Dal dialetto alla lingua/Parte I
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SUONI E SEGNI
I.
§ 1. — Lettere e segni ortografici.
Elementi della parola.1. Le parole sono costituite di suoni raccolti in sillabe sotto un accento fondamentale.
L’alfabeto.2. A rappresentare i suoni si adoperano de’ segni, che si dicono lettere; ma per lettera s’intende anche il suono ch’essa rappresenta. Il nostro alfabeto ne ha ventuna: a, b, c, d, e, f, g, h, i, l, m, n, o, p, q, r, s, t, u, v, z1.
Vocali o consonanti.3. Le lettere a, e, i, o, u sono vocali, cioè suoni che si esprimono da se soli; le altre sono consonanti, cioè suoni che per esprimersi hanno bisogno d’appoggiarsi a una vocale.
Formazione e classificazione:4. Alla retta pronunzia e pei raffronti che si faranno più innanzi tra dialetti e lingua, gioverà conoscere come tali suoni si formino e la qualità loro2.
a) delle vocaliPronunziando i, si ha la maggior elevazione della lingua verso il palato; pronunziando u, il maggior allungamento e arrotondamento delle labbra. Tra a, termine medio, e i sta e; tra a e u, sta o. I e e son dette, perciò, palatali; u e o, labiali (e gutturali o velari, se si considera che il loro suono si forma nella gola, al velo pendolo).
e b) delle consonanti:5. Le consonanti si possono considerare secondo il punto d’articolazione, la durata e la qualità del suono.
1. secondo il punto d’articolazione;Secondo il punto d’articolazione si dividono in:
2. la durata;6. Per la durata del suono in:
3. la natura;7. Quest’ultime, per la natura del suono, si suddividono in:
4. e la musicalità del suono.8. Finalmente per la risonanza o musicalità loro tutte le consonanti si dividono in:
k, x, y, w, j in voci non Italiane;9. Oltre ad esse, s’incontrano in voci non italiane (straniere, trasportate dal latino e dialettali) e non sempre con uguale valore:
K, cappa = c gutt.: Kant; X, ics = cs: ex-ministro, Xanto; Y, ipsilon = i: Kyrie; W, doppio vu = v: Wolf; J, i lungo = i: Jena.
j in parole Italiane.Quest’ultima, che trovasi anche in nomi italiani non toscani (Rajna, Majno), taluni usano ancora in fine di parole italiane invece di due ii: principj, fornaj. Ma in tal caso l’uso più comune adopera ora un i solo, distinguendo con l’accento le parole che potrebbero confondersi: princípi e príncipi.
Segni ortografici e di punteggiatura.10. I segni ortografici sono gli accenti (acuto ´ e grave `), l’apostrofo (’), la lineetta ( — ), i puntini (...), le virgolette (« »); l’asterisco (*), la dieresi (¨), la parentesi quadra [ ]. Quelli di punteggiatura o interpunzione sono: la virgola (,), il punto e virgola (;), il punto interrogativo (?), il punto esclamativo (!), il punto esclamativo-interrogativo (!?) e la parentesi tonda ( ).
§ 2. — Vocali.
Doppio suono di e e o11. L’e e l’o accentate (ché, fuori di accento suonano sempre più o meno strette) di parole comuni e popolari (non dotte, quali, p. es., tèsi, coòrte, dove suonano aperte), hanno due suoni, l’uno aperto, l’altro stretto, che si sogliono segnare con gli accenti grave e acuto.
Nei casi in cui una stessa parola ha doppio significato, questa medesima duplicità rende accorti sulla differenza di suono, e induce allo sforzo di non confondere, p. es., il frutto della pèsca con l’atto della pésca, i vènti col numero vénti, la ròcca del castello con la rócca da filare, i cervelli vòti coi vóti del cuore.
Per le voci pronominali, numerali, verbali, e i suffissi (mé, dièci, amerèbbe, diligènte, diligènza, veraménte, falliménto, romitòrio, figliòlo, velóce, studióso, nutrizióne, pressióne, ecc.), la distinzione si apprende dalla stessa grammatica.
Per le molte altre, bisogna attenersi alla pratica e ai vocabolari e libri di lettura in cui la differenza è avvertita dal segno, non potendosene dare regole certe e brevi.
La pratica, ad es., ben osservata, insegnerà presto e agevolmente che davanti a -gn, -nn, -lm, -mm, d’ordinario e e o suonano stretti: dégno, régno, élmo, marémma, pénna, sógno, vergógna, cólmo, sómma, sónno, colónna.
Dittongo.12. Le vocali i e u (da alcuni dette dolci rispetto a e, o, a, forti) assumono quasi natura o, meglio, ufficio di consonanti, e si chiamano semivocali, quando, incontrandosi con una delle altre, formano con essa un unico suono, cioè un dittongo, che dicesi disteso, quando prima viene la vocale, flàuto; raccolto nel caso inverso, fióre4.
Trittongo.13. Quando il dittongo è preceduto da altra semivocale, si ha il trittongo: iái come in ricambiai, uoi come in suoi, puoi, ecc.
