè l’oro è il cordiale del medico, egli lo preferiva, naturalmente, a qualunque altra cosa.
C’era anche una buona donna di un paese vicino a Bath, la quale, per sua disgrazia, era un po’ sorda. Lavorava cosí bene il panno, che le sue stoffe superavano quelle di Ipres e di Ghent42. In tutta la parrocchia nessuna donna si sarebbe arrischiata di andare prima di lei a offrir l’obolo all’altare; e se qualcuna si provava a passarle innanzi, ne avea tanta rabbia, che tutta la sua devozione andava in fumo. I fazzoletti che la Domenica portava attorno, sul capo, per vendere, erano di un tessuto bello doppio: ci scommetto che pesavano almeno una diecina di libbre43. Aveva le calze rosse scarlatto, ben tirate su al ginocchio, e un bel paio di scarpe nuove. Era una bella donna; un po’ provocante con quel suo viso colorito: ma in fondo era stata sempre onesta. Tant’è vero che aveva salito cinque volte l’altare44 per andare a marito, e da giovane non aveva avuto mai tresche; ma lasciamo stare il passato, chè ora non è il caso di andarlo a rivangare. Era stata tre volte a Gerusalemme, e aveva passato molti fiumi stranieri, e visto Roma, Bologna, S. Jacopo in Galizia, e Colonia, cosicchè non le mancava davvero la pratica di viaggiare. Per dire la verità era piuttosto ghiotta45. Cavalcava con disinvoltura un buon cavallo; aveva il collo ben coperto, e in capo portava un cappello largo come uno scudo o una targa. Era avvolta in un gran mantello che le scendeva, stretto ai fianchi, fino ai piedi, e alle scarpe aveva un bel paio di sproni appuntati. In compagnia rideva e chiacchierava che era un piacere; conosceva tutti i filtri dell’amore, poiché nell’arte di questo vecchio giuoco era provetta46.
C’era anche un buon prete, un povero parroco di una piccola città, il quale era proprio un sant’uomo; aveva molta dottrina, e predicava, sinceramente, il vangelo di Cristo, educando, con gran devozione, i suoi parrocchiani. Faceva molta carità, si occupava con grandissima premura del suo gregge, e più d’una volta aveva dato prova di molta rassegnazione nella sventura.
Sentiva una certa ripugnanza ad angustiarsi per gl’interessi suoi47, e preferiva pensare a gli altri; infatti era sempre in mezzo ai suoi poveretti, per dividere con loro quello che ricavava dalle offerte, e qualche volta anche il frutto di quel po’ di roba che aveva. Per lui ce n’era d’avanzo: si contentava di poco. La sua parrocchia era molto grande, e si stendeva fino a certe case lontanissime dalla città; nonostante, anche con l’acqua e coi tuoni, egli non abbandonava mai i suoi afflitti: prendeva su il suo bastone, e via, a piedi, a trovarli. In tutte le cose dava per il primo il buon esempio, e poi predicava agli altri. Ricorreva sempre alle parole del vangelo, e finiva spesso con questo paragone: Se l’oro fa la ruggine, “che cosa farà mai il ferro? Se un prete, al quale noi ci affidiamo, è il primo a dare il cattivo esempio, che cosa dovrà fare un povero ignorante?... È una cosa vergognosa, se uno ci pensa bene, vedere un cattivo pastore in mezzo a delle buone pecore. Perciò è dovere di ogni buon prete insegnare con l’esempio al suo gregge, come bisogna vivere in questo mondo.„
Questo buon parroco non era uno di quei tali, che riducono il beneficio un mercato, e lasciano marcire nel fango il loro gregge. Non correva a S. Paolo in Londra, per farsi una prebenda pregando per l’anima dei morti, o con la speranza di trovare un posticino in qualche confraternita. Se ne stava sempre a casa, e badava con molta cura alle sue pecore, sempre attento che il lupo non glie ne portasse via qualcuna. Insomma, faceva il pastore, non faceva il mercante. Sebbene avesse un animo cosí retto e virtuoso, non trattava mai con asprezza quelli che peccavano; né parlava loro severamente, ma li ammoniva sempre con la sua solita bontà. La sua vita non aveva altro fine che quello di mostrare alle anime la via del paradiso. Però se qualcuno si ostinava nel male, e non la voleva intendere con le buone (fosse un signore o uno del popolo, era lo stesso), sapeva trattarlo come si meritava. Vi dico che era proprio il più buon prete del mondo. Nemico di ogni pompa e di ogni lusso, non si dava pensiero di condire le sue prediche con belle frasi48: predicava la dottrina di Cristo e dei suoi dodici apostoli, ed era il primo a seguirla.
Con lui era venuto anche un suo fratello, contadino, che aveva caricato, in vita sua, molti carri di letame; ed era un uomo laborioso e dabbene, di indole tranquilla, e molto caritatevole. Venerava Iddio con tutto il cuore, e, bene o male che gli andassero gli affari, il suo primo pensiero era sempre rivolto a lui; poi pensava al prossimo, che egli amava come sè stesso. Quando aveva tempo, batteva il grano, zappava, e vangava la terra, per quei poveri contadini che non si potevano permettere il lusso di pagare le opere; e lavorava sempre per amore di Dio, senza prendere un centesimo da nessuno. Pagava puntualmente le sue decime, su ciò che guadagnava con le sue fatiche, e su quel po’ di roba che aveva. Cavalcava una cavalla, avvolto in un tabarro.
C’erano anche un mugnaio, un economo, un fattore, un cursore un mercante d’indulgenze49, e per ultimo c’ero io.
