Chi l'ha detto?/Parte prima/37
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§ 37.
Governo, leggi, politica
626. Videbis, fili mi, quam parva sapientia regitur mundus.1
È comune opinione che così apostrofasse il cancelliere svedese Axel di Oxenstierna suo figlio Giovanni riluttante ad accettare, per timore della propria insufficienza, l’ufficio di primo plenipotenziario svedese al congresso di Münster. Secondo il Büchmann la vera lezione sarebbe invece: An nescis, mi fili, quantilla prudentia mundus regatur (o regatur orbis); e le avrebbe dette a un frate portoghese il papa Giulio III (Collecçao polit. d. apophth. memorav., p. D. Pedro Jos. Suppico de Moraes, Lissab., 1733, to. II, pag. 44). Ma non mancano altre diverse attribuzioni, che potevansi vedere nelle prime edizioni del Büchmann stesso: fra le quali è notevole quella riferita dagli Apophtegmata di Zinkgref, che ne darebbe la paternità a Von Orselaer, maestro della Corte del margravio di Baden. Siccome la prima ediz. dell’opera del Zinkgref è del 1626, cioè anteriore di 22 anni alla pace di Münster, se la citazione fosse esatta, la questione verrebbe senz’altro decisa in favore dell’Orselaer.
Più gravi massime di governo sarebbero la ciceroniana:
627. (Ollis) Salus populi suprema lex esto.2
628. Tu regere imperio populos, romane, memento,
. . . . . . . . . . . . . . .
Parcere subjectis et debellare superbos.3
629. Imperium et libertas.4
Lord Beaconsfield, nel discorso tenuto al pranzo del Lord Mayor il 10 novembre 1879, disse: «One of the greatest of Romans, when asked what were his politics, replied “Imperium et libertas,” That would not make a bad programm for a British Ministry. It is one from which her Majesty’s advisers do not shrink.» D’allora il motto fu quasi proverbiale in Inghilterra. Ma chi era il grande romano ricordato da Disraeli? Cicerone nelle Filippiche (IV, 4) dice: «Decrevit senatus D. Brutum optime de republica mereri, cum senatus auctoritatem, populique Romani libertatem imperiumque defenderit.» Ma il signor Roberto Pierpoint, nelle Notes & Queries, 5 dec. 1896, pag. 453, osserva che forse in Disraeli c’era una reminiscenza del libro inglese dello Churchill, Divi Britannici (London, 1675), che a pag. 349 dice: «Here the two great interests imperium & libertas, res olim insociabiles (saith Tacitus), began to incounter each other», e cita in margine la Vita di Agricola di Tacito: dove però (cap. 3) il testo è alquanto diverso: «res olim dissociabiles.... principatum ac libertatem.»
Il buon governo riposa essenzialmente sulle buone leggi. La legge, per quanto sia ottima, non può soddisfare ognuno, chè
630. Nulla lex satis commoda omnibus est.5
631. La legalité nous tue.6
Il moltiplicarsi delle leggi è sintomo della decadenza dei costumi, quando la cresciuta malizia dei cattivi cittadini richiede molteplici provvedimenti:
632. Corruptissima republica plurimae leges.7
La buona legge deve anche essere chiara e breve, perchè tutti la intendano e la ricordino:
633. Legem brevem esse oportet, quo facilius ab imperitis teneatur.8
Ma guai poi se le leggi, buone o cattive che siano, restano lettera morta, giustificando l’apostrofe dell’Alighieri:634. Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Le mani son, ma chi pon legge ad esse?)
635. ....A mezzo novembre
Non giugne quel che tu d’ottobre fili!
Buono è pure quel governo che assicura al paese la pace, ma non a sole parole. La celebre frase pronunziata da Napoleone III in un discorso detto alla Camera di Commercio di Bordeaux il 9 ottobre 1852:
636. L’Empire c’est la paix.9
doveva essere troppo presto smentita dalle guerre d’Italia, del Messico e dai terribili disastri del 1870: per cui profeticamente il Kladderadatsch, giornale umoristico tedesco, nel numero del 7 novembre 1852, lo parodiava così: L’empire c’est l’épée. Ma benvenuta la pace sul serio, a patto che non sia la pace armata sino ai denti, la pace ringhiosa che rallegrava l’Europa prima dell’ultima guerra, e che minaccia di tornarci sulle spalle, a dispetto (o a cagione?) dei molti e complicati trattati, della Società delle Nazioni, ecc. ecc. Sia una pace onorata, che non schiacci sotto intollerabili armamenti, e quindi sotto intollerabili tasse. Perfino Tiberio, a chi gli proponeva di aumentare fuori di ogni discrezione i balzelli, diceva:
637. Boni pastoris esse, tondere pecus, non deglubere.10
Anche Alessandro Magno, secondo che narra Apostolio (IX, 24d), diceva una frase simile: ma c’è qualcuno dei moderni economisti che la pensa diversamente.
Aristide Gabelli diceva, infatti, alla Camera dei deputati nella seduta del 27 luglio 1870 (Discussioni, sess. 1869-70, vol. IV, pag. 3754, col. 1ª): «Finalmente ci si parla dei danni privati. Di questo, signori, non mi occupo.... Noi, o signori, dobbiamo preoccuparci soltanto dell’utile dello Stato, e dobbiamo ritenere ancora che lo Stato è un ente che può avere tutto, eccetto il cuore.» Ma forse la frase doveva intendersi in altro senso, sia che l’utile pubblico si deve in ogni caso mandare innanzi all’utile privato, sia che il compito del governo s’intende limitato ad amministrare e a rendere giustizia, lasciando gli uffici della pietà all’iniziativa privata. Nè altrimenti deve intendersi la frase che si suole attribuire (non so con quanto fondamento) a Napoleone III:
638. La politique n’a pas d’entrailles.11
A tal proposito, e in forma alquanto diversa Camillo di Cavour parlando alla Camera subalpina l’11 ottobre 1860 nella discussione del progetto di legge per autorizzare il Governo del Re ad accettare e stabilire per decreti reali l’annessione di provincie italiane alla monarchia costituzionale di V. E. II, diceva: «So bene che taluno mi dirà che mi faccio illusioni, che i diplomatici non hanno viscere. Anzitutto io, per ragione di ufficio, non ammetto questa sentenza. Ma quando anche ciò fosse vero, io vi direi: ma se i diplomatici non hanno viscere, i popoli ne hanno. Nel secolo attuale, nell’epoca che corre, non sono più i diplomatici che dispongono dei popoli, sono i popoli che impongono ai diplomatici le opere che hanno da adempiere» (Cavour, Discorsi parlamentari, vol. XI, Roma 1872, pag. 265).