Iato.14. Non si ha dittongo, ma semplice vicinanza o successione di vocali, che vien detta iato, quando ognuna di esse, comprese i e u, conserva la propria indipendenza: idea, reale, creato, mio, tuo, due5.
I e u puri segni ortografici.15. L’u che integra il suono di q e g (quadro, guado), l’i che integra quello di gl o di c e g palatali (figliolo, spogliai, camicia, valigia) non sono né vocali né semivocali, ma semplici segni, a cui non corrisponde un vero e proprio suono, e però non entrano nella costituzione del dittongo o del trittongo (v. 5 n.).
Dittonghi mobili uo, ie.16. Son detti mobili i dittonghi uo, ie, che possono stare in fin di sillaba accentata in vece di o e e: buono (bono), tiepido (tepido). Essi trovansi spesso sostituiti da o, e: ovo, scopre, intero, leggero, ecc., in vece di uovo, scuopre, ecc. Anzi scuopre e leggiero non si usano quasi più.
Quando, mutando la parola, muta l’accento, il dittongo scompare: nuovo, ma novità; muoio ma morire; lieto ma letizia; siedo ma sedere.
Questa norma subisce tuttavia numerose eccezioni: piedistallo, fieramente, diecina, mietitura, fuorché, vuotare, ecc.
§ 3. — Consonanti.
Suoni gutturale e palatale di c e g.17. Le regole principali della pronunzia delle consonanti sono, si può dire, contenute nella stessa classificazione che ne abbiamo fatta.
E, quanto alla scrittura, si è già potuto intendere che per rendere gutturale il suono di c e g davanti e, i, e palatale davanti a, o, u, occorre introdurre rispettivamente il segno di h e di i; cheto, china, ciarpame, ciondolo, ciurma, giallo, giostra, giusto. Per questo l’è ordinariamente si omette dove non è più necessario: camicia pl. camice, franchigia pl. franchige, fascia ma fascetta, bacio ma bacerei.
Digrammi gl (gli), gn, sc.18. Gli e gn «rappresentano suoni ammolliti o schiacciati di l e n»: soglio, sogno.
Gli «conserva suono gutturale in alcuni pochi nomi di origine dotta»: glicine, ganglio.
Gn «non vuole dopo di sé l’i davanti ad a, e, o, u, con cui fa sillaba»: vergogna, agnello, ognora, ignudo.
Sc «dinanzi ad e e i, si fonde in un unico suono continuo spirante palatale»: scirocco, pesce, sciancato, sciocco, asciutto6.
L’h.19. L’h è puro segno, non suono, tranne in qualche esclamazione: oh! ah!
L’n dav. lab.20. N davanti a labiale passa a m: imprudente, imbarco, immolare.
Il q.21. Il q è sempre integrato dau non mai accentato: qua, questo, quota. Si rinforza con c; acqua. Si raddoppia in pochissimi casi: soqquadro.
22. Doppio suono, sordo e sonoro, possono avere s e z: sordo, è, ad es., in sacco e zucca; sonoro in rosa e zeta7.
Per semplice saggio delle numerose norme che occorrerebbero per disciplinare la giusta pronunzia di tali suoni, si può osservare che s è sorda quando è doppia o segue altra consonante: visse, rosso, giunse, orso; davanti a consonante è sorda o sonora secondo che è sorda o sonora la consonante stessa: scala, specchio, ecc.; sbraitare, sdegnarsi, ecc.; è, ordinariamente, sonora. tra due vocali: rosa, tesoro; ma non in bramoso, studioso, acceso, accesi, casa, naso, cosa, ecc.
Quanto a z, è sonora (quasi ds) per lo più in principio di parola: zaino, zanzara; ma non in zappa, zucca, ecc. Negli altri casi è prevalentemente sorda (quasi ts): pezzo, piazza; ma non quando è doppia: bazza, bizza, ecc; o quando si trova davanti a due vocali; azienda, o quando segue altra consonante; bronzo, pranzo, ecc.8.
S e z nelle parole terminanti in -zione.23. Nelle parole terminanti in -ione, d’ordinario occorre z quando il nome corrisponde a un participio, aggettivo o altro nome in cui sia t: estinzione (estinto), intenzione (intento), menzione (mente); occorre s, quando vi sia s: confusione (confuso), tensione (teso). Si eccettuano astensione e i nomi derivati da torcere: contorsione, estorsione.
Doppie.24. È proprietà della nostra lingua raddoppiare le consonanti in mezzo alla parola, specie m, p, b davanti io, ia, ie: femmina, fabbro; dubbio, occhio, pioggia. Ma non mancano eccezioni. S sonora non si rafforza mai.
§ 4. — Sillabe.
Definizione e distinzioni.25. Una o più lettere, tra cui non manchi una vocale, pronunziate con una sola emissione di fiato, costituiscono una sillaba: a-la, scuo-la, schian-to.
Monosillaba è la parola costituita di una sola sillaba; bisillaba di due; polisillaba di più.
«Chiamasi tònica la sillaba (anche la vocale) che ha nella parola l’accento (v. n. 27) più spiccato; protòniche quelle che stanno davanti a questa, e quelle che vengono dopo postòniche».
