Commedia (Buti)/Inferno/Canto XIII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto tredicesimo
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C A N T O XIII.
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1Non era ancor di là Nesso arrivato,
Quando noi ci mettemmo per un bosco,
Che da nessun sentiero era segnato.
4Non fronde verdi, ma di color fosco;
Non rami schietti, ma nodosi e involti;
Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.
7Non àn sì aspri sterpi, nè sì folti
Quelle fiere selvaggie, che in odio ànno
Tra Cecina e Corneto i luoghi colti.
10Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
Che cacciar delle Strofade i Troiani,
Con tristo annunzio di futuro danno.
13Ale ànno late, e colli e visi umani,
Piè con artigli, e pennuto il gran ventre
Fanno lamenti in su li arbori strani.1
16E il buon Maestro: Prima che più entre,
Sappi, che se’ nel secondo girone,
Incominciò a dire, e sarai, mentre2
19Che tu verrai nell’orribil sabbione,
Però riguarda bene, e sì vedrai3
Cose, che torrien fede al mio sermone.4
22Io sentia trarre da ogni parte guai,5
E non vedea persona, che il facesse:
Per ch’io tutto smarrito m’arrestai.
25Io credo, ch’ei credette, ch’io credesse,6
Che tante voci uscisser tra que’ bronchi
Da gente, che per noi si nascondesse.
28Però, disse il Maestro, se tu tronchi
Qualche fraschetta d’una d’este piante,
Li pensier ch’ài si faran tutti monchi.
31Allor pors’io la mano un poco avante,
E colsi un ramiscello da un gran pruno,7
E il tronco suo gridò: Perchè mi schiante?8
34Da che fatto fu pien di sangue bruno,9
Ricominciò a gridar: Perchè mi sterpi?10
Non ài tu spirto di pietade alcuno?
37Uomini fummo, et or siam fatti sterpi:
Ben dovrebb’esser la tua man più pia,
Se state fossimo anime di serpi.11
40Come d’un stizzo verde, ch’arso sia
Dall’un de’ capi, che dall’altro gieme,12
E cigola per vento che va via;
43Sì della scheggia rotta uscia insieme
Parole e sangue; onde io lasciai la cima
Cadere, e stetti come l’uom che teme.13
46S’elli avesse potuto creder prima,
Rispose il Savio mio, anima lesa,
Ciò ch’à veduto pur con la mia rima,
49Non averebbe in te la man distesa;
Ma la cosa incredibile mi fece
Indurlo ad opra, che a me stesso pesa.
52Ma dilli chi tu fosti, sì che in vece
D’alcuna ammenda, tua fama rinfreschi
Nel mondo su, dove tornar li lece.
55E il tronco: Sì col dolce dir mi adeschi,14
Ch’io non posso tacere; e voi non gravi,
Perch’io un poco a ragionar m’inveschi.
58Io son colui, che tenni ambo le chiavi
Del cor di Federigo, e sì le volsi,
Serrando e disserrando, sì soavi,
61Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi:
Fede portai al glorioso offizio,
Tanto ch’io ne perdei le vene e i polsi.
64La meretrice, che mai dall’ospizio
Di Cesare non torse li occhi putti,
Morte comune, e delle corti vizio,15
67Infiammò contra me li animi tutti,
E l’infiammati infiammar sì Augusto,
Che i lieti onor tornaro in tristi lutti.
70L’animo mio per disdegnoso gusto,
Credendo col morir fuggir disdegno,
Ingiusto fece me contra me giusto.
73Per le nuove radici d’esto legno
Vi giuro, che giammai non ruppi fede
Al mio Signor, che fu d’onor sì degno:16
76E se di voi alcun nel mondo riede,
Conforti la memoria mia, che giace
Ancor del colpo che invidia le diede.
79Un poco attese, e poi: Da ch’el si tace,
Disse il Poeta a me, non perder l’ora;
Ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace.
82Ond’io a lui: Domandal tu ancora17
Di quel che credi, che a me satisfaccia,18
Ch’io non potrei: tanta pietà m’accora.
85Perciò ricominciò: Se l’uom ti faccia
Liberamente ciò che il tuo dir prega,
Spirito incarcerato, ancor ti piaccia
88Di dirne come l’anima si lega
In questi nocchi; e dimme19, se tu puoi,
S’alcuna mai da tai membra dispiega.20
91Allor soffiò lo tronco forte, e poi
Si convertì quel vento in cotal voce:
Brevemente sarà risposto a voi.
94Quando si parte l’anima feroce
Dal corpo, ond’ella stessa s’è divelta,21
Minos la manda alla settima foce.
97Cade in la selva, e non gli è parte scelta;
Ma là dove fortuna la balestra:
Quivi germuglia, come gran di spelta.
100Surge in vermena, et in pianta silvestra:
Le Arpie, pascendo poi delle sue foglie,
Fanno dolore, et al dolor finestra.
103Come l’altre, verrem per nostre spoglie;
Ma non però ch’alcuna sen rivesta:
Che non è giusto aver ciò, ch’om si toglie.
106Qui le strascineremo, e per la mesta
Selva seranno i nostri corpi appesi,
Ciascun al prun dell’ombra sua molesta.
109Noi eravamo ancora al tronco attesi,
Credendo ch’altro ne volesse dire,
Quando noi fummo d’un romor sorpresi;
112Similemente a colui, che venire
Sente il porco e la caccia alla sua posta,
Ch’ode le bestie e le frasche stormire.22
115Et ecco due della sinistra costa23
Nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
Che della selva rompeano ogni rosta.
118Quel dinanzi: Or accorri, accorri, Morte;
E l’altro, a cui pareva tardar troppo,
Gridava: Lano, sì non furo accorte24
121Le gambe tue alle giostre dal Toppo.25
E poi che forse li fallia la lena,
Di sè e d’un cespuglio fece un groppo.
124Diretro a loro era la selva piena
Di nere cagne bramose e correnti,
Come veltri che uscisser di catena.
127In quel, che s’appiattò, miser li denti,
E quel dilaceraro a brano a brano,26
Poi sen portar quelle membra dolenti.
130Presemi allor la mia scorta per mano,
E menommi al cespuglio, che piangea,
Per le rotture sanguinenti, invano.
133O Giacomo, dicea, da Sant’Andrea,27
Che t’è giovato di me fare schermo?
Che colpa ò io della tua vita rea?
136Quando il Maestro fu sovr’esso fermo,
Disse: Chi fosti, che per tante punte28
Soffi con sangue doloroso sermo?
139E quelli a noi: O anime, che giunte
Siete a veder lo strazio disonesto,
Che à le mie fronde sì da me disgiunte,
142Raccoglietele a piè del tristo cesto:
Io fui della città, che nel Battista
Mutò il primo padrone; ond’ei per questo
145Sempre con l’arte sua la farà trista:
E se non fosse, che in sul passo d’Arno
Rimane ancor di lui alcuna vista,
148Quei cittadin, che poi la rifondarno
Sopra il cener, che d’Attila rimase,
Avrebber fatto lavorare indarno.
151Io fe’ giubetto a me delle mie case.29
- ↑ v. 15. C. M. i lamenti in su quelli arbori strani.
- ↑ v. 18. C. M. M’incominciò
- ↑ v. 20. e lì vedrai
- ↑ v. 21. Torrien; torrebbero, terminazione derivata dalla terza persona singolare torrie. Torrie è la stessa che torria; cangiato in e l’a finale, perchè somigliasse alla cadenza degli altri tempi. E.
- ↑ v. 22. C. M. Io sentia d’ogni parte traer guai,
- ↑ v. 25. credesse. In antico finivano in e le due prime persone singolari dell’imperfetto nel congiuntivo, siccome tuttavia profferisce il popolo toscano. E.
- ↑ v. 32. C. M. E tolsi un ramuscello
- ↑ v. 33. C. M. E il broncon suo
- ↑ v. 34. C. M. fu fatto poi di sangue
- ↑ v. 35. C. M. mi scerpi?
- ↑ v. 39. C. M. Se stati fussemo
- ↑ v. 41. C. M. dall’altro geme,
- ↑ v. 45. C. M. Come om che teme.
- ↑ v. 55. C. M. E il troncon: Sì con dolce dir
- ↑ v. 66. C. M. è delle corti
- ↑ v. 75. C. M. fu d’amor
- ↑ v. 82. C. M. Dimanda tu
- ↑ v. 83. C. M. sodisfaccia,
- ↑ v. 89. dimme. Gli antichi talora in luogo della particella pronominale incorporavano al verbo il nome personale. Ciullo d’Alcamo disse avereme per averemi o avermi. E. — C. M. dinne,
- ↑ v. 90. C. M. S’alcuna poi di tal membra si spiega,
- ↑ v. 95. G. M. essa stessa si disvelta,
- ↑ v. 114. C. M. le frasche fremire.