Il mugnaio era un tocco di villano, coi muscoli d’acciaio e le ossa cosí robuste, che non ce la poteva nessuno; infatti nella lotta riusciva sempre vincitore, e guadagnava il montone. Era tarchiato, e duro come un nodo d’albero: con un colpo di testa sgangherava o sfondava qualunque porta. Aveva la barba rossiccia come le setole della scrofa e il pelo della volpe, e la portava piatta come una pala. Proprio sulla punta del naso ci aveva un bernoccolo con un ciuffo di peli, rossi come le setole delle orecchie di una scrofa, e le narici erano larghe e nere. Al fianco portava una sciabola e uno scudo. La bocca pareva un forno. Era un famoso chiacchierone, un goliardo che passava la vita nel vizio e nel vitupero, ed aveva un’abilità straordinaria per farsi la parte sul grano che gli portavano a macinare, facendosi pagare, per giunta, tre volte invece d’una50. Nondimeno, per Dio, aveva anche lui, il suo pollice d’oro51. Era vestito di bianco, con un cappuccio celeste in capo; e siccome suonava molto bene la cornamusa, ci fece camminare a suon di musica fino fuori della città.
L’economo, persona molto gentile, era al servizio di un collegio di avvocati52, e da lui tutte le serve avrebbero potuto imparare a far la spesa. Perché era cosí accorto, che, anche se la roba che comprava non la pagava subito, ma la prendeva a credenza, trovava sempre il modo di portar via di bottega quel che c’era di meglio, e di intascare qualche soldo53. Siamo giusti, domineddio gli aveva dato un bel dono: vi pare poco, che un uomo, il quale in fondo era un pezzo d’ignorante, avesse l’abilità di rivendere tanti dottori?
I suoi padroni, gli avvocati del collegio, erano più di una trentina, e in fatto di legge ne sapevano tutti di molto, ed erano valentissimi. Immaginatevi che ce n’era una dozzina, i quali sarebbero stati capaci di amministrare il patrimonio e i terreni di qualunque Lord inglese. E con la sua rendita (salvo che non avessero dovuto combattere con un matto) gli avrebbero fatto fare la figura del gran signore, senza un centesimo di debito, se pure non avesse preferito menare una vita semplice e modesta. Erano amministratori cosí abili, che avrebbero saputo rimettere in gambe le finanze di qualunque provincia, per quanto malandata; eppure il nostro economo, quando si trattava della spesa, li metteva tutti nel sacco.
Il fattore era un uomo magro e collerico; si faceva radere la barba fino alla pelle, e intorno all’orecchio voleva sempre ben tagliati i capelli. Davanti aveva il cocuzzolo spelato come un prete. Aveva un paio di gambe lunghe e secche come due bastoni, senza un’oncia di carne. Per tenere in ordine un granaio o un magazzino era valentissimo; e non c’era revisore che potesse trovare da ridire su i conti fatti da lui. Dalla siccità e dalla umidità della stagione ti sapeva dire, senza sbagliare, come sarebbe andata la raccolta. Le pecore, il bestiame, il latte e il burro, i maiali, il cavallo, le provviste, e i polli del suo padrone, erano tutti affidati alla sua custodia e direzione; e per contratto faceva il rendiconto annuale, fin da quando il suo padrone aveva vent’anni. Nel suo libro non c’erano arretrati: i conti erano sempre in regola. Fattori, contadini e pastori, conoscevano tutti la sua furberia e le sue astuzie, e avevano di lui una paura indiavolata. Abitava in un luogo amenissimo, ombreggiato dal verde degli alberi. Zitto e cheto s’era messo da parte un bel gruzzolo, poichè sapeva spendere il denaro meglio del suo padrone, del quale cercava, furbo matricolato, di entrare nelle grazie, prestandogli, all’occorrenza, del suo, e guadagnandoci qualche volta, insieme ai ringraziamenti, anche un vestito o un cappello. Da giovane aveva imparato il mestiere del legnaiuolo, ed era riuscito un valente artigiano. Cavalcava un bellissimo stallone grigio pomellato, ed era vestito di una lunga cappa turchina, con una spada arrugginita al fianco. Questo fattore si chiamava Scot, ed era nato a Norfolk, vicino ad una città chiamata Baldeswell. Aveva la cappa legata alla vita come un frate, e cavalcava sempre in coda alla brigata.
C’era, con noi, anche un usciere del tribunale ecclesiastico, con una faccia da cherubino, rossa come il fuoco per uno sfogo che gli era venuto fuori. Aveva gli occhi piccolissimi, ed era caldo e lascivo come un passerotto. Le ciglia spelate e la barba mezza spelacchiata lo faceano sí brutto, che i bambini ne avevano un gran terrore. Mercurio, piombo bianco, zolfo, borace, biacca, tintura di tartaro, unguenti, tutto era inutile: non era possibile trovare una medicina, che gli facesse sparire dal viso tutte quelle pustole bianche, e gli spianasse i bernoccoli che aveva sulle gote. Faceva delle gran mangiate d’aglio, di cipolla, di porri, e ci trincava sopra del vino generoso e rosso come il sangue, chiacchierando e gridando come un ossesso. Quando poi aveva bevuto ben bene, allora cominciava a parlare in latino. Stando tutto il giorno al tribunale in mezzo alle sentenze e ai decreti, niente di più naturale che qualche frase latina gli fosse rimasta in mente: del resto, ognuno sa che anche una gazza impara a discorrere bene come il papa54. Se qualcuno poi per divertirsi col suo latino lo faceva discorrere un poco, tirava fuori tutta la sua dottrina, e si metteva a gridare: Questio quid juris55.