«Diconsi comunemente átone, ossia prive d’accento, quantunque in realtà non siano tali, ma soltanto fornite di un minor grado d’accento, le parole, specialmente monosillabe, che nel discorso s’appoggiano, per la pronunzia, a quella che le segue o che le precede. Nel primo caso si chiamano proclitiche: p. es. ti dissi; nel secondo, enclitiche, e si attaccano anche nella scrittura, p. es.: vedèndolo».
«Dicesi aperta la sillaba, quando finisce con una vocale: do-lo-re; chiusa, quando finisce in consonante: tem-po. In quest’ultimo caso la vocale è in posizione»9.
Divisione delle sillabe.26. I dittonghi e trittonghi formano una sillaba sola: lau-ro, ab-bre-viai.
«Le consonanti fanno sillaba con la vocale che segue, quando formano un gruppo che può trovarsi anche in principio di parola: a-spro, spraz-zo». In altri casi, la prima fa sillaba con la vocale precedente, le altre o l’altra con la seguente, tranne ne’ gruppi di formazione non popolare (ma dotta): corvo, acqua; ma eni-gma, te-cni-co, a-mni-stia10.
§ 5. — Parola e accento.
L’accento è l’anima della parola.27. Dicesi accento «l’intensità maggiore o minore della corrente d’aria che esce dai nostri polmoni, quando si pronunziano le varie sillabe di una parola» (accento espiratorio)11.
In ogni parola è una sillaba (v. n. 25) che per l’accento spicca di più sulle altre: è questo l’accento che vien detto l’anima della parola, perchè ne stringe in sè tutti gli elementi, dandole unità e vita.
Secondo tale accento la parola dicesi tronca, piana, sdrucciola, bisdrucciola: virtù, amaro, amarògnolo, càpitano. Ma nella nostra lingua la maggior parte delle parole son piane.
Dove si segna.28. L’accento non si segna se non in casi particolari:
Effetti dell’accento.29. Spesso, anche in gran parte per effetto dell’accento, avvengono riduzioni o accrescimenti di lettere o sillabe in principio, in mezzo, in fine di parola: rena per arena (aferesi), dritto per diritto (sincope), fe’ per fede (apocope); in iscuola per in scuola (prostesi); maramaglia per marmaglia (epentesi); sur una strada per su una strada (epitesi). Per questi fenomeni frequentissimi ne’ dialetti, v. n. 50.
Ma le due riduzioni più frequenti a cui vanno soggette le sillabe finali delle parole nel discorso sono:
§ 6. — Il troncamento e l’elisione.
Che cosa è il troncamento.30. Troncamento è la caduta della vocale finale atona (e talvolta anche della consonante con cui fa sillaba) d’una parola polisillaba davanti a altra parola con cui sia pel senso intimamente congiunta: un cavallo, un asino, dottor Antonio, professor Pieri, gran cosa, fan chiasso, siam soli.
A non si tronca se non in ora e suoi composti (ognor, ecc.), in sola della locuzione una sol volta, e in suora quando va unita al nome proprio, suor Maria, suor Orsola.
Le altre vocali si troncano, solo se precedute da l, r, n, m, o quando la parola troncata viene a terminare in una di queste consonanti: gran cosa, san Marco. Ma se l, r, n son doppie, o la vocale è preceduta da due consonanti (nt, nd), il troncamento ha luogo solo davanti a consonante: non si può dire nè gran uomo nè bel orto; ma si dovrà dire grand’uomo, bell’orto, dove si ha invece l’elisione.
Nè si può dir pover uomo, perchè pover, come altre consimili parole, oggi non si tronca più né davanti a vocale né davanti a consonante.
Non si fa, egualmente, troncamento davanti a gruppi consonantici di difficile pronunzia: un schioppo, gran sprazzo.
Quando si segna l’apostrofo.31. Il troncamento non si segna coll’apostrofo se non nei seguenti casi speciali in cui cade l’intera sillaba finale e la parola rimane tronca in vocale: be’! per bene escl., di’ per dici, fe’ per fece, gua’ per guarda, mo’ per mòdo (a mo’ d’esempio), po’ per poco, te’ per tieni, to’ per togli, ve’ per vedi, vo’ per voglio; e ne’ dittonghi delle prep. art. a’, de’, ecc.
L’elisione.32. L’elisione è la soppressione della sola vocale atona finale davanti ad altra vocale iniziale di parola, anch’essa intimamente congiunta pel senso alla precedente: buon’anima, bell’esempio, brav’uomo, grand’ombra, bell’ardire, sant’Andrea.
L’elisione è sempre segnata coll’apostrofo.
Casi speciali.33. Ci si apostrofa solo davanti a i, e; gli davanti i. Lo anche davanti a semivocale: l’ieri. Le non si elide quando significa a lei. Che specie davanti a e: ch’egli, non in c’ho. Può elidersi l’é di perché, benché, ecc.: bench’io.
Di regola, i plurali non si elidono se le due vocali non sono uguali: l’epoche, l’erbe, non l’ingiustizie, l’amarezze.