- ↑ v. 115. C. M. dalla sinistra costa
- ↑ v. 120. C. M. Lano, non sì furo accorte
- ↑ v. 121. C. M. del Toppo.
- ↑ v. 128. C. M. dilacerato
- ↑ v. 133. C. M. O Iacopo,
- ↑ v. 137. C. M. Chi fusti,
- ↑ v. 151. giubbetto
C O M M E N T O
Non era ancor di là ec. Questo è lo tredicesimo canto, nel quale l’autor pone del secondo girone del vii cerchio, nel quale si puniscono li violenti contra sè medesimo e le lor cose; e dividesi principalmente in due parti, perchè prima pone come entrarono nel secondo girone e come sono puniti li violenti contra sè medesimo; nella seconda, come sono puniti coloro che sono violenti contra le loro cose, qui: Un poco attese, ec. La prima si divide in sei parti perchè prima pone come entra nel secondo girone, e quel che vi truova; nella seconda, come in quello luogo trovò l’Arpie, qui: Quivi le brutte Arpie ec.; nella terza, come Virgilio l’ammonisce del luogo e confortalo che ne pigli esperienzia, qui: E il buon Maestro ec.; nella quarta pone com’elli fece secondo lo conforto di Virgilio, qui: Allor pors’io ec.; nella quinta pone come Virgilio scusa Dante, qui: S’elli avesse ec.; nella sesta pone come lo addomandato satisfa alla domanda, qui: E il tronco: Sì col dolce ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale, la quale seguita così:
Poi ch’ebbono passata la fossa del sangue bogliente sotto il guidamento di Nesso centauro, e Nesso si fu ritornato addietro, Virgilio e Dante entrarono nel secondo girone, ove si puniscono li violenti contra sè e contro le sue cose. Et entrati per un bosco che non avea nessuno sentier, et era pieno di pruni con foglie nere, con rami nodosi et involti, e per frutti aveano stecchi pieni di tosco; cioè pungiglioni pieni di sangue nero come tosco, e questi erano così aspri che non sono sì aspri Cecina 1 e Corneto nella maremma di Siena e di Pisa infino a Corneto; e quelli pruni erano nidio all’Arpie che cacciarono i Troiani dell’isole Strofade, Virgilio ammonisce Dante che tronchi uno di quelli sterpi e sarà certo di quello che dubita, ammonitolo ch’elli era giunto nel secondo girone e sarebbe infino che venisse alla rena calda, ove sarebbe il terzo girone; e del troncare l’ammonì, perchè Dante udiva trarre guai, e non vedea da cui. Allora Dante stese la mano e prese uno ramuscello d’una gran pianta, e il tronco gridò: Perchè mi schianti? E diventato tutto sanguinoso ricominciò a gridare: Perchè mi sterpi? non ài tu alcuno spirito di pietade? Sappi che noi fummo uomini et or siamo diventati sterpi: se noi fossimo stati anime di serpi, dovresti aver di noi 2 pietà; e così dice che gocciolava il sangue del capo del troncone, come fa di uno legno verde, quando arde l’uno capo nel fuoco e gieme dall’altro, e fischia per la vaporosità che n’esce; onde Dante vedendo questo, lasciò cadere la
cima in terra e stette come chi teme. Allora Virgilio rispose per Dante, dicendo: O anima offesa, s’elli avesse potuto credere alle mie parole quello ch’elli à veduto, non t’averebbe troncato; ma la mia credulità 3 mel fece inducere a cosa che ora mi pesa; ma dilli chi tu fosti sì, che per menda dell’offesa ti rinnovelli la fama suso nel mondo ove gli è licito di ritornare. Allora lo troncone rispose: Tu m’adeschi sì col dolce parlare, che io non posso tacere et a voi non sia grave, per ch’io duri nel parlare; e manifesta com’elli era Piero delle 4 Vigne che fu cancellier dello imperador Federico secondo e suo segretario tanto grato, ch’ogni altro segretario rimosse da lui, e fu tanto fedele all’uficio, ch’elli ne perdè la vita: imperò che li altrui cortigiani per invidia lo infamarono allo imperadore, sicchè
venne in disgrazia di lui e fecelo abbacinare. Ond’elli sdegnato perchè non avea commessa colpa, per fuggire sdegno s’uccise, e con giuramento afferma che mai non ruppe fede al suo signore; e priega che se alcun di loro torna nel mondo che rischiari 5 la fama sua, che era macchiata per lo falso apposto a lui; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere lo testo con l’esposizioni morali o vero allegoriche.
C. XIII — v. 1-9. In questi tre ternari l’autor nostro finge come usciti della fossa entrarono nel secondo girone, ove si puniscono li violenti contra sè medesimo e descrive com’era fatto, dicendo: Non era ancor di là; cioè dalla fossa. Nota qui che di là dovea dire l’autore per rispetto del cammino che finge che facesse, e del luogo ov’elli finge che fosse; ma di qua dovrebbe dire, avendo rispetto quand’elli scrisse questo ch’era tornato nel mondo. Nesso; cioè lo Centauro che ci avea guidato, arrivato; per ritornare a’ suoi, Quando noi; cioè Virgilio et io Dante, ci mettemmo per un bosco; ove si puniano li violenti contra sè e le sue cose, Che da nessun sentiero era segnato; cioè non avea alcuno segno di via. Non fronde verdi; v’erano come sogliono essere nelli boschi, ma di color fosco; cioè nero, Non rami schietti; cioè stesi, delicati e diritti, ma nodosi e involti; questo dichiara quello, perchè intese 6 per quello schietti; Non pomi v’eran; in su quelli rami, ma stecchi con tosco; cioè pieni di sangue nero come tosco 7: Non àn sì aspri sterpi, nè sì folti. Qui fa l’autor una comparazione che nella maremma che è tra Pisa e Corneto non sono sì aspri boschi, nè sì folti là ovunque sono più fondati, com’era quello: sterpi sono pruni et altri piccoli arbuscelli i quali sono molto folti et involti insieme nella detta maremma, che si chiamano macchie. Quelle fiere selvaggie; per loro abitazione s’intende: imperò che le fiere salvatiche stanno volentieri nelle macchie, e però dice: che; cioè le quali, in odio ànno Tra Cecina; questo è un fiume ove comincia la maremma di Pisa, di là da una terra che si chiama Vada, e Corneto; questo è uno castello del patrimonio di Roma, i luoghi colti; cioè lavorati, perchè le fiere salvatiche desiderano li boschi e le macchie fondate, ove non possano essere vedute e cacciate; e non li luoghi colti e lavorati, ove sarebbono tosto prese. Questa parte è quanto alla lettera, ora vedere doviamo l’allegorico intelletto; e doviamo sapere che l’autore sempre fa la lettera verisimile quanto può, e però finge che quel bosco fosse sanza via; questo è verisimile: imperò che i boschi folti sono sanza via; ma per questo vuol dimostrare quanto è pericoloso il peccato della desperazione: imperò che ad esso non ci mena alcuna via; ma furore: alli altri peccati ci mena qualche via, e di carne e di disordinato amore; ancora chi vi cade non à via, nè modo di ritornare. E ben finge l’autore che sia bosco: però che tali peccatori sono simili alle fiere salvatiche, e peggio: chè almeno le fiere perdonano a sè medesimo e costoro no. E come le fiere stanno ne’ boschi; così costoro, per feritade e crudeltà d’animo; e questo si vede manifestamente di quelli del mondo, e convenientemente si può attribuire questa abitazione alli dannati e morti in sì fatto peccato, e massimamente, fingendo che sia contrario quel bosco a quelli del mondo: imperò che quelli del mondo ànno arbori stesi e delicati e grandi, e fronde verdi e qualche frutto; e questo è descritto contrario, com’appare nel testo. E notantemente finge l’autore che il frutto sia sangue nero, come tosco: imperò che di tal peccato lo fine è spargimento di sangue, come si dimostrerà di sotto chiaramente.
