Chi l'ha detto?/Parte prima/36

§ 36. Giustizia, liti

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§ 36.



Giustizia, liti





Principio fondamentale ed eterno della giustizia è l’

598.   Unicuique suum.1

di cui la fonte va cercata specialmente in due passi, uno di Cicerone, De natura deorum, III, 15: «Justitia.... suum cuique distribuit»; l’altro delle Istituzioni di Giustiniano, lib. I, tit. I, I: «Justitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi.» Si può anche dire con gli evangelisti:

599.   Reddite (ergo) quæ sunt Cæsaris, Cæsari, et quæ sunt Dei, Deo.2

(Evang. di S. Matteo, cap. XXII, v. 21,
- S. Marco, cap. XII, v. 17, - S. Luca,
cap. XX, v. 25).

È pure della Bibbia la sentenza:

600.   Justus ut palma florebit.3

(Salmo XCI, vers. 2).
che disgraziatamente è vera solo in un senso.... molto metaforico, poichè troppe volte l’amore della giustizia, per l’ingiustizia degli uomini, porta disgrazia a chi lo professa. Lo seppe Gregorio VII pontefice, morto a Salerno il 1085, le cui ultime parole, a torto o a ragione, furono:
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601.   Dilexi justitiam, et odivi iniquitatem, propterea morior in exilio.4

Vedi, tra le altre fonti, le Vite dei pontefici in seguito a quelle di Anastasio Bibliotecario, scritte dal card. Nicolò d’Aragona nei Rerum Italicarum Scriptores del Muratori, tom. III, p. 348, cap. CX, ove si aggiunge: «Quod contra quidam Venerabilis Episcopus respondisse narratur: Non potes, Domine, mori in exilio, qui in vice Christi et Apostolorum ejus divinitus accepisti gentes haereditatem, et possessionem terminos terrae.» Si veda pure il Chronicon di Ottone di Frisinga nei Monum. Germ. hist., vol. XX, p. 247.

Altra sentenza biblica è questa che loda l’unione della giustizia e della misericordia nel principe perfetto:

602.   Misericordia et Veritas obviaverunt sibi: justitia et pax osculatæ sunt.5

(Salmo LXXXIV, vers. 11).
e all’incontro è di Cicerone la seguente definizione filosofica della giustizia:

603.   Justitia.... erga Deos religio, erga parentes pietas, çreditis in rebus fides.... nominatur.6

È pure in Cicerone quest’altro, detto a temperare la soverchia rigidità degli intransigenti:

604.   Summum jus, summa iniuria.7

(De officiis, lib. I, cap. 10).
[p. 181 modifica]ma egli del resto non creò questo aforismo legale, che già si trovava nel Heautontimoroumenos di Terenzio (a. IV, sc. 5, v.47):

              Jus summum saepe summa est malitia.

Il concetto medesimo è espresso in un frammento dell’Heautontimoroumenos di Menandro, da cui Terenzio trasse la sua commedia.

Esso trova riscontro nel biblico:

605.   Noli esse Justus multum.8

(Ecclesiaste, lib. VII. cap. 17).

Di siffatti apoftegmi od aforismi giuridici (paræmiæ juris) è pieno il Foro, e molti hanno anche varcato le mura della curia per diventare popolari e di comune uso. Tali sono i seguenti:

606.   Audiatur et altera pars.9

frase di uso comune presso gli antichi, e usata anche nella eloquenza forense ad Atene: non in questa forma precisa si trova pure in Seneca, Medea, a. II. sc. 2, v. 199-200:

                  Qui statuit aliquid parte inaudita altera.
                  Aequum licet statuerit. haud aequus fuit.

«È nella Galleria degli Ufizi una tavola d’un ignoto quattrocentista: una Madonna col Bambino, pittura di pregio mediocre, opera incerta di alcun povero scolaro di Giotto. .... Sotto cotesta Vergine, che fu certamente affissa in qualche pretorio d’un palazzo di giustizia, una mano indica allo spettatore ed al giudice l’iscrizione in grandi lettere gotiche: Odi l’altra parte» (E. M. de Vogué, ne: La Vita Italiana durante la Rivoluzione francese e l’Impero, II, Milano 1897, a pag. 306).