II.
Breve saggio delle relazioni tra i dialetti e la lingua rispetto alle vocali e alle consonanti14.
§ 1. — Vocali.
L’alfabeto dialettale.34. Oltre gl’italiani di a, è, é, i, ò, ó, u, ricorrono ne’ dialetti i suoni turbati di ä, ö, ü, e indistinta e le vocali nasali. Nell’ordine delle consonanti, che spesso vengono variamente pronunziate, i dialetti hanno in più, tra altri suoni meno facilmente rappresentabili, l’j schiettamente consonantico, l’n faucale, l’h aspirata, il t e il d interdentali (th, dh).
Ma, meno che per l’j, in un libro elementare come questo, occorre di regola attenersi, per la rappresentazione delle consonanti, ai segni della comune scrittura.
L’accento.35. L’accento (v. n, 27), invece, rimane ordinariamente invariato nella parola dialettale, a cui si può dire mantenga, anche in mezzo a profonde alterazioni, il suo italiano profilo: nel piem. bsógn, nell’emil. dné, nell’abruz. ngíne, nel sic. vínniri, si riconoscono agevolmente gl’italiani bisógno, denáro, uncíno, véndere.
Non mancano, naturalmente eccezioni: sic. spàrtiri spartíre, nap. pruíbbete proibíto, ven. lúnedi lunedí, figá fegato; e negli stessi dialetti toscani, come nel lucch.: gòdere, murícciolo, ecc.
Sorte ordinaria della vocale tonica, e de’ gruppi protonici e postonici nell’Italia settentrionale, meridionale e centrale.36. Sotto l’accento, anche la vocale, salvo le varie differenze di pronunzia, si conserva generalmente immutata. Di alcune importanti sue alterazioni si parlerà tra poco.
Molte invece e a volte non lievi sono le modificazioni che avvengono ne’ gruppi de’ suoni che precedono e seguono la sillaba accentata nell’una o nell’altra parte d’Italia.
In linea generale, i dialetti settentr. tendono a restringere, a raccorciare, specie con la perdita delle vocali atone, i gruppi che precedono la tonica, e a far indebolire quelle che la seguono e a perder del tutto la finale a volte anche con la consonante a cui si appoggia: piem. davsin davvicino, nost fra nostro frate; lomb. vüü avuto, süü sole, asen asino; em. tlè telaio, muc mucchio, sgnér signore, zovnaz giovinazzi, gnu venuto.
All’opposto, i merid. tendono, per dir così, a scioglier tali gruppi, a prolungarli: abr. bonommene bonòmo, reccòvete raccolta; sic. mittiricci metterci (mettergli), scutularili bacchiarle (le noci), mitati metà; sard. émine uomo, pónnede porre, piusu più.
Meglio conservati e più fedeli al tipo toscano essi si presentano ne’ centrali.
La metafonesi ne’ dial. sett. e nei centro-meridionali.37. Un importante fenomeno, affatto ignoto al toscano e più o meno gagliardo specie ne’ dialetti centro-meridionali, è quello che si determina nelle vocali toniche per effetto delle finali, e che appare nella sua maggior evidenza quando per un mutamento di flessione (nel genere, nel numero, nella persona) la parola viene a terminare in una vocale a cui corrisponda in italiano i o u (e che risalga al lat. i o ŭ).
Nell’alta Italia, generalmente, è solo l’i finale che promove il cambiamento delle toniche e, o e in qualche caso anche di a: piem. camp campo chèmp campi; lomb. cavél capello cavij capelli; emil. znòc ginocchio znuc ginocchi; ven. (Grado) fior fiore fiuri fiori.
Nella vasta zona umbro-marchigiano-romana (e più particolarmente nel territorio a sud di Roma, come poi nell’Abruzzo) il fenomeno appare nella sua maggior complessità, avendosi le più varie alterazioni delle toniche, specie e, o, a, che o si mutano, o si chiudono se aperte, o si dittongano per effetto di -i, -o finali: garzone garzuni garzoni, dolóre duluri dolori, bòe bòve bói bòvi, cane chèni chini cani, cumbagne compagno cumbigne compagni, raperta aperta rapièrte aperto, pàrle parlo pèrle parli, perde perdo pièrdene pèrdono, cerva acerba cièrve acerbo, vecchia viècchie vecchio.
Nel Napoletano é, ó passano a i, u: credo io credo cride tu credi, battagliune battaglioni, chillo quello chella quella; è, ò a iè, uò: tierzo terzo, muorto morto.
In Sicilia e, o diventano i, u qualunque sia la finale: stissu stissa stesso, -a, signuri signura signore, -a, dulure duluri dolore, -i.
