Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto XIV

Purgatorio
Canto quattordicesimo

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Purgatorio - Canto XIII Purgatorio - Canto XV
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C A N T O     XIV.

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1Chi è costui che il nostro monte cerchia,
     Prima che morte li abbia dato il volo,
     Et apre li occhi a sua vollia e coperchia?
4Non so chi sia; ma so che non è solo:
     Dimandal tu, che più li t’avvicini;
     E dolcemente, sì che parli a colo.1
7Così du spirti, l’uno all’altro chini,
     Ragionavan di me in ver man dritta,2
     Poi fer li visi, per dirmi, supini.
10E disse l’uno: O anima, che fitta
     Nel corpo ancor in ver lo Ciel ten vai,3
     Per carità ne consola, e ne ditta4
13Unde vieni, e chi se’: che tu ne fai
     Tanto meravilliar de la tua grazia,
     Quanto vuol cosa che non fu più mai.5
16Et io: Per mezza Toscana si spazia6
     Un fiumicel che nasce in Falterona,
     E cento millia di corso nol sazia;

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19Di sovra esso rech’ io questa persona.
     Dirvi ch’ io sia, serea parlare indarno:7
     Chè il nome mio ancor molto non sona.
22Se ben lo intendimento tuo accarno
     Co lo intelletto, allora mi rispuose
     Quei che prima dicea, tu parli d’ Arno.
25E l’altro disse lui: Perchè nascose
     Questi ’l vocabol di quella rivera,
     Pur come l’om fa de l’orribil cose?8
28E l’ombra, che di ciò dimandata era,
     Si sdebitò così: Non fu mai degno;9
     Ben è che ’l nome di tal valle pera:
31Chè dal principio suo, ov’ è sì pregno10
     L’alpestro monte ond’ è tronco Peloro,
     Che in poghi luoghi passa oltra a quel segno,
34Infin là u’ si rende per ristoro11
     Di quel che il Ciel de la marina asciuga,
     Unde ànno i fiumi ciò che va con loro,
37Virtù così per nimica si fuga
     Da tutti, come biscia, o per sventura
     Del luogo, o per male uso che li fruga;
40Ond’ ànno si mutato lor natura
     Li abitator de la misera valle,
     Che par che Circe li avesse in pastura.
43Tra bruti porci, più degni di galle12
     Che d’altro cibo fatto in uman uso,
     Dirizza prima il suo povero calle.13

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46Botoli trova, poi venendo in giuso,
     Ringhiosi più che non chiede lor possa,
     Et a lor disdegnando torce ’l muso.14
49Vassi caggendo, e quant’ ella più ingrossa,
     Tanto più trova da can farsi lupi15
     La maladetta e sventurata fossa.
52Discesa poi per più pelagi cupi,
     Trova le volpi sì piene di froda,
     Che non trovano ingegno che l’ occupi.16 17
55Nè lasserò di dir, perch’ altri m’ oda;
     E buon sera a costui, s’ancor s’ammenta18
     Di ciò che vero spirto mi disnoda.
58Io veggio tuo nipote, che diventa
     Cacciator di quei lupi, in su la riva
     Del fiero fiume, e tutti li sgomenta:19
61Vende la carne loro, essendo viva;
     Poscia gli uccide come antica belva:
     Molti di vita, e sè di pregio priva.
64Sanguinoso esce de la trista selva,
     Lassala, tal che di qui a mille anni
     Ne lo stato primaio non si rasselva.
67Come a l’annunzio dei dolliosi danni
     Si turba ’l viso di colui che ascolta,
     Da qualche parte il perillio l’ assanni;
70Così vidd’ io l’altra anima, che volta
     Stava ad udir, turbarsi e farsi trista,
     Poi ch’ ebbe la parola a sè raccolta.

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73Lo dir dell’una, e dell’altra la vista
     Mi fe vollioso di saper lor nomi,20
     E dimanda ne fei con preghi mista.
76Per che lo spirto, che prima parlòmi,21 22
     Ricominciò: Tu vuoi ch’ io mi riduca23
     Nel fare a te ciò che tu far non vuo’mi.
79Ma da che Dio in te vuol che traluca24
     Tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
     Però sappi ch’ io son Guido del Duca.
82Fu il mio sangue d’ invidia sì arso,25
     Che, se veduto avessi om farsi lieto,
     Visto m’avresti di livore sparso.
85Di mia semente cotal paglia mieto.26
     O gente umana, perchè poni ’l core
     Dov’ è mistier di consorte divieto?27
88Questi è Ranier; questo è ’l pregio e l’onore
     De la casa dei Calvoli, ove nullo28
     Fatto s’ è erede poi del suo valore.29
91E non pur lo suo sangue è fatto brullo
     Tra ’l Po e ’l monte e la marina e il Reno,
     Del ben richiesto al vero et al trastullo:
94Chè dentro a questi termini è ripieno
     Di velenosi sterpi, sì che tardi,30
     Per coltivar, omai verrebber meno

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97Quel buon Licio, et Arrigo Mainardi,31
     Pier Traversaro, e Guido di Carpigna.32
     O Romagnuoli tornati in bastardi!
100Quando in Bologna un fabbro si ralligna?
     Quando in Faenza un Bernardin di Fosco,33
     Vegna gentil di picciola gramigna?34
103Non ti meravilliar, se io piango, Tosco,
     Quand’ io rimembro con Guido di Prata35
     Ugolin d’ Azzo che vivette nosco;
106Federico Tignoso e sua brigata,
     La casa Traversata, e li Anastagi36
     (E l’una e l’altra gente diredata)37
109Le donne e i cavalier, li affanni e li agi,
     Che ne involliava amor e cortesia
     Là, ove i cuor son fatti sì malvagi.
112O Brettinoro, che non fuggi via,
     Poiché gita se n’ è la tua famillia,
     E molta gente, per non esser ria?
115Ben fa Bagnacaval che non rifillia;
     E mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
     Che di filliar tai conti più s’ impillia.
118Ben farann’ i Pagan, dacchè ’l dimonio
     Lor sen girà; ma non però che puro
     Già mai rimagna d’essi testimonio.
121O Ugolin de’ Fantolin, securo
     E ’l nome tuo, da che più non s’ aspetta
     Chi far lo possa, tralignando, oscuro.

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124Ma va via, Tosco, omai, che mi diletta
     Troppo di pianger più che di parlare:
     Sì m’ à vostra ragion la mente stretta.38 39
127Noi sapevam che quelle anime care
     Ci sentivan andar; però tacendo
     Facevan noi del cammin confidare.
130Poi fummo fatti soli procedendo,
     Folgore parve, quando l’aire fende,
     Voce, che giunse di contra, dicendo:40
133Anciderammi qualunqua mi prende;
     E fuggìo come tuon che si dilegua.
     Se subito la nuvola scoscende.
136Come da lui l’udir nostro ebbe tregua:41
     Et ecco l’altra con sì gran fracasso.
     Che similliò tonar che tosto segua:
139Io sono Aglauro che divenni sasso;
     Et allor, per ristringermi al Poeta,
     Indietro feci e non innanti ’l passo.
142Già era l’aire d’ogni parte queta;
     Et el mi disse: Quel fu ’l duro camo,42
     Che dovrea l’om tener dentro a sua meta.
145Ma voi prendete l’esca, sì che l’amo
     Dell’antico avversaro a sè vi tira;
     E però poco val freno o richiamo.
148Chiamavi il Cielo, e intorno vi si gira.
     Mostrandovi le sue bellezze eterne,
     E l’occhio vostro pur a terra mira;
151Onde vi batte Chi tutto discerne.

