Commedia (Buti)/Inferno/Canto XIV
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto quattordicesimo
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C A N T O XIV.
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1Poi che la carità del natio loco
Mi strinse, ragunai le fronde sparte,1
E rende’le a colui, ch’era già fioco.2
4Indi venimo al fine, onde si parte3
Lo secondo giron dal terzo, e dove
Si vede di giustizia orribile arte.
7A ben manifestar le cose nove,
Dico, che arrivammo ad una landa,
Che dal suo letto ogni pianta rimove.
10La dolorosa selva le è ghirlanda
Intorno, come il fosso tristo ad essa:
Quivi fermammo i passi a randa a randa.
13Lo spazzo era una rena arida e spessa,4
Non d’altra foggia fatta, che colei,
Che fu da’ piè di Caton già soppressa.
16O vendetta di Dio, quanto tu dei
Esser temuta da ciascun, che legge
Ciò che fu manifesto alli occhi miei!
19D’anime nude vidi molte gregge,
Che piangean tutte assai miseramente,
E parea posta lor diversa legge.
22Supin giacea in terra alcuna gente,
Alcuna si sedea tutta raccolta,
Et altra andava continuamente.
25Quella, che giva intorno, era più molta,
E quella men, che giacea al tormento;
Ma più al duolo avea la lingua sciolta.
28Sopra tutto il sabbion d’un cader lento
Piovean di fuoco dilatate falde,
Come di neve in alpe sanza vento.
31Quali Alessandro, in quelle parti calde
D’India, vide sopra lo suo stuolo
Fiamme cadere infino a terra salde,
34Per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
Con le sue schiere, per ciò che il vapore
Mei si stingueva mentre ch’era solo;
37Tale scendeva l’eternale ardore:
Onde la rena s’accendea, com’esca
Sotto il fucile, a doppiar lo dolore.
40Sanza riposo mai era la tresca
Delle misere mani or quindi, or quinci
Escotendo da sè l’arsura fresca.56
43 Io cominciai: Maestro, tu che vinci
Tutte le cose, fuor che i demon duri,
Ch’all’entrar della porta incontra uscinci,7
46Chi è quel grande, che non par che curi
Lo incendio, e giace dispettoso e torto
Sì, che la pioggia non par che il maturi?
49E quel medesmo, che si fu accorto,
Ch’io domandava il mio Duca di lui,
Gridò: Qual io fu’ vivo, tal son morto.8
52Se Giove stanchi il suo fabbro, da cui
Crucciato prese la folgore acuta,
Onde l’ultimo di’ percosso fui;
55E s’elli stanchi li altri a muta a muta
In Mongibello alla fucina negra,
Chiamando: Buon Vulcano, aiuta, aiuta,
58Sì com’el fece alla pugna di Flegra,
E me saetti con tutta sua forza,
Non ne potrebbe aver vendetta allegra.
61Allora il Duca mio parlò di forza
Tanto, ch’io non l’avea sì forte udito:
O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
64La tua superbia, se’ tu più punito:9
Nullo martirio, fuor che la tua rabbia,10
Sarebbe al tuo furor dolor compito.
67Poi si rivolse a me con miglior labbia,
Dicendo: Quel fu l’un de’ sette regi,
Ch’assediar Tebe, et ebbe, e par ch’elli abbia,11
70Dio in disdegno, e poco par che il pregi;
Ma, come io dissi a lui, li suoi dispetti
Sono al suo petto assai debiti fregi.
73Or mi vien dietro, e guarda che non metti
Ancor li piedi nella rena arsiccia;
Ma sempre al bosco li ritieni stretti.12
76Tacendo divenimo là, ove spiccia
Fuor della selva un picciol fiumicello,
Lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
79Quale del bulicame esce il ruscello,
Che parton poi tra lor le peccatrici;
Tal per la rena giù seguiva quello.13
82Lo fondo suo et ambo le pendici
Fatti eran pietra, e i margini dal lato;14
Per ch’io m’accorsi, che il passo era lici.15
85Tra tutto l’altro ch’io t’ò dimostrato,
Poscia che noi entrammo per la porta,
Lo cui sogliare a nessuno è negato,
88Cosa non fu dalli occhi tuoi scorta
Notabile, come il presente rio,
Che sopra sè tutte fiammelle ammorta.
91Queste parole fur del Duca mio;
Per ch’io il pregai, che mi largisse il pasto,
Di cui largito m’avea il disio.
94In mezzo mar siede un paese guasto,
Diss’elli allora, che si chiama Creta,
Sotto il cui rege fu già il mondo casto.
97Una montagna v’è, che già fu lieta
D’acque e di frondi, che si chiamò Ida;16
Ora è diserta come cosa vieta.
100Rea la scelse già per cuna fida
Del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
Quando piangea, vi facea far la grida.17
103Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
Che tien volte le spalle ver Damiata,
E Roma guarda sì, come suo speglio.
106La testa sua è di fin or formata,
E puro argento son le braccia, e il petto;
Poi è di rame in fino alla inforcata:
109Da indi in giuso è tutto ferro eletto,
Salvo che il destro piede è terra cotta,
E sta in su quel, più che in su l’altro, eretto.
112Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
D’una fessura che lagrime goccia,
Le quali accolte foran quella grotta.
115Lor corso in questa valle si diroccia:
Fanno Acheronte, Stigie e Flegetonta;
Poi sen va giù per questa stretta doccia
118Infin là, dove più non si dismonta:
Fanno Cocito; e qual sia quello stagno,
Tu il ti vedrai, però qui non si conta.18
121Et io a lui: Se il presente rigagno
Si deriva così del nostro mondo,19
Perchè ci appar pur da questo vivagno?20
124Et elli a me: Tu sai, che il luogo è tondo;
E tutto che tu sia venuto molto21
Pur a sinistra, giù calando al fondo,
127Non se’ ancor per tutto il cerchio volto;
Per che, se cosa n’apparisse nova,22
Non dee addur maraviglia al tuo volto.
130Et io ancor: Maestro, ove si trova
Flegetonta e Lete, che dell’un taci,
E l’altro dì, che si fa d’esta piova?
133In tutte tue question certo mi piaci,
Rispose; ma il bollor dell’acqua rossa
Dovea ben solver l’una che tu faci.
136Lete vedrai; ma non in questa fossa,23
Là dove vanno l’anime a lavarsi,
Quando la colpa pentuta è rimossa.
139Poi disse: Omai è tempo da scostarsi24
Dal bosco; fa che di rietro a me vegne:
Li margini fan via, che non sono arsi,
142E sopra loro ogni vapor si spegne.
- ↑ v. 2. C. M. raunai
- ↑ v. 3. C. M. E rendeile - E rende’le; cioè le rendei, dove l’apostrofo indica la mancanza dell’ i. E.
- ↑ v. 4. Venimo ed al v. 76. divenimo sono le primitive piegature della prima persona plurale del perfetto, la quale meglio si accosta al latino. E.
- ↑ v. 13. C. M. arena
- ↑ v. 42. Escotendo; quasi alla latina, dal verbo excutere. E.
- ↑ v. 42. C. M. Scotendo pur da sè l’arsura fresca.
- ↑ v. 45. Uscinci; ci uscino, e codesta è la terminazione primitiva, risultante dalla solita aggiunta del no alla terza persona singolare del perfetto. E.
- ↑ v. 51. C. M. Qual fu’io vivo,
- ↑ v. 64. se’ tu ben punito:
- ↑ v. 65. C. M. martiro,
- ↑ v. 69. C. M. Ch’assiser Tebe,
- ↑ v. 75. C. M. al bosco tien li piedi stretti.
- ↑ v. 81. C. M. sen giva quello.
- ↑ v. 83. C. M. Fatte eran pietre,
- ↑ v. 84. lici. La giunta della particola ci all’avverbio lì sembra indicare con maggiore evidenza il luogo del passare, quasi dicesse: Il passo era lì propio. E.
- ↑ v. 98. C. M. che si chiamava Ida;
- ↑ v. 102. le grida.
- ↑ v. 120. C. M. Tu lo vedrai,
- ↑ v. 122. C. M. dal nostro mondo,
- ↑ v. 123. C. M. pur a questo vivagno?
