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c a n t o   xiv. 371

76Tacendo divenimo là, ove spiccia
      Fuor della selva un picciol fiumicello,
      Lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
79Quale del bulicame esce il ruscello,
      Che parton poi tra lor le peccatrici;
      Tal per la rena giù seguiva quello.1
82Lo fondo suo et ambo le pendici
      Fatti eran pietra, e i margini dal lato;2
      Per ch’io m’accorsi, che il passo era lici.3
85Tra tutto l’altro ch’io t’ò dimostrato,
      Poscia che noi entrammo per la porta,
      Lo cui sogliare a nessuno è negato,
88Cosa non fu dalli occhi tuoi scorta
      Notabile, come il presente rio,
      Che sopra sè tutte fiammelle ammorta.
91Queste parole fur del Duca mio;
      Per ch’io il pregai, che mi largisse il pasto,
      Di cui largito m’avea il disio.
94In mezzo mar siede un paese guasto,
      Diss’elli allora, che si chiama Creta,
      Sotto il cui rege fu già il mondo casto.
97Una montagna v’è, che già fu lieta
      D’acque e di frondi, che si chiamò Ida;4
      Ora è diserta come cosa vieta.
100Rea la scelse già per cuna fida
      Del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
      Quando piangea, vi facea far la grida.5

  1. v. 81. C. M. sen giva quello.
  2. v. 83. C. M. Fatte eran pietre,
  3. v. 84. lici. La giunta della particola ci all’avverbio sembra indicare con maggiore evidenza il luogo del passare, quasi dicesse: Il passo era lì propio. E.
  4. v. 98. C. M. che si chiamava Ida;
  5. v. 102. le grida.