  1. v. 6. Singolare è questa lezione dei nostri Codici, accettata pure dall’Editore romano, mentre la comune dà - sì che parli, accolo - la quale così vorrebb’ essere dichiarata: Accolo; accogli lui, da accoro o accorre. E. — C. A. accòlo.
  2. v. 8. C. A. di me a man diritta,
  3. v. 11. C.M. C. A. in.verso il Ciel
  4. v. 12. Ditta; dì, dall’infinito dittare, e codesto dal dictare latino, che vale pure andar dicendo, insegnare, mostrare. E.
  5. v. 15. C. M. non fu già
  6. v. 16. C. A. mezzo
  7. v. 20. C. A. saria
  8. v. 27. C. A. come uom
  9. v. 29. C. A. Non so; ma segno
  10. vv. 31-36. Pongasi mente con che mirabile concisione descrive il Poeta il moto circolare dell’ acque e il ritorno loro in sè stesse. E.
  11. v. 34. C. A. Infin dove si
  12. v. 43. C. M. Tra brutti porci,
  13. v. 45. C. A. prima suo
  14. v. 48. C. A. Ed a lor disdegnoso
  15. v. 50. C. A. di can
  16. v. 54. C. A. Che non temono
  17. v. 54. C. M. che li occupi,
  18. v. 56. C. A. E buon fia
  19. v. 60. C. A. gli spaventa:
  20. v. 74. C. A. Mi fer voglioso
  21. v. 76. C. A. Perchè lo spirto, che di pria parlòmi,
  22. v. 76. Parlòmi; mi parlò. I padri nostri , sebbene la voce del verbo terminasse con l’accento, lasciavano talora di raddoppiare la consonante della particella pronominale od affisso o pronome. E.
  23. v. 77. C. A. mi deduca
  24. v. 79. C. A. Ma quando vuole Iddio che in te riluca
  25. v. 82. C. A. Fu il sangue mio da invidia sì riarso
  26. v. 85. C. A. sementa
  27. v. 87. C. A. consorti
  28. v. 89. C. A. da Calvoli
  29. v. 90. C. A. s’ è reda
  30. v. 95. C. A. venenosi
  31. v. 97. C. A. Ove è il buon Lizio, ed Arrigo Monardi,
  32. v. 98. C. M. da Carpigna.
  33. v. 101. C. M. in Fiorenza
  34. v. 102. C. A. Verga gentil
  35. v. 104. C. M. da Prata
  36. v. 107. C.A. Traversara,
  37. v. 108. C. M. diretata — C. A. (E l’una gente e l’altra è diretata)
  38. v. 126. C. M. nostra ragion
  39. v. 126. C. A. Si m’à nostra ragion mia mente
  40. v. 132. C. A. incontro a noi,
  41. v. 136. C. A. da lei
  42. v. 143. C. A. fu duro
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C O M M E N T O


Chi è costui che il nostro ec. Questo è lo xiv canto de la secunda cantica, nel quale anco lo nostro autore tratta del peccalo de la invidia che si purga nel ditto secondo balso, introducendo nuove persone a parlare. E dividesi prima in due parti, perchè prima introduce a parlare due di quelle anime, che erano nel secondo balso, a parlare insieme, et anco seco de le condizioni dei Fiorentini e di tutta Italia, discendendo poi a Toscana; ne la seconda introduce a parlare l’uno di quelli due spiriti dei fatti di Romagna, et appresso adiunge voci, che uditte di ritraere l’omo dal peccato de la invidia, et introduce a parlare Virgilio del detto peccato, et incomincia quive: Per che lo spirto ec. Ne la prima parte che si divide in sei parti, che serà la prima lezione, l’autore nostro prima introduce a parlare due spiriti insieme di sè di quelli del secondo balso al primo 1 del canto; ne la seconda finge com’ elli, dimandato da loro, risponde del luogo unde era, descrivendolo, e come lo spirito mostrò d’ averlo inteso, quive: Et io: Per mezza ec.; ne la tersa finge che l’ una di quelle due anime, dimandata da l’altra perchè l’autore avea descritto o non nominato Toscana, manifestò all’altra la cagione, quive: E l’ombra, che di ciò ec.; ne la quarta parte finge l’autore che, descrivendo l’anima introdutta a parlare lo nascimento e lo corso d’Arno, manifesta li vizi delli abitatori intorno a lo detto fiume, quive: Tra bruti porci ec.; ne la quinta finge come quello spirito che àe parlato di sopra, parlando all’altro li dice de le condizioni dei suoi, quive: Nè lasserò ec.; ne la sesta finge come quello spirito, a cui è stato ditto dall’altro de le condizione dei suoi, si turba, e come l’autore dimanda dei loro nomi, quive: Come a l’annunzio ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co le esposizioni litterali, allegoriche, o vero morali.

C. XIV — v. 1-15. In questi cinque ternari lo nostro autore introduce due spiriti, che erano l’ uno al lato all’altro di quelli del secondo balso, a parlar insieme di lui; e possa 2 l’uno a parlar seco, dicendo così: Chi è costui; diceva l’uno spirito all’altro di Dante; cioè quello di sotto di verso Dante a quil di sopra, dimandando chi era tra loro, che il nostro monte; cioè lo quale lo nostro secondo balso del monte, dove noi siamo posti a purgarci, cerchia; cioè gira intorno, Prima che morte li abbia dato il volo; cioè prima che sia [p. 325 modifica]morto, e ben dice il volo: imperò che l’anima separata dal corpo vola u’ ella dè, come vola l’ uccello, Et apre li occhi a sua vollia e coperchia? Questo dice 3 per quello che avea udito dire a lui di sopra, che elli nol potè, vedere; ma avea udito. Non so chi sia; rispondeva l’altro spirito a quello che prima avea parlato; cioè quel di sopra a quil di sotto, che elli non sapea chi era Dante, et adiungea: ma so che non è solo: imperò che sensa guida non si potea fare tale cammino, e questo sapea bene quello spirito. Dimandal tu; dicea l’uno all’altro, cioè quello di sopra a quello di sotto, che venia in verso Dante; e però segue: che più li t’avvicini; cioè che più presso vieni a lui che io, E dolcemente; cioè lo dimanda, sì che parli a colo; cioè puntatamente e determinatamente, e non con orazioni suspensive: imperò che chi parla, parla con tre distinzioni; la prima si chiama suspensiva, quando la sentenzia delle parole non è compiuta, e lo punto con che si punta tale distinzione, chiamasi coma in Retorica. La seconda è quando la sentenzia è compiuta, et anco resta a dire costante, e lo punto con che si punta tale distinzione, si chiama colo. La tersa è quando non resta a dire più de la sentenzia e chiamasi finitiva, e lo punto con che si punta tale distinzione, si chiama periodo. E però dice quello spirito, ch’è più in su, a quello di sotto che è in verso Dante che dimandi dolcemente Dante chi elli è, e parli a colo; cioè con quella distinzione che è costante, ne la quale è perfetta sentenzia, e puntasi con quel punto che si chiama colo; sicchè parlare a colo è parlare con perfezione di parole e di sentenzie.E questo finge l’autore, perchè li spiriti che à introdutto a parlare, come apparrà di sotto, siano di Romagna, e quello che è ammonito che parli dolcemente fu omo molto superbo e sdegnoso, e parlava sempre quando era nel mondo con bronci e con sdegno, sicchè però finge che l’ammonisse che parlasse dolcemente. E benchè io non abbia trovato che questo vocabulo a colo fùsi in alcuno linguaggio; penso che l’autore forsi l’usò come adiettivo, che significasse benigno et amorevile, quasi dicesse: Parla sì dolcemente e dimandalo, che tu parli a colo; cioè benigno et amorevile; pilli lo lettore quale esposizione li piace più. Così du’ spirti, l’uno all’altro chini; cioè inchinati, Ragionavan di me; dice Dante, in ver man dritta; cioè in verso la parte dove andavamo, più su che noi: imperò che, come ditto è, l’autore per lo purgatorio sempre finge che andasse in verso man ritta, Poi fer li visi; cioè li loro volti, per dirmi; cioè per ragionare a me. Dante, supini; cioè alti, come fanno li ciechi che alsano lo volto, quando volliano parlare ad altrui. E disse l’uno; cioè di quelli due [p. 326 modifica]spiriti a me Dante: O anima, che fitta Nel corpo ancor: imperò che se’ anco unita col corpo, in ver lo Ciel ten vai; montando lo monte del purgatorio, per lo quale s’intende lo montamento a lo stato de la penitenzia, Per carità ne consola; cioè noi, che desideriamo di sapere, e ne ditta; cioè dì a noi, Unde vieni; tu, anima, e chi se’ che tu ài sì grande grazia: chè tu ne fai; cioè fai noi, Tanto meravilliar de la tua grazia; che tu ài di così andare, Quanto vuol cosa; che omo si meravilli, che non fu più mai: imperò che non fu mai che niuno andasse a questo modo; e tacitamente l’ autore loda la sua finzione: imperò che non fu mai niuno, che sì fatta finzione fingesse.