- ↑ v. 125. C, M, tu sii venuto
- ↑ v. 128. Per ciò, se cosa
- ↑ v. 136. ma fuor di questa fossa,
- ↑ v. 139. C. M. di scostarsi
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C O M M E N T O
Poi che la carità del natio ec. In questo xiiii canto l’autor nostro comincia a trattare del terzo girone del vii cerchio, ove si puniscono li violenti contra Dio e le sue cose; cioè contra la natura e l’arte; ma in questo canto tratta solo delli violenti contro a Dio, e benchè faccia menzione di tutti, seguita pure delli violenti contra Dio; e dividesi in due parti principalmente, perchè prima pone come entra nel terzo girone e come vi truova li violenti contra Idio e le sue cose; cioè la natura e l’arte. Nella seconda si contiene come pervennono a uno fiume, ch’è cagione di tutti li fiumi infernali, come apparirà di sotto, del quale l’autor pone una bella fizione, e comincia, quivi: Or mi vien dietro, ec. La prima che è la prima lezione si divide in sette parti, perchè prima continua lo suo processo; nella seconda in generale descrive lo terzo girone, quivi: A ben manifestar ec.; nella terza narra la diversità de’ peccatori che vi truova, e le pene che sostengono, quivi: O vendetta di Dio, ec.; nella quarta pone alcuna similitudine, quivi: Quali Alessandro, ec.; nella quinta tratta solo di violenti contra Idio domandando d’uno, quivi: Io cominciai: ec.; nella sesta pone com’elli risponde di sè medesimo, quivi: E quel medesmo, ec.; nella settima pone come Virgilio riprende quella anima e manifesta a Dante chi elli fu, quivi: Allora il Duca mio ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale. Dice così:
Che poi che per amor della patria costretto ragunai 1 le frondi sparte al cesto, che le domandava et era già fioco per l’addomandare e per lamentarsi 2, partimoci quindi e venimo al fine onde si parte lo secondo girone dal terzo e dove si vede orribile arte di giustizia. E volendo manifestare bene lo luogo, io dico che noi venimo a una pianura o vero riva, ch’era sanza arbori et erba; e questa riva o vero pianura cignea intorno la selva, della quale è detto di sopra, sì come cinge la fossa del sangue la detta selva, e qui fermarono li lor passi a randa a randa 3, per non uscir della selva, per non montare in su la rena ch’ardeva sempre. E però soggiugne che lo spazzo 4 della riva era rena arida e spessa, no 5 fatta d’altra foggia che quella che fu calcata da Catone, quando andò per la Libia, e maravigliandosi di ciò dice: O vendetta di Dio; cioè o giustizia, quanto tu dei essere temuta da ciascun che legge ciò, che fu manifesto alli occhi miei! Io vidi molte mandre d’anime nude che piangeano, alle quali parea che fosse posta diversa legge: imperò che alcuna giacea rovescio 6 in sulla rena, alcuna si sedea tutta raccolta e l’altra gente andava continuamente: e quella che andava era molto più di quella che giacea; ma quella che giacea, più si lamentava, e sopra quella rena piovevano falde di fuoco, come fa la neve nell’alpe quando non è vento: e come in India ad Alessandro pioverono fiaccole di fuoco sopra il suo esercito, ond’elli provide che l’esercito le scalpitasse 7, acciò che non pigliassono vigore. E di sotto a queste anime la rena s’accendea come esca sotto il fucile; onde quell’anime sempre erano sanza riposo: imperò che menavano le mani or quinci or quindi, per scuotersi lo fuoco da dosso. Onde Dante dice a Virgilio: Tu, che vinci tutte le cose, se non li demoni che ci uscirono incontro all’entrar della città Dite, chi è quel grande che non par che curi l’incendio, e giace dispettoso e torto? Unde colui che s’accorse ch’elli addomandava di lui, gridò: Tal son morto, qual io fui vivo; et aggiugne che se Giove stancasse lo suo fabro e tutti li altri pigliando saette da loro per saettarlo, come saettò li Giganti alla battaglia di Fiegra, non potrebbe aver vendetta allegra di lui. Allora Virgilio pigliando sdegno del superbo parlare di quest’anima, parlando molto alto più che Dante l’avesse ancora udito, li disse: O Capaneo, in questo che la tua superbia non si doma e non à rimordimento, se’ tu più punito che non saresti, se ciò non fosse: niuno martirio sarebbe a te debita pena, se non la tua rabbia. E poi dice Dante che Virgilio si volse a lui con mansueto parlare, dicendo: Colui fu uno delli sette re che assediarono Tebe, et ebbe, e così par ch’abbia, Idio in dispregio; ma, com’io dissi a lui, li suoi dispetti sono a lui assai debiti fregi. E qui finisce la sentenzia litterale, ora è da vedere lo testo con le allegorie, ovvero moralitadi.
C. XIV — v. 1-6. In questi due ternari l’autor nostro pone la continuazione del suo processo dicendo: Quello così stracciato delle sue frondi, come detto fu di sopra, ci pregò che dovessimo raccogliere le sue frondi sparte al suo cesto, ond’io Dante glie le raccolsi per pietà e carità della patria che mi mosse; e però dice: Poi che la carità; cioè l’amore, del natio loco; cioè della patria ond’elli era, ch’era fiorentino com’io, Mi strinse; cioè me Dante, ragunai le fronde sparte; al cesto suo, E rende’le; io Dante, a colui, ch’era già fioco; cioè arrocato per lo molto gridare. E qui è notabile che l’uno cittadino dè avere carità dell’altro, e può essere qui allegoria che il ragunare delle frondi fosse lo ritrovare della fama di costui che era già fioco; cioè che la fama sua era già spenta, se non che l’autore la rinnovellò. Indi; cioè da quel luogo, venimo; Virgilio et io Dante, al fine; del secondo girone del quale è detto, onde si parte Lo secondo giron dal terzo: del quale si dirà di sotto, e dove; cioè nel quale, Si vede di giustizia orribile arte; cioè della divina giustizia l’artificio da essere temuto da ognuno, del quale si dirà di sotto.
C. XIV — v. 7-15. In questi tre ternari l’autor nostro descrivendo finge lo luogo al quale era venuto, com’era fatto, dicendo così: A ben manifestar le cose nove; cioè questo terzo girone del settimo cerchio, al quale finge sè con Virgilio esser disceso, Dico; io Dante, che arrivammo; Virgilio et io Dante, ad una landa; cioè pianura, Che dal suo letto 8 ogni pianta rimove; perchè non v’è nè erba, nè arbore. La dolorosa selva; della quale è detto di sopra, le è ghirlanda Intorno; cioè cigne questa pianura intorno, come il fosso tristo; cioè Flegeton che è nel primo girone, ad essa; cioè cigne intorno la detta selva: Quivi; cioè in su l’estremo della selva, fermammo; Virgilio et io Dante, i passi; cioè nostri, a randa a randa; cioè rasente rasente la rena, perchè in su la pianura non potavamo 9 scendere perchè v’era fuoco, come manifesta ora. Lo spazzo; qui comincia l’autor a narrare delle pene che vi sono, dicendo che lo spazzo 10 del girone, era una rena arida e spessa; cioè secca et assai insieme, Non d’altra foggia; cioè non d’altra materia, fatta, che colei; cioè quella rena, Che fu da’ piè di Caton già soppressa; cioè calcata. Qui fa una similitudine, dicendo che così era arida e spessa la rena del terzo girone, come quella di Libia, la quale calcò Catone con l’esercito suo; onde è qui da sapere la storia narrata per Lucano; cioè che poichè Marco Catone uticense trovò, che in Egitto era stato capitato 11 Pompeio dal re Tolomeo, dopo la sconfitta di Tessaglia, deliberossi d’andare col rimanente dell’esercito al re Giuba in Affrica, il quale era amico della parte di Pompeio: e messosi a passare per mare le secche di Barberia 12, ebbe vento contrario che sospinse parte del navilio per uno fiume in fra la terra in una palude che si chiama Triton, e parte del navilio fece pericolare. Quando Catone si vide in quella palude, deliberò di andare per terra e misesi per li luoghi diserti et arenosi e pieni di serpenti, confidandosi del tempo perchè allora era di verno; onde con grande affanno e con morte di molti de’ suoi per le morsure de’ serpenti, e con grandi incendi di calori e con grandi seti penò due mesi a passare quella rena, e pervenne a una città che si chiama 13 Lepti, e qui stette tanto che passò il verno, e poi finalmente vedendo che Cesare era tanto fortificato, che non c’era più speranza di rilevare la libertà di Roma, essendo in Utica uccise sè medesimo; e non morendo così tosto come voleva, posesi le mani alla ferita e stracciolla per morire più tosto; e però fu chiamato Cato uticense, perchè morì a Utica.