607.   Impossibilium nulla obligatio est.10

sentenza di Celso jun., Lex 185 Digest., lib. 50, tit. 17, che in altra forma, di origine incerta ma certo della bassa latinità, si cita anche: Ultra posse nemo obligatur; oppure, Ad impossibilia nemo tenetur.
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608.   Error communis facit jus.11

«Non v’ha giurista il quale non adoperi il ditterio Error, communis facit jus, ma pochi si diedero la briga di appurare che sia scritto nella legge 3ª del Digesto al titolo De suppellectile legata» (Giuriati, Arte forense), ed è un testo di Paolo;

609.   Fiat justitia et pereat mundus.12

era motto abituale, secondo che assicurano molte raccolte di detti sentenziosi, dell’Imperatore Ferdinando I che fu già re d’Ungheria e sedè sul trono imperiale dal 1556 al 1564: ma Giorgio Hegel la corresse in questa forma: Fiat justitia ne pereat mundus. La frase primitiva può considerarsi come il prototipo di quell’altra, rimasta celebre ma citata poco esattamente:

610.   Périssent les colonies plutôt qu’un principe.13

che si attribuisce a Robespierre, ma non è sua: fu invece detta da Pierre-Samuel Dupont de Nemours all’Assemblea Nazionale nella seduta del 15 maggio 1791. Era stato detto che i provvedimenti favorevoli ai negri irriterebbero i coloni delle colonie francesi, e avrebbero prodotto una fatale scissione. «Si cette scission, disse l’oratore, devait avoir lieu, s’il fallait sacrifier l’interêt ou la justice, il vaudrait mieux sacrifier les colonies qu’un principe.» Proprio il contrario di quel che pensavano gli antichi uomini di stato italiani:

611. Meglio città guasta che perduta.   

Il Machiavelli nelle sue Istorie fiorentine, lib. VII (Firenze, Tipografia Cenniniana, 1873, vol. I, pag. 330) parlando di Cosimo de’ Medici il vecchio, scrive: «Dicendogli alcuni cittadini, dopo la sua tornata dall’esilio, che si guastava la città, e facevasi contra a Dio a cacciare da quella tanti uomini dabbene, rispose: Com’egli era meglio città guasta che perduta: e [p. 183 modifica]come due canne di panno rosato facevano un uomo da bene; e che gli stati non si tenevano con i paternostri in mano: le quali voci dettono materia ai nemici di calunniarlo, come uomo che amasse più sè medesimo che la patria e più questo mondo che quell’altro». Cosimo era tornato in Firenze dall’esilio con grandi onori il 1° ottobre 1434.

È di Virgilio il verso notissimo:

612.   Discite iustitiam moniti, et non temnere divos.14

(Eneide, lib. VI, v. 620).

La giustizia divina, assoluta, ha veramente poco che fare con la giustizia umana. Vi sono alcuni che serbano anche in questa una fiducia illimitata: e ripeterebbero all’occasione l’audace risposta del mugnaio di Sans-Souci a Federigo il Grande:

613.   Oui, si nous n’avions pas de juges à Berlin.15

di cui Francois Andrieux fece un verso nel suo poemetto Le meunier de Sans-Souci, letto in seduta pubblica dell’Istituto Nazionale il 15 germinale dell’anno V, e dove dette veste poetica a una nota tradizione, che forse avrà qualche fondamento storico, ma che offre troppe analogie con una storia narrata da Lehmann nel Florilegium politicum auctum (Frankfurt. 1662, to. I, pag. 332) e anche con una novella persiana pubbl. da Wustenfeld nella Zeitschr. der deutschen morgenländ. Gesellschaft, 1864, to. XVIII, pag. 406, per essere accettata senza riserve. La storia esterna di questa leggenda è molto minutamente raccontata dall’Hertslet in Treppenwitz der Weltgeschichte, IV, Aufl., pag. 297-300. Comunque sia la cosa, sembra che realmente Federico si conducesse con molta lealtà non solo verso il mugnaio ma verso tutti i piccoli proprietari che circondavano il suo parco. Il conte Hoditz, a cui egli un giorno narrava la sua condotta verso uno di costoro, rispondeva con molto garbo: «Ah Sire, je vois bien qu’il fait bon être votre voisin en petit!» (Dutens, Mémoires d’un voyageur qui se repose, to. I, pag. 392).
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Andrieux doveva conoscere questa risposta, o almeno la intuì, perchè ne fece la morale del suo racconto (poemetto citato, ultimi versi):