Il turbamento di á dal Piemonte, l’Emilia e le Romagne continua, attraverso l’aretino nell’Umbria, e, per le Marche e l’Abruzzo, giunge sino a Taranto.38. Tra i mutamenti che subiscono le toniche, specie per effetto de’ suoni attigui, caratteristica è la sorte di á in varie regioni italiane, sebbene il fenomeno sia specialmente proprio dell’emiliano-romagnolo, dove passa normalmente a e (cioè si palatizza, v. n. 4), soprattutto quando sia libero (v. n. 25) o in contatto di consonante palatale: piem. stè stare, piè pigliare, ciamè chiamare, butè buttare, granè granaro; emil. pèder padre, brèv bravo, frè frate, guèrda guarda, èter altro, èsen asino, mèr mare, fèv voi fate, pèrt parti, strèda strada, granèr granaio. Nell’aretino-chianaiuolo, che è il «doppio ponte di passaggio dai dialetti toscani all’emiliano e all’umbro», si ha anche in mäno, päne; nell’umbr. (Città di Castello, Perugia, Gubbio) anche in pièzza piazza, Pèsqua Pasqua; nel march. anche in sènta santa, ènzi anzi, quèlca qualche; nell’abr. passènne passando, ènne anni, lassètela lasciatela. Verso la Puglia l’elemento a a volte viene, in una vasta scala di suoni, a perdersi quasi del tutto: a Bitonto pèule pala, chièune piano, chèuse casa15.
Dittongamento di é in ei ne’ medesimi territori.39. Quasi per tutto il territorio in cui l’á acquista il suono turbato di e, l’é si dittonga in èi, e non raramente in ái e ói: piem. savèi sapere, pudèisso potessero, beivènd bevendo, ma cadena catena; gen. avèiva aveva, mèitoe metà, ricèive ricevere, ma chena catena; emil. tèila tela, cadeina catena (cioè anche davanti a n). Non si rinviene tale ei in romagnolo; ma si ritrova negli Abruzzi mutato in ai (come poi a Bari) o in oi (come poi nel Molise).
Dittonghi mobili iè, uò.40. Osservabile è pure la sorte dei dittonghi mobili (v. n. 16) in sillaba aperta, che nel fiorentino si vanno sempre più diradando. Essi si ritrovano nel veneziano, dove però iè si avverte in più larga scala, mentre uò è facoltativo o manca addirittura: miel miele, cuor cuore, fuora e fora fuori; nòvo nuovo, mòvere muovere, pòl «pole» può. Nell’umbro si ha anche in sillaba chiusa (n. 25), e, in qualche punto (Città di Castello) con ritrazione di accento, dìetro, fùoco e poi anche con perdita di e, o: pino pieno, nuvo nuovo. Il corso non lo conosce: pède piede, dède diede, scola scuola, sonu suono. Diffuso è invece nel napoletano, dove si può dire sia il suo regno.
Sorte diversa delle vocali finali non accentate ne’ dialetti settentrionali, centrali, alto-meridionali e meridionale-estremi.41. Varia e caratteristica è la sorte delle atone finali rispetto al toscano: un estinguersi più o meno largamente al Nord, un conservarsi più o meno mutate al centro e al Sud.
A) In linea generale, le atone finali, eccettuata -a, nella maggior parte della zona settentrionale cadono; più frequentemente nell’emil., meno assai e in certe determinate condizioni nel genovese e nel veneto: emil.-romagn. convéni convento, nos noce noci, zap zappe, us uscio, an anni; lomb. temp tempo, radiis radici, fjuur fiori; piem. sol sole, amis amici, mucc mucchio, ma sape zappe, feuje secche foglie secche, fève voi fate, aso asino; gen. vixin vicino, paizen «paesani» contadini, terren terreno, ma convento, anni, foegge foglie, euio olio, sciummi fiumi; ven. savèr sapere, benefatór benefattore, ben bene, bon buono, scòder riscuotere, man mano, mar mare; ma padre, ani anni, nose noci, miracolo, grando grande, musso asino.
B) I dialetti centrali, compreso il corso, ma escluse le parlate della valle del Metauro dove si continua il fenomeno emiliano-romagnolo, mantengono incolumi le finali, tranne dove -o giunge a -u e cominciano gli scadimenti anche di -a ad -e, che qua e là può persino cadere, col dileguo anche della nasale che la preceda (lu pa, lu vi il pane il vino): frate, vidde o vedde vide, noce noci, zappe, fiuri fiori, immerno inverno; quillu convéniu o comméntu quel convento, giornu e jornu giorno, bonu buono; nostre nostri, tempe tempi, sente senti, mae mai, stràe strada, ome uomo, chentadì contadini, birbaccié birbaccioni; iss esso.
C) Nella sezione alto-meridionale tutte le finali si affievoliscono in un’e quasi muta, che può giungere all’estinzione completa: la più resistente è sempre -a (che nell’aquilano, come nell’umbro, non si altera): abruz. cummènde convento, mònece «monaco» frate, jorne giorno, cambagne campagna, cafune «cafoni» contadini, parole parola; ma chela mucchione, quella «mucchiona», quel mucchio, sta manère questa maniera. Il napoletano fa sentire molto meglio le finali, quando non le elide, e restringe l’affievolimento completo quasi al solo -i: anne anni, noce noci, muónece monaci, ogne ogni.