C. XIV — v. 16-30. In questi cinque ternari l’autor nostro finge li tormenti ch’erano nel terzo girone; ma prima pone una bella esclamazione la quale è colore retorico e molto à ad amplificare lo parlare, dicendo: O vendetta di Dio; cioè o giustizia di Dio: imperò che vendetta è propiamente sacramento d’ira, et in Dio non è ira, e però si dee intendere giustizia, quanto tu dei; tu giustizia, Esser temuta da ciascun, che legge; cioè questo mio poema ov’io ò scritto, Ciò che fu manifesto alli occhi miei; cioè ch’io ò finto ch’io vedessi! Et incomincia a toccar le pene che finge, che trovasse nel terzo girone, dicendo: D’anime nude vidi molte gregge; cioè brigate; e per questo si nota la moltitudine divisa in più e in più brigate; e perchè dice nude, si nota una delle pene dell’anime che quivi erano punite, ch’erano nude; perchè noiasse loro lo fuoco, Che piangean tutte assai miseramente; e per questo nota la gravezza della pena che sosteneano, E parea posta lor diversa legge; e per questo manifesta che differenzia era in quelle pene, e seguentemente dichiara qual fosse, dicendo: Supin giacea in terra; cioè in su quella rena, alcuna gente; di quelli ch’erano nel terzo girone, e questi erano li violenti contro a Dio, come si dirà di sotto, Alcuna si sedea tutta raccolta; cioè stretta, per toccare meno della rena, e questi erano li violenti contra la natura e l’arte, Et altra andava continuamente; di quelli dannati intorno per lo girone, e questi erano li violenti pur contra la natura. Quella, che giva intorno; cioè quest’ultima, era più molta; che l’altra che giacea: imperò che li violenti contra la natura erano molti più che li violenti contro a Dio, e che li violenti contra la natura e contra l’arte, E quella men; s’intende era quella ch’andava d’intorno, et ancora di quella che sedea, che giacea al tormento; cioè rovescio 14; Ma più al duolo avea la lingua sciolta: imperò che più si dolea e lamentavasi. Sopra tutto il sabbion; cioè sopra tutta quella rena. Sabbione è rena grossa e 15 piena di pietrelle piccoline; ma quella era rena sottile e sanza pietre; ma impropriamente la chiama sabbione, come è usanza delli autori di transumere i vocaboli. d’un cader lento; cioè cadendo lentamente, Piovean di fuoco dilatate falde; cioè ampie fiaccole, Come di neve in alpe sanza vento; cioè come nevica la neve a falde nell’alpi, quando non è vento: imperò che quando è vento la rompe e 16 nevica più minuta. Ora è qui da notare che l’autore in questo luogo tratta d’alcuna spezie di superbia, d’ira, di lussuria e d’avarizia in quanto vengono 17 per propia malizia o bestialità; e sono contenute sotto la violenzia: imperò che inducono l’uomo a fare violenzia, e però tratta qui de’ violenti contro a Dio e contra le cose sue; cioè contra la natura e contra l’arte generalmente. E poi seguita in particulare pur di Capaneo, che fu violento contra a Dio; e nel xv e xvi canto, de’ violenti contra la natura; e nel xvii canto, de’ violenti contra la natura e l’arte, a’ quali tutti l’autore pone una pena; cioè che sono puniti in fuoco piovente di sopra, come detto è; et accendendosi di sotto la rena arida e secca che s’accende, come l’esca sotto il fucile quando si batte. E questa pena è correspondente a tale peccato: imperò che come li violenti contro a Dio e le sue cose usano violenzia più alta che usar si possa, però deono esser puniti da più alto elemento che sia, che è lo fuoco. Appresso come il furioso dispregiando e bestemmiando 18 Idio: chè in altro modo non si può usare violenza contra Dio, riscalda et arde d’ira; e quelli che pecca contra natura, arde di lussuria; e quelli che pecca contra l’arte arde d’avarizia; così dee rispondere l’arsione eterna nell’altra vita: e come la rena è dissoluta 19 in questi peccati di dissoluzione, però finge che sieno puniti in su la rena. Et a questo s’affatica sempre l’autore nostro a mostrare, come ogni peccato à seco accompagnata la sua pena in questa vita, e quella medesima finge che risponda nell’altra, parlando litteralmente dello inferno di sotto, e moralmente intendendo di quel di sopra; cioè di questo mondo, sì come vogliono dire alquanti esponitori e come può apparere per li canti passati. Ancora pone l’autore che sono nudi, acciò che più sieno nociuti dall’incendio, et a significare che li peccatori 20 sono noti et aperti quasi ad ognuno; e che piangono miseramente, e questo si dee intendere per la pena e non per lo dolor del peccato: imperò che sono ostinati e non si possono pentere, e che sono morti nell’ira di Dio. Et oltra questo è da notare che di questi l’autore pone tre differenzie; cioè alcuni giaceano et alcuni sedeano et alcuni andavano, come tre sono le violenzie contro a Dio e le sue cose: perchè coloro che giacciono 21 nell’arsione, sono li violenti contro a Dio: e quelli che seggono, sono li violenti contra la natura e l’arte: e quelli che vanno, sono li violenti contra la natura. E perchè la violenzia contro a Dio è maggiore che quella ch’è contro all’arte e contra la natura, però giacciono; e quella seconda che è contra l’arte e contra la natura è più grave che quella che è pur contra natura, e però seggono22 ; e per tanto ànno maggior pena che quelli che vanno, ch’elli ànno lo fuoco per tutto di sopra e per tutto di sotto, che non ànno così quelli che vanno 22, come si mosterrà di sotto nel seguente canto. E come possiamo imaginare per la similitudine data dall’autore della 23 neve; che maggior freddo sentirebbe chi giacesse o chi sedesse nella neve nudo, che colui ch’andasse; e così della fiamma e della rena ardente. E quelli che vanno sono li soddomiti, che violentano la natura; e quelli che seggono 22 sono li usurieri, che violentano la natura e l’arte, come si dirà di sotto nel xvii canto, ove si tratta di loro; et è dato loro lo sedere per pena conveniente: imperò che continuamente stanno con l’ardore d’avere, e facendo violenzia alla natura et all’arte, sempre adoperano contra il prossimo, sì come nell’obietto di tale disordinazione, usureggiando contra lui; e però è dato loro a portare una tasca a collo per pena conveniente, sì come nel mondo ànno sempre desiderato di portare e d’avere le tasche piene di pecunia et a quella si sono sottomessi. Ma l’andare è dato a’ soddomiti per pena conveniente al loro peccato: imperò che il loro peccato si commette, discorrendo nelle dilettazioni e nelli appetiti sensuali, e così lo giacere è dato alli violenti contra Dio: imperò che sanza mezzo in sè medesimo offendono Idio, non volendosi sottomettere a lui, dispregiandolo e bestemiandolo. E che l’autore abbia voluto intendere questo, appare per lo testo ove pone in questo canto Capaneo che fu dispregiatore di Giove, e nel xv e xvi canto pone coloro che furono soddomiti; cioè ser Brunetto, Tegghiaio e li altri; e nel xvii nella fine del girone pone coloro che usureggiarono, che sedeano et avean la tasca a collo: e questo basti quanto alla moralità.
C. XIV — v. 31-42. In questi quattro ternari l’autor nostro pone una similitudine intorno a quel ch’à detto di sopra, dicendo: Tale scendeva; di sopra in su la rena detta di sopra, l’eternale ardore; che non dè mai aver fine; cioè tali erano quelle fiamme che cadeano sopra quella rena; Quali fiamme; cioè di vapori accesi che cadeano dal 24 cielo, Alessandro; re di Macedonia, vide cadere in quelle parti calde D’India: imperò che allora era in India, sopra lo suo stuolo; cioè esercito il quale menava, salde infino a terra; e questo era perchè erano in quelle parti calde, e però li vapori secchi accesi veniano infino a terra, che non avviene così a noi: imperò che come s’appressano alla terra, si spengono per lo umido della terra, Per ch’ei; cioè Alessandro, provide a scalpitar; cioè scalcare overo scalpicciare, lo suolo; della terra, Con le sue schiere; facendole andare a torno, per ciò che il vapore; secco acceso che cadea, Mei; cioè meglio, si stingueva; cioè si spegnea, mentre ch’era solo; cioè quello vapore non accostatosi a cosa che il potesse ardere: Onde la rena; di quello girone, s’accendea, com’esca Sotto il fucile; manifesta è la similitudine, che ciascuno la nota, a doppiar lo dolore; acciò che quelle anime avessono doppio dolore della arsione di sopra e dell’arsione di sotto. Leggesi nel libro de’ fatti d’Alessandro re di Macedonia, che quando andò per l’Asia ad acquistare l’imperio di quella, venendo in India pervenne in luoghi secchi et arenosi sotto la torrida zona, ove per lo caldo del sole s’accendeano li vapori secchi e levati da terra et accesi ricadevano; e per spegnerli fece andare l’esercito a torno, e così lo fece spegnere e fu ottimo rimedio, e però l’autor nostro ne fa comparazione; cioè del cadere; ma non dello spegnere a quel fuoco, che finge che cadesse sopra il terzo girone, come è detto di sopra. Seguita: Sanza riposo mai era la tresca Delle misere mani; cioè di quelle anime che quivi erano tormentate le quali mai non aveano riposo, scotendosi l’arsura che cadea di sopra, et ammortando quella che s’accendea di sotto. Tresca si chiama uno ballo saltereccio, ove sia grande e veloce movimento e di molti inviluppato; et a denotare lo veloce movimento delle mani della moltitudine di quelle misere anime a scuotersi l’arsura si chiama tresca: e per questo si può dire che l’autore fingesse che fosse punita la prestezza, che ebbono nella vita a commettere li detti peccati, per la prestezza delle mani che significano l’operazione, or quindi, or quinci; cioè or dall’un lato, or dall’altro, Escotendo da sè l’arsura fresca; cioè che di nuovo era venuta.
C. XIV — v. 43-48. In questi due ternari finge l’autore ch’elli vedesse uno de’ violenti contro a Dio stare nell’arsura molto dispettoso, onde domandò 25 di lui Virgilio, dicendo: Io cominciai; cioè io Dante: Maestro, tu che vinci Tutte le cose. Qui è da notare l’allegoria che la ragione significata per Virgilio vince tutte le cose con la virtù, salvo che la durezza del demonio, lo quale non si può vincere a farlo operare alcun bene, se non a fine di male; e per tanto sono da riprendere li sacrilegi e l’incantatori, li quali credono con loro incantagioni fare adoperare al demonio cosa che buona sia: imperò che è ostinato in male, e per venire ad un grande male alcuna volta adopera alcuno apparente bene 26; e però dice: fuor che i demon duri; la durezza dei quali non si può vincere, Ch’all’entrar della porta; cioè di Dite, incontra uscinci; come appare di sopra cap. ix, che Virgilio non li potè vincere che li aprissono la porta, se non che venne l’angelo. Chi è quel grande; ora domanda Dante d’una anima che vedeva giacere nell’arsura e non parea che se ne curasse, lo quale finge che fosse lo re Capaneo, del quale si dirà di sotto, che non par che curi Lo incendio: imperò che non si curava dell’incendio ch’avea di sotto, nè di quel ch’avea 27 di sopra, e giace dispettoso e torto; come fa lo superbo, Sì, che la pioggia; del fuoco, non par che il maturi? Imperò che non s’ammortava la sua superbia; et in questo si mostra l’ostinazione de’ dannati. E tratta qui l’autore de’ violenti contro a Dio, li quali sono superbi et irosi; e pertanto tratta qui l’autore di due spezie; l’una di superbia; l’altra d’ira, in quanto vengono da malizia, o da bestialità, e però pone le condizioni del superbo, che presumme della sua grandezza e dispregia Idio e la sua giustizia, non volendosi sottomettere a lui, à in dispetto ognuno et Idio principalmente: e per avversità o per pena che li avvenga non si doma; ma ancora viene alla spezie dell’ira, e bestemmia 28 Idio e mettelo a dispetto. E perchè queste condizioni sono nelli peccatori di sì fatta condizione nel mondo, però moralmente le finge qui, intendendo di quelli del mondo; e per fare verisimile la lettera per conveniente pena a sì fatti peccati, finge che sieno puniti nel fuoco, come fu detto di sopra, e come ora dice di Capaneo.