Nondimeno il savio e giusto principe deve tener conto anche dei pesi sopportati dal povero Pantalone, che paga per sè e per gli altri.
639. Paga Pantalon.
è infatti frase popolarissima, di cui sarebbe curioso di rintracciare la sicura origine. Cominciamo col dire che Pantalone, sin dal principio del sec. XVII, era usato a impersonare il popolo veneziano, sia perchè, come crede il Tassini (Curiosità Veneziane, vol. II, Venezia, 1863, pag. 105) il nome di Pantalone, forma dialettale per Pantaleone, fosse un tempo comunissimo sulle lagune (S. Pantaleone è assai popolare a Venezia; la chiesa a lui dedicata, antichissima, poichè fu riedificata nel 1009 sotto il doge Ottone Orseolo, era una delle più estese parrocchie della città), sia per metafora dal piantare i leoni nelle terre conquistate, sia, com’è più probabile, dalla caratteristica maschera veneziana; sulla cui origine si veda, tra altro, un recente articolo di Cesare Levi, Il vecchio «Papà» della Commedia, nell’Emporium, novembre 1914, pag. 253-265. Il Pasqualigo nella Raccolta di Proverbi veneti (3ª edizione, Treviso, 1882, pag. 256) scrive che il proverbio Pantalon paga per tutti «nacque alla fine del secolo XV, al tempo delle guerre di Ferrara, Napoli, Pisa e contro i Francesi e i Turchi, che cominciarono a rovinare la Repubblica di Venezia; la quale, ricchissima, pagava davvero per tutti in Italia.» Ma non a torto il dott. Cesare Musatti nei suoi Appunti storici di dialetto veneziano ritiene che questo motto abbia origini assai meno antiche. Tra le satire e caricature, che si sparsero all’epoca della caduta della Repubblica veneziana, è famosa quella uscita a Milano, che rappresenta i plenipotenziari in atto di partire in carrozza da Campoformio. L’oste che li aveva alloggiati, corre loro dietro, gridando alla portiera: Chi paga? e gli risponde Pantalone, che sta in serpa: Amigo, pago mi! Vedila riprodotta nel vol. di Giov. De Castro, Milano e la Repubblica Cisalpina giusta le poesie, le caricature ed altre testimonianze dei tempi (Milano, 1879), a pag. 167; cfr. anche Bertarelli, Iconogr. Napoleonica, pag. 43. Ne esistono varie edizioni, fra cui un’imitazione con disegno molto diverso, e leggenda in tedesco e in italiano, fatta certamente in Austria, dove invece che da Pantalone la risposta è data da una figura di un Veneziano qualunque; si trova riprodotta anche questa dal dott. Ach. Bertarelli in un Contributo allo studio della caricatura napoleonica in Italia pubblicato nel Bullettino della Società Bibliografica Italiana, n. 12, dicembre 1898.
È dunque sempre il povero Pantalone che finisce a pagare per gli errori e le dissipazioni altrui: egli sa già per lunga esperienza che i suoi denari, i denari del contribuente sono i peggio spesi. Anche Ugo Foscolo, in un feroce epigramma contro Luigi Lamberti, bibliotecario di Brera a Milano, professore dalla cattedra del Parini, grande erudito ed ellenista, che aveva curato per il Bodoni nel 1808 quella splendida edizione dell’Iliade in greco che è forse il maggior monumento dei torchi bodoniani, osservava con ironia:
640. Lavoro eterno! —
Paga il Governo.
Ecco l’epigramma intiero:
Che fa il Lamberti
Uomo dottissimo? —
Stampa un Omero
Laboriosissimo. —
Commenta? — No —
Traduce? — Oibò. —
Dunque che fa? —
Le prime prove ripassando va,
Ed ogni mese un foglio dà;
Talché in dieci anni lo finirà.
Se pur Bodoni pria non morrà. —
Lavoro eterno! —
Paga il Governo.
641. Misera contribuens plebs.12
642. .... Un volgo disperso che nome non ha.
643. Santa canaglia.
....Ma la plebe vile
Gridò: Moriamo.
E tra ’l fuoco e tra ’l fumo e le faville
E ’l grandinar de la rovente scaglia
Ti gittasti feroce in mezzo a i mille.
Santa canaglia.
Ma egli stesso riconobbe di aver preso lo spunto dai due versi bellissimi di Auguste Barbier (ne La Curée):
La grande populace et la sainte canaille
Se ruaient à l’immortalité.
aggiungendo tuttavia che tale rimembranza gli era stata suggerita da un deputato del Parlamento italiano, quando dello sciopero politico bolognese nel marzo del 1868 disse non essere popolo ma canaglia che tirava sassi. Invece ad un uomo politico dei nostri giorni piacque di dirla con frase pure carducciana
644. Fango che sale.
L’onor. Giuseppe Colombo, che fu ministro delle Finanze, in una conferenza tenuta a Milano nel ridotto della Scala la sera del 7 novembre 1889 a proposito delle elezioni amministrative, disse, con frase un po’ rude, dopo aver parlato dell’indifferenza per la cosa pubblica delle classi più colte: «La popolazione bassa approfitta di questa inerzia, e il fango sale, sale e sale - sarebbe il caso di ripetere col Carducci.» La frase carducciana richiamata dall’on. Colombo (il fango che sale che sale che sale) fu scritta dal Poeta in un vivacissimo articolo «a proposito del processo di Piazza Sciarra». pubblicato nella Lega della Democrazia di Roma, del 2 giugno 1883, e poi ristampato in Confessioni e battaglie, ser. II (Opere, vol. XII, pag. 247). Ma della stessa imagine egli si era valso nelle Rime nuove, parte II, son. XXXIII: Dietro un ritratto, ultima terzina:
Sopra il fango che sale or non mi resta
Che gittare il mio sdegno in vane carte
E dal palco mortale un dì la testa.
Vero si è che l’onor. Colombo alludeva specialmente ai partiti estremi, alle sètte, delle quali Ugo Foscolo scriveva che
645. A rifar l’Italia bisogna disfare le sètte
646. .... Un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.
