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40 | novelle di canterbury. |
mio racconto non ho dato a ciascuno dei miei compagni di viaggio il debito posto, secondo la propria condizione, come avrei dovuto fare. D’altronde il mio ingegno, lo vedrete bene, è un po’ corto.
Il nostro oste, dunque, fece festa e buon viso a tutti, e ci mise a tavola in un momento, servendoci delle ottime vivande. Il vino era piuttosto generoso, e andava giù che era un piacere. L’oste, dicevo, il quale era stato maggiordomo di palazzo, ci trattò con molta cortesia. Egli era piuttosto grosso, ed aveva gli occhi infossati. In Chepe non c’era un tipo piú simpatico di lui: franco, savio e pieno di accortezza, uomo nel vero senso della parola, e per di più sempre di umore allegrissimo. Dopo cena si mise subito a scherzare con noi, e ci tenne un po’ allegri co’ suoi discorsi; poi saldati i conti disse: “Signori miei, siate di cuore i ben venuti; sulla mia parola io non ho mai avuto in questo albergo una cosí geniale brigata. Se mi riuscisse, vorrei trovare il modo di farvi sembrare il lungo cammino che dovete fare, meno noioso che fosse possibile.