C. XIV — v. 49-60. In questi quattro ternari l’autor finge che quell’anima, della quale domanda Virgilio, se li manifestò per lo vizio suo e per la sua morte, dicendo: E quel medesmo; del quale io domandava, che si fu accorto, Ch’io; cioè Dante, domandava il mio Duca di lui; cioè Virgilio, Gridò: Qual io fu’ vivo, tal son morto; cioè com’io fu’ superbo e violento vivo, così son morto. Se Giove; cioè lo sommo Idio, stanchi il suo fabbro; cioè Vulcano, il quale secondo le fizioni poetiche si dice fabricare le saette di Giove, da cui; cioè dal quale, Crucciato; cioè Giove contra me Capaneo, prese la folgore acuta; cioè la saetta acuta, Onde l’ultimo di’; della mia vita, percosso fui; cioè io Capaneo; E s’elli stanchi; cioè Giove, li altri; fabbri che sono con Vulcano, a muta a muta; cioè scambiandoli a brigata a brigata, in Mongibello; cioè nell’isola chiamata Vulcano, che è presso a Mongibello, alla fucina negra; cioè alla fornace ove è la fuliggine nera, Chiamando; Giove: Buon Vulcano, aiuta, aiuta; a fare vendetta di questo violento, Sì com’el fece; qui fa la similitudine che Giove faccia come fece, quando combattè contra a’ giganti, e però dice: alla pugna di Flegra; cioè di quel monte, ove li giganti si ragunarono e feciono deliberazione di pigliare il cielo, E me saetti; cioè me Capaneo, con tutta sua forza; cioè con quanto potere elli à, Non ne potrebbe aver; Giove di me, vendetta allegra; cioè che il saziasse: però ch’io non mi mosterrei mai di crucciarmene 29, et a lui non mi arrenderei. Sogliono li uomini mondani quando fanno vendetta di loro nemici avere allegrezza, quando li veggono bene di quindi appenati. E qui è da notare che l’autore parla secondo la condizione della persona introdotta, e però dice vendetta: chè quella di Dio non è vendetta; ma giustizia: ancora Idio non è mutabile; ma è sempre contento, perchè a lui niente manca: ch’egli è perfezione d’ogni bene, e però, secondo la condizione della persona introdotta, disse allegra vendetta. Qui sono da notare due favole 30, la prima di Vulcano, la seconda de’ giganti; ma perchè questa è nota, la toccherò sotto brevità. Quanto della prima, dicono i poeti che Giunone moglie di Giove volle provare, se essa sola potesse producere figliuoli sanza Giove, e pertanto percosse le membra genitali e produsse Vulcano, lo quale fu chiamato idio del fuoco e fu dato per marito a Pallade; cioè alla idia della sapienzia, la quale si finge nata del cerebro di Giove, e perchè Vulcano era molto sozzo et ella ancora era disposta a mantenere virginità 31, combattèe con lui; et in quella pugna nacque pur di Vulcano Eritonio, che fu figliuolo sanza madre, et avea li piedi a modo di dragone. Et all’ultimo, quando se li volle accostare lo rifiutò; ma convenneli consentire con questo patto, che s’elli la potesse sforzare, fosse sua donna; onde lo sospinse e fecelo cadere di cielo nell’isola ch’è chiamata Vulcano a lato alla Sicilia presso a Mongibello, e diventò per quella caduta sciancato, e cominciò in quella isola, perch’era fabro, a fabricare le saette a Giove e tenne discepoli ad insegnare l’arte: e perchè ne fece molte e fu molto favorevole alli idii nella battaglia de’ giganti, fu rivocato in cielo e dato per marito a Venere; cioè alla dia della lussuria. L’allegoria di questa lascio per brevità; ma chi la vole la può trovare in Fulgenzio, Antologia 32 ec. La favola delli giganti si tocca in questa forma dalli autori; ch’essendo la terra schernita dalli idii ch’ella non produceva figliuoli, produsse li giganti uomini grandissimi oltre a tutta l’altra forma delli uomini, molto potenti, i quali insuperbiti per la loro potenzia, non trovando chi potesse resistere a loro, presono ardire et in Flegra feciono 33 loro adunanza e deliberazione di volere montare in cielo e pigliare lo cielo per loro e cacciare li dii, e presono li monti di Tessaglia e posono l’uno sopra l’altro e cominciarono a montare suso. Allora Giove con li altri idii si cominciarono 34 a difendere, e prese le saette da Vulcano, tutti li saettò et ucciseli; e perchè allora ne li furono bisogno molte, però ne fa menzione Capaneo, il quale l’autore à introdotto a parlare.
C. XIV — v. 61-72. In questi quattro ternari l’autor pone, come quello spirito è ripreso da Virgilio, che prima avea parlato e manifestato a Dante chi elli fu, dicendo: Allora; cioè quando Capaneo ebbe così parlato, come detto fu di sopra, il Duca mio; cioè Virgilio, parlò di forza; cioè sforzatamente, Tanto, ch’io; cioè Dante, non l’avea sì forte udito; parlare ancora, s’intende, dicendo: O Capaneo; che così ebbe nome nel mondo questo violento, del quale già è detto, in ciò; cioè in questo, che non s’ammorza; cioè non si rimorde, La tua superbia; la quale tu dimostri nelle tue parole, se’ tu più punito; che non saresti, s’ella si rimordesse; et assegna la cagione, dicendo: Nullo martirio, fuor che la tua rabbia; cioè eccetto che questa tua rabbia, Sarebbe al tuo furor; che tu ài, dolor compito; cioè sofficiente e debito. E qui si può notare che nessuno è maggior dolore e pena alli dannati, come è detto di sopra, quanto 35 l’ostinazione; et ancor si può notare che Virgilio, che significa l’intelletto e la ragione umana, di niuna cosa si cruccia più ragionevolmente che del dispregio di Dio, e di ciò si turba ogni savio uomo. Poi si rivolse; Virgilio, a me; cioè Dante: imperò che prima avea parlato a Capaneo con ira, con miglior labbia; cioè parlando più mansuetamente, Dicendo: Quel; cioè colui che ora così superbamente parlò contro a Dio, fu l’un de’ sette regi; cioè di quelli sette re, Ch’assediar Tebe. Questa fu una citta di Grecia, grande e molto famosa e molto sciagurata, come si dirà di sotto, la quale compose Cadmo figliuolo del re Agenor; un’altra ne fu in Egitto ch’ebbe cento porte: tanto fu grande, e di questa non fa menzione qui. Et è qui da notare la storia di quella prima Teba 36, della quale parla l’autore, la quale fu in questa forma. Dopo l’acciecamento 37 del re Edipo venne il reggimento a due suoi figliuoli, che l’uno avea nome Eteocle e l’altro Polinice. Costoro partirono lo reggimento del regno tra loro in questo modo; che l’uno regnasse l’uno anno, e l’altro l’altro anno; onde toccò la sorte prima ad Eteocle, e Polinice andò in quel mezzo a procacciar sua ventura e pervenne al re Adrasto re d’Argos, e per caso vi sopravvenne ancora Tideo, il quale per la morte di Meleagro suo fratello s’era partito da casa sua, et aveasi proposto di non toccar mai arme. E giunti l’uno e l’altro di notte al palagio del re Adrasto, piovendo et essendo mal tempo, sospignendo l’uno l’altro sott’uno piccolo tetto 38 ch’era sopra la porta del palagio per stare meglio coperti, si cominciarono a villaneggiare e percuotersi con le pugna, onde per lo romore furono presi dalle guardie del palagio; e perchè pareano persone da bene furono menati al re e finalmente 39 conosciuti dal re, lo detto re Adrasto diede per moglie a questi due giovani, due figliuole che elli avea; cioè a Polinice Argia; et a Tideo, Deifile. In quel mezzo, passato l’anno, Polinice volle la restituzione del regno dal suo fratello Eteocle, et elli la gli negò; onde si mosse il re Adrasto suo socero, stimolato dal detto Polinice con sette re per sua amistà, et andarono ad assediare Tebe, li nomi de’ quali re sono questi; Adrasto, Polinice, Tideo, Ipomedonta 40, Capaneo, Anfiarao, e Partenopeo. Tra’ quali Capaneo essendo montato in sulle mura di Tebe, cominciò a dispregiare tutti li dii e massimamente Giove, onde Giove prese le saette e saettollo, e così morì Capaneo dispregiatore delli dii; e però dice l’autore: et ebbe, e par ch’elli abbia; ancora al presente 41 questo Capaneo, Dio; cioè Giove, in disdegno 42, e poco par che il pregi; cioè se ne curi di Dio; Ma, come io; Virgilio, dissi a lui; cioè a Capaneo, li suoi dispetti; cioè i suoi dispregi ch’elli fa di Dio, Sono al suo petto assai debiti fregi; cioè sono assai convenienti adornamenti al suo petto pieno di superbia. Come il fregio si pone al petto per adornamento della persona virtuosa; così il vizio è in confusione della persona viziosa. E qui finisce la prima lezione.