Dante intende per Marcello persona di grande autorità politica, ma non è chiaro cui alluda. Alcuni vogliono che parli di M. Claudio Marcello, il vincitore di Siracusa, altri di C. Claudio Marcello, console, partigiano di Pompeo e fiero nemico di Giulio Cesare.
Oggi il maggior numero dei governi europei ed extraeuropei si assidono su basi democratiche:647. Government of the people, by the people, for the people.13
I fondamenti sui quali riposa la vecchia società, sono scossi ogni giorno, e i versi del poeta di Satana cadono giustamente a proposito:
648. E già già tremano
mitre e corone;
move dal claustro
la ribellione.
E pugna e predica
sotto la stola
di fra Girolamo
Savonarola.
E chi dice a noi quali sorprese ci serbi l’avvenire? Auguriamoci ch’esso non sia del partito che ha per parola d’ordine i famosi versi stecchettiani:
649. Avanti, avanti, avanti
con la fiaccola in pugno e con la scure!
650. Ça ira.14
l’inno della rivoluzione francese, composto probabilmente nel maggio o nel giugno 1790, poichè lo cantavano con entusiasmo i 200,000 operai che lavoravano al Campo di Marte per i preparativi della Festa della Federazione il 14 luglio: la musica fu quella di un’aria di contraddanza allora in gran voga, composta da Bécourt col titolo Carillon national la paternità delle parole fu rivendicata da Ladré, poeta delle vie e cantastorie ambulante, il quale nel 1793 chiese al Comitato di Salute Pubblica una ricompensa nazionale come autore dello Ça ira; ma queste due parole che sono il primo verso e il ritornello della canzone, sono certamente anteriori alla composizione di Ladré, e forse non è senza fondamento la congettura di coloro che ne fanno risalire le origini a Benjamin Franklin, il quale già nel 1776 soleva rispondere con le parole stesse a chi gli domandava novelle della grande rivoluzione americana. È certo che la composizione di Ladré era troppo letteraria per diventare popolare. Nel 1790 probabilmente se ne cantava un solo couplet:
Ça ira,
La liberté s’établira,
Malgré les tyrans, tout réussira.
È soltanto sotto il Terrore, nel terribile 1793, che fu fatta da ignoti la feroce variante, che è la più conosciuta:
Ça ira,
Les aristocrates à la lanterne!
Les aristocrates on les pendra!
In questo medesimo tempo erano di moda i famosi versi:
651. Et des boyaux du dernier prêtre
Serrons le cou du dernier roi.15
Et ses mains ourdiroient les entrailles du prêtre,
A défaut d’un cordon, pour étrangler les rois.
Ma dei versi citati di sopra, e più noti di questi ultimi, s’ignora il vero autore, che taluno ha creduto essere Sylvain Maréchal. Del resto, chiunque ne sia l’autore, egli non avrebbe fatto che mettere in poesia il voto selvaggio del celebre Jean Meslier, curato di Etrépigny, nello Champagne, morto nel 1733, che nella seconda parte del suo Testamento, di cui Voltaire pubblicò un estratto, e che molti ritengono apocrifo, scriveva: «Je voudrais, et ce sera le dernier et le plus ardent de mes souhaits; je voudrais que le dernier des rois fût étranglé avec les boyaux du dernier prêtre.» E poiché ho nominato Voltaire, non sarà fuor di luogo registrare che in una lettera a Helvetius dell’11 maggio 1761 egli scriveva: «Est-ce que la proposition honnête d’étrangler le dernier Jésuite avec les boyaux du dernier Janséniste ne pourrait amener les choses à quelque conciliation?»
Questo era il tempo in cui anche i migliori affermavano audacemente che:
652. L’insurrection est le plus saint des devoirs.16
Per gli eterni ribelli non basterebbe il demolire regni e religioni: per molti fra essi è vangelo la celebre frase di Pierre-Joseph Proudhon:
653. La propriété c’est le vol.17
scritta da lui nel libro: Qu’est-ce que la propriété? La prima delle due memorie di cui il libro si compone, fu pubblicata nel 1840 col titolo: Recherches sur le principe du droit et du gouvernment. Il primo capitolo comincia a questa maniera: «Si j’avais à répondre à la question suivante: Qu’est-ce que l’esclavage? et que d’un seul mot je répondisse, C’est l’assassinat, ma pensée serait d’abord comprise.... Pourquoi donc à cette autre demande: Qu’est-ce que la propriété? ne puis-je répondre de même, C’est le vol, sans avoir la certitude de n’être pas entendu, bien que cette seconde proposition ne soit que la première transformée?» Il conte Giuseppe d’Esteurmel racconta nei suoi Derniers souvenirs, in data del 3 dicembre 1848, che il Proudhon, questionando con Felice Pyat, aveva avuto un ceffone in cambio d’un pugno, e gli si erano rotte anche le lenti sul naso. Però di tutto questo non era rimasto tanto dispiacente quanto delle parole dette dal Pyat nel dargli lo schiaffo: Je vous le donne, en toute propriété e del commento aggiunto da un tale che si trovò presente al fatto: Il ne l’a pourtant pas volé! (Giorn. di Erud., marzo 1893, pag. 287).
Fu asserito che tale assioma prima che dal Proudhon fosse stato detto dal girondino Jean-Pierre Brissot de Warville (morto sulla ghigliottina il 31 ottobre 1793). Ma Proudhon che teneva a questa massima più che alla vita, si difese vivamente, allegando la sua ignoranza completa delle idee formulate da Brissot su tale argomento e la loro differenza fondamentale. In vero il Brissot in un’opera giovanile: Recherches philosophiques sur le droit de propriété et sur le vol, considérés dans la nature et dans la société, sostiene che la proprietà naturale dev’essere limitata a quanto può occorrere a ciascuno per il soddisfacimento de’ suoi bisogni e che la proprietà civile, che si estende al superfluo, pur non avendo fondamento in natura, può esser ammessa per ragioni di opportunità sociale; «Le voleur dans l’état de nature est le riche, — egli dice nella Section VII — est celui qui a du superflu: dans la société, le voleur est celui qui dérobe à ce riche. Quel bouleversement d’idées!» Si tratta dunque di un semplice ravvicinamento verbale ma le idee dei due scrittori son molto lontane tra loro. Il singolare è che il povero Brissot che era così indulgente per i ladri («ne punisson cruellement les voleurs») morì vittima di accuse, che si chiarirono poi calunniose, di venalità e concussione e il suo cognome dette origine a un verbo, brissoter, creato pare da Camillo Desmoulins, e che significava rubare! È notevole che qualche scrittore socialista volle trovare il concetto medesimo — non le parole — della demolizione del diritto di proprietà, anche prima del Brissot, in uno scherzo giovanile del Goethe, Katechisation (Goethe’s Sammtliche Werke, Leipzig, Max Hesse, II. Bd., p. 153: Gedichte. II. Th., Epigrammatisch) stampato già nel 1773: ma giustamente il Croce nel dare la traduzione di questo scrittarello epigrammatico, nella Critica, vol. XVI, pag. 115, annota che di ciò nel pensiero del Goethe non era nulla e che l’epigramma vuol essere soltanto una satira del metodo socratico d’insegnamento.