C. XIII — v. 10-15. In questi due ternari l’autor nostro finge che in questo bosco, ove finge essere li violenti contra sè medesimi sieno l’Arpie, sì come à finto in ogni luogo essere qualche mostro conveniente al luogo, e che faccian lamento abitando in su quelli arbori, così dicendo: Quivi; cioè in questo bosco, che è lo secondo girone del vii cerchio; cioè in su quelli pruni, le brutte Arpie; questi sono uccelli finti da’ poeti ch’ ànno il volto e il collo a modo d’uomo, l’ale grande e il ventre pennuto et i piedi unghiati, e gittano gran puzza intollerabile, e bruttano ogni cosa e con la bocca, e con lo sterco che è di puzza intollerabile; e fingono li poeti che li dii crucciati mandassono al re Fineo, re di Creta, lo quale accecò li figliuoli perchè accusarono la matrigna d’adulterio, onde li dii indegnati accecarono lui e cavarono l’Arpie della palude Stige e mandaronle a lui, perchè lo tormentassono con la loro rapacità e puzza; ma poi venne Ercole e con le sue saette e’ le cacciò. E chi pone che fosse Zete e Calai figliuoli di Borea e d’Orizia in fine a certe isole che sono in Grecia; e perchè poi tornarono a dietro, quelle isole furono poi chiamate Strofade; cioè conversione, e quivi abitarono poi l’arpie. lor nidi fanno; cioè in quella selva, Che cacciar delle Strofade; cioè di quelle isole così chiamate che sono in Grecia, i Troiani; che vennono con Enea in Italia, Con tristo annunzio; cioè con tristo manifestamento, di futuro danno; cioè di danno che dovea loro venire. In questo segue l’autore Virgilio che finge che quando Enea con li Troiani venne in Italia, navicando per la Grecia pervenne alle isole Strofade e riposatosi in esse e preso del bestiame, posesi co’ suoi Troiani a mangiare, onde vennono l’Arpie, et imbruttarono 8 tutte le mense con lo sterco loro e tolsono la preda che aveano cotta i Troiani; onde Enea si mutò quindi, e posesi in una valle oscura e fece fare 9 a guardia in sul monte uno suo trombettino, sicchè quando le vedesse venire sonasse la tromba e fece stare li compagni armati et accorti, sicchè quando venissono l’Arpie l’uccidessono. E quando vennono perch’elli le ferissono, non faceano loro male, perchè la piuma le difendea: ancora una dell’Arpie, che la chiama Virgilio Celeno, si pose in su una penna del monte e disse a’ Troiani: Voi ci avete tolto 10 il nostro bestiame et aveteci voluto uccidere; ma di questo fia fatto vendetta. Voi andate in Italia e giugneretevi; ma voi non vi allogherete in città che innanzi non aviate tal fame, che vi converrà mangiare le mense. Allora Anchise padre d’Enea raccomandandosi alli idii, comandò a’ compagni che lasciassono l’armi e le mense, e che onorassono quelli uccelli e partissonsi quindi e navicassono al lor viaggio, e così feciono. Ora è da vedere la moralità che intesono i poeti per queste Arpie: però che viene a nostro proposito; et appresso quello che il nostro autore intese. Onde è da sapere che Arpia significa rapina e però ne nominano tre; cioè Aello, Occipete e Celeno, perchè la rapina à tre diversi atti; prima è lo desiderio impetuoso, e questo significa Aello; cioè desiderante; appresso è l’occupazione rapace, e questo significa Occipete; cioè occupante; l’ultima è Celeno che significa occultazione della rapina: imperò che Celeno significa occultazione. Questo figura ancora la loro forma: imperò il grande ventre e l’ale late significano l’avidità; l’unghie significano la rapacità; il volto virgineo e la piuma significano l’appiattamento: nel volto virgineo pare mansuetudine, et elle sono crudelissime. Fingono li poeti che fossono poste a punire lo re Fineo: imperò che niuna è maggior rapina che rapire a sè medesimo la vita o il membro, o al suo figliuolo che è la carne sua medesima; e però Dante pone, o ver finge, ch’elle sieno poste a nidificare et a pascersi in su gli arbori che vestono l’anime de’ disperati, et a fare quivi lamenti, perchè sempre sono rimorsi del male ch’ànno fatto coloro, che si sono disperati e stati violenti in sè medesimo; e però seguita la descrizione di quelli uccelli dicendo: Ale ànno late; cioè ampie queste Arpie, e colli e visi umani; perchè ànno volto virgineo, Piè con artigli; cioè con unghie rapaci; e pennuto il gran ventre; per questo mostra che sieno grandi uccelli; per la penna significa l’appiattamento: questi rapaci si simulano et appiattansi, perch’altri non si guardi da loro: Fanno lamenti in su li arbori strani; cioè lamentansi, stando in su quelli arbori strani da quelli che produce la natura 11.
C. XIII — v 16-30. In questi cinque ternari finge l’autore che Virgilio l’ammonisca del luogo, e come Dante si maraviglia di quello che sentì, e restasi per vedere la cagione, e come Virgilio lo sollicita e conforta che ne pigli esperienzia, dicendo così: E il buon Maestro; cioè Virgilio disse a me Dante: Prima che più entre; cioè in questo secondo girone, Sappi, che se’ nel secondo girone; del settimo cerchio ove si puniscono li violenti contra sè e le sue cose, Incominciò a dire; cioè Virgilio a me Dante, e sarai, mentre Che tu verrai nell’orribil sabbione; cioè nella rena calda che è nel terzo girone, ove si puniscono li violenti contra Dio, come si dirà di sotto, quando saremo a quella parte, Però riguarda bene; tu Dante, e sì vedrai Cose, che torrien fede al mio sermone; cioè se io tel dicessi, nol crederesti. Io; cioè Dante, sentia trarre da ogni parte guai; cioè lamenti. E non vedea persona, che il facesse; cioè non vedea chi facesse questi lamenti: Per ch’io tutto smarrito m’arrestai; per veder chi facesse questi lamenti. Io; Dante, credo, ch’ei; cioè Virgilio, credette, ch’io; Dante, credesse, Che tante voci uscisser tra que’ bronchi; cioè sterpi, de’ quali è detto di sopra, Da gente, che per noi si nascondesse; cioè non si vedesse da noi. Però, disse il Maestro; cioè Virgilio, se tu tronchi; cioè tu Dante, Qualche fraschetta d’una d’este piante; cioè di questi pruni, Li pensier ch’ài si faran tutti monchi; cioè si scemeranno, perchè sarai certificato; ma non dice che si tolgano al tutto. E perchè questa fizione è cosa intellettuale e non sensibile, però finge l’autore che Virgilio l’ammonisca del luogo, e confortalo che ne pigli esperienza; et ancor perchè Virgilio nel terzo dell’Eneida fa simile fizione, come si mosterrà di sotto, però finge l’autore che Virgilio di ciò l’ammonisca.