Or mi vien dietro ec. Qui comincia la seconda lezione di questo canto, nel quale l’autore pone una bella fizione del nascimento dei fiumi infernali; e dividesi questa lezione in sei parti, perchè prima pone come, seguendo suo cammino, vennono ad uno fiume; e nella seconda, come Virgilio incita Dante a considerazione di questo fiume, quivi: Tra tutto l’altro ec.; nella terza pone la fizione del nascimento di questo fiume e di tutti li altri infernali, che si derivano da questo, quivi: In mezzo mar ec.; nella quarta Dante muove uno dubbio 43 a Virgilio, e soggiugne la soluzione di Virgilio, quivi: Et io a lui ec.; nella quinta Dante muove ancora un altro dubbio a Virgilio e sogiugne la soluzione di Virgilio, quivi: Et io ancor ec.; nella sesta ritorna al processo, quivi: Poi disse: Omai è tempo ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
Poichè Virgilio ebbe parlato a Dante di Capaneo, confortando Dante a seguitare il suo cammino, dice: Or mi vien dietro e guarda che non metti ancora li piedi nella rena arsiccia; ma strigniti 44 in ver la selva. E così andando taciti divenimmo ad uno luogo, onde fuor della selva usciva uno fiumicello rosso tanto, ch’ancora facea orrore a Dante la memoria sua, e fa una comparazione; dicendo che tale era quello 45, chente lo bulicame di Viterbo, che v’è per le case delle meretrici, partito a ciascuna casa per loro lavamento sì come uno bagno; e dice che lo fondo e le sue sponde da lato con le sue piagge erano di pietre, e dice Dante che Virgilio li disse: Tra tutto l’altro dell’inferno ch’io t’ò dimostrato, poichè noi entramo per la porta dell’inferno, che sta aperta e non si niega ad alcuno, non fu cosa dai tuoi occhi veduta tanto notabile, quanto lo presente fiumicello sopra al quale s’ammortavano tutte le fiammelle, che cadeano dell’aere di sopra in sulla rena. E 46 di tutto questo Dante affettuoso d’udire, priega Virgilio che li manifesti la cagione, della quale li à dato desiderio. Onde Virgilio incomincia e dice, che in mezzo del mare mediterraneo è una isola guasta, che si chiamò Creta, sotto il re della quale; cioè Saturno, il mondo fu casto e buono; et in essa è una montagna che si chiama Ida, che già fu abondevole d’acque, di piante, e d’erbe, e molto fertile; et ora è cosa deserta, come cosa disabitata. E già la reina Rea donna di Saturno la scelse per fedele luogo da nutricare lo suo figliuolo Giove; e per occultarlo vi faceva sonare e gridare, acciò che Saturno nollo 47 udisse quando piangea, et aggiugne che dentro a quel monte è una statua grande d’uno vecchio, che tiene le spalle volte in verso Damiata, che è uno monte di Babilonia, e sta volto in verso Roma e lei riguarda, come suo specchio. E descrive questa imagine dicendo che la testa era d’oro, e il petto con le braccia era d’argento, e da indi in fino alle coscie era di rame, e da indi in giù era tutto ferro, salvo che il piè diritto che era di terra cotta, et in su quel parea che elli si fermasse più, che in su l’altro; e ciascuna parte della detta statua, salvo che quella dell’oro, è rotta d’una fessura della quale escono le lagrime, e queste lagrime si raccolgono e fanno uno fiumicello, e tal che fora questa grotta del monte Ida e descende nell’inferno, e quindi si crea Acheronte, Stige e Flegetonte; e poi se ne va giù del cerchio settimo infino al centro della terra, e quivi fa Cocito. E perchè Dante non l’avea ancor veduto; ma li altri sì, dice tu lo vedrai, e però non tel dico qui. Allora Dante mosse un dubbio a Virgilio e disse: Se questo rivo viene dal nostro mondo, come tu dici, perchè non l’aviamo trovato se non qui? Allora Virgilio rispose e disse che il luogo dell’inferno era tondo, e ben ch’elli fosse venuto molto pure inverso man manca andando e calcando 48 inverso il fondo, tu non ài girato ancora una volta tutto lo tondo sicchè, benchè tu andassi e trovassi andando cosa nuova, non ti dovrebbe dare maraviglia. E poi che Dante fu satisfatto d’uno dubbio, muove l’altro dicendo: Ove si truova Flegeton lo qual tu ài nominato; e Lete del quale non fai menzione? Allora Virgilio rispose: Ben mi piacciono certamente le tue questioni; ma l’una di queste domande ti dovea certificare lo fiume del sangue, dov’erano li tiranni, ch’esso era Flegeton; l’altro fiume; cioè Lete, non è nell’inferno, tu lo vedrai nel purgatorio. E poi disse a Dante: Oggi 49 mai è tempo di scostarsi del bosco, e però viemmi dietro in su li margini, che non v’è la rena calda e non vi caggiono le fiamme, perchè le spegne il fummo del fiumicello; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere lo testo con le storie e moralitadi.
C. XIV — v. 73-84. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come, seguendo suo cammino, pervennono a uno fiume lo qual descrive, dicendo così: Or mi vien dietro, e guarda che non metti Ancor li piedi nella rena arsiccia; parla Virgilio a Dante che non metta ancor li piè suoi nella rena arsiccia, ch’era nel terzo girone; Ma sempre al bosco; del secondo girone, li ritieni stretti; cioè i piedi per non entrare in sulla rena. Et è qui una bella moralità; cioè che la ragione significata per Virgilio ammonisce la sensualità significata per Dante che li vada dietro: imperò che, quando la sensualità segue la ragione, ella non può errare; et in quanto dice che non metta i piedi nella rena calda; ma stringali alla selva, dà rimedio di fugire 50 quali si puniscono quivi; cioè seguitando la ragione e stando in solitudine e penitenzia, che è significata per lo bosco; li piedi significano li affetti e li desidèri; la rena calda significa l’incendio di sì fatti peccati. Tacendo; cioè sanza parlare, divenimo; Virgilio et io Dante, là, ove spiccia; cioè a quel luogo ove usciva, Fuor della selva; detta di sopra, un picciol fiumicello; il quale attraversava li gironi, Lo cui rossore; cioè lo rossor del quale, ancor mi raccapriccia; cioè raccordandomene, ancor me ne viene orrore; et accapricciare è levare li capelli ritti, come avviene per paura; cioè caporicciare; e però si dice: Io ebbi un 51 grande raccapriccio; cioè uno arricciamento de’ capelli del capo, che significa la paura. Quale del bulicame; cioè di Viterbo, ch’è una città presso a Roma. Qui fa similitudine da quel fiumicello al bulicame di Viterbo, onde è da sapere che 52 Viterbo è uno lago, la cui acqua sempre manda su bollori; e però si chiama bulicame perchè sempre bolle, quasi come bollicamento continuo; et è tanto calda, che gittandovi dentro una bestia non se ne vedrebbe se non l’ossa, e di quello lago esce uno fiumicello che passa per lo luogo delle meretrici di Viterbo, et è partito per le case d’esse meretrici sì, che quivi si possono lavare perchè l’acqua per longo corso diventa temperata, sì che si può patire; e cotale dice che era quello, che trovarono nell’inferno uscire della selva et attraversare lo terzo girone. esce il ruscello; cioè quel piccolo fiumicello Che parton poi tra lor le peccatrici; cioè le meretrici che stanno in quel meretricio: veramente l’autor nostro in luogo conveniente addusse tale similitudine, considerando che finga che si punisca lo peccato contra natura; Tal per la rena giù; cioè del terzo girone, seguiva quello; che trovarono Virgilio e Dante. Lo fondo suo; cioè di quel fiumicello, et ambo le pendici; cioè amendue le sponde, le quali si chiamano pendici, perchè pendono in ver la terra, Fatti eran pietra; cioè erano fatte di pietra, e i margini dal lato; cioè le ripe che sono dal lato alle sponde, di verso la terra; e per questo appare che le sponde erano ampie, sicchè faceano piagge in verso la terra ove pendeano; Per ch’io; cioè Dante, m’accorsi che il passo era lici; cioè m’avvidi che quivi ci conveniva attraversare il terzo girone: imperò che più oltre non si potea andare, et a noi pur convenia attraversare lo girone, per compiere lo nostro viaggio. Et è qui da notare che Dante finse queste sponde essere di pietra per due cagioni; l’una per mostrare in che modo attraversarono lo girone della rena calda, sanza andare su per la rena ardente, che non sarebbe stato verisimile; l’altra cagione, per mostrare la moralità e continuarla con quel ch’è detto di sopra; cioè che poi che l’uomo à ritratto li affetti e i desideri suoi dall’arsione et incendio della violenzia contra Dio e la natura e l’arte, con la solitudine e con la penitenzia viene a fermezza et a durezza, con la quale passa tra quelli peccati fermo e costante non commosso da quelli; ma come pietra dura tiene fermi e costanti li suoi effetti.