Ben più temperato e ragionevole del Proudhon si mostrava - e non poteva essere altrimenti - Giuseppe Mazzini dicendo:
654. Non bisogna abolire la proprietà perchè oggi è di pochi, bisogna aprire la via perchè i molti possano acquistarla.
La verità però è che le teorie socialistiche hanno fatto un gran cammino, e non sono più il monopolio di pochi esaltati, ma sono difese e discusse anche da pensatori profondi ed onesti i quali hanno saputo organizzare le masse coscienti e lavoratrici, secondo l’ormai storica frase:
655. Proletarier aller Länder, vereinigt Euch.18
Il libro di Marx fu per molto tempo il vangelo, le pandette del Socialismo. Qualche anno fa parve fosse un po’ dimenticato e un notissimo uomo di stato disse la famosa frase:
656. Carlo Marx è stato mandato in soffitta.
Fu alla Camera dei Deputati alla 2ª tornata dell’8 aprile 1911, che chiudendosi la discussione sulle comunicazioni del governo, cioè sul programma esposto dall’on. Giovanni Giolitti, che presentava il suo nuovo ministero (succedendo al gabinetto Luzzatti), l’on. Giolitti stesso, rispondendo ai suoi oppositori e rilevando l’allarme sorto nel partito liberale quando egli aveva invitato l’on. Bissolati - che allora non accettò - a prender parte al governo, diceva: «Sono passati otto anni, il paese ha camminato innanzi, il partito socialista ha moderato assai il suo programma, Carlo Marx è stato mandato in soffitta....» e il resoconto nota a questo punto: Ilarità - Rumori - Proteste vivissime all’estrema — Applausi al centro e a destra, e registra le interruzioni dell’on. Ciccotti.
Le schiere dei tesserati del socialismo hanno anche il loro inno, il Canto dei Lavoratori, che l’on. Filippo Turati (allora semplicemente avv. Filippo Turati) pubblicò nella Farfalla del 7 marzo 1886 (anno X, n. 10) a pag. 79 e che riprodotto subito da altri periodici socialisti divenne rapidamente popolare. Di questo inno vanno qui specialmente citati, la prima strofa:
657. Su, fratelli, su compagne,
su, venite in fitta schiera;
sulla libera bandiera
splende il sol dell’avvenir.
il ritornello:
658. O vivremo del lavoro
o lottando si morrà!
cui il popolo ha fatto la variante:
O pugnando si morrà
e l’altro verso:
659. Guerra al regno della guerra!
Questo inno dei lavoratori fu musicato dal maestro Amintore Galli (vedi il Tempo di Milano del 27 aprile 1907) ed è ora l’inno ufficiale delle falangi socialiste L’immagine del
660. Sole dell’avvenire.
contenuta nella prima strofa dell’inno del Turati, pare debba attribuirsi a G. Garibaldi il quale in una lettera del 5 agosto 1873 diretta agli amici del Gazzettino Rosa in risposta ad un indirizzo inviatogli da una sezione dell’Internazionale residente in Campione, scriveva: «Miei cari amici, sì! l'Associazione internazionale dei Lavoratori è il Sole dell’avvenire» (Epistolario di G. G., raccolto ed annotato da E. E. Ximenes, vol. II, Milano. 1885, pag. 51).
Ma le idee camminano e l’Inno turatiano è diventato oggi quasi una poesia passatista. I canti oggi preferiti sono Bandiera rossa e l’Inno dell’Internazionale. Nè dell’una nè dell’altro ho potuto sapere i nomi degli autori: ma, almeno la prima, mi consta che è tradotta, credo dal francese. Essa, come poesia, è ben povera cosa: eccone la prima e l’ultima strofa (da stampe ufficiali del partito):
Compagni, avanti! alla riscossa, |
Pace pace al tugurio del povero; |
Della Bandiera rossa il nuovo partito socialcristiano, che va sotto il nome di «popolare» ha fatto (nel 1919?) una riduzione o parodia che dir si voglia col titolo di Bandiera bianca: e nemmeno di questa sono in caso di dire l’autore. Tuttavia la ricordo perchè qualche verso è notissimo e ne cito il principio:
Avanti, o giovani. |
Se queste teorie saranno destinate a trionfare, sarà vana ogni resistenza reazionaria: le persecuzioni di ogni genere non faranno (e così è accaduto finora) che accrescere il numero dei proseliti. Non è dunque da consigliarsi a nessuno di tentare di arrestarne i progressi con quei mezzi di coercizione che sono sottintesi nella celebre e impudente frase:
661. Se son piene le carceri, son vuote le sepolture.
Fu questa la risposta che il cardinale Luigi Lambruschini, segretario di Stato sotto Gregorio XVI, dette a chi un giorno gli disse che le carceri non erano più capaci di contenere prigionieri politici (Gius. Leti, Roma e lo Stato Pontificio dal 1849 al 1870, 2a ediz., vol. I, Ascoli Piceno, 1911, pag. 53, n. 4). Di lui scrisse il Farini nella Storia d’Italia che «assoluto e superbo, volle dominar solo in Corte e nello Stato.... non sopportava emuli o pari in autorità, e non voleva inceppamenti alle voglie e deliberazioni sue».