Scapestrato sí, ma in fondo aveva il core buono, e non c’era più buon diavolo di lui; se un amico gli pagava un quartuccio divino, era padrone di tenersi, magari per un anno intero, una concubina: egli lo compativa, e chiudeva un occhio volentieri. Quando qualche merlo gli capitava sotto, se lo pelava, piano piano, senza che questi se ne accorgesse56. Tutte le volte che s’imbatteva in qualcuno dei suoi buoni amici gli insegnava a non aver paura dei fulmini dell’arcidiacono, dicendo: “l’anima nostra non è mica rinchiusa dentro la nostra borsa. Perciò niente paura, perchè l’arcidiacono colpisce lí, li dentro è l’inferno per lui„. Ma egli mentiva per la gola: il colpevole dovrebbe temere sempre la scomunica, poiché questa perde l’uomo, come l’assoluzione lo salva; e dovrebbe, ognuno, guardarsi dal significavit57.
Aveva sotto la giurisdizione del suo ufficio tutta la gioventú58 della diocesi, e con tutti era largo di consigli, con tutti si trovava sempre d’amore e d’accordo. S’era messo in capo una ghirlanda di fiori come quelle che si vedono appese per insegna alle birrerie, e invece di scudo portava una focaccia.
Insieme a lui cavalcava un simpatico mercante d’indulgenze, di Roncisvalle, suo degno amico e compare, il quale era ritornato proprio allora da Roma. Non faceva altro che cantare con quanto ne aveva in gola: “Amor mio vien qui da me59„; mentre l’usciere con una voce che sonava piú di un trombone, gli faceva il basso accompagnandolo. Questo mercante di indulgenze aveva i capelli biondi come la cera, e morbidi come fiocchi di lana, che gli cascavano giú per le spalle, un ciuffo qua e un ciuffo là, molto radi; nonostante, per fare il chiasso stava senza il cappuccio, e lo teneva chiuso in fondo alla sacca. Pretendeva di cavalcare secondo l’ultima moda, e se ne andava, coi capelli svolazzanti per le spalle, con una semplice berretta in testa, mentre gli occhi gli luccicavano come quelli di una lepre. Sulla berretta aveva cucito una piccola immagine di Cristo, e si teneva davanti la sua sacca, piena zeppa d’indulgenze che venivano belle calde da Roma. Parlava con una vocina cosí curiosa, che pareva di sentir belare una capra. Era senza un pelo di barba, e ormai, credo, aveva perduto la speranza di averne: con quella faccia così pulita e liscia, sembrava sempre uscito dalla bottega del barbiere. Non mi ricordo bene se montava un cavallo o una cavalla.
Da Berwike a Ware non c’era un mercante d’indulgenze bravo come lui. In fondo alla sua sacca c’erano dei veri tesori: c’era una federa, che era fatta, niente di meno, col velo di Maria Vergine; c’era un pezzo della vela che portò S. Pietro pel mare, quando incontrò Gesú che lo raccolse e lo salvò. C’era una croce di metallo con pietre preziose, e degli ossi di porco dentro un bicchiere. Con queste reliquie quando trovava qualche povero curato di campagna, in un giorno solo gli rimediava piú di quello che il poveretto non guadagnava in due mesi. E cosí lisciando e scherzando egli si giocava il curato e tutta la sua gente. Però bisogna dire la verità, in chiesa era un gran bravo prete. Leggeva molto bene l’epistola, e qualunque altra parte della messa;60 ma era proprio inarrivabile nel cantare un offertorio. Siccome sapeva che subito dopo c’era la predica, e bisognava scioglier la lingua61 per intascare quattrini con la sua solita abilità, cantava con maggior lena, e gridava con quanto ne aveva in gola.
E cosí, eccovi, in poche parole, la condizione, l’abbigliamento, il numero di tutta quella brava gente, e l’occasione in cui l’allegra brigata si trovò riunita a Southwork nella simpatica osteria del Tabarro presso Belle. Bisogna ora che vi racconti, come ce la passammo quella notte lí all’osteria; poi vi dirò qualche cosa della nostra cavalcata, e saprete tutto il resto del nostro pellegrinaggio.
Comincio dunque col chiedere alla vostra cortesia, lettori carissimi, di non volervela prendere con me e tacciarmi di ignorante, se io vi parlo alla buona, e vi racconto i discorsi e gli scherzi dei miei compagni di viaggio, con le loro precise parole. D’altronde, lo sapete meglio di me, chi racconta, deve cercare, fin dove gli è possibile, di riferire scrupolosamente quello che ha sentito, senza badare a come deve parlare. Altrimenti finisce per non dire la verità, ed è costretto quindi a inventare o a lambiccarsi il cervello dietro alla metafora. Quand’anche si trattasse di raccontar qualche cosa che si riferisse, faccio per dire, a un fratello, siamo sempre lí: non bisogna badare a una parola piuttosto che a un’altra. Guardate un po’ Cristo: nella sacra scrittura egli parla apertis verbis, e dice sempre le cose come sono; eppure nessuno ci ha trovato mai nulla di male. E Platone, signori miei, che cosa dice a questo proposito? Dice, a chi lo sa leggere, che le parole debbono essere parenti dei fatti62.
Vi prego anche di perdonarmi se qui nel mio racconto non ho dato a ciascuno dei miei compagni di viaggio il debito posto, secondo la propria condizione, come avrei dovuto fare. D’altronde il mio ingegno, lo vedrete bene, è un po’ corto.