C. XIV — v. 16-27. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come, addimandato dall’uno di quelli due spiriti, come ditto è di sopra, rispuose de la terra, de la nazione sua per circuizione, dicendo così: Et io; cioè Dante rispuosi, s’intende: Per mezza Toscana si spazia Un fiumicel; questo è l’Arno, come apparrà di sotto, che nasce in Falterona: questo Falterona è uno colle del monte Appennino che è in Casentino, e di quil monte esce la fonte, unde nasce Arno, E cento millia di corso nol sazia: imperò che dal nascimento suo a la marina di Pisa, dove entra nel mare, à più di cento millia. Di sovra esso; cioè fiume d’Arno: imperò che di Fiorensa, ch’è in sul fiume d’Arno, come è ancora Pisa, rech’io; cioè Dante, questa persona: però che quive nacque. Dirvi ch’io sia; cioè per nome, serea parlare indarno: imperò che non mi cognoscereste perciò, Chè il nome mio ancor molto non sona; cioè non sono persona di grande fama. Se ben lo intendimento tuo accarno; cioè se ben coniungo lo intendimento de le tuoe parole, Co lo intelletto; cioè ch’io apprendo de le tuoe parole, allora mi rispuose Quei che prima dicea; cioè colui che prima mi parlava, tu parli d’Arno; cioè tu dici del fiume di Toscana; e questo dice, perchè in Toscana sono due fiumi che amburo nasceno in Falterona; cioè l’Arno che entra in mare a la foce di Pisa; e lo Tevere che entra in mare a la foce di Roma, e va per Roma, come l’Arno per Fiorensa e per Pisa. E l’altro; cioè quello spirito che avea indutto a parlare quell’altro, disse lui: cioè disse a lui: Perchè nascose Questi ’l vocabol di quella rivera; cioè de la riviera d’Arno, che nol volse nominare per lo suo proprio nome, Pur come l’om fa de l’orribil cose; cioè de le cose che s’àe paura, che l’uomo male volontieri le nomina?

C. XIV — v. 28-42. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che l’ombra, dimandata dall’altra perchè Dante avea taciuto lo nome d’Arno, risponda et assegni la cagione perchè l’autore dubitò di nominarlo, dicendo così: E l’ombra; cioè quell’anima, che di ciò; cioè di quel che ditto è di sopra, dimandata era; dall’altra. Si sdebitò così: cioè risponde così: Non fu mai degno: cioè lo nome [p. 327 modifica]di tal valle, Ben è; cioè iusta cosa è, che ’l nome di tal valle pera; cioè d’Arno vegna meno; et assegna la cagione perchè; cioè lo vizio che rende la cosa indegna, come la virtù rende degna. Chè dal principio suo; cioè di Falterona di Casentino, unde si comincia l’Arno: però che di quil monte esce, ov’è sì pregno; cioè sì alto e grosso, o vero fecundo et abbondevile, L’alpestro monte; cioè Falterona che è del monte Appennino, tenente de la natura dell’alpe, essendo alto e grosso et aspro e malagevile per li grandi sassi che vi sono; e però dice alpestro; ciò è simile a l’alpe, ond’è; cioè del quale Appennino, tronco Peloro; cioè lo monte di Sicilia, la quale secondo che si dice dalli autori et è stato ditto di sopra, fu terra ferma, e Peloro era del monte Appennino e fu diviso dal mare, sommergendo la terra che era in mezzo, Che in poghi luoghi passa oltra a quel segno; cioè che in poghi luoghi è più alto e grosso 4 Appennino, che quive, Infin là u’si rende per ristoro Di quel che il Ciel de la marina asciuga; cioè in fine a che entra in mare ch’ è a la marina di Pisa, dove entra nel mare di Toscana e dov’è la foce del detto fiume Arno. Et usa qui l’autore Fisica 5: imperò che li Naturali diceno che ’l cielo attrae a sè l’acqua marina coi suo’ vapori, e tirata su in aire l’acqua come fa la spungia la sparge per l’aire, e compresse e costrette le nuvole dai vapori 6 contro e da’ venti si stringeno insieme, et inde esce l’acqua e piove, come quando si preme la spungia, e questa acqua piovuta corre nei fiumi, e li fiumi la portano poi in mare, unde ella è venuta da primo 7; e però dice: Infin là u’ si rende; cioè lo ditto fiume Arno; cioè al mare di Pisa, per ristoro; cioè per ristorarlo, Di quel che il Ciel; tirando a sè, asciuga de la marina; cioè succhia tirando a sè; cioè de l’acqua marina, Unde; cioè dal quale asciugamento che fa lo cielo de l’acqua marina, ciò dal 8 quale succhiamento, ànno i fiumi; cioè tutti, non pur l’Arno, ciò che va con loro; cioè l’acqua piovana che entra in loro e ritornasi con loro al mare, Virtù così per nimica si fuga; cioè si scaccia per tutto lo detto terreno, unde va lo detto fiume Arno, come nimica, Da tutti; cioè suoi abitatori, come biscia; come le serpi velenose, le quali la natura aborre e teme; e così li abitatori de la valle d’Arno fugeno 9 la virtù; e qui finisce la [p. 328 modifica]similitudine, et assegna la cagione, o per sventura Del luogo; parla qui l’autore, secondo lo comune uso dei vulgari, che pognano le felicità e le disavventure essere secondo li luoghi, come dice Salustio: Quique auctores culpam suam ad negotia transferunt — , o per male uso che li fruga; cioè la mala consuetudine che li stimula, e questa cagione è più vera. Ond’ànno sì mutato lor natura; cioè per queste due cagione, o per qual si sia di queste due, ànno sì mutato li abitatori la natura umana, che è per sè disposta a virtù: con ciò sia cosa che l’omo sia ragionevile, Li abitator de la misera valle; cioè de la valle d’Arno, Che par che Circe li avesse in pastura; cioè pare che siano trasfigurati e mutati in bestie, come mutava Circe li omini coi suoi beveraggi incantati, e faceali come fiere pascere l’erbe. Di questa Circe fu ditto ne la prima cantica nel canto xxvi, ritrovisi quive.