614.                       ....Ce sont là jeux de prince:
On respecte un moulin, on vole une province!16

Il primo emistichio era già noto, perchè faceva parte di un antico proverbio francese: Ce sont jeux de prince; ils ne plaisent qu’à ceux qui les font. D’Olivet in principio della sua Histoire de l’Académie française, narrando di una visita che Cristina Regina di Svezia fece a quell’istituto, aggiunge: «Une chose assez plaisante et dont la reine se mit à rire toute la première, ce fut que le secrétaire voulant lui montrer un essai du Dictionnaire qui occupoit dès lors la Compagnie, il ouvrit par hazard son portefeuille au mot Jeu, où se trouva cette phrase: Jeux de prince qui ne plaisent qu’à ceux qui les font, pour signifier des jeux qui vont à fâcher ou à blesser quelqu’un.»

Alla indipendenza ed imparzialità dei magistrati allude anche la solenne risposta:

615.   La Cour rend des arrêts et non pas des services.17

che la fama attribuisce a Ant.-Jean-Mathieu Séguier, primo presidente della Corte di Parigi sotto il primo Impero e la Restaurazione, il quale l’avrebbe detta nel 1827 a proposito delle pressioni che un certo processo di stampa o di tendenze politiche dava occasione al governo di Carlo X di tentare sulla magistratura. Ma il Rozan (Petites ignorances historiques et littéraires, p. 500) dimostra maliziosamente che il Séguier non era uomo da osare tanta indipendenza verso il potere; e d’altra parte il Seguier stesso avrebbe smentito l’aneddoto. Il Courrier de Vaugelas interrogò una volta il nipote del Séguier; e questi gli rispose (6 ottobre 1886) che suo padre gli aveva molte volte parlato di questa frase del nonno, aggiungendo ch’egli l’avrebbe detta a un sollecitatore il quale insisteva presso di lui per avere la Corte favorevole in una causa civile.
[p. 185 modifica]Ai giorni nostri la ripetè in Italia il compianto Lorenzo Eula che nel 1893 fu ministro di grazia e giustizia per 44 giorni.

Ma non mancano deplorevoli esempi della fallacia e della parzialità dei giudici terreni. La Bibbia ci ha serbato l’

616.   Expedit (vobis) ut unus moriatur homo pro populo.18

(Vang. di S. Giovanni, cap. XI, vers. 50).
come in tempi più prossimi è nato il

617.   Recordève del povero Fornèr.19

Vive anch’oggi nella memoria, non del solo popolo veneziano, il lacrimevole caso di Pietro Faciol (altri lo chiamano Pietro Tasca), giovane fornaio, detto perciò il Fornaretto, che in una mattina del 1507, avviandosi a bottega, s’imbattè in un uomo assassinato per la via. Il giovane si chinò sul cadavere e scorto accanto ad esso un pugnale di lama finissima, lo raccolse e se lo prese. Intanto sopraggiunsero gli sbirri, che avendolo veduto chinato sul morto, lo fermarono, e trovatagli addosso l’arma insanguinata (altri dicono invece il solo fodero del pugnale), lo condussero alla giustizia. Dove, sia che quel complesso di fatali indizi potesse più delle sue proteste d’innocenza sugli animi dei Quaranta al Criminale, sia che effettivamente la tortura, come si narra, gli strappasse la confessione della colpa non commessa, fu condannato ad essere appiccato. Il Faciol, sempre chiamandosi innocente, salì con fermezza il patibolo alzato fra le due colonne della Piazzetta di San Marco nel pomeriggio del 22 marzo 1507, e dicesi che innanzi di morire (come già fu narrato del Molay e di altri condannati ingiustamente) minacciasse i suoi giudici del castigo divino con queste parole: «No passerà un ano che de i Quaranta che m’ha condanà no ghe sarà più nissun.» Non trascorsero in vero molti giorni che per un impreveduto accidente venne a scoprirsi il vero omicida. Allora, come suona la popolare tradizione, sarebbesi introdotto il costume, a lungo serbatosi, se essa narra il vero, di raccomandare innanzi alla sottoscrizione delle sentenze capitali la coscienziosità e la prudenza ai giudici colle parole: Recordève del povero Fornèr!
[p. 186 modifica]Allora, pure in espiazione del fallo commesso, ed in suffragio della vittima innocente, sarebbesi incominciato ad illuminare con due lampade durante tutta la notte, e con due torce durante il tocco dell’Avemaria, l’immagine della Madonna, che dall’alto della chiesa di S. Marco domina la Piazzetta. Ma lo Stringa, continuatore della Venetia città nobilissima ecc. del Sansovino, ricorda che a’ suoi tempi accendevasi una lampada soltanto, e attribuisce l’origine del pio costume al lascito di un capitano mercantile dalmata, il quale venendo da Chioggia a Venezia, e sorpreso dalla notte e dalla nebbia, dovè la sua salvezza al chiarore di un lumicino acceso dinanzi a quella immagine. Una tradizione simile è diffusa anche in altre parti d’Italia e si applica con lievi varianti ad altre pie consuetudini. Del resto l’obbligo di accendere tali lampade è compreso tuttora nella massa dei fondi della Zecca assegnati alla odierna fabbriceria di S. Marco.