Il nostro oste, dunque, fece festa e buon viso a tutti, e ci mise a tavola in un momento, servendoci delle ottime vivande. Il vino era piuttosto generoso, e andava giù che era un piacere. L’oste, dicevo, il quale era stato maggiordomo di palazzo, ci trattò con molta cortesia. Egli era piuttosto grosso, ed aveva gli occhi infossati. In Chepe non c’era un tipo piú simpatico di lui: franco, savio e pieno di accortezza, uomo nel vero senso della parola, e per di più sempre di umore allegrissimo. Dopo cena si mise subito a scherzare con noi, e ci tenne un po’ allegri co’ suoi discorsi; poi saldati i conti disse: “Signori miei, siate di cuore i ben venuti; sulla mia parola io non ho mai avuto in questo albergo una cosí geniale brigata. Se mi riuscisse, vorrei trovare il modo di farvi sembrare il lungo cammino che dovete fare, meno noioso che fosse possibile. E credo proprio di aver trovato un mezzo molto semplice, e che non vi costerà nulla. Voi andate tutti a Canterbury, non è vero? Il signore v’accompagni, e il beato martire vi ricompensi. Or bene, io m’immagino che lungo la strada cercherete di chiacchierare e di scherzare; perché il viaggio non offre, davvero, nulla di bello e di divertente, a chi abbia intenzione di starsene sul suo cavallo come un pezzo di marmo. In questo caso, signori miei, mi propongo io, come vi dicevo, di farvi passare il tempo piú presto e con meno noia. Se vorrete avere la gentilezza di seguire tutti il mio consiglio, e se domani quando sarete a cavallo vi piacerà fare quello che vi dirò io, vi giuro su l’anima di mio padre, il quale è morto, che farete un viaggio piacevolissimo. Quando non fosse vero, tagliatemi la testa con un colpo. Ma senza tante chiacchiere, su la mano, ai voti!„
La nostra approvazione non si fece aspettare tanto: ci parve che non fosse il caso di discutere la proposta dell’oste; e senz’altro accettammo, pregandolo di esporre il suo disegno.
“Signori, diss’egli, fate del vostro meglio per ascoltarmi, e non ve ne abbiate a male, vi prego, se la mia proposta non vi piace. Ecco, in sostanza, di che cosa si tratta. Ciascuno di voi, per ingannare la lunga strada, dovrà raccontare due novelle nell’andare e altre due al ritorno; s’intende che ognuno è padrone di raccontare fatti avvenuti quando che sia. Chi di voi si porterà meglio, cioé chi racconterà cose più belle e più divertenti, dovrà avere una cena, qui in questo albergo, a questa stessa tavola, pagata da tutti gli altri al vostro ritorno da Canterbury. E perchè possiate fare un po’ più di allegria, verrò anch’io con voi, a mie spese bene inteso, e vi farò da guida; proponendo, fino da ora, per chi lungo il cammino non farà quello che dico io, la punizione seguente: pagare le spese, di viaggio per tutti. Se l’idea vi piace, ditelo senza tanti complimenti, che io domattina mi farò trovare pronto per tempo.
L’idea dell’oste piacque, e tutti demmo di buon animo la nostra parola, pregandolo non solo a voler fare davvero quanto ci aveva proposto, ma a volere essere il nostro capo, e nello stesso tempo giudice e relatore delle nostre novelle. E fino da quel momento fu stabilita, a un dipresso, la spesa della cena da farsi al nostro ritorno. Così da quanti eravamo li presenti, senza distinzione di grado, fu convenuto di affidarsi all’oste come guida, e di sottomettersi, di comune accordo, al suo giudizio di relatore. Egli allora ci portò del vino, e dopo aver bevuto ce ne andammo tutti a letto senza altro.
La mattina, appena giorno, il nostro oste si alzò prima di tutti, e fu così il gallo che ci cantò la sveglia. Messici tutti in rango, e montati a cavallo, c’incamminammo, di passo per la strada che conduce all’abbeveratoio detto di S. Tommaso63. Qui l’oste fermò il suo cavallo, e disse: Signori, vi prego di ricordarvi della vostra promessa; se il canto della sera va d’accordo con quello della mattina, vediamo chi è che deve raccontare la prima novella. Ch’io non possa bere più, in vita mia, una goccia di birra e una goccia di vino, se chi si rifiuta di obbedirmi non farà per tutti le spese del viaggio!
Signor cavaliere, mio padrone, qua anche voi a fare al conto,64 poiché ho stabilito che decida la sorte chi deve essere il primo a raccontare. Anche voi, sora Madre priora, venite qua; e voi signor chierico, siete pregato d’essere un po’ piú svelto, e di non pensare ora ai libri. Avanti, giú la mano tutti„.
In un momento tutte le mani si schierarono, e per non farla tanto lunga (fosse fatalità o caso, o quel che si voglia), la sorte cadde sul cavaliere, con gran piacere di tutta la brigata. E cosí gli toccò a raccontare pel primo la sua novella, secondo quello che di comune accordo era stato stabilito, come già sapete. Quel buon diavolo del cavaliere, in fine, quando vide che toccava a lui, da uomo savio, e sempre pronto a mantenere la sua parola, disse: “Ebbene, se devo essere io il primo, tanto meglio: sia lodato Dio, che è toccato proprio a me! Mettiamoci, dunque, in cammino, e fate attenzione a quello che dico.„
Con queste parole riprendemmo la nostra strada, e il cavaliere di buonissimo umore cominciò subito il suo racconto, e disse questa novella.
Note
- ↑ [p. 394 modifica]Il testo ha palmeres: palmieri; ma evidentemente, come nota il Tyrwhitt, il poeta ha adoperato qui la parola in senso generale, e non secondo la particolare distinzione fatta anche da Dante (Vita Nuova, XLI).
- ↑ [p. 394 modifica]Leggo: to ferne halwes (invece che to serve halwes col Tyrwhitt), secondo la lezione ristabilita dal Wright ed accettata da l’Hertzberg, dal Bell e da altri.