C. XIV — v. 43-52. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come quell’anima che di sopra parlava de la valle d’Arno 10, ditto in generale del vizio delli abitatori, ora ne dice specialmente dicendo così: Tra bruti porci; ecco che chiama quelli del Casentino porci bruti, essendo dati al vizio de la lussuria per lo quale l’omo s’assimillia al porco, come dice Boezio iv della Filosofica Consolazione: Fœdis, immundisque libidinibus immergitur, sordidœ suis voluptatibus detinetur. — più degni di galle; cioè ghiande, Che d’altro cibo: chi tiene li costumi del porco è degno d’essere cibato come porco, fatto in uman uso: imperò che lo cibo fatto ad uso de l’omo si conviene a chi è omo, e non a chi è porco, Dirizza prima il suo povero calle; cioè Arno dirissa tra quelli del Casentino, che sono porci per immondessa, lo suo picculo rivo. Botoli trova; poi ch’è disceso di Casentino, et è ingrossato alquanto per l’acque del Casentino che vi cadeno dentro, viene a Bibbiena et entravi l’Archiana; e poi disceso in giuso trova li Aretini, li quali l’autore finge che la ditta anima chiami Botoli; perchè botoli sono cani picculi da abbaiare più che da altro; e così dice che sono li Aretini atti ad orgoglio più che a forze, e però dice: poi venendo in giuso; cioè in verso Fiorensa e Pisa, Ringhiosi più che non chiede lor possa; cioè più superbi che non richiede la loro potenzia: delli Aretini parla, Et a lor; cioè alli Aretini, disdegnando torce ’l muso; lo detto fiume in verso Fiorensa, e lassa Arezzo dall’uno lato. Vassi caggendo; lo detto fiume per luoghi più bassi: li fiumi non correrebbeno, se non trovasseno lo luogo più basso; unde si può dire che quando correno, cadeno, e quant’ella più ingrossa; la fossa d’Arno, s’intende, Tanto più trova da can farsi lupi; cioè più trova omini da trasmutarsi da [p. 329 modifica]condizione canina, de la quale sono li Aretini, in condizione lupina de la quale sono li Fiorentini, li quali come lupi affamati intendeno a l’avarizia, et all’acquisto per ogni modo con violenzia, rubando e sottomettendo l’uno l’altro li loro vicini e stirpando da loro, La maladetta e sventurata fossa; per la quale corre Arno. Discesa poi; che lassa Fiorensa, per più pelagi cupi: imperò che quanto viene in giù, più acquista fondo, Trova le volpi; cioè li Pisani, li quali assimilila a le volpi per la malizia: imperò che li Pisani sono astuti, e co l’astuzia più che co la forsa si rimediano dai loro vicini, sì piene di froda: che cosa sia froda fu dechiarato ne la prima cantica, quando fu trattato d’essa, ritrovisi quive, Che non trovano ingegno che l’occupi: lo sapere e lo ingegno suole fare quello che non può fare la forsa; ma l’astuzia resiste co le suoe cautele al sapere et a lo ingegno; e però dice che li Pisani co le loro astuzie rimediano contro la forsa e contra lo ingegno sì, che non si lassano occupare.

C. XIV — v. 55-66. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che lo detto spirito, che à parlato di sopra, continua suo parlamento dicendo espressamente di Fiorensa, dicendo così: Nè lasserò di dir; io che abbo parlato infine a qui, per ch’altri m’oda; cioè Dante che è di Toscana, lo quale disse che recava di sovra Arno la sua persona che potrebbe essere di Fiorensa, de la quale io intendo di parlare sì, ch’io non lasserò per lui, E buon serà a costui; cioè a Dante, s’ ancor Rammenta Di ciò che vero spirto mi disnoda; cioè mi manifesta; e questo dimostra che l’anime passate non sanno le cose che debeno venire, se non in quanto sono rivelate loro da li spiriti buoni che sono veritieri; cioè quelle del purgatorio: chè quelle de lo inferno ànno le loro revelazioni da li spiriti riei. Ma dice che serà buono a Dante, s’elli se ne ricorderà: imperò che si partirà di Fiorensa e lasserà stare le parzialità; e benché l’autore, come fu detto ne la prima cantica, finga le cose essere preditte, tutte funno innanti ch’elli componesse questo poema; ma funno di po ’l tempo ch’elli finge avere avuto la visione, o vero fantasia di questo poema. Io veggio tuo nipote; parla all’altra anima, che era messere Ranieri de’ Calvoli da Forlì, quell’anima che àe parlato di sopra ch’era messere Guido del Duca dal Brettinoro di Romagna, come apparrà di sotto; e diceli com’elli prevede che ’l suo nepote messere Fulceri de Calvoli da Forlì verrà podestà di Fiorensa; e corrotto per denari dai guelfi farà talliare la testa a due delli Scolari et a messere Nerlo de li Aldimari et a messere Betto dei Gherardini et a molti altri, e molti farà appiccare, e molti Fiorentini vivi venderà, campandoli per denari, e recherà la città di Fiorensa in parzialità et in sì malo stato, essendo cagione che si dividano ancora li guelfi ch’erano rimasti in Fiorensa da loro medesimi, che da indi a [p. 330 modifica]mille anni non si racconteranno le parti; e però dice: Io; cioè Guido, veggio tuo nipote, che diventa; cioè Fulcieri de’ Calvoli de’ Forli, Cacciator di quei lupi; cioè podestà dei Fiorentini, li quali di sopra àe ditto esser lupi: imperò che al podestà s’appartiene d’esser cacciatore di coloro che volliono vivere fieramente, e fare violenzia alli altri cittadini, in su la riva Del fiero fiume; cioè in Fiorensa ch’è in su la riva d’Arno, e tutti li sgomenta; condannando prima chi lo meritava. Vende la carne loro, essendo viva; cioè per denari campando chi dovea morire, e facendo morire chi dovea campare, Poscia gli uccide; cioè li Fiorentini, come antica belva; cioè come fa l’antica bestia, che intra ne la mandra, strossa or l’uno, or l’altro dei castroni, così fece questo messere Fulcieri dei Fiorentini, essendo già antico. Molti; cioè Fiorentini, priva di vita; uccidendoli e trattandoli al modo detto di sopra, e sè di pregio; cioè di fama e d’onore, priva; facendo le predette cose. Sanguinoso esce; lo ditto messere Fulcieri, in quanto spargerà lo sangue di molti, de la trista selva; cioè di Fiorensa la quale lasserà trista, come fa lo leone o lo lupo, quando àe uciso 11 le bestie de la selva, Lassala tal; cioè Fiorensa sì fatta, che di qui a mille anni; che seguiteranno, Ne lo stato primaio non si rasselva; cioè non si racconcia ne la concordia et unità di prima.