È pure certo che l' ordinamento politico e sociale che oggi vige, aspetta grandi e radicali riforme, che nulla avranno che fare con le mistificatrici rivoluzioni politiche, nelle quali il popolo ha versato tanto sangue senza ritrarne quasi mai vantaggi sensibili. Questa trista esperienza l’hanno fatta specialmente in Francia, dove però non si sono ancora convinti che:
662. Plus ça change, plus c’est la même chose.19
Sono parole di Alfonso Karr, che ne rivendicò la paternità in diversi luoghi delle sue opere, e ne fece anche i titoli di due volumi di articoli politici pubblicati nel 1875, dei quali il primo è intitolato: Plus ça change...; e il secondo: ....Plus c’est la même chose. Nel primo (pag. 7) egli scrive: «C’est en 1848, que, pour la première fois, j’ai formulé une des convictions, que j'ai acquises, en une petite phrase qui a d’abord eu l’air d’un paradoxe et d’une plaisanterie, mais qui exprime une vérité incontestable:
Plus ça change, plus c’est la même chose.»
Ed egli stesso in altra sua sua opera così si ira vantato di questa paternità: «Trois jocrissades que je ne suis pas honteux d’avoir trouvées: N’ayez pas de voisins, si vous voulez vivre en paix avec eux — J’aime mieux ne pas avoir de meubles et qu’ils soient à moi. — En politique, plus ça change, plus c’est la même chose» (En fumant, Paris, Lévy, 1861, pag. 54).
La stessa idea è resa nei graziosi versi del vaudeville:
663. Ce n’était pas la peine,
Non, pas la peine, assurément,
De changer de gouvernement.20
ritornello dei couplets cantati da Clairette dinanzi ai popolani del mercato nell’operetta La Fille de Madame Angot (a. I, sc. 14), di Clairville, Siraudin e Koning, musica di Lecocq. Citiamo anche la orribile versione italiana, molto libera (di L. Mastriani):
E la baracca così cammina.... |
Come si cita, ma non soltanto a proposito di politica, il grazioso ritornello di una canzone napoletana di Salvatore di Giacomo, intitolata E vota e gira!..., musicata da P. Mario Costa per la festa di Piedigrotta del 1889:
664. E vota e gira, ’a storia è sempre chessa.21
Ma d’altra parte non ha da essere neppur facile l’arte di governare se tutti si trovano concordi nel gridare sempre contro il governo, nel chiamarlo responsabile anche di ciò di cui è innocente. È ben in Italia modo comune di dire, non sempre per scherzo,
665. Piove, governo ladro!
di cui il Panzini nel Dizionario moderno, 3a ediz. (1918, pag. 258 e 442) spiega così l’origine. Nel 1861 i mazziniani avevano preparato a Torino una dimostrazione, ma il giorno fissato pioveva e la dimostrazione non si fece. Il Pasquino, noto giornale umoristico, pubblicò allora una caricatura del suo direttore, Casimiro Teja, rappresentante tre mazziniani sotto un ombrello al riparo dalla pioggia dirotta e ci mise sotto la leggenda: Governo ladro, piove! Ma nel volume del Pasquino del 1861 non c’è questa vignetta, nè essa si trova nella bella scelta di Caricature del Teja raccolte e annotate dal Ferrero (Torino, 1900): inoltre, pure non escludendo che il Teja abbia fatto in qualche tempo una caricatura su questo soggetto, è certo che il caustico motto non fu inventato da lui. Esso era ben più antico e comunissimo, tanto che se ne può trovare la fonte nientemeno che in S. Agostino, o meglio in un proverbio dei suoi tempi secondo il quale il popolo dava la colpa ai cristiani, com’era allora di moda, della siccità e delle altre disgrazie naturali. Nel De Civitate Dei, lib. II, in princ. del cap. IV, dice: «Memento autem, me ista commorantem, adhuc contra imperitos agere, ex quorum imperitia illud quoque ortum est vulgare proverbium: Pluvia defit, causa Christiani».
Del resto se in Italia ci sfoghiamo col governo quando piove troppo, è naturale che in altri paesi dove la pioggia è più rara, se la prendano con lui quando non piove. Questo accade tra i nostri fratelli libici come narra A. M. Sforza nell’interessante volume: Esplorazioni e prigionia in Libia (Milano, Treves, 1919), a pag. 127: «Nelle nostre campagne, in Italia, la pioggia viene spesso a turbare il regolare andamento dei lavori agricoli. In queste circostanze l’esagerazione dello spirito critico che esprime costante malcontento verso gli ordinamenti che reggono il nostro paese, viene sintetizzata dalle parole: Piove, governo ladro! Sul Gebel in Tripolitania, e non sul Gebel soltanto, la connessione fra l’andamento propizio delle stagioni agricole e l’azione governativa è considerata seriamente come un fatto provato dall’esperienza. Anni di asciuttore terribile avevano funestato tutto il paese al mio arrivo in Tripolitania e le cause venivano da ognuno attribuite al nuovo regime instaurato nell’impero ottomano dopo la deposizione del sultano Abdul Hamid, ed ai nuovi funzionari giovani turchi che erano venuti a governare il paese. Di questi funzionari che venivano considerati come un ostacolo alla pioggia, si diceva che avessero es serual melah (i pantaloni salati)»
Per cui, tornando alla politica, c’è anche da scusare coloro che con una punta di fatalismo, pensano non essere il caso di scaldarsi troppo per aggiustare le cose di questo mondo, chè tanto666. Il mondo va da sè.
Il conte Vittorio Fossombroni (1754-1844), insigne matematico e idraulico, che Pietro Leopoldo nominò soprintendente delle colmate della Val di Chiana e Napoleone apprezzò; sotto Ferdinando III e Leopoldo II, ministro degli esteri; memorabile per avere con gli scritti e con l’opera mantenuta alla Toscana la libertà commerciale e, quel che è più, la libertà da ogni ingerenza straniera; ma troppo facile, come ben disse il Capponi, a transigere con tutte le nuove idee ch’egli vide sorgere durante la vita, «ne se donnant jamais la peine de travailler pour l’avenir», ebbe a suo motto di governo questo (che altri citano in altra forma: le cose vanno da sè); e il Tommaseo (Di G. P. Vieusseux e dell’ andamento della civiltà italiana in un quarto di secolo, 2a ediz., 1864, pag. 70) diceva che egli «così scusava la trascuraggine sua; trascuraggine ingegnosa ed amena, propria a certi Toscani dell’età passata (e Dio non voglia, della presente), de’ quali egli era un istorico e quasi ideale modello»; e più oltre (pag. 110), parlando della fine del Fossombroni che «morì, come certi ingegnosi sogliono, a tempo per non dover confessare che il lasciar andare le cose da sè fa andar via da ultimo e i principi, e, quel che più monta, i ministri de’ principi».