- ↑ [p. 394 modifica]Alessandria d’Egitto, conquistata nel 1365 da Pierre de Lusignan, re di Cipro.
- ↑ [p. 394 modifica]Il nostro cavaliere era una persona, come si dice, di riguardo: i signori alla corte dei quali egli si trovò, girando il mondo in cerca di guerra, a tavola gli assegnarono spesso il posto d’onore in omaggio alla sua prodezza. Il Chaucer, che nell’originalissimo prologo ci fa un quadro pieno di vita e di colori della società inglese del tempo suo, ci presenta, in questo caratteristico personaggio uno di quegli uomini [p. 395 modifica]di guerra che allora correvano il mondo per servire con le armi presso qualche signore. E non pochi furono questi cavalieri erranti durante il regno di Edoardo III, che è memorabile nella storia della cavalleria inglese. Il Tyrwhitt riferisce, a illustrazione di questa figura di cavaliere descritta dal Chaucer, un antico epitaffio francese (Cfr. Leland, Itin. III. pag. 91) nel quale sono cosí ricordate le gesta di uno di questi cavalieri, contemporaneo del poeta e morto nel 1406: “Icy gist le noble et vaillant Chivaler Matheu de Gourney etc. — qui en sa vie fu a la bataille de Benamaryn, et ala apres a la siege d’Algezire sur les Sarazines et aussi a les batailles de l’Escluse, de Cressy etc.„
- ↑ [p. 395 modifica]In Affrica.
- ↑ [p. 395 modifica]Satalia (l’antica Attalia) e Layas (Lieys in Armenia) furono tolte ai Turchi da Pierre de Lusignan, rispettivamente, nel 1352-1367.
- ↑ [p. 395 modifica]Che cosa precisamente il Chaucer intenda con questa designazione vaga, non è troppo chiaro. Forse si tratta di quella parte del Mediterraneo che si estende fra la Sicilia e l’isola di Cipro, e bagna le coste della Palestina.
- ↑ [p. 395 modifica]In Affrica.
- ↑ [p. 395 modifica]Nell’Anatolia.
- ↑ [p. 395 modifica]Letteralmente: come se fossero stati messi in una pressa (as they were layde in presse).
- ↑ [p. 395 modifica]La monaca, affettando anche questo una educazione raffinata e alla moda, parlava in francese: ma un francese bastardo e corrotto, come quello parlato dal basso popolo di Stratford.
- ↑ [p. 395 modifica]Confesso che l’espressione: “una monaca che faceva da cappellano,„ mi piace assai poco. E non [p. 396 modifica]mi pare molto chiaro l’ufficio di questa monaca presso suora Eglantina, la quale per ogni buon fine aveva condotto con sé anche tre preti. Ma d’altra parte il testo dice proprio cosí: That was hire chapelleyn.
- ↑ [p. 396 modifica]La lezione è molto incerta. Intendo il rekkeles del testo secondo la congettura del Tyrwhitt, il quale sospetta che il Chaucer avesse scritto reghelles. La variante cloysterless (senza chiostro) accolta, sulla scorta di un codice di Cambridge, dal Wright, dal Bell e da altri, porterebbe ad una inutile ripetizione, e non mi pare accettabile. L’espressione è tradotta letteralmente da un testo latino, citato dal Tyrwhitt, il quale dice: Sicut piscis sine aqua caret vita, ita sine monasterio monachus.
- ↑ [p. 396 modifica]Letteralmente: di questo testo non avrebbe dato una gallina pelata (he gaf nat a pulled hen). Ho creduto meglio rendere l’espressione inglese, senza dubbio popolare, con un modo popolare nostro.
- ↑ [p. 396 modifica]An oystre: un’ostrica. (V. la nota precedente).
- ↑ [p. 396 modifica]Amore deve essere inteso, qui, nel senso cristiano di carità, come nel motto inciso sul medaglione della monaca (v. p. 10).
- ↑ [p. 396 modifica]Ho cercato di attenuare, in qualche modo, la grottesca espressione del poeta, la quale suona cosí: fumava come una fornace dove si liquefà il piombo (stemed as a forneys of a leed).
- ↑ [p. 396 modifica]L’uso galante di offrire, ad una signora che lo domanda, uno spillo, è ancora vivo: ma quello abbastanza strano di offrire dei coltelli o temperini (knyfes) non ha, che io mi sappia, alcun riscontro.
- ↑ [p. 396 modifica]Il testo dice: of yeddynges he bar utturly the prys. La lezione è incerta ed il significato di yeddynges è oscuro: io ho accettato, col Bell, la congettura del [p. 397 modifica]Tyrwhitt, il quale riconduce questo vocabolo al sassone geddian o giddian: cantare. Altri intende, come il Wright e l’Hertzberg: raccontare storie.
- ↑ [p. 395 modifica]
- ↑ [p. 397 modifica]Hadde but do schoo: non aveva che una scarpa sola.
- ↑ [p. 397 modifica]Il Chaucer dice precisamente: rounded as a belle out of presse “rotonda come una campana appena levata dalla forma in cui è stata fusa.„ Ho semplificato l’espressione, perchè mi è sembrato che l’immagine, in italiano, non ci guadagnasse molto, traducendo alla lettera.