C. XIV — v. 67-75. In questi tre ternari lo nostro autore finge come messere Rinieri si turbò, udendo quello che disse messer Guido del nipote suo; e com’elli dimandò chi elli erano, dicendo: Come a l’annunzio dei dolliosi danni; cioè come quando s’annunziano li danni, che abbiano a dare dolore, Si turba il viso di colui che ascolta; cioè che ode dire, Da qualche 12 parte il perillio l’assanni; cioè che il periculo lo debbia assalire e mordere da alcuna parte, Così vidd’io; cioè Dante, l’altra anima; cioè messer Ranieri, che volta Stava ad udir; messere Guido che parlava, turbarsi e farsi trista; per quello che dicea, Poi ch’ebbe la parola a sè raccolta; cioè poi ch’ebbe inteso quello che dicea messere Guido. Lo dir dell’una; cioè anima, e dell’altra la vista; cioè anima, la vista; turbata, cioè lo parlare di messere Guido e lo turbamento di messere Ranieri, Mi fe vollioso di saper lor nome; cioè me Dante di sapere lo nome damburo, E dimanda ne fei; io Dante, con preghi mista; cioè adiunigendovi preghi. E qui finisce la prima lezione del xiv canto, et incomincia la seconda.
     Per che lo spirto. In questa seconda lezione lo nostro autore finge come lo ditto messere Guido nomina sè, e messere Ranieri da Furlì, e tratta de le condizioni dei Romagnoli nel suo processo del [p. 331 modifica]parlare; e come l’autore procede oltre et uditte due altre voci/e come Virgilio li manifesta quello che significano. E dividesi questa lezione in sei parti: imperò che prima finge come lo ditto messere Guido manifesta sè e ’l compagno a lui; ne la secunda incomincia a parlare dei Romagnoli, quive: E non pur lo suo ec.; ne la tersa si duole de le case dei gentili uomini venute meno in Romagna, quive: Non ti meravilliar s’io piango ec.; ne la quarta parte piange quelle ch’erano imbastardite, quive: Ben fa Bagnacaval; ne la quinta finge l’autore lo suo processo più oltre con Virgilio, quive: Noi sapevam ec.; ne la sesta finge come Virgilio li manifesta che significano le voci udite, quive, Già era l’aire ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo coll’esposizioni allegoriche, o vero morali.

C. XIV — v. 76-90. In questi cinque ternari lo nostro autore induce messere Guido a manifestare sè e ’l compagno a Dante, secondo la sua dimanda fatta di sopra, dicendo così: Per che; cioè per la qual cosa, cioè per la preghiera ch’io feci di sopra, lo spirto che prima parlòmi; cioè messere Guido, Ricominciò; cioè a parlare, dicendo a me Dante: Tu; cioè Dante, vuoi ch’ io; cioè Guido, mi riduca Nel fare a te; cioè di nominare me a te, ciò che tu far non vuo’mi; cioè quello che tu non ai volsuto fare a me, che non mi ài volsuto nominare. Ma da che Dio in te; cioè Dante, vuol che traluca Tanto sua grazia; cioè che tu vadi vivo per questi luoghi, che non è piccula grazia, non ti sarò.scarso; ch’io non mi ti manifesti. Però sappi ch’io son Guido del Duca; questo fu messere Guido del Duca dal Brettinoro di Romagna, lo quale fu molto invidioso, come appare nel testo; e l’altro, con cui àe fitto l’autore che abbia parlato, fu messere Ranieri dei Calvoli da Furlì di Romagna ancora. Fu il mio sangue d’invidia sì arso; tocca lo nostro autore che la invidia sia cagionata del sangue: imperò che dal sangue viene la carità e l’amore; lo quale amore immoderato di sè medesimo è cagione de la invidia: imperò che a sè vuole lo invidioso ogni bene et ogni onore, e tutti li altri ne reputa indegni, e duolsene et attristasene quando ne vede ad altrui. Benchè la virtù sia abito de la mente bene costituta, e lo vizio sia privazione di quello abito, e lo subietto de la virtù sia l’anima; niente di meno lo incitamento e notricamento de la privazione d’essa sta nelle cose corporali; e però dice: Fu il mio sangue d’invidia sì arso; cioè sì acceso dell’amore proprio immoderato, Che, se veduto avessi; cioè io Guido, om farsi lieto; per alcuno bene ch’elli avesse, Visto m’avresti; cioè tu, Dante, di livore sparso; cioè macchiato di lividore: imperò che ’l sangue quando riarde, diventa nero et induce sì fatto colore ne la pelle di fuore. Di mia semente; cioè de la mia colpa, cotal paglia: cioè cotal [p. 332 modifica]pena, qual tu vedi, mieto; cioè ricollio; unde pone questa esclamazione: O gente umana, perchè poni ’l core; cioè perchè poni l’affetto Dov’è mistier di consorte divieto; cioè di questi beni temporali, che non si possano avere tutti da uno, se tutti li altri non sono privati d’essi? E però ben dice Boezio nel secondo libro de la Filosofica Consolazione: O angustas, inopesque divitias, quas nec habere totas pluribus licet, et ad quemlibet sine ceterorum paupertate non veniunt−; e lo invidioso àe sì posto l’affetto ai beni temporali, che tutti li vorrebbe per sè e che ogni uno ne fusse privato, acciò che li avesse tutti elli. Quanto è mellio dunqua a ponere lo cuore al Sommo Bene, lo quale da ogni uno si può avere tutto, e non è mistieri che nessuno ne sia vietato, anco ogni uno vi può esser consorte et averlo tutto! Questi è Ranier; ora manifesta a Dante chi è lo compagno, dicendo che è messere Ranieri Calvoli da Furlì, questo è ’l pregio e l’onore De la casa dei Calvoli: imperò che tutti per lui sono onorati quel del casato suo, ove; cioè ne la qual casa, nullo Fatto s’è erede poi del suo valore; cioè niuno dei suoi descendenti àe usato lo suo valore.

C. XIV — v. 91-102. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che messere Guido seguitasse la sua querela generalmente de lo stralignamento fatto dai gentili omini di Romagna, e però dice: E non pur lo suo sangue; cioè di messere Ranieri detto di sopra, è fatto brullo; cioè privato e vano in fra questi termini, in fra’ quali è posta Romagna; cioè Tra ’l Po; cioè quil fiume di Lombardia, che viene a Romagna di ver settentrione, e ’l monte; cioè lo monte Appennino che li viene di verso mezzo di’, e la marina; cioè del mare Adriaco che li viene a Romagna di verso oriente, e il Reno; che è uno fiume che esce di monti di Pistoia et è picculo, e solea passare lo detto fiume di lunge da Bologna parecchie millia tra Bologna e Modona, poscia fu fatto venire a Bologna; e per questo denota l’autore che Bologna sia in Romagna, perchè solea correre di sotto a Bologna di verso l’occidente: è un altro grande fiume che si chiama anco Reno, lo quale esce d’uno monte col Rodano 13, e ’l Rodano va per la Provensa, e ’l Reno divide la Germania de la Francia, e di questo non intese ora lo nostro autore. Del ben richiesto al vero et al trastullo; cioè al bene onesto et al bene dilettivile: imperò che ’l Filosofo distingue lo bene in tre specie; cioè l’onesto, utile e dilettevile: lo bene richiesto al vero è lo bene onesto e l’utile; lo bene richiesto al trastullo è lo bene dilettevile. Chè dentro a questi termini: cioè che ditti sono di sopra è Romagna, è ripieno Di velenosi sterpi; cioè di tronconi d’arbori secchi e di spine, che sono velenose quando (*) [p. 333 modifica]pungeno; e qui li pone l’autore per li degeneranti da la loro virtuosa schiatta, come sono tutti li più bastardi, li quali in tedesco si chiamano sterpon — , sì che tardi, Per coltivar; cioè per lavorare, omai; cioè ingiù mai, verrebber meno; seguita la similitudine introdutta; cioè che come la terra ne la quale sono li sterpi si netta d’essi quando si lavora e mondasi; così le schiatte quando sono depurate c mondate de’ gattivi 14: e come quando la terra è ben piena di sterpi male si può nettare che non ve ne rimagna; così le schiatte dei gentili omini erano sì imbastardite che, per ammonirli o insegnarli non si emenderebbero; e però viene contando dei virtuosi che vi solevano essere, dicendo: Quel buon Lido; questi fu di Romagna, omo molto virtuoso, bolognese, et Arrigo Mainardi; questi fu da Faensa, omo di grande virtù, Pier Traversaro; questo fu di Ravenna, omo di grande eccellenzia, e Guido di Carpigna; questa è una terra in Montefeltro, de la quale fu Guido valoroso e famoso. O Romagnuoli; ecco a cui dimanda dove sono li virtuosi nominati di sopra, o vero simili a loro in Romagna, tornati in bastardi; cioè imbastarditi de la virtù c da la gentilezza dei vostri antichi caduti! Quando in Bologna; ecco che inchiude l’autore Bologna dentro ai termini di Romagna, facendo menzione di quella tra le terre di Romagna et avendo confinato Romagna, come di sopra si conta, un fabbro si ralligna; cioè uno vile omo nato di vile condizione si fa grande, come fe uno fabbro che ebbe nome Lambertaccio, che si fece sì grande che venne signore quasi di Bologna, e di costui discese messer Fabbro de’ Lambertacci di Bologna? Quando in Faenza un Bernardin di Fosco; questi fu l’antico di messer Bernardino, che signoreggiò Faenza, Vegna gentil di picciola gramigna; cioè di picculo nascimento ingentilisca e facciasi grande? Questo è grande loda di coloro che sono allignati per loro virtù e venuti grandi, et è biasmo di coloro che soleano essere in Romagna grandi, c sono caduti de la loro grandezza.