D) Nella sezione merid.-estrema, tutte le finali restano, ma -e, -i sono rappresentate da -i (con restrizioni nelle Puglie e nell’alta Calabria), -o e -u da -u. Questo trattamento, che si chiama per eccellenza siciliano (e che si estende anche alla Sardegna), in Sicilia specialmente si avvera non soltanto nelle finali, ma anche nelle non finali: sic.-cal. aviti avete, sapiri sapere, patri padre, radichi radiche, suli sole, riciviri ricevere, granni grande, cummientu convento, vòsiru «volsero» vollero, beddu munseddu bel[lo] monticello; ma (Cosenza) omo buonu e bravomo, so tempu, so caritati, lu so bisognu; lecc. padre, buenufattore benefattore, rande nuce gran[de] noce, zappe, radeche radiche, sule sole, tiempu tempo, ranaru granaio, fice cridere fece credere.
Effetti della caduta delle atone.42. Dalla caduta delle atone (che si estende, come s’è visto, anche alle mediane e iniziali: ven. vèr avere, giutàr aiutare, moroso [a]moroso), derivano vari effetti, come quello di svilupparne altre, specie per render più spedita la pronunzia di certi gruppi consonantici (emil. gioren per giorn giorno, inveren per invern inverno) e l’altro di modificare la stessa tonica (emil. tlär telaio).
§ 2. — Consonanti.
Riduzione a semplici delle doppie nell’alta Italia e rafforzamento delle semplici nel centro e a mezzogiorno.43. Ne’ dialetti dell’alta Italia e più costantemente nel veneto le consonanti doppie si riducono a semplici: stradéla stradella, tera terra, dito detto, fato fatto, seche secche; lomb. diferent differente, métela metterla, capiscin cappuccino, ma bonn lann «buone lane», scapestrati; piem. benefatour benefattore, tute tutte, cativ cattivo, caplé cappellaio, ma notissia notizia, predission predizione, stessa stessa; gen. capello cappello, frito fritto, ma porselanna porcellana, finne fine, unna una, ciammava chiamava; emil. quater quattro, tochèva toccava; ma, in qualche luogo, passand passando.
Il fenomeno non è ignoto all’aretino e al romano, dove s’incontrano quélo quello, tera terra, guera guerra, cure’ correre.
Un fenomeno quasi opposto, cioè il rafforzamento delle consonanti semplici, si propaga per l’Italia centrale e meridionale e giunge anche in Sardegna specie con c, t, p. Basti accennare genericamente a subbito subito, sabbito e sabbato sabato, cibbo cibo, robba roba, immaggine immagine, staggione stagione, sfraggello flagello.
Passaggio da sorde a sonore e da labiale a spirante delle consonanti intervocaliche e dilegue di t, d, v, r, l.44. Di regola ne’ dialetti settentrionali le sorde (specie c, t) tra vocali digradano a sonore (g, d), le labiali (p) arrivano fino alla spirante (v), con dileguo non infrequente di t e d (specie derivato da t) e v e, particolarmente nel genovese, di r, l: emil. amigh amici, miga mica, digh dico, invidé invitato, savèr sapere, avú avuto, rais e radis radici; gen. aegua acqua, muggio mucchio, savéi sapere, riéiva rideva, reixe radici, o miacôo il miracolo, caitáe carità, amiáe «ammirate» guardate; piem. pudèisso potessero, pevía pipita, riía rideva, cóa coda, mióla midolla, stra strada; lomb. ghe ci, minga mica, invidáa invitato, vuríi volete, segunt (g per c ma t per d) secondo; ven. ghe gèra c’era, nogara noce, scòder riscuotere, vudo avuto, vegnui venuti, raíse radice, pòara povera.
Tenacità delle sorde nel mezzogiorno con alterazioni simili alle sett.; v e b.45. Al contrario, molto tenaci sono le esplosive sorde nel Mezzogiorno, dove, come specialmente a Napoli e in Abruzzo, le sonore più o meno si fanno sorde con una qualche vibrazione delle corde vocali: patre padre, pète piede, ráteche radiche, tholore dolore, suthore sudore; sic. patri padre, vitti vide, canciu «cangio» cambio.
Tuttavia non mancano esempi di digradamento da rassomigliarsi a quelli del nord. Nel napoletano e più nell’abruzzese, intanto, vige una forte tendenza delle sorde alla sonorità: dunghe dunque, cummende convento, cambagne campagna, tèmbe tempo, nguantetà in quantità, vingo vinco, langia lancia, sembie esempio, bende finta; bas. savè sapere, avert aperto; sic. arrigurdari ricordare.
E forse qui è anche da ricordare lo scambio tra v e b sotto varie condizioni: abr. vvanne «bande», parti; nap. viato beato, vocca bocca, vrasiero braciere; lecce. bite vide; cal.-sic. árvulu albero, váttiri battere, bidíri vedere, mbece invece.
Riflessi de’ fenomeni settentr. e merid. al centro.46. Al centro e, specialmente nell’umbro-marchigiano, si hanno notevoli riflessi di tutti questi fenomeni rilevati nell’alta e nella bassa Italia: marchig. angh’issu anch’esso, ghiamava chiamava, dungue dunque, ’m bo’ un poco, cunvendu convento, sindí sentire; vóno buono, virbacció birbaccioni, birbe; umbr. guascio quasi, straélla stradella, riía rideva, strae strada, suá sudare, piéi piedi, nuo nudo, cóa coda e cova, pòro povero, nóo nuovo, patre padre, ratiche radiche, boce voce.