La pietosa fine del Fornaretto è vivissima, come si è detto, nella tradizione popolare, ma non è autenticata dai registri Criminali, nè dalle Raspe (registri delle deliberazioni della Quarantìa), nè si trova ricordata nei minuziosi Diari del Sanuto. Però è segnata in tutti i così detti Registri dei Giustiziati, compilazioni private di età diverse, che si trovano manoscritte nella Biblioteca Marciana ed altrove. Forse il fatto seguì in altro anno di quello comunemente assegnato, e del quale mancano i registri ufficiali (Tassini, Alcune delle più clamorose condanne capitali eseguite in Venezia sotto la Repubblica, 2ª ediz., Venezia, 1892, p. 100-102). Esso ha fornito l’argomento a un dramma di Francesco Dall’Ongaro.

Altre frasi alludono a storte opinioni di giudici, quali le due seguenti:

618.   Judex damnatur ubi nocens absolvitur.20

(Publilio Siro, Mimi, n. 257, ed. Wölfflin et Ribbeck: n. J. 28, ed. Meyer).

619.   Purchè ’l reo non si salvi, il giusto pera
E l’innocente.

[p. 187 modifica]cui ravvicineremo l’altro verso dello stesso poeta, con significato antitetico:

620.   Purchè costei si salvi, il mondo pera.

Come per alcuni è pure ingiusta, ma per altri solo imprudente, la massima di qualche personaggio politico contemporaneo:

621.   Reprimere e non prevenire.

La teoria che un governo liberale manchi di mezzi legali di prevenzione contro i reati, è attribuita all’on. Giuseppe Zanardelli, che l’avrebbe bandita specialmente nel discorso-programma tenuto ad Iseo il 3 novembre 1878. Ma veramente in questa forma testuale non vi si trova, benchè in molti punti vi si accenni abbastanza esplicitamente, e in due anche più chiaramente, laddove l’oratore parlava dei circoli Barsanti e dei meetings per l’Italia irredenta, che tollerati dal Ministero di allora gli avevano procacciato il biasimo di debolezza. Però questi accenni tengono carattere piuttosto polemico che apodittico. Il principio del reprimere e non prevenire ispirava veramente gli atti di tutto quel ministero, sinceramente democratico, tanto che l’on. Cairoli, che era presidente del Consiglio, nel discorso-programma di Pavia del 15 ottobre dell’anno medesimo, aveva francamente così dichiarato i suoi intendimenti: «L’autorità governativa invigili perchè l’ordine pubblico non sia turbato: sia inesorabile nel reprimere, non arbitraria nel prevenire.» Ma gli avversari dell’on. Zanardelli ne fecero carico specialmente a lui, che a sua discolpa diceva nel discorso d’Iseo già citato: «Dopo aver cercato di dipingere sotto i più neri colori le condizioni della pubblica sicurezza, affermano che quello stato deplorevole dipende dalle mie teorie liberali, le quali fanno sì che i rappresentanti del governo, gli agenti della pubblica forza, quasi più non osano in materia di reati di frenare e reprimere perchè ciò contradirebbe le mie teorie liberali.» Del resto le vicissitudini della politica hanno mandato in dimenticanza che tale teoria fu già sostenuta innanzi alla Camera dei deputati da Bettino Ricasoli il quale negli ultimi giorni del suo ministero, rispondendo nella seduta del 25 febbraio 1862 al deputato Boggio [p. 188 modifica]che aveva presentato una mozione sui Comitati di provvedimento, esprimeva il concetto che «prima condizione di un governo libero nei casi di disordine è la repressione, non la prevenzione» (Atti del Parl. Ital., sessione 1861, Discussioni della Camera dei deputati, pag. 1380); e ancora prima da L. C. Farini, il quale nella seduta del 19 febbr. 1857 (Discuss. della Cam. dei deputati, ad annum, pag. 648) così disse: «Il principio di libertà deve informare tutte le nostre leggi; voi non dovete ricorrere al sistema preventivo, ma dovete lasciare alla libertà tutta la sua applicazione; potete far leggi per reprimere, non mai per prevenire.»