C. XIV — v. 103-114. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che messere Guido, continuando la sua esclamazione, pianga raccordando li virtuosi Romagnuoli che erono 15 venuti meno, nominandone assai, dicendo: Non ti meravilliar, Tosco; cioè tu, Dante, che se’ di Toscana, se io piango; cioè io Guido, che sono di Romagna. Quand’io; cioè Guido, rimembro; cioè penso nel mio pensieri, con Guido di Prata; forlivese, Ugolin d’Azzo; da Faensa, che vivette nosco; cioè con esso no’ 16 visseno Guido da Prata da Forlì et Ugolino [p. 334 modifica]d’Asso da Faensa, li quali funno valorosissimi gentili omini, Federigo Tignoso e sua brigata; lo quale fu da Rimino, omo di grande affare co la sua brigata, La casa Traversata, e li Anastagi; questi funno casati di Ravenna virtuosi e grandi gentili omini (E l’una e l’altra gente diredata; cioè che de’ Traversati e de li Anastagi non n’ è rimaso erede che seguiti la virtù loro, sicchè bene sono disereditati) 17 Le donne e i cavalier; cioè io Guido rimembro le donne e i cavallieri di Romagna valorosi, dei quali fare menzione serebbe troppo lungo; quando mi ricordo di questo io piango, li affanni e li agi; cioè quando mi ricordo de le fatiche e dei riposi, Che ne involliava; cioè che li faceva venire in volontà, amor e cortesia; cioè per amore de la virtù sostenevano volontieri fatica, e per fare cortesia volevano e prendevano volentieri agio, sicchè elli erano volontarosi a le fatiche per amore de la virtù, e volontarosi alli agi per usare cortesia inverso coloro a cui si convenia; o volliamo intendere li affanni che volevano in sè per amore de la virtù, e li agi che volevano dare ad altrui per cortesia di gentilezza; e quando mi ricordo di questo, non posso fare ch’io non pianga vedendo quello che ora si fa, e però dice: Là ove; cioè in quil luogo, nel quale ora, i cuor; che soleano essere pieni d’ amore e di cortesia, son fatti sì malvagi; cioè sì pieni di malizia, e niuna virtù è più in Romagna. O Brettinoro; questo è uno castello di Romagna tra Forlì e Cesena, del quale fu lo detto messere Guido, che non fuggi via; cioè tu, terra, perchè non ti disfai, Poiché gita se n’ è la tua famillia; cioè quelli che veramente funno nati di te, e non funno avveniticci d’altronde: questa fu la famillia di messere Guido del Duca, la quale per quil che dice lo testo, pare che si partisse quinde et andasse ad abitare altro: questa famillia era sì disposta a fare onore e cortesia a chi meritava che vi capitasse, che per non venire in questione che ciascuno volea fare l’onore, aveano fatto fare una colonna in su la piassa con tanti anelli intorno, quanti erano quelli de la casa, segnati ciascuno al suo padrone; e però come lo forestieri da bene venia in su la piazza, vedendo questa colonna con tanti anelli andava colà e scendea da cavallo, e legava ad uno di questi anelli: subitamente lo gentile omo de la casa del Duca cognosceva che era legato al suo anello, facea pilliare lo cavallo al fante, et elli pilliava lo gentile omo per mano et a casa menandolo, l’onorava quanto sapea e potea, e così cessava la discordia tra loro che ciascuno arebbe volsuto esser elli quelli che facesse l’onore, E molta gente, per non esser ria; anco se n’ è partita, per non diventare ria con coloro che vi sono rimasi, fatti possa rii e stralignati dalla gentilezza dei loro maggiori? [p. 335 modifica]

C. XIV — v. 115-126. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che messer Guido compia lo suo parlare e la sua esclamazione querulosa; et accumiati l’autore, dicendo: Ben fa Bagnacaval; questa è una terra in Romagna, che non rifillia; cioè che non rifà la schiatta passata; che se rifilliasse, stralignerebbeno anco 18 a governare, E mal fa Castrocaro; questo è uno castello nel distretto di Forlì, dove soleano essere molti conti, molto virtuosi, e peggio Conio; che è anco castello nel distretto di Forlì, Che di filliar lai conti più s’impillia; cioè più pilliano a fare sì fatta schiatta, quale è quella ch’ è stralignata da la virtù de li antichi virtuosi; ma fa comparazione, cioè che Castrocaro fa male e Conio fa peggio, perchè piggiori sono li posteri e li discendenti di Conio che quelli di Castrocaro, e però fa peggio. Ben farann’ i Pagan; questi funno gentili omini di Faensa discesi da Pagano padre di Maghinardo, li quali funno virtuosi omini e valorosi; ma tra essi mostra per le parole del testo che fusse uno rio, lo quale l’autore chiama dimonio per la sua iniquità; e però dice l’autore che messere Guido dicea le suddette parole, cioè che ben faranno li Pagani, benchè non faccino bene avale, che ’l dimonio loro è con loro; ma elli faranno bene, dacchè ’l dimonio Lor sen girà; cioè poi che lo dimonio loro, cioè quello pessimo omo se n’ andrà via; ma non però che puro Già mai rimagna d’essi testimonio; cioè ma non sì, che mai abbino più buona fama che non sia meschiata coi mali di colui. Anco si potrebbe intendere che avesseno uno dimonio costretto, lo quale mandato via faranno bene; ma non sì, che sia pura la loro testimoniansa: trovo che alcuno testo dice: Li sdegnerà; e così si può intendere: Quando il dimonio per disdegno si partirà da loro 19 sì, come detto è di sopra. O Ugolin de’ Fantolin; questi fu ancora da Faensa, virtuoso e non ebbe descendenti che stralignassero da lui, e però dice: securo È ’l nome tuo; perchè non è chi il debbia sossare e vituperare, da che più non s’aspetta Chi far lo possa, tralignando, oscuro; cioè per lo suo vizio farlo vitoperabile. Ma va via, Tosco; ecco che messere Guido licenzia Dante, dicendo: Va via tu, che se’ di Toscana, omai; cioè ingiummai, che mi diletta Troppo di pianger più che di parlare; perchè io abbo dolore del mancamento de la virtù dei Romagnuoli: ecco che dimostra l’autore che sia mutato, che quando nel mondo fu invidioso, dolente del bene altrui e lieto del male, ora l’autore lo dimostra contrario, et assegna la cagione perchè, Sì m’à vostra ragion la mente stretta; cioè la ragione umana, che ditta che tutti siamo fratelli e debbiamo esser lieti del bene del prossimo come del nostro, e così dolenti del male. [p. 336 modifica]