- ↑ [p. 397 modifica]Then robus riche, or fithul, or sawtrie: “piuttosto che roba di prezzo, o un violino, o un salterio.„
- ↑ [p. 397 modifica]Sergeant of lawe (sergente della legge). Non so quanto esattamente risponda la mia traduzione (impiegato del tribunale) all’espressione inglese: confesso che non ho saputo trovare un modo più determinato e sicuro. L’Hertzberg traduce “Iustitiarius„ e dice (Op. cit. nota al v. 311) che: Sergeant of lawe equivaleva, nel sec. XIV e XV, presso a poco a “Dottore in legge„ (dem Stande eines Doktors der [p. 398 modifica]Rechte gleich kam). Cfr. in proposito l’opera del Crabbe, Storia del Diritto Inglese, alla quale rimanda l’Hertzberg.
- ↑ [p. 398 modifica]That often hadde ben atte parvys. (Il quale era stato spesso sotto il portico della chiesa). La voce parvys, che è manifestamente il parvis dei francesi, significa: portico o piazza davanti a una chiesa. Nel medio evo era costume degli avvocati, e di tutta la gente del foro in generale, ritrovarsi in certe ore del giorno, quando i tribunali erano chiusi, sotto il portico di una delle chiese principali della città, per parlare e discutere di leggi e di diritto. A quale di questi portici abbia inteso precisamente di alludere il Chaucer non è facile dire: io ho messo il nome di Westminster non tanto perché uno dei piú probabili, quanto per rendere, in qualche modo, meno indeterminata l’espressione del poeta.
Il Tyrwhitt riferisce in proposito il seguente passo (V. Fortescue, De laud. leg. Angl., C. 51): Post meridiem curiae non tenentur; sed placitantes tunc se divertunt ad pervisum et alibi, consulentes cum servientibus ad legem (sergeant of lawe) et aliis consiliariis suis. - ↑ [p. 398 modifica]Letteralmente per la patente (di avvocato?) e per mezzo di una intera commissione (by patent, and by pleyn commissioun). La patente glie ne dava il diritto legale, la commissione lo invitava a presiedere, come giudice, in omaggio alla sua dottrina in fatto di materie giuridiche.
- ↑ [p. 398 modifica]Guglielmo il Conquistatore.
- ↑ [p. 398 modifica]In italiano non c’è una parola che corrisponda precisamente al Frankeleyn del testo. Ho tradotto possidente sulla definizione del Fortescue (De Laud. leg. [p. 399 modifica]Angl. C. 29) citata dal Tyrwhitt, secondo la quale per Frankeleyn si intende: pater familias magnis ditatus possessionibus. Vedi la lunga nota dell’Hertzberg (Op. cit., n. al v. 333) il quale traduce: Gutsherr.
- ↑ [p. 399 modifica]Cioè: la sua casa era aperta a quanti amici e conoscenti avevano occasione di passare dal suo paese, i quali erano sicuri di trovare presso di lui la piú cordiale ospitalità.
Secondo la leggenda S. Giuliano avendo ucciso per disgrazia i suoi genitori, per purgarsi, in qualche modo, del suo involontario delitto con una buona azione, mantenne a sue spese un albergo, lungo una via piena di pericoli e di disagi, dove i viandanti trovavano vitto e alloggio gratis. Di qui ebbe origine la tradizione che fece di S. Giuliano l’ospitaliere, il protettore dei viandanti, quali lo invocavano per via e ne recitavano il miracoloso Paternostro. Anche il Boccaccio (Dec. II. 2.) dice: “ne’ quali (paesi) chi non ha detto il Paternostro di S. Giuliano, ancora che abbia buon letto, alberga male„. Intorno alle varie trasformazioni e modificazioni che subí la leggenda di questo santo, che divenne perfino protettore dei facili amori e dei lenoni, puoi vedere l’interessante scritto di A. Graf, S. Giuliano nel Decamerone e altrove, in: Miti, leggende, e superstizioni del Medio Evo Torino, Loescher 1892-93. V. anche, Brand, Antiquities (V. I. pag. 359. Ediz. H. Ellis). - ↑ [p. 399 modifica]Was alway after oon: era sempre della stessa qualità. La quale, trattandosi di un ricco possidente, è naturale che fosse anche la migliore. Altri, meno bene e poco chiaramente, intende: era sempre dopo l’una (after one o’clock).
- ↑ [p. 400 modifica]Quale fosse precisamente l’ufficio del counter, qui ricordato dal Chaucer, non ho potuto capire, e non so quale e quanta relazione avesse, in verità, con quello del nostro ragioniere. L’Hertzberg traduce, non credo in modo più felice ed esatto, Landvoigt (prefetto, podestà). Qualunque sia il vero significato di questa parola, mi sembra che non debba, ad ogni modo, essergli estraneo il concetto dei numeri e dell’aritmetica, stando all’etimo.
- ↑ [p. 400 modifica]Letteralmente: avrebbe potuto sedere, in una sala dorata, alla tavola situata sulla piattaforma (on the deys). Secondo un uso molto comune in Inghilterra nel Medio Evo, i signori in fondo ad uno dei lati della sala da pranzo, che era sempre molto vasta, facevano costruire una piattaforma in legno, sulla quale veniva apparecchiata la tavola per gli ospiti (come oggi si direbbe) illustri o degni di un certo riguardo.
- ↑ [p. 400 modifica]Radice aromatica di sapore amarognolo.
- ↑ [p. 400 modifica]Ignorando completamente a quale pietanza della nostra cucina moderna corrisponda, in qualche modo, il blankmanger del cuoco chauceriano, ho tradotto “cappone in galantina„ per la ragione che stando a quanto riferisce in proposito il Tyrwhitt, pare che uno dei principali ingredienti fosse la polpa del cappone (the brawne of a capon).