Parlando dei partiti sociali e del loro avvenire, ci siamo allontanati alquanto dal nostro primo argomento. Il bisogno di una educazione politica e sociale delle masse spinse Massimo d’Azeglio, a scrivere che:
667. S’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani.
nella prefazione dei Miei Ricordi. Il periodo intero così suona: «Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani.» Ferdinando Martini narra nell’Illustrazione Italiana, del 16 febbraio 1896, a pag. 99, che il D’Azeglio avrebbe detto in presenza di lui e di altri a Montecatini, in un colloquio di cui diffusamente narra l’occasione: «Se vogliono fare l’Italia, bisognerà che pensino prima a fare un po’ meno ignoranti gli Italiani»: e lo stesso racconto è ripetuto nel volume di Americo Scarlatti, Et ab hic et ab hoc, to. I, pag. 26. Non credo che il cavalleresco marchese muterebbe molto il suo giudizio tornando ora al mondo. Si può dire di no a priori, se si fa mente a quel che ne pensava un altro nobilissimo ingegno, Giosuè Carducci, il quale ieri imprecava al bizantinismo di governi mancanti di ogni ideale, con i famosi versi:
668. Impronta Italia domandava Roma,
Bisanzio essi le han dato.
che sono la chiusa della ode Per Vincenzo Caldesi (nei Giambi ed Epodi); domani scatterà nell’altra terribile apostrofe:
669. La nostra patria è vile.
che sta come finale dell’altra ode In morte di Giovanni Cairoli (pure fra i Giambi ed Epodi). Nell’ode medesima poche strofe prima:
....Oh maledetta |
Lorenzo Stecchetti (al secolo Olindo Guerrini) nei Postuma (XXI) fece eco alle sdegnose parole del maestro dicendo:
Ma noi giacciamo nauseati e stracchi |
ed agli attacchi, che queste accuse alla viltà politica del suo tempo gli procacciarono, rispose con sanguinosa ironia nella Palinodia (nella Nova Polemica):
Dissi — noi siam vigliacchi — |
L’Italia si è costituita in nazione una e libera sotto le garanzie di una monarchia costituzionale e col grido:
670. Italia e Vittorio Emanuele.
Esso è dovuto a Giuseppe Garibaldi, il quale, per quanto mi è noto, lo scrisse primieramente in una lettera a Rosolino Pilo del 15 marzo 1860 intorno ai moti rivoluzionari che si preparavano in Sicilia: «In caso d’azione, sovvenitevi che il programma è Italia e Vittorio Emanuele.» Un’altra lettera inviata da Garibaldi ad Agostino Bertani il 5 maggio 1860, pochi istanti prima di salpare da Quarto con i Mille per la leggendaria impresa di Sicilia conteneva il seguente periodo: «Il nostro grido di guerra sarà Italia e Vittorio Emanuele e spero che la bandiera italiana anche questa volta non riceverà sfregio.» Ugualmente l’ordine del giorno letto ai Mille il 7 maggio in Talamone, dove le navi garibaldine avevano preso terra per fare incetta di munizioni, diceva: «Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò sulle sponde del Ticino, or sono dodici mesi: Italia e Vittorio Emanuele; e questo grido, ovunque pronunziato da noi, incuterà spavento ai nemici d’Italia.» Ma la prima volta che queste parole furono ufficialmente adoperate, fu nel famoso Decreto di Salemi del 14 maggio 1860, controfirmato Francesco Crispi, col quale Garibaldi assunse la dittatura della Sicilia, e che comincia appunto con le suddette quattro parole.Fin d’allora i patriotti italiani compresero che la unità e la libertà d’Italia erano possibili soltanto con le istituzioni monarchiche: e fin d’allora un agitatore animoso, che doveva più tardi diventare uno dei maggiori nostri uomini di Stato, diceva che:
671. La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe.
Tale era il credo politico di Francesco Crispi. Egli lo professò per la prima volta in Parlamento nella seduta del 1° maggio 1864, parlando della condizione dei partiti nella Camera. «È questione, egli disse, non di sentimento, ma di buon senso. La monarchia è quella che ci unisce, la repubblica ci dividerebbe, e siccome il partito di azione vuole l’Italia forte, grande, dalle Alpi all’Appennino, noi saremo col Principe e non mancheremo al giuramento.» Gli stessi concetti sviluppava pochi mesi dopo (seduta del 18 novembre 1864) rispondendo a Mordini, che rimproverava alla Corona di aver violato i plebisciti con la Convenzione di settembre: «Credo che il bene d’Italia non possa farsi che sotto quella bandiera che ci guidò da Marsala al Volturno: l’Italia e Vittorio Emanuele. Questa bandiera è la sola che si possa tenere alta dall’Italia tutta: la monarchia ci ha unito, la repubblica ci dividerebbe. Noi siamo monarchici per il bene d’Italia.»
Queste franche dichiarazioni attirarono su Crispi le ire del partito Mazziniano; e Mazzini stesso lo attaccò acerbamente con una letterà pubblicata nell’Unità Italiana del 3 gennaio 1865. Crispi si difese con un nobilissimo opuscolo: Repubblica e monarchia, lettera a Giuseppe Mazzini, ove si contiene fra gli altri il seguente periodo: «Sì, la monarchia ci unisce, e la repubblica ci dividerebbe, e bisogna non conoscere il paese, ignorare le condizioni di Europa per credere altrimenti.»
Perciò alla fede monarchica si convertirono allora anche dei ferventi repubblicani, che anteponevano alla immediata realizzazione dei loro ideali, la formazione di un’Italia una e libera dalle Alpi all’Etna; questo però non impediva a qualcuno di confidare in un avvenire lontano, e di attendere tranquillamente
672. I placidi tramonti della monarchia.
frase che Alberto Mario, di fede repubblicana federalista; scrisse più volte nel giornale La Lega della Democrazia (fondata nel 1880). Pensava infatti il Mario che i suoi ideali dovessero esser raggiunti non con la violenza nè con le cospirazioni settarie, ma soltanto con la propaganda pacifica delle idee repubblicane. Egli quindi s’inchinava alla volontà della maggioranza, finchè questa volesse conservare la forma monarchica del governo.