47. — Un fenomeno speciale di qualche dialetto è la conservazione più o meno larga di s e t finali: friul. flors fiori, flums fiumi, fraris frati; sard. aperit apre, padres padri, s’isparghet si sparge, prus «plus» più. In qualche caso, anche nel piem.: mangias mangi, beives bevi; e nel ven.: às-tu hai tu?
L + consonante ne’ dialetti centro-merid. e settentr.; l + d.48. Il passaggio a l seguita da consonante è fenomeno gagliardo specialmente nel rom.: er il, quer quel, arbero albero, umirtà umiltà, urtimo ultimo, Purcinella Pulcinella, dorcetto dolcetto, marva malva, n’antra vorta un’altra volta.
Si estende con digradamento della consonante all’Umbria e alle Marche, dove, sul confine abruzzese, come pure a Velletri, si ha anche la caduta di l e il passaggio a i: arburu e arbero albero, dé bér nóo di bel nòvo, aricorda raccolta, porze «polse» potè, mordo molto, nuandre noialtri, farge falce, dorge dolce; particolarmente marchig.: scazà scalzare, raccota raccolta, atra altra, nuatri noialtri; aito alto, aitro altro, moito molto.
Esiti vari, nel Mezz.: abr. reccòvete raccolta, avezéte alzate; nap. ducezza dolcezza, vota volta, ate altre, auta alta; lecc. còta raccolta; sic. atra e antra altra.
Al nord passa a u, r o si mantiene mutando l’a che lo preceda in o: àut alto, caut caldo, surfu solfo, marva malva; lomb. cold caldo, folda falda, molta malta.
Quando l è seguita da d nella maggior parte de’ dialetti centrali, cominciando da Roma, si assimila il d: callo caldo, scallasse scaldarsi, Guallo Gualdo; ma sordato soldato, da sòrdo soldo, perchè parole più recenti; sic.-nap.: caudo caldo, ma soldo soldo.
Assimilazioni di nd, mb, nv ne’ dialetti centr. e merid.49. I gruppi nd, mb, nv, si assimilano quasi normalmente in gran parte de’ dialetti centrali e meridionali: umbr.-marchig.-rom.: er mónno è tónno il mondo è tondo, granne grande, annà andare, ránnina grandine, frónne frondi, tammuro tamburo, commatte’ combattere, novemmre novembre, commendu convento, immece invece, immernu inverno; ma rom. rondinelle rondinelle; abr.-nap. cummende convento, passènne passando, bannèra bandiera, scennéva scendeva, unnece undici; ma cundannate condannato, rundinelle rondinelle; sic.-cal.: granni grande, secunnu secondo, banni bande, rispunniri rispondere, malacunnutta «malacondotta», scapestrato, mmitatu invitato; pugl. mmece e invece invece, hiummu piombo; ma rande grande, dumandau domandò.
Accidenti generali.50. A tralasciar altri gruppi pur importanti come gli, a cui corrisponde in molte parti d’Italia un j (foja foglia, medaja medaglia; nel ven. anche g: fogia, medagia; nel mezz.: ghi, fogghia, medagghia), la notevole sorte di g palatale che per un vasto territorio si risolve pure in j (jallo giallo, jente gente), o in ghi (ghiallo, ghiente), e altri considerevoli fenomeni, per conchiudere coi principali accidenti generali, noteremo alcuni di quelli che sono frequenti anche nella lingua (n. 29) tenendo l’occhio particolarmente al centro, dove spesso si riflettono condizioni del nord e del sud:
1) Assimilazione: binidí benedire, pricissione processione, cammara camera, ciómmolo cémbalo, mascara maschera, mascoro «maschero» maschiri mascheri, mammoccio bamboccio.
2) Dissimilazione: ritonno rotondo, ániso ánace, somenta, somentà, sementa «sementare» seminare.
3) Aferesi: rénga aringa, stroligo astrologo, récchia orecchia, astrico lastrico, resta agresta, asagnólo «lasagnolo» matterello, apis lapis, céllo uccello, spòtico dispotico, gna «bigna» bisogna.
4) Ellissi: éna legna, opra opera, stemana settimana.
5) Apocope: compá compare, commá comare (vocativi), te’ tieni, va’ guarda, ca’ casa, contadí contadini.
6) Prostesi: Nancona Ancona, nérto «erto» spesso, naspo aspo, vógghi oggi, ubbiéta bieta, aggustá gustare, abbastá bastare, addomanná domandare.
7) Epentesi: cancarena cancrena, sciaraminti e saramenti sarmenti, gesuvita gesuita, pagura paura, paiese paese, individuvo individuo, poveta poeta.
8) Epitesi: scine sì, none no, ène è, fune fu, sapéne «sapé» sapere, méne me, fane fa.