- ↑ [p. 400 modifica]Ho lasciato il seguente distico:
“If that he foughte, and hadde the heigher hand,
By water he sente hem hoom to every land.„il quale non dà qui un senso possibile. Il Wright e il Bell accolgono, senza discussione, i due versi secondo il testo del Tyrwhitt. È strano che nessuno di loro tre, neppure il Tyrwhitt, che con sì larga messe di note ha [p. 401 modifica]illustrato la sua edizione, abbia accennato anche lontanamente alla oscurità del senso, che non può essere loro sfuggita. L’Hertzberg espunge il distico intero osservando, molto giustamente, che se non si può sospettare una interpolazione, bisogna ammettere che prima di questi due versi ci sia una lacuna.
- ↑ [p. 401 modifica]Hull era anche a’ tempi del Chaucer uno dei porti più importanti dell’Inghilterra.
- ↑ [p. 401 modifica]Leggo col Wright e col Bell wys to undertake invece che I undertake, perchè mi pare che in questo modo venga meglio spiegato il significato dell’aggettivo wys che qui, evidentemente, significa: accorto, prudente, in antitesi all’altro hardy (coraggioso, ardito).
- ↑ [p. 401 modifica]Il Gotland è una regione della Svezia: ma qui l’indicazione del Chaucer non è chiaramente determinata.
- ↑ [p. 401 modifica]L’astrologia era nel medio evo una delle fonti a cui piú spesso ricorrevano i medici per i loro malati. Si credeva che una medicina fosse più o meno efficace, secondo che veniva somministrata all’ammalato sotto una costellazione piuttosto che sotto una altra. Il Chaucer il quale dimostra nelle sue opere una conoscenza certo notevole, per il suo tempo, di astrologia, coltivò con molto interesse tutta quella letteratura scientifica che da essa ne derivò. Egli stesso scrisse un libro, rimasto incompiuto, intitolato “The Astrolabe„ nel quale tratta della costruzione e dell’uso dell’Astrolabio.
- ↑ [p. 401 modifica]I nomi di Esculapio, Galeno, Avicenna, Ippocrate, Dioscoride, sono noti a tutti. Rufo era un medico di Efeso contemporaneo di Traiano. Hali (o Haly) era un astronomo arabo, noto anche come [p. 402 modifica]medico, il quale fu contemporaneo di Avicenna, e commentò gli scritti di Galeno, Serapion, anche egli arabo e contemporaneo di Avicenna, scrisse di medicina ed ebbe nome di erudito nel secolo XI. Rasis, dottore asiatico del X secolo, esercitò medicina nella Spagna, e scrisse un’opera che lo levò in gran fama, intitolata Continens. Averrois, filosofo ed erudito del XII secolo nato a Cordova di famiglia araba, scrisse un commento alle opere di Aristotele, e tenne scuola in Marocco dove morì. Giovanni Damasceno fu uno scienzato di origine araba, il quale ebbe molta e varia cultura, e visse in tempi assai più remoti, prima anche della venuta degli Arabi in Europa. Costantino (Constantius Afer) era un frate benedettino di Monte Cassino nato a Cartagine e vissuto verso la fine del secolo XI. Fu uno dei fondatori della scuola di Salerno. Bernardo (Bernardus Gordonius) contemporaneo del Chaucer scrisse molti trattati di medicina e fu professore a Montpellier. Giovanni Gatisdeno, della prima metà del secolo XIV, tenne scuola di medicina ad Oxford. Gilbertino sarebbe secondo l’opinione più probabile un tale Gilbertus Anglicus fiorito nel secolo XIII, autore di un compendio di medicina popolarmente noto ai suoi tempi. (V. Warton, Op. cit., pp. 292-293).
- ↑ [p. 402 modifica]È probabile, come osserva il Wright, che il poeta alluda qui alla famosa pestilenza del 1348 descritta anche dal Boccaccio nel principio del Decamerone.
- ↑ [p. 402 modifica]Le piazze più rinomate, nel continente, pei mercati di stoffe di ogni genere.
- ↑ [p. 402 modifica]Leggo col Wright col Bell e con l’Hertzberg: ten pounde. Il Chaucer, esagerando, mette in caricatura l’uso barocco del suo tempo, secondo il quale [p. 403 modifica]le donne portavano in testa dei fazzoletti molto pesanti imbottiti di ovatta.
- ↑ [p. 403 modifica]Letteralmente: aveva avuto sulla porta della chiesa cinque mariti. (Housbondes atte chirche dore hadde sche had fyfe). La parte più importante della sacra funzione anticamente, in Inghilterra, si compieva sulla porta della chiesa, dove lo sposo impalmava la mano della sposa, per andare poi all’altare a ricevere la comunione.
- ↑ [p. 403 modifica]Il testo è molto incerto, e presenta nelle sue varie lezioni una parola assai difficile a spiegarsí. II Trywhitt legge: gattothud, e confessa di non intendere che cosa abbia voluto dire, precisamente, il Chaucer.
La lezione del Trywhiltt, accettata dal Wright dal Bell e dall’Hertzberg, a me sembra la piú probabile, intesa e spiegata per goat-toothed (dai denti di capra) che significa in senso traslato: ghiotto, ingordo. Qui per altro ghiotta va inteso, con valore suggestivo, per lasciva, libidinosa. A questa interpetrazione conforterebbe, se non m’inganno, un passo del prologo della novella raccontata appunto dalla donna di Bath, nel quale parlando di se stessa costei dice: “Io avevo quaranta anni, se debbo dire la verità, ma mi piaceva sempre scherzare come una puledra. Ero gattothud, e ciò non mi faceva torto, poiché oramai aveva il bollo del sigillo di Venere.„ - ↑ [p. 403 modifica]Il testo dice veramente; “poiché era molto pratica del mestiere di questa vecchia danza (For of that art sche knew the olde daunce).