Del Crispi si ripetono altre frasi, poichè il suo stile incisivo è specialmente adatto a dar la materia prima di molte citazioni. La più popolare è quella testè da me ricordata, ma ce ne sono pure altre meno note, tale è quella delle
673. Zone grigie.
con la quale frase egli indicò i paesi di confine di nazionalità mista e dànno origine a tante querele d’irredentismo. Egli la disse in una conversazione o intervista che ebbe nel 1890 col signor Saint-Cère redattore del Figaro, e che fu pubblicata in quel giornale parigino il 29 settembre di quell’anno: «La question des nationalités se meurt. Il n’y a plus de divisions marquées, tranchées; il y a sur toutes les frontières de tous les pays des zones grises où les nationalités se mêlent.» La frase gli fu molto rimproverata benchè fosse fondamentalmente giusta: ma era ingiusto di applicarla, come forse non il Crispi, ma altri per lui fece, a regioni delle quali la nazionalità italiana era indubbia.
Agostino Depretis nel suo celebre discorso di Stradella dell’8 ottobre 1876 (da non confondersi però col cosiddetto programma di Stradella che è dell’anno precedente, cioè prima che la Sinistra salisse al potere) parlando dei nuovi criteri in fatto di elezioni politiche portati dal suo ministero diceva: «Se la parola d’ordine delle amministrazioni precedenti era questa: chi non è con noi è contro di noi; la nuova parola d’ordine che io rivolgo a nome del Ministero a tutti i funzionari dello Stato, è quest’altra:
674. Lasciate passare la volontà del paese.»
La frase restò, benchè i ministri di Sinistra (Depretis compreso) l’osservassero anche meno di quelli di Destra. Ed egualmente due anni dopo, Benedetto Cairoli, a proposito della sincerità del voto politico e della riserva che il governo s’imponeva nelle elezioni, così si espresse nel suo discorso-programma di Pavia del 15 ottobre 1878: «Non mancano opposte reminiscenze, ma non importa; non saremo abili, ma soprattutto vogliamo essere onesti. Meglio la sconfitta di un Ministero che quella della giustizia. Preferiamo cadere con la nostra bandiera piuttosto che vivere disonorandola.» Da questo periodo, che sentiva la mal celata ironia contro gli avversari dell’on. Cairoli, questi tolsero la frase dell’uso comune
675. Saremo inabili, ma siamo onesti.
che citarono, con poca buona fede, come se fosse una confessione preventiva d’incapacità. E pure dell’on. Cairoli è l’altra frase che più non si ricorda se non per dileggio:
676. La politica delle mani nette.
che il Cairoli disse non molto tempo dopo a proposito del Congresso di Berlino, da cui l’Italia era tornata col danno e con le beffe. Di quella politica troppo onesta il paese pagò lungamente le spese, ed a che prezzo! Fu anche detto che la frase del Cairoli non era completamente originale poichè già nel 1859 il ministro prussiano von Schleinitz, al tempo della guerra della Francia e dell’Italia contro l’Austria, aveva vantato
677. Die Politik der freien Hand.22
Dove più sopra ho accennato ad elezioni, avrei potuto rammentare opportunamente una sentenza classica:
678. Numerantur enim sententiae, non ponderantur; nec aliud in publico consilio potest fieri; in quo nihil est tam inaequale, quam aequalitas ipsa. 23
Alla frase cairoliana ultima ricordata avviciniamo quest’altra che ricorda un altro periodo poco felice della politica italiana ma che nel significato corrisponde alla frase dello Schkinitz e del Bismarck:
679. Indipendenti sempre, ma isolati mai.
Una tale politica però non possono farla che delle nazioni forti. L’Inghilterra una volta si vantava del suo splendido isolamento, ma anch’essa ha trovato necessario di uscire dal suo riserbo, di concludere delle alleanze, e di scendere in campo accanto alla sua forte vicina, con la quale da anni aveva inaugurato una
680. Entente cordiale.24
che è frase antica per denotare le relazioni amichevoli che anche altre volte sono corse fra la Francia e l’Inghilterra. Secondo alcuni fu Riccardo Cobden il primo a farne uso: secondo altri essa è molto più vecchia: «Lord Aberdeen.... made use of the words entente cordiale as expressive of the relations of the two Governments» (Thirty Years of Foreign Policy, by the author of «The Right Hon. B. Disraeli» London, 1885, pag. 347).
Ancora poche frasi sulla politica ecclesiastica (che nel nostro paese ha specialissima importanza) e ho finito. La migliore delle politiche in questo argomento è espressa nell’aforisma:
681. Libera Chiesa in libero Stato.
rimasto famoso anche perchè si disse essere stato pronunziato da Cavour moribondo. «La mattina del giovedì 6 giugno (1861) — così scrive il Massari (Il Conte di Cavour, ricordi biografici, 2a ediz., Torino, 1875, pag. 434) — il pietoso frate accorse a consolare l’agonia del grande uomo con le ultime benedizioni della religione. Il moriente lo riconobbe e stringendogli la mano gli disse: Frate, libera Chiesa in libero Stato. Il sublime disegno allegrava la sua agonia. Furono le sue ultime parole. Alle ore sei e tre quarti di quella mattina il conte Camillo di Cavour mandava l’ultimo respiro.» Ma altri smentì questo racconto. Il march. Emanuele Taparelli D’Azeglio così scriveva il 20 febbraio 1890 alla Gazzetta Piemontese di Torino (num. del 20-21 febbraio 1890) in risposta a un articolo pubblicato il giorno precedente col titolo: La formula di Cavour: «L’articolo di ieri nella Gazzetta Piemontese mi ha fatto ricordare di due cose. La prima che avendo chiesto alla marchesa Alfieri mia cugina se realmente le ultime parole pronunziate dal conte Cavour fossero, come generalmente si crede, quelle relative alla libera Chiesa: essa mi disse recisamente di no. Che il moribondo pronunziava frasi incoerenti, epperciò questa deve essere messa come tante altre nel numero delle leggende. Del resto lo abbia detto o no, non importa molto per la storia.» Ed infatti questa era la formula che incarnava la politica ecclesiastica di Cavour, ed egli aveva già avuta occasione di ripeterla più volte, fra le altre più solennemente in un memorabile discorso pronunciato al Parlamento il 27 marzo dell’anno medesimo nella discussione sulle interpellanze del deputato Audinot intorno alla quistione di Roma e appoggiando l’ordine del giorno Boncompagni che acclamava Roma capitale d’Italia. Cavour s’illudeva allora di persuadere il Pontefice che la Chiesa può essere indipendente, anche dopo la perdita del potere temporale. Sperava che le proposte fatte con tutta sincerità, con tutta lealtà dall’Italia potessero essere favorevolmente accolte dal Papa, al quale egli avrebbe detto: «Quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli divoti, noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: Libera Chiesa in libero Stato.» La massima cavurriana è stata molto discussa sotto diversi rapporti: vedasi fra altri la «Illustrazione giuridica della formola del Conte di Cavour Libera Chiesa in libero Stato» pubblicata nella Nuova Antologia del 15 aprile 1882 da Carlo Cadorna (zio del generale, che fu capo di stato maggiore sino al 1917), il quale ne dava la seguente definizione: «La formula del Conte di Cavour è la semplice applicazione del principio della libertà della coscienza nelle relazioni dei cittadini, e della loro associazione collo Stato in materia di religione.»