C. XIII — v. 31-45. In questi cinque ternari finge Dante che, seguendo seguendo il conforto di Virgilio, prese esperienza di quel che dubitava aggiugnendovi una bella similitudine, dicendo così: Allor; cioè in quel tempo, pors’io; cioè Dante, la mano un poco avante; cioè stesila E colsi un ramiscello da un gran pruno; cioè di quelli di quel bosco E il tronco suo; onde levai quel ramucello 12, gridò: Perchè mi schiante? Da che fatto fu pien di sangue bruno; cioè poi che fu insanguinato, Ricominciò a gridar; quel troncone: Perchè mi sterpi; cioè mi stracci e schianti? Non ài tu spirto di pietade alcuno; cioè non se’ tu punto pietoso? Uomini fummo; noi che tu vedi ora piante, et or siam fatti sterpi; cioè pruni o ver tronconi d’arbori: Ben dovrebb’esser la tua man più pia; cioè più pietosa, Se state fossimo anime di serpi; non che d’uomini. Come d’un stizzo verde, ch’arso sia. Qui pone l’autore una bella similitudine, dicendo che così uscia il sangue della rottura della fraschetta, come d’uno tizzone verde che sia arso dall’un capo, dall’altro esce acqua et uno sufolare 13 per la ventosità che è ripercossa dal caldo del fuoco; e similmente l’umido che è ripercosso e cacciato dall’altro capo, e però dice: Dall’un de’ capi; perchè ogni scheggia à due capi, e quando si mette l’uno nel fuoco, dall’altro gieme e sufola: quando si mette el mezzo 14 nel fuoco gieme e sufola dall’uno, che dall’altro; cioè Capo, gieme; quello stizzo, E cigola; cioè sufola, per vento che va via; et ecco la cagione del sufolare; Sì della scheggia; ora adatta la similitudine, rotta uscia insieme Parole e sangue; come dello stizzo, acqua e fischio. Sopra questo è da notare la bella moralità che l’autore intese, pigliando qui la fizione di Virgilio, e però à di sopra finto che Virgilio lo faccia accorto del luogo e che lo induca a pigliare esperienza di quelli pruni. Finge Virgilio nel terzo libro della sua Eneida, che Enea dopo la destruzione di Troia venuto in Tracia volle edificare città, per abitare quivi, et andando al bosco per pigliare legne per fare sacrificio alli idii, cavando e strappando 15 mortelle, come si richiedeano a Venere, vide della rottura del virgulto 16 cadere gocciole di sangue, e cavato poi lo secondo vide lo simile, e cavato il terzo udì una voce che disse: Enea, perchè stracci me misero? Perdona a me che sono morto e sono della tua generazione: io sono Polidoro figliuolo del re Priamo. Questo Polidoro essendo il minore de’ figliuoli del re Priamo, vedendo il re andare male i fatti di Troia, già diffidandosi di potersi difendere da’ Greci, mandò al re Polinestore di Tracia, il quale era suo cognato, fratello della reina Ecuba, con molto oro acciò che lo allevasse come figliuolo e mantenesselo, se le cose di Troia andassono male. Presa poi Troia e disfatta dai Greci lo detto re Polinestor e sì per compiacere alli Greci, e sì per avere lo suo tesoro lo fece balestrare a segno, non ostante che fosse suo nipote, e fecelo sotterrare con le saette fitte addosso. Onde finge Virgilio che quelle saette crescessono poi in mortella et in carubbi 17 et altri legni di che si fanno l’astizziuole 18 delle saette; allora Enea si partì quindi, ammonito che non vi dovesse stare. onde io; Dante, lasciai la cima Cadere; giuso, e stetti come l’uom che teme; non dice però che avesse paura; ma più tosto ammirazione. Ora a questa similitudine finge l’autore che uscisse sangue e voce del pruno, e piglia l’autore questa figura che coloro che uccidono sè medesimo e privansi della vita vegetativa umana, per debita punizione abbiano un’altra vita vegetativa nell’inferno, più vile che sia; e però finge che si vestano quell’anime, come dirà ancora di sotto, d’uno pruno, e stiano per divina vendetta a vivificare uno pruno che è vilissimo degli altri arbori, che ànno vita vegetativa, poi che non à patito 19 di vegetare lo corpo umano, acciò che abbiano sempre tormento del peccato ch’ànno fatto. E questa fizione fa l’autore, perchè è verisimile di quelli del mondo: imperò che sì fatti uomini che spargono lo loro sangue, per verisimile si possono dire pruni pungenti e non uomini, essenti aspri come pruni e disutili a sè et ad ognuno. E qui appare lo ingegno dell’autore che seppe così figurare la pena al delitto, che ognuno vede che questo non è secondo la Teologia.
C. XIII — v. 46-54. In questi tre ternari finge l’autore che Virgilio risponde alle parole dette dal troncone, come appare di sopra, et inducelo a manifestarsi, così dicendo: S’elli; cioè Dante, avesse potuto creder prima; che t’avesse toccato, Rispose il Savio mio; cioè Virgilio, anima lesa; cioè, o anima, che se’ stata offesa, pur con la mia rima; cioè con le mie parole, Ciò ch’à veduto; ora, Non averebbe in te la man distesa; a toccarti; Ma la cosa incredibile; incredibile è che del troncone uscisse sangue e parole, mi fece; cioè me Virgilio, Indurlo ad opra; cioè a questo toccare 20, che a me stesso pesa; cioè incresce. Ma dilli chi tu fosti; tu che se’ in questo sterpo, sì che in vece; cioè in luogo, D’alcuna ammenda; dell’offesa 21 ch’è a te fatto, tua fama rinfreschi; cioè rinnovelli, Nel mondo su, dove tornar li lece; cioè li è licito. E questo dice l’autore: però che costui, come apparirà di sotto, ebbe mala fama nel mondo, e continuamente l’autore osserva questo; che coloro ch’ànno avuto mala fama, sono vaghi ch’ella si spenga e ritorni la buona; e se non può tornare la buona, ch’ella si taccia, come appare quando l’autor dice nel canto xxxii del contrario ò io brama. E qui è da notare che l’autor finge che chi non à avuto cura di conservare lo corpo suo umano in vita vegetativa, senta pena della rottura di sì vile corpo, come è uno pruno, poi che a lui è stato vile lo corpo suo umano sì, come d’uno pruno.
C. XIII — v. 55-78. In questi otto ternari l’autore nostro finge come lo troncato manifesta chi elli fu, e come venne e perchè a desperazione, e scusa la sua infamia dicendo così: E il tronco; cioè quello, del quale io avea troncato la fraschetta, rispose alle parole di Virgilio: Sì col dolce dir mi adeschi; cioè m’induci al tuo volere, come l’uccello per l’esca s’induce a fare quel che l’uomo vuol, Ch’io non posso tacere; a voi, e voi non gravi; cioè te Virgilio e Dante, Perch’io un poco a ragionar; cioè con voi, m’inveschi; cioè m’intrighi 22 nel parlar, come fanno comunemente li uomini, quando dell’una novella entrano nell’altra. Io son colui; io di questo troncone sono l’anima di colui, che tenni ambo le chiavi; qui induce lo autore quell’anima a manifestarsi per lo uficio che ebbe, quando fu nel mondo dicendo; ch’è l’anima di colui che tenne amendu’ 23 le chiavi, Del cor di Federigo; secondo imperadore, et intende per amendu’ le chiavi la concessione delle grazie e la negazione, e sì le volsi; queste chiavi, serrando; a chi negava, e disserrando; a chi concedeva, e soggiugne: sì soavi; cioè dolcemente, e questo è secondo alcuni esponitori; ma secondo lo mio vedere, tenere le chiavi del cuore non è se non aver noto quello che altri à nel cuore: e perchè nelli cuori de’ signori sono cose comuni e publiche e cose private e segrete, e queste ultime non si manifestano a’cancellieri, se non le comuni e le publiche, però dice che tenne amendue 24 le chiavi, perchè li furon note tutte le cose del cuore dello imperadore: e come la chiave è fedele guardia che mai non concede se non a chi ell’è conceduta, però aggiugne ch’elli le volse serrando et aprendo; cioè occultando quel ch’era segreto e manifestando quel ch’era da manifestare con debiti modi: e però dice sì soavi, che quasi non avea lo imperadore niuno secretario altri che lui; e però seguita: Che dal segreto suo quasi ogni uom tolsi; cioè tanto li venni in grazia e tanta fede mi dava, che quasi niuno era al suo consiglio segreto se non io, et elli a niuno affidava suo segreto, se non a me; dice quasi, perchè pur ve n’erano; ma pochi: Fede portai al glorioso offizio. Ora si scusa contro quello che li fu apposto; cioè che dovesse revelare 25 li segreti dello imperadore a’ suoi nimici; cioè a papa Innocenzio col quale era in discordia, che sarebbe stata infedeltà, e però contra questo dice che portò fede al glorioso officio; cioè della cancelleria, facendo ogni cosa dirittamente e tenendo fede et occultando li segreti come dovea; et aggiugne: Tanto ch’io ne perdei le vene e i polsi; cioè la vita che sta nel sangue che è nelle vene, e nelli spiriti 26 vitali che sono nell’arterie che si manifestano per li polsi. Questi fu Piero delle Vigne da Capova 27, uomo di comune nazione e grandissimo retorico a suo tempo, come le sue epistole dimostrano, e sommo giurista, cancellier dello imperador Federigo secondo. E fu tanto nella sua grazia ch’elli era lo segreto suo consiglio e niun altro era più nel cospetto dell’imperadore tanto quant’elli, ond’elli facea dello imperadore ciò che volea e com’elli volea, così lo imperadore concedea e negava le grazie sì, ch’elli avea le due chiavi del suo cuore; cioè l’affermativa che apriva lo cuore, e la negativa che lo serrava. O secondo l’altra menzione 28 a lui erano note le cose segrete e palesi, perchè lo imperadore ogni segreto li commettea, et elli le tenea fedelmente quelle ch’erano da tenere, e con onesti modi palesava quel ch’era da palesare, come diritto e leale cancellieri: e però lo imperadore si fidava