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lettere con lui conferendo. E in tanta perfezione ne venne, che le Epistole di Seneca, opera a moral filosofia pertinente e difficile, in lingua spagnuola tradusse, acciò che a tutta quella nazione la scienza e i precetti di tanto autore fussino noti. Di tutte le istorie ebbe ottima cognizione, né poca notizia ebbe ancora di oratori e di poeti; le conclusioni di filosofia naturale li furono notissime. Tanto li piacque teologia, che lui molte volte si gloriò aver letto quattordici volte il Testamento vecchio e nuovo, con tutte le glosse e commenti, in modo che non solo le sentenze, ma spesse volte le parole proprie del testo riferiva; e de le piú ardue e difficili questioni che da’ teologi si trattano, come de la prescienza di Dio, del libero arbitrio, de la Trinitá, de la incarnazione del Verbo, del sacramento de la Eucaristia, se qualche volta era dimandato, subito e gravemente e da teologo rispondeva, se bene in lingua latina poche volte parlasse. Per amor singulare portava a le dottrine, e per denotare che la cognizione de le lettere massimamente a li principi conveniva, per insegna portava un libro aperto; et era usato di dire che migliori consiglieri non aveva che li morti, intendendo de’ libri, però che quelli senza paura o vergogna o grazia o alcun rispetto quello aveva a fare li diinonstravano: e di tutte le prede e direpzioni de le cittá, niuna cosa li era con piú studio portata, né da lui con piú grazia ricevuta, che li libri. Per questo in molti lochi fece riparare e ornare li auditorii e le scuole pubbliche e a molti poveri studiosi constitui provvisioni, e spesso ancor fuor‘ del regno, acciò che potessino studiare. E udendo una volta che un certo re di Spagna diceva non convenire a generosi principi l’essere litterati, rispose quella essere parola di un bue, e non di un re. Onde meritamente Giovanni da Isara, uomo di acutissimo giudizio, dir solea che se Alfonso non fusse stato re, per ogni modo saria stato ottimo filosofo. In ogni sua spedizione e viaggio sempre con sé portava Tito Livio e li Commentari di Iulio Cesare, li quali mai appena lasciò di che non li leggesse, e spesso di se medesimo diceva che lui a se medesimo parea ne le cose militari