C. XIV — v. 127-141. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come uditte le voci ch’el rimoveno da la invidia, per la pena de l’invidiosi; e finge che fusseno due voci, e che già erano passate l’anime che si purgavano de la invidia; e questo non è sensa cagione, come si dirà. Dice così: Noi; cioè Virgilio et io, sapevam che quelle anime care; che erano quive a purgarsi de la invidia, Ci sentivan andar; questo finge: imperò che ’l cieco, perch’à difetto del vedere, abbonda ne l’udire, però tacendo; cioè non dicendoci nulla, Facevan noi del cammin confidare: imperò che pensavamo se noi non andassimo bene, elle ci sentano andare: tanta carità è ora in loro, ch’elle ci ammonirebbeno ora dell’andare, se non tenessemo buona via. E questo finge per quelli del mondo che, benché tegnano chiusi li occhi ai beni del mondo che li potesseno muovere ad invidia; sentono l’ incendi de la carità, per li quali ammonirebbeno chiunqua in ciò sentisseno errare. Poi fummo fatti soli procedendo; cioè Virgilio et io, perchè non trovammo più nessuno di quelli invidiosi; e questo finge, perchè secondo la lettera a quelli del purgatorio, che non possano più peccare per invidia, non è necessario raffrenamento de la invidia; ma sì confortamento a la carità, ne la quale sono, non perchè ne potesseno 20 fare; ma perchè è loro conforto a ragionare di quella et a pensare; c però finse di sopra che udisseno le ditte anime le voci del conforto de la carità; ma ora finge che pur elli sentisse con Virgilio le voci che ritirano de la invidia, perch’elli potea anco peccare per invidia. Folgore parve, quando l’aire fende, Voce, che giunse di contra; cioè a me et a Virgilio, dicendo: Anciderammi qualunque mi prende; lo nostro autore induce poeticamente qui le voci ritrattive de la invidia, come di sopra finse le voci induttive a la carità, bene che quive ne finse tre; cioè due de la Santa Scrittura et una poetica, e quive ne finge due ritrattive de la invidia; l’una de la Santa Scrittura e l’altra poetica. La prima ditta di sopra fue la voce di Cain, lo quale per invidia uccise Abel suo fratello, perchè ad Abel, che facea sacrificio di milliori agnelli che avea ne la mandra, ognia 21 cosa andava di bene in mellio; et a lui, che facea sacrificio de le più triste spighe del campo, ogna cosa l’andava male; unde per invidia mosso contra lo fratello l’uccise, unde quando Dio li dè 22 la maladizione, dicendo che maleditto sarebbe sopra la terra, elli disse a Dio: Maior est iniquitas mea, quam ut veniam merear. Ecce eijcis me hodie a facie terrœ, et a facie tua abscondar, et ero vagus et profugus in terra: [p. 337 modifica]omnis igitur qui invenerit me, occidet me. Dixitque ei Dominus: Nequaquam ita fiet etc. Così disperossi, già reputandosi degno di morte per lo suo fallo; unde lo nostro autore, volendo revocare sè et ogni lettore dal peccato de la invidia, reduce a memoria questa voce di Cain; cioè: Anciderammi qualunque, mi prende; fingendo che passasse per l’aire, come uno fulgore 23 quando fende l’aire, questa voce: imperò che come lo fulgure spaurisce; così questa voce redutta in memoria dè spaurire ogni uno dal peccato de la invidia; e però l’autore à indulto questa finzione, cavata la storia del primo libro de la Bibbia, nel quarto capitulo. E fuggìo come tuon che si dilegua; cioè questa voce subito: imperò che questo pensieri 24, avuto subito ne la fantasia dell’autore, subito spariva per l’altro pensieri che succedette de la finzione poetica, et anco perchè cusì è: quando la mente si ravvolge sopra li esempli, discorre d’esempio in esemplo, come tuono che si dilegua, Se subito la nuvola scoscende; ecco che tocca la cosa naturale, e sotto nota la sua figura; cioè che, quando noi udiamo li tuoni parere discorrere per l’aire, è perchè li nuvoli danno luogo, aprendosi: e così aprendosi l’offuscazione de la mente, lo grido che la fa attonita tosto si parte, e la mente torna a sè. Come da lui; cioè da la voce di Cain ditto di sopra, l’udir nostro; cioè di Virgilio e di me, perchè a questo attendeva la ragione e la sensualità, ebbe tregua; cioè riposo, che nollo udimmo più, Et ecco l’altra; cioè voce per l’aire, con sì gran fracasso; cioè romore, Che similliò tonar che tosto segua; cioè di po ’l fulgure, lo quale è maggiore che quel che indugia, perchè viene con maggior suono e però s’ode più tosto: imperò che, come diceno li Naturali, lo fulgure e ’l tuono è ad una medesima ora: ma perchè più presto lo vedere a vedere, che l’udire ad udire, però prima si vede lo fulgure che s’oda lo tuono; e dimostrasi per esemplo di colui, che veduto da lunga percuotere lo legno co la scura, che prima si vede iunta la scura al legno per spazio, che s’oda lo suono del colpo; e questa voce disse: Io sono Aglauro che divenni sasso; qui lo nostro autore finge che apparisse l’altra voce, che dicesse le sopra ditte parole. E per evidenzia di quelle è da sapere che Ovidio scrive nel secondo Metamorfoseos, che il re Cecrope d’Atene ebbe tre filliuole; che l’una ebbe nome Pandroso, l’altra Erse, l’altra Aglauro, delle quali Erse era bellissima; de la quale, tornando uno di’ da la rocca di Pallade, che era in Atene, da fare li sacrifici secondo lo loro costume, Mercurio iddio d’eloquenzia innamorato venne al palazzo del re, per parlare con Erse de la quale era innamorato. E trovato Aglauro, prima manifestòli lo suo innamoramento e pregòla che li fusse in aiuto; et [p. 338 modifica]ella come avara disse che volea certa quantità d’oro, unde Mercurio liel promisse; et in quil mezzo che Mercurio andò per l’oro, ella mossa da invidia de la suore 25 che dovesse aver tanto bene; cioè che fusse amata da sì fatto iddio, si propose di stroppiare lo bene de la suore. Unde tornato Mercurio coll’oro e datolelo, ella si puose in su l’uscio de la 26 cambera d’Erse, e disse a Mercurio che mai non si partirebbe quinde, se prima non si partisse elli; et elli disse: Tu dirai vero che mai non ti partirai costinci: imperò che tu diventerai sasso; e toccòla co la verga sua, et ella s’incominciò a mutare in sasso; e toccò l’uscio de la cambera et intrò dentro ad Erse, et Aglauro si rimase in sull’uscio, diventata sasso. E però dice l’autore che la seconda voce dicesse: Io sono Aglauro che divenni sasso; cioè per la invidia; e così era esemplo questa voce a Dante di fuggire la invidia, pensando lo danno che ne riceve chi è invidioso, che diventa sasso; cioè freddo e duro, privato d’ogni carità. Oltra questa intenzione, a che l’autore àe indutto questa finzione, si può sponere la ditta Azione, secondo l’altra; cioè che Mercurio, omo eloquente e ricco, volendo aver sua intenzione de Erse bellissima, essente accompagnata da le du’ suori 27; cioè Pandrosos che era savia e virtuosa, et Aglauro che era avara et invidiosa, vedendo di non potere venire ad esecuzione del suo proposito sensa consentimento dell’una di queste due suori, si misse ad ingannare l’avara con l’oro e coll’eloquenzia; la quale eloquenzia fece stare la sua invidia, come sasso insensibile: imperò che la savia non arebbe potuto ingannare. E questo si potrebbe arrecare a moralità; ma lassolo per brevità, e perchè altri per sè ne pensi. Et allor; cioè allora, per ristringermi al Poeta; cioè a Virgilio, cioè a la ragione, Indietro feci e non innanti ’l passo; cioè ritira’mi a drieto, per accostarmi a Virgilio; cioè allegoricamente tirai a drieto la volontà, per sottometterla a la ragione, sicchè non scorresse in vizio e mancamento: imperò che alcuna volta chi è in stato di penitenzia per paura d’uno vizio pillia tanta astinenzia, che passa il mezzo e va a lo stremo, se non s’accosta a la ragione che reguli la volontà; e però Dante finge che s’accostasse a Virgilio.