tanto di lui, che quasi niun altro avea al suo segreto consiglio, se non lui, e per questo li altri baroni dello imperadore lo cominciarono a odiare et averli invidia, et apposonli mostrando con false lettere ch’elli rivelava i segreti dello imperadore a’ suoi nimici; cioè al papa con cui lo imperadore era in guerra. E chi dice che li fu apposto disonestà della imperadrice; ma questo non s’accosta con la sentenzia del testo; onde lo imperadore essendo in Samminiato del Tedesco lo fece mettere in prigione e poi lo fece abbacinare: e forse perchè non li parve degno di morte, non credendo a pieno quello che gli era apposto, e fecelo portare a Pisa in su uno mulo, e quando fu posato a Sant’Andrea in Barattularia domandò ov’elli era, e dettoli ch’era a Pisa, avendo l’animo sdegnoso del falso, che gli era stato apposto; cioè ch’era stato traditore al suo signore rivelando i suoi segreti a’ suoi nimici, percosse tanto lo capo al muro, ch’elli s’uccise. Messer Giovanni Boccacci 29 dice che, stato in Pisa, non ricevendo forse quel merito ch’aspettava da’ Pisani, o per parole che li fossono dette, essendo a San Paolo a ripa d’Arno, domandò uno fanciullo che il guidava ov’elli era: lo fanciullo li manifestò lo luogo e, domandato se era nulla in mezzo tra lui e la chiesa, certificato dal fanciullo che no, mossesi a corsa, come fa uno montone quando vuole cozzare col capo innanzi, e percosse nel muro della chiesa col capo sì gran colpo, che il cervello uscì fuori della testa, e però l’autor finge che sia in questo girone. Ora seguita la fizione dell’autore ch’elli manifesti la sua caduta dalla prosperità in ch’elli era, dicendo: La meretrice; cioè la invidia che mai dall’ospizio; cioè dal palazzo et abitazione, Di Cesare; cioè dello imperadore, non torse li occhi putti; quasi dica: Mai non fu che non fosse portato invidia a chi è grande nella corte dello imperadore; e parla sotto figura, chiamando la invidia meretrice: imperò che come la meretrice si muove per prezzo a compiacere l’uomo; così la invidia nasce del bene altrui, onde si dice: Sola miseria caret invidia-: e come la meretrice guarda l’uomo con li occhi putti per sottraere 30 così lo invidioso ragguarda il bene altrui per sottrarne. Morte comune, e delle corti vizio. Questo dice perchè comunemente in tutte le corti de’ signori è invidia, et è guastamento e corrompimento delle corti, come la morte dell’animale. Infiammò contra me; Piero questa invidia, li animi tutti; de’ cortigiani d’ira et odio contra me, E l’infiammati infiammar sì Augusto; cioè lo imperadore a ira et odio contra me, apponendomi falsità et avverandola con lettere false per sì fatto modo, che il feciono credere allo imperadore, Che i lieti onor; i quali io avea d’essere cancelliere et essere secretario et avere ogni grazia ch’io volea, tornaro in tristi lutti; cioè pianti e miserie: imperò che fu’ imprigionato et abbacinato. L’animo mio per disdegnoso gusto; qui narra la sua morte, dicendo, che l’animo; cioè il suo giudizio della ragione accecato dall’ira mossa, perchè indegnamente avea ricevuta quella pena, e però dice: L’animo mio; mosso, s’intende, a turbazione, per disdegnoso gusto; cioè per la pena assaggiata che non la mertava, o per alcuna parola contumeliosa che udì dire contra sè, come appar di sopra, Credendo col morir fuggir disdegno; cioè quella turbazione e dolore 31 ch’avea preso, vedendosi sostenere pena indegnamente e schernire, Ingiusto fece me contra me giusto; cioè fece me, ch’era giusto et innocente, incrudelire contra me medesimo, ch’era giusto quanto al peccato che mi fu apposto dandomi morte; e per questo diventai ingiusto e meritai di venire a questa pena solamente per la desperazione. Per le nuove radici; qui si scusa Piero dell’infamia che li fu data e della colpa apposta a lui, dicendo con giuramento che non fu vero, e però dice: Vi giuro; a te Virgilio et a te Dante, amendue insieme: imperò ch’elli parlava con Virgilio, et alcuna volta scendea lo sermone a Dante, come appar di sopra, quando dice: E il tronco: Sì col dolce dir mi adeschi, Ch’io non posso tacere; e voi non gravi, ec. Per le nuove radici d’esto legno: cioè di questa pianta, in che io anima sono posta e dice nuove, perchè di poco era morto, Vi giuro, che giammai non ruppi fede. Ecco qui si manifesta lo peccato che li fu apposto; cioè di non essere stato leale al suo signore, e però dice: Al mio Signor, cioè allo imperador Federigo, che fu d’onor sì degno; e questo dice a commendazione dello imperadore 32, e Dante ancora finge che il dica perchè quello imperador Federigo fu virtuosissimo; et aggiugne come elli priega che si scusi la sua infamia, dicendo: E se di voi; cioè di te Dante e di te Virgilio, alcun nel mondo riede; cioè ritorna, Conforti la memoria mia; cioè la fama mia, che giace; cioè che è abbattuta e vituperata, Ancor del colpo che invidia le diede; cioè quelli baroni dell’imperadore mossi da invidia.
Un poco attese; Qui comincia la seconda lezione del canto xiii, ove si tratta di coloro che sono stati violenti contra le loro cose, poi che à trattato di sopra di coloro che sono violenti contra sè medesimo 33; e dividesi questa lezione in cinque parti: imperò che prima pone come 34 si domanda per Virgilio Pier delle Vigne d’alquanti dubbi sopra la materia toccata; nella seconda, come Piero risponde a quelli dubbi, quivi: Allor soffiò ec. nella terza tratta della pena delli violenti contra le lor cose, quivi: Noi eravamo ancora ec.; nella quarta finge come Virgilio lo mena a uno pruno a dichiarare 35 di quel ch’avea veduto, quivi: Presemi allor ec.; nella quinta pone come quel pruno addomandato risponde, quivi: E quelli a noi ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale.
Dice adunque che 36 Piero delle Vigne ebbe manifestato chi elli era per l’officio e per la colpa appostali e per la morte, dice che Virgilio attese un poco e poi disse a Dante: Non perder l’ora; ma parla e chiedili, se più ti piace d’udire. Onde Dante disse a Virgilio: Domandal tu di quel che tu credi che mi satisfaccia, ch’io nol potrei domandare: tanto sono commosso a pietà; e però ricominciò Virgilio e disse: O spirito incarcerato, se l’uomo ti faccia quello che tu ài pregato, dicci come l’anima si lega in questi pruni e dimmi, se mai niuno si dispiega di tali membra. Allora dice che il troncone soffiò forte, e poi convertì quel vento in cotal voce: Io vi rispondo che quando l’anima si parte dal corpo, ond’ella stessa s’àe divelta, viene a Minos giudice dell’inferno et elli la manda al vii cerchio: allora cade in questa selva e non gli è determinata parte niuna, nè grado; ma quivi ove fortuna la balestra si pone, e mette fuore, come fa lo granello della spelda 37 quando è seminato, e riesce una pianta salvatica, delle foglie della quale l’Arpie si pascono e fannoli dolore et apertura al dolore, onde si sciala dolore e lo lamento. E rispondendo all’altra domanda dice, che al di’ giudiciale verranno nel mondo per li loro corpi; ma non che si vestano d’essi, come l’altre: et assegna la cagione: Che non è giusto aver ciò ch’om si toglie; ma ciascuna anima sarà 38 ov’era lo suo corpo, e sarà nella selva ciascuno corpo appiccato al suo pruno. E soggiugne Dante che, quando stavano a udire Piero delle Vigne, elli furono sospesi da uno grande romore, come colui che sta nella selva a cacciare e sente fremito, come quando le bestie salvatiche corrono per la selva; e stando così, vidono venire due dalla parte manca ignudi e graffiati fuggendo sì forte, che rompeano ogni 39 ramo che incontravano innanzi a sè, e quel ch’era innanzi gridava: Accorri, accorri, morte; e l’altro che li venia dietro, che li parea tardar troppo, gridava: O Lano, le gambe tue non furon sì pronte alla battaglia del Toppo, quivi ov’elli era stato morto. E poi ch’elli non potè più correre, s’aggiunse a uno pruno appiattandosi dopo esso; e dietro veniano cagne nere, bramose e correnti, che n’era piena la selva, come veltri che fossono scatenati e giunsono a quel che s’era appiattato e strascinaronlo 40 a membro a membro e portaronsene le membra dolorose in bocca. Allora dice Dante che Virgilio lo prese per mano e menollo a quel pruno, che piangea per le rotture sanguinose che gli aveano fatte quelle cagne, quando stracciarono colui che era appiattato dopo lui, e dicea: O Iacopo da Sant’Andrea, che t’è giovato d’avere fatto riparo di me? che colpa ò 41 io della tua vita rea? E quando Virgilio fu fermato sopra esso, lo domandò chi elli fu che soffia per tutte rotture doloroso lamento e sangue; et elli rispose: Io vi priego, anime che siete giunte a veder lo stracio 42 disonesto che à dipartito da me le mie frondi, che voi ricogliate le mie foglie a piè del tristo cesto; io fui cittadino di quella città che mutò lo primo padrone nel Battista santo Giovanni, onde lo primo padrone sempre per questo la farà trista con la sua arte; e se non fosse che in su l’Arno, in sul ponte vecchio, rimane ancora di lui alcuna immagine, quelli cittadini che la rifondarono sopra il cenere che rimase d’Attila, avrebbono fatto lavorare invano: imperò che ancor sarebbe disfatta. Se vuoi sapere ch’io sono, io fece 43 a me Giubetto; cioè luogo di giustizia delle mie case: imperò che quivi s’impiccò; e qui finisce la sentenzia litterale Ora è da vedere il testo con le allegorie e moralitadi.