9) Metatesi: crapa capra, treato teatro, crompá comprare, prubbico pubblico, frabbica fabbrica, cerqua quercia.
10) Scambi: lampana lampada, sellero sedano, lindiera ringhiera.
Note
- ↑ I loro nomi, nel genere in cui vengono comunemente adoperati, secondo il trattatista qui, appresso citato, sono: a (f.), bi (m.), ci (m.), di (m.), e (f. sing., m. pl.), effe (m.), gi (m.), acca (f.), i (m.), elle (m.), emme (f.), enne (m.), o (m.), pi (m.), cu (m.), erre (m.), esse (m.), ti (m.), u (m.), v (m.), zeta (f.).
- ↑ Per tale classificazione, come per qualche altro punto delle seguenti nozioni di pronunzia e scrittura, seguiamo, riferendone, ov’è opportuno, le parole stesse tra virgolette, il trattatello di G. Malagòli, Ortoepia e ortografia italiana moderna (Milano, Hoepli, 1912, 2ª ed.), in cui la vasta e dibattuta materia ha trovato una sistemazione pratica di cui va tenuto conto per la desiderata unità ortografica, già tutta del resto contenuta e specchiata con piena coerenza da un determinato punto di vista nella diffusa Grammatica di L. Morandi e G. Cappuccini (Paravia, 1894 e segg. edizz.).
- ↑ Gli altri digrammi (cioè suoni semplici ma rappresentati da due lettere invece che da una sola) ch, gh, ci, gi rappresentano suoni compresi nella nostra classificazione, e, precisamente, il suono gutturale di c e g davanti e, è e il suono palatale di c e g davanti a, o, u. In tali digrammi insomma h e i son puri segni, a cui non corrisponde alcun suono.
- ↑ «Gli Emiliani e altri settentrionali nella pronunzia dei dittonghi con u, trasformano questa semivocale in consonante (v o f) e dicono lavro, flafto, Evropa, vomo, per lauro, flauto, Europa, uomo». (Malagòli)
Oscurano a davanti a u e anche o i Genovesi, dicendo louro in vece di lauro, Oustria in vece di Austria, e Osta per Aosta. (Id.) - ↑ «Gli Abruzzesi mettono spesso, nella pronunzia italiana, fra le due vocali in iato un suono gutturale: idea nella loro bocca diventa idèga; paese, paghése.» (Malagòli)
- ↑ Gli Emiliani e altri Settentrionali pronunziano sce, sci quasi se, si. (Malagòli)
- ↑ «Negl’Italiani del Nord si nota una pronunzia dell’s e della z assai difettosa: l’articolazione vi è meno serrata, la punta della lingua più bassa verso i denti, minore il contatto e la pressione contro questi; ne esce così una z che non è alveolare, ma dentale, e un s di un suono più grasso e, diremmo quasi, rotondo, che va corretto con diligenza e costanza».
«I Meridionali e parte dei Marchigiani pronunziano sempre sorda l’s intervocalica; i Settentrionali, invece, sempre sonora: gli uni e gli altri si conformano in ciò alla loro pronunzia dialettale, che va corretta quando si parla italiano».
«In alcune parti d’Italia c’è la tendenza a pronunziar sonora ogni z iniziale nelle parole italiane, quantunque nel dialetto la parola stessa abbia z iniziale sorda.» (Id.) - ↑ V. Fornaciari, Gramm. ital., Firenze, 1891, p. I, p. 23 sg.; ma norme più minute e abbondanti elenchi nell’op. cit. del Malagòli.
- ↑ Malagòli, op. cit., p. 11 segg.
- ↑ Morandi e Cappuccini, Gramm. ital. e altri in Malagòli, op. cit., p. 106, n. 2.
- ↑ Questo è detto comunemente tonico per distinguerlo dal grafico o sia dal segno dell’accento; ma tonico o musicale deve dirsi l’accento per cui «la parola viene come cantata» e riceve una particolare espressione (Malagòli): «l’armi, qua l’armi, io sólo combatterò, procomberò sol ío» (Leop.). «Ch’ío me ne pentissi? davanti foss’(io) uccisa!» (Cielo d’A.).
- ↑ Che chiamasi grafico, v. nota prec.
- ↑ Malagòli, op. cit., p. 111.
- ↑ Dopo quanto si è osservato nella prefazione è quasi superfluo avvertire che questo Saggio è stato compilato e posto qui soprattutto in servizio e per orientamento dell’insegnante. Il quale verrà di rado alla formulazione delle regole, e in ogni caso solo dopo che una ripetuta serie di esercizi e di rilievi, sia nella correzione de’ componimenti sia in quella de’ più frequenti errori di pronunzia, abbia reso familiare agli alunni un particolare fenomeno dialettale. Alle norme qui fissate sarà tuttavia opportuno il richiamo durante lo studio delle parti del discorso (v., ad es., il n. 74), che dovrà esser condotto, naturalmente, movendo dal dialetto, cioè dalle forme che son vive e spontanee sulle labbra degli alunni e in genere per occasione sapientemente fatta sorgere, secondo il piano stabilito dalla didattica.
- ↑ Bertoni, op. cit. in pref.