C. XIV — v. 142-151. In questi tre ternari col versetto lo nostro autore finge come Virgilio dichiarò lui de le voci di sopra udite, e rende la cagione, perchè li omini sono così disubbedienti riprendendoli di ciò, dicendo: Già era l’aire; unde erano state udite le voci, [p. 339 modifica]d’ogni parte queta; cioè riposata da ogni parte, che prima fu mossa con tanto suono e romore. E questo promisse di sopra nel precedente canto, quando disse: Lo fren vuol esser del contrario sono: Credo che l’udirai per lo mio avviso, Anzi che vegni al passo del perdono. E però è qui notabile che lo conforto a la Virtù dè esser fatto con dolcezza, come finse di sopra le voci incitative a carità, nel secondo luogo ditte con dolcezza e suavità; ma le voci de la correzione del vizio debeno essere aspre e con romore, acciò che spaventino; e così àe finto di sopra quelle due voci venute con sì grande fracasso e romore, acciò che spaurisseno li peccatori dal peccato de la invidia; e questo modo tiene la Santa Scrittura, e però disse David: Domine, ne in furore tuo arguas me, neque in ira tua corripias me; sicchè ora dice che già l’aire era riposata, quando Virgilio incominciò a parlare, e però dice: Et el; cioè Virgilio, mi disse; cioè a me Dante: Quel fu ’l duro camo; cioè capestro; l’autore usa, per fare le suoe rime, diversi vocabuli: camus in Grammatica 28 è lo capestro; unde lo Salmista: In camo, et frœno maxillas eorum constringe, qui non approximant ad te. E se altri dubitasse di quale intende l’autore, dèsi rispondere dell’una e dell’ altra voce: imperò che l’una denunzia morte, e l’altra denunzia ostinazione di mente che tanto vale: la voce di Caino significò morte, in quanto dimandò a Dio: Anciderammi qualunqua mi prende: imperò che già a lui pareva meritare morte per quello che aveva fatto per la invidia; et Aglauro disse che era per la invidia divenuta sasso; le quali cose debeno l’omo contenere da sì fatto peccato; e però dice: Che dovrea 29 l’om tener dentro a sua meta; cioè dentro a’ termini de la ragione, che t’insegna che dèi amare lo prossimo come te medesimo: meta tanto è a dire, quanto termino. Ma voi; cioè omini, prendete l’esca; parla l’autore, secondo figura, dimostrando che li omini sono ingannati dal dimonio, come lo pescio 30 dal pescatore: lo pescatore pone l’esca nell’ amo, e così inganna lo pescio, sicchè ’l pillia; e così fa lo dimonio all’omo: l’amo con che lo dimonio pillia l’omo si è lo peccato; l’esca sono li beni apparenti mondani e non esistenti, coi quali ci tira ad ogni male, quando postoceli innanzi, noi l’accettiamo, sì che l’amo; cioè lo peccato, del quale lo dimonio fu ingannatore, Dell’antico avversaro; cioè del Lucifero e dei suoi seguaci, che ab antiquo, come l’omo fu creato, [p. 340 modifica]incominciò ad inimicarlo per invidia, a sè vi tira: cioè le virtù tirano l’omo a Dio, così li vizi e li peccati tirano l’omo al dimonio. E però poco val freno o richiamo; cioè conforto e reprensione. Chiamavi il Cielo, e intorno vi si gira; cioè voi omini coi suoi benefici ch’elli vi fa co le suoe bellezze che vi mostra, col suo ordine che continuamente osserva; e però dice: Mostrandovi le sue bellezze eterne; impropriamente àe usato l’autore questo vocabolo eterne: imperò che solo Iddio è eterno: ma pone qui eterne, o per rispetto di colui che n’è cagione; cioè Iddio che è eterno, o pone eterne; cioè sempiterne, E l’occhio vostro; cioè di voi omini, cioè l’appetito sensitivo, pur a terra mira; cioè pure a le cose terrene, Onde vi batte; cioè voi omini corregge o punisce, Chi tutto discerne; cioè Chi vede ogni cosa; cioè Iddio medicatore et iudicatore de le nostre menti. E qui finisce il quarto decimo canto, et incominciasi lo xv.

Note

  1. C. M. balso al principio del canto;
  2. Possa; poscia, dal provensale pueissas, puoissas, poissas. Il Boiardo Lib. II C. xxvi. v. 30 « il termine arriva, Che andarne possa mi facea mestiero ». E.
  3. C. M. diceano per quello che aveano udito dire a lui di sopra, che elli noi poteano vedere; ma aveanlo udito.
  4. C. M. grosso, o vero più fecondo e più abbondevile Appennino,
  5. C. M. l’autore filosofica sentenzia: imperò
  6. C. M. dai contrari vapori e dai venti
  7. All’opinione dell’Allighieri si accorda pur quella del Mengotti, il quale nella sua Idraulica dice che tutti i fiumi provengono dalle acque cadenti dal cielo, e queste dalle perpetue, immense, infinite evaporazioni, le quali dalla superficie di tutti i mari e di tutte le terre sollevansi nell’ atmosfera, e quindi si rappigliano in piogge ed in nevi. E.
  8. Dal codice Magliab. si è tolto da - de l’acqua - fino a - ciò dal. E.
  9. Fugeno; da fugere. E.
  10. C. M. finge che lo ditto spirito, o vero come
  11. C. M. à ucciso
  12. Qualche; qualunque, da qualque de’ Trovatori. E.
  13. C. M. col Rodano e d’ una fonte, e ’l Rodano
  14. C. M. de’ cattivi:
  15. Erono si disse per gli antichi, affino di serbare una cadenza uniforme, terminatosi in ono le terze plurali del presente indicativo. E.
  16. No’; noi, come de’, dei; po’, poi ec. E.
  17. C. M. sono diseredati )
  18. C. M. anco è meglio ad essere venuti meno che stralignare, E mal
  19. C. M. da loro; ma non sì, come è ditto di sopra .
  20. C. M. potesseno uscire; ma
  21. Ognia, ogna, ogne per ogni incontransi non di rado negli antichi e vivono tuttora in alcune provincie della nostra Penisola. E.
  22. Dè; elette, dall’infinito dere. E.
  23. C. M. folgore
  24. C. M. pensieri, venuto subito
  25. Suore, suoro o soro, derivati dal soror de’ Latini, gittata l’ estrema r; ed anche terminata in e frappostovi l’ u. E.
  26. Cambera pronunziano ancora alcuni popoli d’ Italia e la derivano dalla romana cambra, trammessovi l’e per maggiore dolcezza, come in aghero, maghero per agro, magro e cotali. E.
  27. C. M. dalle due suori;
  28. Grammatica qui dinota latino o lingua latina. E.
  29. Dovrea; voce del futuro imperfetto condizionale, oggi non più consentita; ma cavata dal latino deberem, deberes ec. E.
  30. Pescio. Quando non erano ancora bene stabilite le regole del parlare, per dare a’ nomi una certa uniformità, molti si fecero cadere in o, come pescio, pianeto, mantaco ec. E.
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