Per le cattive cause si citerà ben a proposito il verso di Ovidio:

622.   Caussa patrocinio non bona peior erit.21

(Tristia, lib. I, el. 1, v. 26).
come in generale parlando della risoluzione o meno delle cause, si potrà, secondo i casi, usare una delle due frasi seguenti:

623.   Adhuc sub judice lis est.22

(Orazio, Ars poetica, v. 78).

624.   Roma locuta (est), causa finita (est).23

che secondo il Büchmann avrebbe origine da un passo dei Sermoni di S. Agostino (Serm. 131, § 10): «Jam enim de hac causa [Pelagiana], duo concilia missa sunt ad sedem apostolicam. Inde etiam rescripta venerunt: causa finita est; utinam aliquando finiatur error»; ma egli non sa dirci chi avrebbe aggiunto il primo membro della frase, che solo implicitamente è contenuto nelle parole di S. Agostino. Osserva il Besso nella interessante e erudita sua opera Roma e il Papa nei proverbi e nei modi di dire (nuova ediz., Roma 1904, a pag. 35) che: «questo detto è molto comune nella curia romana per due applicazioni; nel campo ecclesiastico, perchè quando una questione è definita dal Papa, non è più questione; nel campo forense, quando dai paesi cattolici si sottoponevano questioni in supremo appello alla Rota Romana, quasi a [p. 189 modifica]supremo giudice internazionale, nessun rimedio legale era più possibile dopo il pronunciato della Rota».

Del resto noteremo per ultimo e come a conclusione di quanto dicemmo, che:

625.   Les querelles ne dureraient pas longtemps, si le tort n’était que d’un côté.24

(La Rochefoucauld, Maximes, § CCCCXCVI).

Note

  1. 598.   A ciascuno il suo.
  2. 599.   Rendete (dunque) a Cesare quel che è di Cesare, e rendete a Dio quel che è di Dio.
  3. 600.   Fiorirà il giusto come la palma.
  4. 601.   Amai la giustizia e odiai l’iniquità, perciò muoio in esilio.
  5. 602.   La misericordia e la verità si sono incontrate insieme: si son date il bacio la giustizia e la pace.
  6. 603.   La giustizia, se è rispetto a Dio dicesi religione, se verso i parenti pietà, se nelle cose affidate dicesi fede.
  7. 604.   Il diritto estremo diventa talora anche un estremo torto.
  8. 605.   Non voler essere troppo giusto.
  9. 606.   Si senta anche l’altra parte.
  10. 607.   Non vi é obbligo per le cose impossibili.
  11. 608.   L’errore comune fa legge.
  12. 609.   Sia fatta giustizia, e perisca il mondo.
  13. 610.   Periscano le colonie piuttosto che un principio.
  14. 612.   Imparate a coltivare la giustizia ed a temere gli dèi.
  15. 613.   Sì, se non avessimo dei giudici a Berlino.
  16. 614.   Sono scherzi da principi: si rispetta un mulino, si ruba una provincia.
  17. 615.   La Corte fa delle sentenze, non dei servigi.
  18. 616.   È necessario per voi che un nomo muoia per il popolo tutto.
  19. 617.   Ricordatevi del povero fornaio.
  20. 618.   L’assoluzione del colpevole è la condanna del giudice.
  21. 622.   La causa cattiva diventa peggiore col volerla difendere.
  22. 623.   La lite è ancora innanzi al giudice.
  23. 624.   Roma ha parlato, la causa è finita.
  24. 625.   Le dispute non durerebbero tanto tempo se il torto fosse da una parte sola.