C. XIII — v. 79-90. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come, poi che tacette Piero dalle Vigne da Capova, Virgilio attese e poi confortò Dante che il domandasse; e però dice: Un poco attese; cioè Virgilio, poi che Piero dalle Vigne ebbe favellato quel che detto è di sopra, per vedere s’altro volesse dire, e poi; disse Virgilio: Da ch’el si tace; cioè da poi ch’elli non dice più alcuna cosa, Disse il Poeta; cioè Virgilio, a me; cioè Dante, non perder l’ora; del domandare; Ma parla, e chiedi a lui; cioè a Piero, se più ti piace; di sapere. Ond’io; cioè Dante, a lui; cioè Virgilio risposi: Domandal tu ancora 44; cioè tu Virgilio, come ài domandato infino a qui, Ch’io; cioè Dante, non potrei; domandarlo: tanta pietà; cioè dolor mosso da pietà, m’accora; cioè mi trafigge il cuore. Perciò ricominciò; Virgilio a parlare a Piero, dicendo: Se l’uom ti faccia Liberamente ciò che il tuo dir prega; cioè suso nel mondo, di renderti fama, Spirito incarcerato; in questa pianta, ancor ti piaccia Di dirne; cioè a noi, come l’anima si lega; cioè l’umana, In questi nocchi; cioè pruni canteruti, come nocchi, e dimme, se tu puoi; cioè, che non ti sia vietato, o se tu lo sai, S’alcuna; cioè anima, mai da tai membra dispiega; come sono queste di questi rami, e così domanda due cose; l’una come l’anima umana può stare in una pianta; e sussequentemente 45 se mai n’esce. Et è qui da notare questa moralità; che la sensualità di Dante era mossa a compassione della pena di Piero delle Vigne, e perciò dice a Virgilio; cioè alla ragione che sta contenta alla giustizia di Dio, che domandi di quel che creda che soddisfaccia alla sensualità, perch’ella sa bene che desidera di sapere la sensualità.
C. XIII — v. 91-108. In questi sei ternari l’autor nostro finge come Pier delle Vigne rispose alle domande di Virgilio, dicendo così: Allor soffiò lo tronco forte; in che era l’anima di Piero; e questo finge, perchè la pianta non à strumento da poter parlare, onde per servare la poesi e per fare verisimile lo poema finge che quando parli, soffi et esca la voce per le rotture, e poi Si convertì quel vento; in cotal voce; come seguita: Brevemente sarà risposto a voi; a te Dante et a Virgilio. Quando si parte l’anima feroce; ben la chiama feroce: imperò che come fiera incrudelisce contra sè medesimo, Dal corpo, ond’ella stessa s’è divelta; e nota che l’anima sta legata nel corpo, mentre che l’uomo vive; ma quando l’uomo muore si scioglie quel legame. Minos; che è lo giudice dell’infernali, come fu detto di sopra, la manda alla settima foce; cioè al settimo cerchio in questo secondo girone. Cade in la selva, cioè cade là ovunque s’avviene in questa selva, e non gli è parte scelta; più una ch’un altra; Ma là dove fortuna la balestra; dice che a caso ànno l’anime quelli luoghi notantemente per mostrare che la desperazione non à gradi: imperò che in pari grado è ognuno che si dispera: Quivi germuglia; cioè nasce e mette piante vestendosi d’essa, come gran di spelta. Questa è similitudine per opposito: imperò che nella natura alcuna volta il seme della spelda resurge in grano, che è meglio che spelda; ma quivi l’anima risurge e nasce in peggio: chè di corpo umano risurge in pianta; e potrebbesi ancor dire, come gran di spelda: cioè come granello di spelda o d’altra biada; ma dice spelta, perchè li viene alla rima, et allora la similitudine sarebbe per convenienzia e non per opposito. Surge in vermena; cioè in verga, et in pianta silvestra; ch’ancora è peggio che la dimestica: Le Arpie, pascendo poi delle sue foglie; di queste Arpie fu detto di sopra, Fanno dolore, et al dolor finestra; cioè via et aprimento, onde esca la voce e il sangue. E questo finge sotto allegoria: imperò che l’Arpie pascersi delle loro foglie non è, se non che continuamente ànno dolore della rapina che usarono inverso il loro corpo; e le foglie che l’Arpie toglieno, e togliendo fanno dolore, sono le membra umane che si ricordano avere perduto per lor pazzia: e conveniente pena à finto l’autore a sì fatto peccato; che chi à avuto in odio le membra umane senta pena delle foglie; et ancora per adattar questo, quando sono stati nel mondo, che così ànno avuto le loro membra care, come se fossono state foglie che dovessono rimettere, avendosi privato di quelle. Et infino a qui à risposto all’una domanda, ora risponde all’altra: Come l’altre, verrem; noi desperati al di’ del giudicio, per nostre spoglie; cioè per li nostri corpi, di che ci abbiamo spogliati noi stesso 46; Ma non però ch’alcuna sen rivesta; cioè del suo corpo; et assegna la ragione: Che non è giusto aver ciò, ch’om 47 si toglie; quasi dica: Non è ragione che l’uomo riabbia quel che s’à tolto elli stesso: quelle cose che l’uomo non si può dare, non si dee togliere; anzi le dee tenere quanto vuol colui che glie le dà, e se le rifiuta, ragione è che non le riabbia. Qui le strascineremo; cioè le nostre spoglie e li nostri corpi, e per la mesta; cioè trista e dolorosa, Selva seranno 48 i nostri corpi appesi; cioè appiccati, Ciascun al prun dell’ombra sua molesta; cioè dell’anima sua appenata e rincrescevole di vederlo: imperò che tutta volta l’arà 49 in odio. Et è da notare che qui parla l’autore come poeta: imperò che una cosa dice e un’altra intende: imperò ch’elli intende che resurgeranno come li altri, secondo che tiene la santa Chiesa; ma finge questo per convenienzia di pena al lor peccato, intendendo che strascinare 50 sia portare la cosa malvolentieri, come faranno quelli desperati, che sempre avranno lo lor corpo in odio; e dice che saranno appiccati ciascuno al pruno; cioè all’asprezza, e crudeltà dell’ombra sua molesta; cioè dell’anima sua, che sempre sentirà dolore d’aversi disperato; ma questo dolore fia sanza prò, come detto è di sopra.