- ↑ [p. 403 modifica]Letteralmente: “non c’era caso che per causa delle decime si arrabbiasse ed imprecasse„ (Ful loth were him to cursey for his tythes). Chi si rifiutava di pagarle incorreva nella scomunica.
- ↑ [p. 404 modifica]Non so se questa espressione renda, in qualche modo, lo “spiced conscience„ del testo, tutt’altro che chiaro, che il Tyrwhitt confessa di non capire assolutamente. L’Hertzberg traduce, “That mit Gewissensskrupeln nicht breit.„
- ↑ [p. 404 modifica]Per maggiore chiarezza non ho mantenuto, traducendo, l’ordine preciso con cui il poeta nomina qui gli ultimi personaggi del suo prologo: ho seguito invece quello nel quale ce li descrive poi singolarmente. Il sompnour (summoner), che io ho reso in italiano con cursore e usciere del tribunale ecclesiastico, era un impiegato che aveva l’ufficio di citare, come dice il nome stesso, davanti alla severa corte dell’arcidiacono, coloro che si erano resi colpevoli verso le leggi ecclesiastiche, custodi a dire il vero non troppo intemerate della pubblica morale. Questo personaggio, nel quale il Chaucer fa un’arguta satira degli usi e degli abusi religiosi del suo tempo, è una delle macchiette piú riuscite e geniali della lunga schiera di cavalieri che ci sfilano davanti, gaiamente novellando, sulla via di Canterbury.
- ↑ [p. 404 modifica]Il mugnaio qui descritto dal poeta è il vero prototipo di quella classe che nel medio evo era proverbialmente nota per la consumata abilità di rubare. Secondo l’uso che anche oggi rimane in molti luoghi, il padrone del mulino, invece di denaro, si prendeva a titolo di paga, una certa misura di fiore per ogni sacco macinato. E questo dicevasi, con parola del mestiere, tollen (toll o take toll). Pare, quindi, che l’onesto mugnaio non contento di mettere le mani nel sacco del grano (wel cowde he stele corn) prima di macinarlo, si prendesse poi tre misure di farina (tollen thries) invece di una.
- ↑ [p. 405 modifica]Il Chaucer intende dire che il suo mugnaio, in fin dei conti, non era più ladro degli altri: aveva anche lui, come gli altri colleghi, il suo pollice d’oro. La frase è tolta probabilmente, come nota il Tyrwhitt, dall’antico proverbio inglese: “Every honest miller has a thumb of gold„ col quale il popolo faceva le sue vendette.
- ↑ [p. 405 modifica]Non so se in italiano vi sia un’altra parola che meglio risponda al maunciple del testo. Mi è sembrato che fornitore, provveditore, dispensiere sarebbe stato anche peggio di economo.
- ↑ [p. 405 modifica]Il testo ha veramente: he was ay biforn in good state: “egli era sempre il primo a trovarsi in buona condizione.„ Cioé trovava sempre il modo di comprare roba buona e pagarla poco, per farla poi pagare ai suoi padroni più di quello che costava, intascandosi il di piú.
- ↑ [p. 405 modifica]“a jay can clepe Watte, as wel as can the pope.„ Letteralmente: una gazza può chiamare “Gualtiero„ (Watte vale Wat, forma abbreviata di Walter) bene come il papa.
- ↑ [p. 405 modifica]L’usciere quando aveva alzato un po’ il gomito faceva sfoggio del suo latino: è naturale però che tra i fumi del vino egli si ricordasse meglio di quelle espressioni e di quelle frasi che stando in tribunale sentiva ripetere più spesso. Una di queste era appunto Questio quid juris, che negli antichi scritti di legge ricorreva continuamente, in forma di domanda, dopo l’esposizione di un fatto giuridico qualunque.
- ↑ [p. 405 modifica]Ho tradotto con questa efficace espressione del popolo nostro l’espressione popolare inglese adoperata dal Chaucer: And prively a fynch eke cowde he pulle (sapeva anche pelare, di nascosto, un uccellino).
- ↑ [p. 406 modifica]Cioè dalla scomunica. Con questa parola cominciava la formula: Significavit nobis venerabilis pater etc., onde veniva annunciata ai colpevoli la scomunica.
- ↑ [p. 406 modifica]Il testo dice gurles (girls) ma qui piuttosto che nel senso determinato di ragazze, deve intendersi in senso generale: maschi e femmine. Però ho tradotto: tutta la gioventú.
- ↑ [p. 406 modifica]Si tratta, molto probabilmente, di un ritornello di qualche canzone popolare amorosa del tempo.
- ↑ [p. 406 modifica]Mi pare che storye non possa avere qui il significato di storia o racconto profano, che andrebbe poco d’accordo con lessoun (una parte della sacra scrittura che si leggeva nella messa). Il Chaucer dopo averci descritto il suo mercante di indulgenze per il miglior brigante del mondo, come avrebbe detto il Boccaccio, soggiunge con intenzione senza dubbio ironica: Però bisogna dire la verità, in chiesa era un degno prete (a noble ecclesiaste), e diceva la messa con tutte le regole senza trascurarne nessuna parte.
- ↑ [p. 406 modifica]Affyle his tunge. Letteralmente: pulir la lingua.
- ↑ [p. 406 modifica]È probabile, come nota il Tyrwhitt, che la fonte diretta alla quale il Chaucer ha attinto questa espressione, piuttosto che Platone, sia Boezio (De Consolatione, III. 12.
- ↑ [p. 406 modifica]L’abbeveratoio di S. Tommaso, secondo il Wright, si trovava a due miglia da Londra sull’antica strada di Canterbury.
- ↑ [p. 406 modifica]V. la nota 11 alla novella del mercante di indulgenze.