Si consultino pure nella Nuova Antologia altri due articoli, l’uno Il Conte di Cavour e la Questione Romana, della marchesa Giuseppina Alfieri nata Di Cavour, che assistè suo zio al letto di morte (N. A., vol. I, 1866, pag. 815), l’altro di Guido Padelletti, Libera Chiesa in libero Stato: genesi della formula cavouriana (vol. XXIX. 1875, pag. 656); e lo scritto del Bertolini, Il Conte di Cavour prima del Risorgimento italiano e la formula «Libera Chiesa in Libero Stato» (Bologna, 1881).
Questa politica savia e liberale è assai lontana dalla intransigenza di coloro che dicono:682. Le cléricalisme, voilà l’ennemi! 25
Fu il 4 maggio 1877 che Léon Gambetta rispondendo alla Camera francese ad una interpellanza sulle misure prese dal governo per reprimere le mene degli ultramontani, così concludeva il suo discorso: «Et je ne fais que traduire les sentiments intimes du peuple de France en disant du cléricalisme ce qu’en disait un jour mon ami Peyrat: Le cléricalisme? voilà l’ennemi!» (Journal Officiel, 5 mai 1877, pag. 3284). Quest’amico era Alfonso Peyrat, giornalista, fondatore dell’Avenir National, morto nel 1891. Però lo stesso Gambetta, in altra occasione, alludendo all’aiuto che la Francia ha sempre dato (anche per ragioni politiche) alle missioni religiose all’estero, diceva invece: L’anticléricalisme n’est pas un article d’exportation.
Le condizioni presenti delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa e il conflitto lungamente durato in Italia fra la fede e la patria hanno dato origine ad altre frasi, fra le quali la più nota è forse la formula:
683. Nè elettori nè eletti.
684. Non expedit. 26
è di uso tradizionale nella Cancelleria Apostolica ogni volta che occorre di dare risposta negativa per sole ragioni di opportunità a qualche istanza dai fedeli. Una circolare della S. Inquisizione in data del 30 luglio 1886 spiegava la frase comunicando avere il S. Padre, udito il parere degli Inquisitori generali, ordinato dichiararsi che non expedire prohibitionem importat (Acta Sanctae Sedis, vol. XIX. pag. 94). D’allora in poi con le parole Non expedit s’intese senz’altro l’astensione dei cattolici dalle urne. Un bell’articolo firmato Eufrasio e intitolato Il «non expedit», nella Nuova Antologia, del 1° settembre 1904, pag. 81-100, fa la storia di questa frase e della precedente. Per la storia pure ricorderemo che il non expedit ha cessato di aver vigore con le ultime elezioni generali politiche del 16 novembre 1919. L’Avvenire d’Italia, giornale politico di Bologna, nel numero 308 degli 8 novembre attestava che proprio in quei giorni un’autorità ecclesiastica aveva posta la formale domanda se fosse lecito o no ai cattolici italiani di accedere alle urne politiche, e «la S. Penitenzieria aveva risposto affirmative, senz’alcuna limitazione o riserva»: e l’Osservatore Romano, organo ufficiale del Vaticano, nel num. del 10-11 successivo, dopo avere riportata integralmente l’informazione dell’Avvenire d’Italia, aggiungeva di suo: «Anche a noi consta dell’esistenza di questo responso della Sacra Penitenzieria».
E con questo lasciamo da parte la politica che non è una bella cosa e nemmeno una cosa divertente anche se non è matematica, dappoichè:
685. Die Politik ist keine exakte Wissenschaft. 27
Note
- ↑ 626. Vedrai, figlio mio, con quanta poca sapienza si possa reggere il mondo.
- ↑ 627. La salute del popolo sia la suprema delle leggi (per essi).
- ↑ 628. Ricordati, o Romano, che dovrai reggere col tuo imperio le genti,... perdonare a chi si sottomette, e debellare i superbi.
- ↑ 629. Imperio (o anche Ordine) e libertà.
- ↑ 630. Nessuna legge è comoda ugualmente per tutti.
- ↑ 631. La legalità ci uccide.
- ↑ 632. Molte sono le leggi in uno stato corrottissimo.
- ↑ 633. Occorre che la legge sia breve, perchè più facilmente i mal pratici la ricordino.
- ↑ 636. L’Impero è la pace.
- ↑ 637. Il buon pastore deve tosare le sue pecore, non divorarle.
- ↑ 638. la politica non ha viscere.
- ↑ 641. La povera plebe che paga.
- ↑ 647. Governo di popolo, dal popolo, per il popolo.
- ↑ 650. L’andrà.
- ↑ 651. E con le budella dell’ultimo prete stringeremo la gola all'ultimo re.
- ↑ 652. L’insurrezione è il più santo dei doveri.
- ↑ 653. La proprietà è il furto.
- ↑ 655. Proletari di tutti i paesi, unitevi.
- ↑ 662. Più si cambia, più è la stessa cosa.
- ↑ 663. Non valeva la pena, no, non valeva certo la pena di cambiare di governo.
- ↑ 664. E volta e gira, la storia è sempre questa.
- ↑ 677. La politica della mano libera.
- ↑ 678. I voti infatti si contano, non si pesano, nè può farsi diversamente in una pubblica assemblea, dove nulla è tanto ineguale che l’uguaglianza stessa.
- ↑ 680. Intesa cordiale.
- ↑ 682. Il clericalismo, ecco il nemico!
- ↑ 684. Non conviene.
- ↑ 685. La politica non è una scienza esatta.