C. XIII — v. 109-129. In questi sette ternari l’autor nostro discende a trattar dei violenti contra le lor cose, dicendo così: Noi; cioè Virgilio et io Dante, eravamo ancora al tronco attesi; cioè di Piero delle Vigne, Credendo ch’altro ne volesse dire; che quello che avea detto, Quando noi fummo d’un romor sorpresi; cioè sospesi e messi in dubbio d’un rumore che udimmo; e fa una similitudine, dicendo: Similemente a colui, che venire Sente il porco e la caccia; cioè li cani e la cacciata fiera, alla sua posta; cioè al luogo ove fu posto a guardare elli, Ch’ode le bestie; cacciate, e le frasche stormire; cioè far romore. Et ecco due della sinistra costa; ora dichiara chi facea questo romore, Nudi e graffiati, fuggendo sì forte, Che della selva rompeano ogni rosta; cioè ogni frasca: imperò che delle frasche si fa rosta alcuna volta. Qui dimostra l’autore le pene convenienti alli violenti contra le loro facultadi; prima, che sono nudi, e questo è vero: chè chi si priva de’ beni temporali è nudo; appresso è graffiato; cioè dalle infamie, vergogne e vituperi; e dice che fuggieno: imperò che, vedendosi vituperati e svergognati et infami 51, fuggieno per la selva de’ vizii rompendo le frasche; cioè stracciando e diffamando coloro che si sono disperati dicendo: Anzi fece peggio di me che s’uccise, così non voglio fare io; e questo è rompere le roste 52 per fuggire infamia ellino: imperò che levare le foglie alla pianta è levare la sua bellezza, e così levare la fama all’uomo. Ancor si può dire che questi così fatti, fuggendo per questa vita vadano rompendo le roste della selva; cioè vadano togliendo l’altrui: imperò che come dice Cato: Qui sua consumunt, cum deest, aliena sequuntur. E questo finge l’autore per mostrare la pena ch’anno li violenti contra le loro cose, mentre che sono nel mondo; e per fare verisimile la fizione, finge che bastino 53 loro ancora nell’inferno, come à fatto di tutti li altri peccati detti di sopra, che à mostrato tutti l’incomodi che sono con essi nel mondo, esser ancor nell’inferno, e se alcun deletto è con essi nel mondo, pone nell’inferno essere lo contrario, come chiaramente si può vedere in quel che è detto di sopra. Quel dinanzi; cioè quel ch’andava correndo innanzi, gridava, s’intende: Or accorri, accorri, Morte: e così mostra che chiamasse la morte; E l’altro, a cui pareva tardar troppo; a fuggire, Gridava: Lano: imperò che così ebbe nome, sì non furo accorte; a correre, Le gambe tue alle giostre dal Toppo. Questo Lano fu cittadino di Siena, lo quale per molti modi fu guastatore e disfacitore di sua facultade; ma innanzi ch’elli avesse al tutto destrutta, nella battaglia ch’ebbono i Sanesi con li Aretini alla pieva 54 del Toppo, nel distretto di Arezzo ove i Sanesi furono sconfitti, Lano fu morto; e pertanto finge Dante che questi andasse gridando. Or accorri, accorri, Morte; perchè questi così fatti, quando ànno destrutte le loro facultadi vedendosi infami e bisognosi, desiderano la morte: e finge Dante che questi corresse sì forte che non fu vinto 55, perchè al tutto non avea ancora destrutto lo suo, quando morì. Dice poi: E poi che forse li fallia la lena; che non potea tanto correre, Di sè e d’un cespuglio fece un groppo; cioè appiattossi ad un pruno, mettendosi in esso. Questi fu Giacomo da Sant’Andrea, padovano, come apparirà di sotto, lo quale consumò e distrusse tutta la sua facultà innanzi che morisse, e però finge l’autore che li fallisse la lena: e finge l’autore che s’appiattasse dopo un pruno e che fosse stracciato 56 dalle cagne, et ancor lo pruno, perchè forse costui quando era diffamato 57, a sua scusa inducea questo Rucco de’ Mozzi, che fu distruggitore delle sue cose e finalmente s’impiccò, come si dirà di sotto. E perchè questo Rucco avea l’uno e l’altro peccato; cioè ch’era stato violento nelle sue cose e finalmente in sè medesimo, però finge l’autore che questi fosse dilaniato più che niuno altro; et induce che Giacomo s’appiattasse più tosto dopo lui, che dopo un altro: questo correre significa lo passamento della vita, la qual corre velocissimamente. Diretro a loro; cioè a Lano et a Iacopo, era la selva piena. Questa selva è la vita mondana viziosa, intendendo moralmente, et in essa sono radicati in pruno et in pianta silvestra li violenti contra sè medesimo, perchè sono crudeli et aspri, pungenti et infruttuosi, e rompono lo suo correre togliendosi la vita, e corrono per essa li violenti contra le loro cose, perchè non si toglieno la vita; e perchè così è di loro nel mondo, però finge verisimilmente che così sia a loro nell’altro mondo per pena conveniente. Di nere cagne, bramose e correnti. Queste cagne litteralmente si dee intendere, che finge 58 l’autore che fossono dimoni posti a tormento di questi peccatori; ma allegoricamente intendendo di quelli del mondo, si dee intendere che queste cagne sono le necessita e le fami 59 che perseguitano questi violenti le quali finge cani: imperò che è brutto animale, e così le fami e necessitadi rendono l’uomo brutto; sono nere: imperò che disfanno 60 l’uomo e rendonlo scuro; sono bramose, perchè fanno l’uomo bramoso: sono correnti, perchè molto tosto vengono all’uomo; stracciano a membro a membro colui che giungono, in quanto in vari pensieri tirano l’animo suo; e le membra dolenti se ne portano, perchè tirano a sè l’animo diviso, secondo le varie necessitadi in vari pensieri, o vero che ogni sua lode particolarmente guastano. Come veltri che uscisser di catena. Qui fa una similitudine che così erano correnti, come veltri scatenati: quando lo cane è stato in catena è più corrente, che quando non v’è stato. In quel, che s’appiattò, miser li denti; questo fu Giacomo da Sant’Andrea, padovano violento o distruggitore delle sue cose, che s’era appiattato nel pruno di Rucco de’ Mozzi, E quel dilaceravo a brano a brano; cioè a membro a membro, o a pezzo a pezzo, Poi sen portar quelle membra dolenti; così stracciate che si doleano per la pena.
C. XIII — v. 130-138. In questi tre ternari finge l’autor che Virgilio lo menasse al cespuglio, ove sera appiattato quello stracciato, e domandollo chi elli era acciò che Dante n’avesse conoscenza, dicendo così: Presemi allor; quando quelle cagne stracciarono 61 colui, che s’appiattò nel cespuglio, la mia scorta; cioè Virgilio, per mano, E menommi al cespuglio; ove s’era appiattato lo stracciato, che piangea; per lo dolore ch’avea delle foglie, che gli erano strappate e sparte, Per le rotture sanguinenti; cioè lo pianto usciva delle rotture che aveano fatto le cagne, onde usciva il sangue. invano si può rendere al piangea, et intendesi che quel pianto non giovava nulla; e puossi rendere al dicea che seguita poi: imperò che invano parlava, poi che la persona a cui parlava non era presente. Dicea questo cespuglio per le sue rotture: O Giacomo, da Sant’Andrea; questi fu quel padovano del quale fu detto di sopra, che s’appiattò in esso, Che t’è giovato di me fare schermo; cioè riparo e difensione? Quasi dica: Nulla. Che colpa ò io della tua vita rea? Quasi dica: Nulla. Quanto all’allegoria s’intende: Che prò t’è stato a sempre avermi diffamato, dicendo: Ancor e’ fece peggio di me Rucco de’ Mozzi? Io non ce n’ebbi colpa del tuo mal fare. Quanto alla lettera è verisimile fizione. Quando il Maestro; cioè Virgilio, fu sovr’esso fermo; cioè sopra colui che piangea, Disse: Chi fosti; tu, che per tante punte; quante erano quelle rotte e strappate dalle cagne, Soffi con sangue doloroso sermo? Imperò che col sangue finge l’autor ch’uscisse lo parlare lamentevole.