C. XIV — v. 85-93. In questi tre ternari l’autor nostro finge come Virgilio incita Dante a considerazione di questo fiumicello ch’ànno trovato, dicendo: Tra tutto l’altro; dell’inferno, ch’io; cioè Virgilio, t’ò dimostrato; a te Dante infino a qui, Poscia che noi entrammo per la porta; prima dell’inferno che sta sempre aperta, e però dice: Lo cui sogliare 53 a nessun è negato; perchè sta aperta la porta; e questo dice perchè quella di Dite non istà aperta, et alli buoni si niega. Et è qui da notare che l’autore fa qui questa fizione moralmente parlando dell’inferno di questo mondo, per mostrare ch’ognuno è abile a poter peccare; e così è abile a risurgere dal peccato per la grazia di Dio; e questo significa per l’apertura della prima porta, dentr’alla quale si puniscono i peccati della incontinenzia, dai quali si risurge più agevolmente, perchè meno s’offende Idio. E doviamo considerare che peccare s’intende descendere nell’inferno; e resurgere dal peccato è uscire dell’inferno; e però lo sogliar della prima porta a nessuno è negato, e questo s’accorda con l’Eneida di Virgilio ove nel sesto dice: Tros Anchisiade, facilis descensus Averni: Noctes atque dies patet atri ianua Ditis; Sed revocare gradum, superasque evadere ad auras, Hoc opus, hic labor est: Pauci, quos aequus amavit Iuppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus, Diis geniti potuere ec. Ma la porta di Dite è chiusa, non per impedir l’entrare, ch’ognuno è abile quanto a sè ad entrarvi, se non chi è preservato dalla grazia di Dio; e perchè quivi si puniscono li peccati per malizia e bestialità commessi, da’ quali si risurge malagevolmente però finge l’autore ch’ella stia chiusa, a significare la malagevolezza dell’uscire ai peccatori, e la impossibilità dell’entrare alli preservati o predestinati; et accordasi con Virgilio ove dice nel sesto canto: Nulli fas casto sceleratum insistere limen. E se opponesse altri che di sopra dice, capitolo iii: Lasciale ogni speranza, voi ch’entrate, puossi rispondere che l’autor parla qui litteralmente dell’inferno di sotto, che così è che mai non se n’esce; e qui s’intende moralmente di questo di sopra: e se opponesse che non si può, perchè si può sperare di uscirne, vuolsi rispondere che non ogni cosa detta litteralmente si dee intendere detta moralmente; ma alcune sì, alcune no. Onde che stia aperta la porta si può intendere moralmente, come detto è, che si perda la speranza del tornare, si può dire che è vero litteralmente, e non si reca a moralità secondo questa intenzione. Si può dire un’altra moralità; che i peccati per incontinenzia e le pene debite a loro, che sono fuor della città Dite, sono noti ad ognuno; e però dice che lo sogliare a nessuno è negato; ma quelli che sono per malizia e bestialità e le lor pene non sono manifesti 54, per grazia di scienzia o di revelazione; e però sta chiusa la porta di Dite e non s’apre, se non per grazia alli buoni, come mostrò di sopra Dante, cap. ix, che l’angelo l’aperse a lui, e per giusto supplicio alli rei. Cosa non fu dalli occhi tuoi scorta; o Dante, dice Virgilio, Notabile, come il presente rio; al quale erano pervenuti, Che sopra sè tutte fiammelle ammorta; cioè spegna 55 tutte le fiammelle che cadeno di sopra, ecco l’una considerazione; l’altra fu detta di sopra; cioè ch’era rosso. E qui è da notare che l’autore per la rossezza ebbe questo intelletto litterale, che questo fiume piglia diversi colori, secondo li luoghi ond’è, allorchè passa; e perchè avea passato per lo primo girone del settimo cerchio, e fatto Flegeton che è di sangue bogliente, questo rossore ancora tenea. E moralmente si può dire che questo fiume significa la pena del peccato; e perchè nel settimo cerchio si puniscono li violenti, li quali peccano con furia e con incendio, lo quale sta nel sangue e il sangue è rosso, degna cosa è 56 fiume sia rosso, a significar l’incendio che à seco tal peccato: e per la seconda condizione vuol significare litteralmente che i fiumi mandano su vapori umidi, i quali spengono le fiamme e non vi si accendono; e moralmente vuol dimostrare che il consideramene della pena nell’animo spenga l’incendio e la tentazione di tali peccati, quali quivi si puniscono. Queste parole; dette di sopra, fur del Duca mio; cioè di Virgilio, Per ch’io; cioè Dante, il pregai, che mi largisse il pasto; cioè lo saziamento, Di cui largito m’avea il disio; cioè di quello che mi avea dato lo desiderio; cioè che mi mostrasse la notabil cosa di quel fiume, a che l’avea commosso.
C. XIV — v. 94-120. In questi nove ternari finge l’autore come Virgilio li manifesta lo nascimento del fiumicello detto di sopra, e di tutti li altri infernali, dicendo: In mezzo mar; cioè mediterraneo; cioè nel mare Egeo chiamato Arcipelago, siede un paese guasto; cioè una isola che si chiama Creta, benchè molti la chiamano Candia, per una citta che v’è così chiamata; e dice questo per respetto di quello che già fu: imperò che i poeti dicono che quella isola ebbe già cento cittadi, o vero popoli, e fu grande cosa secondo che essi fingono, et una delle Cicladi, e però seguita: Diss’elli; cioè Virgilio, allora, che si chiama Creta. Questa isola fu chiamata Creta dal nome d’uno re, ch’ella ebbe che fu chiamato Cres, Sotto il cui rege; cioè Saturno, che fu re di Creta, lo quale abitò in Olimpo, et ebbe sotto il suo governo Creta, fu già il mondo casto. Li poeti greci, de’ quali fu grande copia appo li Greci, ricevendo grandi benefici dal re Saturno, volendoli compiacere finsono ch’elli fosse signor del mondo, e però lo chiamarono idio, lo qual vocabolo ancora si dà alli imperatori che si chiamano divi. E perchè allora il mondo sotto lo reggimento di Saturno fu in grande pace et in grande onestà e virtù in quelle parti, ov’elli signoreggiò et insegnò loro a vivere insieme sotto giustizia et equità, et a lavorare le terre e porre le vigne, e comporre città e castella, a viver civilmente; e così insegnò poi alli Italiani, quando cacciato dal suo figliuolo Giove, venne in Italia et abitò in quella; e però dissono i poeti che quella fu l’età dell’oro, et il nostro autore seguitandoli, dice che sotto lui, fu già il mondo casto. Una montagna v’è; cioè nella delta isola, che già fu lieta D’acque e di frondi; e pertanto era aperta al bestiame, che si chiamò Ida; questa montagna: imperò che Ida tanto è a dire, quanto cosa bella; et è da notare che un’altra Ida è la selva di Troia. Ora è diserta; cioè abbandonata la detta montagna, come cosa vieta; cioè come cosa invecchiata, o vero disabitata e vietata d’abitare. Rea; questa fu moglie di Saturno, che fu chiamata ancora Cibele 57 et Ops, la scelse già; cioè la detta montagna, per cuna fida; cioè per fedele allevamento: imperò che cuna 58 è culla in che s’allevano i fanciulli, Del suo figliuolo; cioè Giove. Fingono li detti poeti che essendo gravida la reina Rea, Saturno ebbe dall’oracolo 59 che il dovea cacciare del regno; onde per volere ostare a questo, le comandò che ciò che partorisse li desse, come avesse partorito. Onde avendo partorito uno fanciullo, ella pensando che Saturno l’ucciderebbe, lo mandò con una balia ad allevare nel monte Ida, ove era lo stabulario del re, segretamente, et al re mandò una pietra che si chiama abdir, e disse che quello avea partorito. Et elli perchè quella pietra non fosse cagione del suo cacciamento, la divorò e mangiolla, et ordinò la reina che quando lo re Saturno andasse alla montagna per vedere lo suo bestiame, che vi sonassono strumenti, trombe e nacchere et altri strumenti, acciò che se il fanciullo piangesse non fosse udito. E quando domandava perchè sonavano quelli strumenti, li era risposto: Per allegrezza di voi; e così credendolo s’allevò lo fanciullo, e cresciuto cacciò Saturno del regno et esso rimase re e fu chiamato Giove. E perchè nel suo reggimento cominciarono li uomini già ad intendere ad avanzare l’uno l’altro, però si disse l’età dell’ariento, che fu men perfetta che la prima, quanto l’ariento è meno che l’oro: e perchè, questo Giove fece maggiore benefici a’ poeti che Saturno, però dissono molto più di lui che di Saturno, attribuendo a Giove la deità e il saettare e lo tonare e tutte l’altre cose ch’appaiono a chi legge i poeti 60. Aggiugne l’autore continuando la fizione; ma altri dicono altrimenti, che Uranio re d’Olimpo ebbe due figliuoli; Titano e Saturno, et essendo Titano in altre contrade avvenne che morì Uranio, e Saturno prese lo regno, e tornato Titano e domandato il regno non gliel volle rendere; ma caddono a patti che tutti li figliuoli maschi ch’elli avesse dovesse fare uccidere, a ciò che non rimanesse successione di lui. Avvenne caso che la moglie di Saturno fece due figliuoli; uno maschio et una femina, et ella fece presentare a Saturno la fanciulla femina, e il maschio mandò a nutricare in Creta a certi popoli che si chiamavano Cureti, i quali quando lo fanciullo piangea, perchè non fosse sentito gridavano e picchiavano li scudi e li 61 bastoni et altre cose che sonassono, a ciò che il fanciullo non fosse sentito, e per celarlo meglio; cioè il detto suo fanciullo Giove, Quando piangea, vi facea far la grida; delle trombe e delle nacchere e delli altri strumenti, come è detto 62. sta dritto; cioè in piè, un gran veglio; cioè un grande veglio. Qui finge l’autore nostro che sia una statua a similitudine di quella, la quale si pone nella Bibbia nel libro di Daniello, la quale Nabucodonosor re di Babilonia avea veduta in sogno, e volea che’ savi suoi li dicessono lo sogno ch’avea fatto e che significava, et essi non sapeano indovinare; ma Daniello profeta li disse ogni cosa ammaestrato 63 dallo Spirito Santo: et a similitudine di questa statua fece poi fare Nabucodonosor in campo 64 Duran, della provincia di Babilonia quella grande statua d’oro che fece adorare. Ma lo nostro autore non seguita quella al tutto; ma finge altre cose che fanno al suo proposito, e però vedremo lo testo e poi l’allegoria. Che tien volte le spalle ver Damiata; cioè questa statua volgea le reni alla città Damiata che è in Babilonia, E Roma guarda sì, come suo speglio; cioè tenea lo volto verso Roma et in essa ragguardava, come suo specchio. La testa sua; cioè di quella statua, è di fin or formata; cioè fatta d’oro fino, E puro argento son le braccia e il petto; cioè d’ariento puro avea lo petto e le braccia, Poi è di rame infino alla inforcata; cioè tutto l’altro corpo era di rame infino al fesso: Da indi in giuso; cioè dal fesso in giù; cioè tutte le gambe e li piedi, è tutto; questo vecchio, ferro eletto; cioè scelto, Salvo che il destro piede è terra cotta, sì che il piede ritto era di terra, E sta in su quel, più che in su l’altro, eretto; cioè che più si ferma sul piè ritto che era di terra, che in su l’altro ch’era di ferro. Ciascuna parte; della detta statua, fuor che l’oro; lo quale non era fesso, è rotta; cioè fessa, D’una fessura che lagrime goccia; cioè gitta continuamente lagrime, Le quali; cioè lagrime, accolte; insieme, foran quella grotta; del monte Ida. Lor corso; cioè delle dette lagrime, in questa valle; cioè dell’inferno, ov’erano allora Dante e Virgilio, si diroccia; cioè si discende correndo a modo di uno fiume: Fanno Acheronte; queste lagrime così correndo, fanno Acheronte fiume infernale, del quale è stato detto di sopra, Stigie; palude infernale del quale ancor fu detto, e Flegetonta; fiume infernale del quale ancor fu detto: Poi sen va giù; al fondo dell’inferno, per questa stretta doccia; cioè per questo stretto rigagnolo, al quale erano pervenuti, come detto è di sopra, Infin là, dove più non si dismonta; cioè infino al centro della terra: Fanno Cocito; queste lagrime fanno Cocito fiume infernale nel fondo dell’inferno, e qual sia quello stagno; cioè Cocito, Tu il ti vedrai; cioè tu Dante, però qui non si conta; cioè però non tel dico qui; e qui finisce la fizione dell’autore. Ora è da vedere quel che l’autore intese per questa statua; e per questo l’autor 65 dell’umana spezie, dal principio della sua creazione, infino alla durazion sua, che fu dalla creazion del mondo e durerà quanto piacerà a Dio che duri il mondo, lo quale tanto è che fu fatto che bene è vecchio, durato già VIMD 66 anni; e ben si conviene questa forma. E perchè il processo dall’umana 67 spezie nel mondo, secondo li poeti à avuto quattro stati, che l’uno è significato; cioè lo primo, per la testa dell’oro quando fu l’età aurea, della quale parla Ovidio, Metamorfoseos, che fu sotto Saturno, come l’autor n’à fatto menzione; e perchè fu re di Creta, però finge l’autor che fosse in 68 Ida: imperò che in Creta fingono li autori che li uomini fossono diritti e buoni, e che fossono sotto Saturno, in istato d’innocenzia; ma questo non si verifica se non in Adam et Eva, e tanto quanto stettono nel paradiso de’ diletti che fu poche ore. E per mostrare questo sotto fizione, finge l’autore che 69 il capo solo fosse d’oro: imperò che come lo capo è principio dell’uomo; così li primi parenti furono principio dell’umana generazione, e questi furono innocenti mentre che stettono in paradiso; e però finge l’autore che l’oro non sia rotto. Finge ancora l’autore che questa statua sia nel monte d’Ida di Creta, perchè l’isola di Creta secondo che dice Virgilio nel iii è in mezzo del mar mediterraneo, e però si può dire nel mezzo delle tre parti abitabili; cioè Asia, Europa et Africa. Onde volendo dimostrare lo processo dell’umana spezie secondo le sue mutazioni e secondo li suoi reggimenti, degna cosa fu che quello che finge che rappresentasse questo, fosse nel mezzo delle tre parti abitabili, sicchè dal mezzo finga nascere i fiumi infernali, finti per punire qualunque uomo di qualunque parte del mondo fosse vizioso; e per lo petto e per le braccia che finge che fossono d’ariento si significa la seconda età, che fu sotto Giove figliuolo di Saturno, re di Creta ancora; e perchè sotto lo reggimento di Giove cominciarono a lasciare la perfezione delle virtù e la dirittura, e fu l’età in gran parte nocente, però finge l’autore che fosse d’ariento e fosse rotta, e fosse maggior parte che la prima che era pur lo capo, perchè durò poco, come detto è, e questa 70 le braccia e il petto perchè durò più assai; e per la terza parte ch’era di rame infino al fesso, significa la terza età che fu piggiore che la seconda, e perchè durò più che la seconda, finge che tenga maggior parte che la seconda; e per le gambe che dal fesso in giù erano di ferro si significa la quarta età che fu pessima, come dice Ovidio nel predetto libro; e perchè questa dee durare infino alla consumazione del secolo, però finge che in questa finisca questa statua. Aggiugne l’autore che avea il piè ritto di terra e il manco di ferro, a significare che il mondo si reggea in due governi; l’uno era spirituale e questo significa il piè ritto ch’era pur di terra cotta: imperò che tale reggimento si solea fare con clemenzia et umanitade; e l’altro reggimento era corporale 71, e faceasi con la spada della giustizia; e però finge che fosse di ferro. Lo spirituale era de’ sacerdoti, e lo temporale delli re e dei principi e delli imperadori; e perchè dice che sta più ritto in sul piè della terra che in su quello del ferro, significa che più diritto era lo reggimento spirituale che il temporale, o che più tempo dovea durare che, come noi veggiamo, lo imperio è già annullato, sì che non à se non lo titolo. E in quanto dice che volgea le spalle a Damiata e Roma ragguardava come suo specchio, significa che il mondo che solea ragguardare Babilonia sì come quella ov’era lo reggimento spirituale e temporale, ragguardava Roma ov’era traslatato lo reggimento spirituale e temporale: imperò che, come dice santo Agostino nel libro xviii De Civitate Dei, due regni sono stati nel mondo più famosi che tutti li altri; lo primo quello delli Assiri; lo secondo quello de’ Romani. Lo regno delli Assiri innanzi quello de’ Romani, poi nella fine del regno delli Assiri incominciò quello de’ Romani: tutti li altri regni sono dipendenti da questi due; et aggiugne oltra questo di sotto, perciò aviamo ricordato li re delli Assiri, a ciò che appaia come Babilonia, quasi prima Roma co la 72 peregrina in questo mondo città di Dio corra, et essa Roma è seconda Babilonia; e per mostrar questo, credo che il nostro autore facesse questa notabile fizione. Aggiugne che per la fessura gittava 73 lagrime, a significare la pena che à ingenerato la nocenzia e la colpa; e che forino lo monte e faccino quattro fiumi, a significare che la colpa è fatta cagione della pena che si dà ai peccatori in purgatorio et alli dannati nell’inferno, la quale si divide in quattro fiumi perchè la colpa o è remissibile, o irremissibile. Se è remissibile convienlisi la pena a tempo, e questo significa Lete, lo quale finse l’autore nella seconda cantica, che venga d’una medesima fonte con un altro fiume che si chiama Eunoe, che l’uno s’interpetra, cioè Lete, dimenticagione perchè si dimentica per la pena, che elli sostiene per debito di giustizia, la colpa; e l’altro, cioè Eunoe, s’interpetra ricordamento di bene: imperò che come si dimentica la colpa, così si raccorda lo merito; e di questi due fiumi si tratta nella seconda cantica. Se la colpa è irremissibile, o ella è irremissibile a tempo; cioè mentre che si sta nel peccato, o ella è irremissibile in eterno; cioè quando si muore nel peccato sanza finale et ultima penitenzia: e questa tal colpa à quattro fiumi; cioè quattro pene le quale 74 sono significate per quattro fiumi; cioè Acheron che è interpretato sanza allegrezza; e questo si verifica nel mondo: imperò che mentre ch’elli sta in peccato mortale, l’uomo è sanza allegrezza: imperò che mala coscienzia 75 non può essere allegra; e verificasi nell’inferno perchè tutte l’anime passano quel fiume, e dentro a quello, com’ à detto l’autore, stanno li dannati solo per lo peccato originale, che non ànno altra pena se non che sono sanza allegrezza, perchè sono sanza la visione di Dio. E poi Stige che è interpetrato tristizia; e questo si verifica nel mondo: imperò che come è in peccato mortale, non solamente è sanza allegrezza; ma sta in continua tristizia d’animo mentre che sta nel peccato; e verificasi nell’inferno: imperò che l’autore à finto che in Stige si punisce 76 tra invidia et accidia in quanto sono stati per incontinenzia, li quali sono peccati 77 spirituali e sono sempre tristizia dell’animo. E poi è Flegetonte, ch’è interpetrato tutto ardente o tutto infiammante; e questo si verifica nel mondo: imperò che l’uomo che è in peccato d’ira, o di superbia, o di lussuria per malizia e bestialide, che si chiama violenzia, è in continua arsione d’animo e di corpo; e verificasi nell’inferno, come appare dall’ottavo canto in qua, et ancora nelli tre che seguiteranno. E poi è Cocito che è interpretato lagrime, o vero pianto: e questo si verifica nel mondo: imperò che chi è fraudolente 78 in alcuno peccato mortale sempre piange e lamentasi, o quando li suoi inganni non ànno l’effetto che vorrebbe, o quando tornano in lui, o veramente che la coscienzia sempre lo rimorde; e verificasi nell’inferno, come si mosterrà dal xviii canto in giù inclusive.