C. XII — v. 139-151. In questi quattro ternari et uno verso finge l’autor nostro come l’addomandato rispose chi elli era, manifestandosi per la città e per la morte, dicendo così: E quelli; cioè l’addomandato da Virgilio, a noi; cioè a Virgilio et a me Dante, rispose, s’intende: O anime, che giunte; credea costui, secondo che finge l’autore, che fossono anime dannate a simili pene, ch’elle stessono a vedere, Siete a veder lo strazio disonesto, Che à le mie fronde sì da me disgiunte. Queste frondi sono allegoricamente li onori ricchezze e beni desiderati nel mondo, per li quali non potuti ottenere si sono per disdegno disperati; e però finge l’autore che sieno frondi nere, perchè sono convertiti in infamia: e che l’Arpie le pascano significa, che la rapina della vita propia li priva d’ogni onore, ricchezza e bene desiderato, et eziandio avuto. Raccoglietele a piè del tristo cesto. Qui si dimostra per l’autore l’appetito che ànno avuto smisurato alli beni del mondo, ch’ancora dura di là siccome ne sono state vaghe in questa vita, intanto che per non poterli avere, o avuti non poterli tenere, si sono disperati; e per questo mostra l’autore la ostinazione de’ dannati, che in quella mala volontà che sono morti stanno nell’inferno, e niente di meno ànno coscienzia e dolore d’avere così voluto; ma quel pentere 62 non val nulla, come detto fu di sopra. Io fui della città, che nel Battista Mutò il primo padrone. Qui finge Dante che costui si manifesti per due vie; l’una per la città ond’era nato; l’altra per la morte: dice prima che fu fiorentino, in quanto dice che fu della città che mutò il primo padrone; cioè Marte dio della battaglia, nel Battista; cioè in san Giovanni Battista, ond’ei; cioè Marte, per questo; cioè mutamento, Sempre con l’arte sua la farà trista; cioè con le battaglie: imperò che sempre battaglieranno 63 e perderanno e saranno sconfitti: E se non fosse, che in sul passo d’Arno; cioè in sul ponte vecchio di Firenze, Rimane ancor di lui; cioè di Marte, alcuna vista; cioè imagine, Quei cittadin, che poi la rifondarno; cioè Fiorenza, poi che fu rovinata et arsa, Sopra il cener che d’Attila rimase; cioè in quel luogo, ove prima Attila la disfece et arse, Avrebber fatto lavorare indarno; cioè che non sarebbe lor giovato 64 a rifarla un’altra volta. Qui è da vedere quel che l’autor qui intese e di questo Attila; e quanto al primo, secondo la lettera, finge che questo Fiorentino addomandato chi elli era si manifesta manifesta per la condizione della sua città, dicendo che Fiorenza quando fu edificata fu fatta da’ Fiesolani, che uscirono di Fiesole et edificaronla sotto lo nome di Marte, lo quale è uno de’ sette pianeti; et appo li poeti si chiama lo idio delle battaglie: però che li antichi infedeli guardavano molto al di’ dell’edificazione della città, e quel pianeto che trovavano signoreggiare, et a quello la consecravano e quello adoravano. E così pone che per questo li Fiorentini avessono per loro idio Marte e facessonli lo tempio e quello adorassono; ma poichè furono convertiti alla fede cristiana, presono santo Giovanni Battista per loro padrone, e lasciarono Marte, siccome veggiamo che à fatto ogni città cristiana, che à preso qualche Santo per suo padrone: e perchè lasciarono Marte, dice costui che Marte sempre la farà trista con l’arte sua; cioè con le battaglie, che sempre combatteranno o con seco o con altrui. Quando li Fiorentini si convertirono, secondo che dice messer Giovanni Boccacci 65, cavarono la statua di Marte che era uno uomo a cavallo, di pietra o di marmo rozzamente fatto non molto grande, del tempio suo che poi lo consecrarono sotto il vocabolo di san Giovanni: e dice che quel medesimo tempio era e così fatto, come è ora; e perchè teneano ancora del rito o vero dell’usanza del paganesimo, tenendo che questa statua avesse buono augurio alla città, se ella fosse posta in onorevole luogo, la posono in sulla torre ch’era presso all’Arno, onde venendo poi Attila e disfatta Fiorenza, quella statua cadde in Arno. Onde poi che’ Fiorentini la riedificarono la seconda volta con gran fatica, avendo storpio 66 da’ Fiesolani, ritrovarono questa statua pur dalla cintola in su, l’avanzo non poterono mai ritrovare, e quello puosono in su una murella del ponte vecchio: poi venendo lo diluvio che fece cadere li tre ponti di Fiorenza, quella statua non si potè mai ritrovare sicchè ora non v’è più; ma forse v’era al tempo di questo Fiorentino che l’autore à indotto a parlare; e però dice come detto è di sopra. Io fe’ giubetto a me delle mie case. Questo giubbetto è vocabolo francesco e significa luogo delle forche, perchè così si chiama a Parigi, e però dice che s’impiccò per la gola in casa sua, e questi si conta che fosse messer Bucco de’ Mozzi, il quale poi ch’ebbe destrutta la sua facultà, per dolore e per disperazione s’appiccò per la gola in casa sua; e però finge l’autore che le cagne lo stracciassono. E chi dice che fu messer Lotto degli Agli, il quale era giudice, e perchè diede una falsa sentenzia s’appiccò per la gola con la sua cintola dell’ariento: perchè alquanti cittadini fiorentini in quel tempo s’appiccarono, però l’autore non nomina; ma descrivelo per la patria e per la morte, acciò che lo lettore possa intendere di qual vuole; e qui finisce il canto xiii.
Note
- ↑ C. M. sì aspri tra Cecina
- ↑ C. M. doveresti a noi aver pietade;
- ↑ C. M. ma la incredulità mel fece
- ↑ C. M. dalle Vigne
- ↑ Altrimenti - che rifaccia la fama
- ↑ C. M. quello che intese
- ↑ C. M. tossico:
- ↑ C. M. bruttonno
- ↑ C. M. fece stare a la guardia in sul monte uno suo trombetta, sichè
- ↑ C. M. avete rubbato lo nostro
- ↑ C. M. che sono strani da quelli che produce la terra o la natura.
- ↑ C. M. ramuscello,
- ↑ C. M. sufilare
- ↑ El: il, scambio dell’i con l’ e praticato dagli antichi. E.
- ↑ C. M. streppando
- ↑ C. M. della virgulta del virgulo
- ↑ C. M. in carlibbi
- ↑ C. M. l’asticciuole
- ↑ C. M. à appitito
- ↑ C. M. a questo troncone, che a me
- ↑ C. M. emenda; del danno che t’à fatto,
- ↑ C. M. mi tegni nel parlare
- ↑ C. M. amburo le chiavi,
- ↑ C. M. amburo le chiavi, perchè li funno note
- ↑ C. M. rivellare
- ↑ C. M. nelli spiritali vitali
- ↑ C. M. di Capua,
- ↑ C. M. l’altra intenzione
- ↑ C. M. Boccaccio
- ↑ C. M. sottragire
- ↑ C. M. turbazione e disdegno che avea preso per sostenere
- ↑ La memoria di questo potentissimo Imperadore vuol essere proseguita sempre con riconoscenza e gratitudine dagl’italiani: perocchè alla sua corte nacque il dolcissimo nostro idioma. Coltivò egli stesso la volgare poesia e gli uomini dabbene protesse. E.
- ↑ Più volte si truova indeclinato il pronome medesimo alla guisa, che adoperavanlo pure i Classici latini. E.
- ↑ C. M. come dimanda Virgilio Piero dalle Vigne
- ↑ Altrimenti - a dichiararsi
- ↑ C. M. che poi che Piero dalle Vigne
- ↑ C. M. della spelta
- ↑ C. M. anima si raunerà lo suo corpo,
- ↑ C. M. ogni rappa che si trovavano innanti, e quel
- ↑ C. M. straccionnolo
- ↑ C. M. colpa abbo io della tua colpa ria?
- ↑ C. M. strazio
- ↑ C. M. feci a me Giubbetto;
- ↑ C. M. ancora Di quel che credi, ch’a me satisfaccia; tu Virgilio,
- ↑ C. M. sussequentemente si manifesta. Et è
- ↑ Stesso è pure qui usato invariabile, come altrove il pronome medesimo, ed amendue dietro l’esempio de’ Latini. E.
- ↑ Presso i padri nostri non è rado il vocabolo omo alla maniera latina. Cino da Pistoia cantò «Omo smarrito, che pensoso vai». E.
- ↑ Dal verbo essere dovea riuscire il futuro esserò, esserai, che invece per agevole aferesi venne serò, serai ec. viventi sempre in talune provincie d’Italia. E.
- ↑ Arò, arai, arete ec. non sono tuttora infrequenti nel popolo toscano, che le trasse dall’infinito are. E.
- ↑ C. M. stracinare
- ↑ C. M. infamati,
- ↑ C. M. le cose
- ↑ Altrimenti - guastino - Cod. M. vastino
- ↑ C. M. pieve
- ↑ C. M. fu giunto, perchè
- ↑ C. M. fosse dilaniato
- ↑ C. M. era disfamato,
- ↑ C. M. fingesse l’autore
- ↑ C. M. le necessitadi e le infamie che....finge cagne: imperò che cane è bruto animale, e così le infamie e le necessitadi
- ↑ C. M. disfamano l’omo
- ↑ staccionno così colui,
- ↑ C. M. pentire non valea
- ↑ C. M. sempre guerreggieranno e
- ↑ C. M. non sarebbe giovato di rifarla: chè anco sarebbe disfatta un’altra volta.
- ↑ C. M. Boccaccio,
- ↑ C. M. stroppio