C. XIV — v. 121-129. In questi tre ternari l’autor finge come mosse uno dubbio 79 a Virgilio; cioè del fiumicello al quale pervennono e come Virgilio lo solve, dicendo così: Et io; cioè Dante dissi, s’intende, a lui; cioè a Virgilio: Se il presente rigagno; cioè fiumicello, del quale fu detto di sopra, Si deriva così del nostro mondo; come tu dici, Perchè ci appar pur da questo vivagno; cioè a questo letto del fiume e non altrove: con ciò sia cosa che per tutto l’inferno si dovrebbon trovare: con ciò sia cosa che in ogni luogo sia pena di peccati? Et elli; cioè Virgilio, disse, s’intende, a me; cioè Dante: Tu sai, che il luogo; cioè dell’inferno, è tondo; come dimostrato è di sopra; E tutto che; cioè benchè, tu sia venuto molto Pur a sinistra; cioè in verso mano manca; e questo finge moralmente: imperò che non si può scendere nell’inferno, se non si va a man sinistra; cioè per la via de’ vizi significata per la sinistra, come la via delle virtù significata per la destra, giù calando al fondo; questo è verisimile secondo la lettera; ma secondo moralità si verifica intanto, che Dante trattando de’ peccati à incominciato da’ meno gravi et è sempre disceso ai più gravi di grado in grado, Non se’ ancor per tutto il cerchio volto; cioè non ài ancor compiuto di dar la volta intorno; Per che, se cosa n’apparisse nova; come è questa di questo fiume, Non dee addur maraviglia al tuo volto; cioè al tuo aspetto 80, quasi dica: Non te ne debbi maravigliare: imperò che il fiume discende diritto, e cagiona e deriva da sè tutti li altri, come è detto, infino al centro della terra, ove congiela e fa Cocito, ove è Lucifero e in lui finisce; e così solve lo dubbio di Dante.
C. XIV — v. 130-138. In questi tre ternari finge l’autor come elli mosse una quistione a Virgilio, e come Virgilio gliele 81 solvette, dicendo così: Et io; cioè Dante, ancor; dissi: Maestro; cioè Virgilio, ove si trova Flegetonta e Lete; questi sono due fiumi, de’ quali è fatto menzione di sopra, che dell’un; cioè di Lete, taci; cioè non ne parli: imperò che di Lete non n’è fatta menzione nel testo, e questo dice perchè Virgilio nel sesto dell’Eneida pone Lete nelli campi Elisi, E l’altro; cioè Flegetonte, dì che si fa d’esta piova; cioè Flegetonte, e questo dice perchè di sopra Virgilio nominò questo fiume con li altri; ma non Lete; e perchè di sopra nel testo sono stati nominati questi tre fiumi; Acheron, Stige e Cocito e non Flegeton, però ne domanda. Seguita la risposta di Virgilio a queste due domande, dicendo: In tutte tue question certo mi piaci; tu Dante, Rispose; cioè Virgilio; ma il bollor dell’acqua rossa; cioè della fossa dei tiranni passata di sopra, Dovea ben solver l’una che tu faci; cioè l’una questione di Flegetonte: imperò che quella fossa è Flegetonte. Lete vedrai; tu Dante; ma non in questa fossa; dell’inferno: imperò che finge nella seconda cantica che sia uno fiumicello all’entrata del paradiso terrestre, ch’esce d’una fonte con un’altro che si chiama Eunoe, sicchè quel che descende dall’una parte si chiama Lete; cioè di verso mano sinistra, e quel che descende dall’altra parte; cioè da man destra, si chiama Eunoe, Là dove vanno l’anime a lavarsi; cioè del purgatorio, Quando la colpa pentuta è rimossa; cioè quando sono purgate nelle pene del purgatorio: imperò che allora sono dimenticate tutte le colpe, e rimangono l’anime monde.
C. XIV — v. 139-142. In questo ternario et uno verso pone l’autor come Virgilio lo conforta al processo, dicendo: Poi disse; cioè Virgilio a me Dante: Omai; cioè oggimai 82, è tempo da scostarsi Dal bosco; al quale aveano ristritte le loro pedate in fino ivi, per non entrare nella rena calda, fa che di rietro a me; Virgilio, vegne; tu Dante: Li margini; cioè le sponde del fiumicello, del quale fu detto di sopra, fan via; cioè danno via a noi da poter trapassare questo terzo girone, che non sono arsi; cioè imperò che non sono arsi come la rena, come fu detto di sopra, E sopra loro; cioè sopra li margini, ogni vapor si spegne; come detto fu di sopra, e fu sposto moralmente. Qui finisce lo xiiii canto.
Note
- ↑ C. M. contristo raunai
- ↑ C. M. per l’addimandare e ’lmentare partimmoci - Il nostro Cod. legge - per lo mentarsi - che ci è parso da emendare. E.
- ↑ Randa vale estremità, margine, orlo; e a randa a randa, accosto accosto, rasente rasente. E.
- ↑ C. M. lo passo della riva
- ↑ La particella negativa è talora anche no, la quale non dispiacque neppure a quel puro scrittore che fu Iacopo Passavanti — Specchio di Penitenza «dell’Umiltà negli atti di fuori no sta la vera virtù». E.
- ↑ C. M. giacea riverta in su la rena,
- ↑ C. M. le scalcasse, acciò
- ↑ C. M. dal suo letto; dal suo spazio, ogni pianta
- ↑ C. M. potevamo — Anche la desinenza in avamo fu talora presso i Classici per la solita uniformità alla prima coniugazione. E.
- ↑ C. M. lo spazio
- ↑ C. M. decapitato
- ↑ C. M. Barbaria et ebbe
- ↑ C. M. si chiamò
- ↑ C. M. cioè riverta;
- ↑ C. M. grossa e petrucolosa; ma quella
- ↑ C. M. rompe e viene più
- ↑ C. M. vegnano per
- ↑ C. M. biastimando
- ↑ C. M. dissoluta e questi peccati sono peccati di dissoluzione,
- ↑ C. M. tali peccatori in questa vita sono infami e sono noti
- ↑ Altrimenti - giaceano
- ↑ 22,0 22,1 22,2 C. M. siedeno
- ↑ C. M. dell’anime; che
- ↑ Nel nostro Codice era nel che si è mutato con la scorta del Magliabechiano. E.
- ↑ C. M. unde dimanda di lui a Virgilio,
- ↑ C. M. alcun operante bene;
- ↑ C. M. che venia di sopra,
- ↑ C. M. biastima
- ↑ C. M. di curarmene,
- ↑ C. M. due faule,
- ↑ C. M. virginità, lo rifiutò; ma convenneli consentire con questo patto, che s’elli la potesse isforzare, fusse sua donna; onde quando se li volse accostare, combattette con lui;
- ↑ C. M. Mitologia ec.
- ↑ C. M. in Flegra facendo loro rauno e deliberazione
- ↑ C. M. s’apparecchionno a difendere,
- ↑ C. M. che l’ostinazione;
- ↑ C. M. Tebe,
- ↑ C. M. Dopo l’eccecazione
- ↑ C. M. sotto uno tettarello che era
- ↑ C. M. e similmente cognosciuti
- ↑ C. M. Tideo, Ipomone, Laumedonta, Capaneo,
- ↑ C. M. ancora avale
- ↑ C. M. in disdegno; cioè in dispregio, e poco
- ↑ C. M. una dubitazione
- ↑ C. M. ma stringeti in ver
- ↑ C. M. quello, quale è lo bulicame da Viterbo, che va per le case
- ↑ C. M. Et udito tutto questo, Dante diventato affettuoso
- ↑ Nollo; non lo, come per una certa liscezza di favella pronunzia tuttora il popolo toscano. Così avviene di nolla, nolli, nolle per non la ec. E.
- ↑ C. M. calando
- ↑ C. M. In giù mai è
- ↑ C. M. da fugire le tentazioni di sì fatti peccati, quali quine si puniano; cioè
- ↑ C. M. uno capo riccio; cioè
- ↑ C. M. che a Viterbo
- ↑ C. M. solliare, cioè lo sollio della quale a nessuno si nega, perchè
- ↑ C. M. manifesti, se non a chi Dio li fa manifesti per grazia
- ↑ Spegna, da spegnare, per l’usata riduzione de’ verbi ad una coniugazione sola. E.
- ↑ C. M. è ch’l fiume
- ↑ C. M. Cibele, Berecintia et Ops,
- ↑ C. M. cuna è lo ieculo, in che
- ↑ C. M. dall’oraculo che quella dovea parturire uno filliuolo, che il dovea
- ↑ Altrimenti - li autori
- ↑ C. M. li scudi con li bastoni
- ↑ C. M. Drento dal monte; cioè Ida, del quale è ditto. sta
- ↑ C. M. ogni cosa insegnata
- ↑ C. M. in capo
- ↑ C. M. l’autore volse allegoricamente intendere lo processo dell’umana
- ↑ C. M. già sei mila cinque cento anni;
- ↑ C. M. dell’umana
- ↑ C. M. in India:
- ↑ C. M. che per lo capo fusse d’oro:
- ↑ C. M. e questa è le braccia
- ↑ Altrimenti - temporale,
- ↑ C. M. con la peregrina
- ↑ C. M. gocciano lagrime,
- ↑ C. M. le quali
- ↑ Altrimenti - mai la coscienzia non può
- ↑ C. M. si punisce ira, invidia
- ↑ C. M. peccati speziali e sono
- ↑ C. M. frodolento
- ↑ C. M. mosse dubitazione a
- ↑ C. M. al tuo rispetto,
- ↑ C. M. gliela
- ↑ C. M. cioè in giù mai,