Autunno (Speraz)
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AUTUNNO
AUTUNNO
Nel gabinetto elegantemente ammobigliato, una donna giovane e bella, in veste bianca da mattina, stava seduta davanti a un tavolino da lavoro. Pareva attenta ad un ricamo; almeno, così avrebbe pensato, chi entrando nel gabinetto l’avesse osservata alla sfuggita. Ma approssimandosi e guardando meglio ci si poteva accorgere che il suo lavoro era di sola apparenza. Teneva bensì l’ago in mano e gli occhi fissi sulla tela; ma l’ago era sfilato, e gli occhi a metà socchiusi e gonfi di lagrime.
Di tratto in tratto alzava la testa e i suoi sguardi si fermavano sull’orologio, per rivolgersi poi quasi involontariamente verso all’uscio, come se avesse aspettato che qualcuno entrasse.
Diffatti, un momento dopo l’uscio fu aperto, e una giovane cameriera si presentò sulla soglia.
— Il cavalier Carlo l’aspetta in salotto, disse.
— Fatelo passare di quà, rispose la signora senza levare il capo.
Un momento dopo il signore annunziato entrò.
La signora non si mosse, e rispose appena al saluto: anzi, l’ago sfilato sembrò tormentar la tela con maggiore accanimento, e la bella manina bianca muoversi con crescente rapiditá.
Il signore accolto a quel modo fece alcuni passi e s’arrestò in mezzo alla stanza. Egli la guardava in silenzio: pareva afflitto, quasi imbarazzato; eppure l’imbarazzo non doveva essere cosa solita in lui. D’alta statura, sciolto e pieghevole nei movimenti; la fronte altera, lo sguardo acuto e penetrante, la bocca fine e virile; alcune ciocche prematuramente canute in mezzo al volume dei capelli neri e inanellati: bastava dargli un’occhiata per giudicarlo un uomo abituato da lungo tempo a tutto le vicende, a tutte le tempeste della vita.
La sua emozione doveva essere molto profonda perchè se ne stesse là come inchiodato in attitudine di chi non ha coraggio di muoversi nè di parlare. Finalmente, vedendo che la signora non pensava a rompere il silenzio, e, da alcune stille che bagnavano di quandò in quando il lavoro che teneva in mano, argomentando che soffrisse, le si accostò adagino, abbassò la testa in guisa che la sua bocca sfiorò quasi il suo biondo capo, e chiese sommessamente:
— Ho fatto male a venire?
Essa non rispose; ma lasciò cadere quel simulacro di lavoro oramai incapace di nascondere lo stato dell’animo suo, afferrò la mano ch’ei le porgeva e se la portò al cuore.
Egli si chinò ancora un poco e le loro labbra s’incontrarono. Ma la donna fece uno sforzo e si sciolse dalle braccia che la stringevano.
Vi fu un’altra pausa dopo la quale Carlo riprese a dire cosí:
— Ho combattuto molto, Bianca, dopo letta la tua lettera: capisco che non avrei dovuto venir piú, era il mio dovere; ma non ne ho avuto la forza. E poi temeva che tu mi giudicassi male e che soffrissi.
— Non venir piú? esclamò la giovane, non vederti piú! Ma credi che potrei vivere?
Un sorriso malinconico passò sulle labbra dell’uomo maturo, un sorriso che pareva voler dire: „Pur troppo si vive.“
— Ascolta, Carlo, riprendeva la Bianca, ascolta: cosa ci siamo detti infine che non sapessimo da lungo tempo? Sono tre anni dacchè mi fosti presentato qui: era di febbraio, ti ricordi? Sapresti dirmi quando hai cominciato ad amarmi? No. E io nemmeno; ma credo fin dalla prima sera.
— E io no forse? Ho sperato lungo tempo che tu non te ne saresti accorta. Era tutto quanto potevo fare per te: non lasciarmi penetrar mai. Non avevo diritto di funestar la tua vita. Ma sono state debole, ovvero la passione è stata piú forte di me.
— Non farti rimprovero, Carlo. Una sola cosa ti domando: fa che il nostro amore rimanga sempre com’è: immacolato; fa ch’io non debba mai mentire.
Dicendo queste parole’Bianca non osava levar gli occhi. Egli sospirò; un fremito lo scosse, si passò una mano nei capelli; girò gli sguardi intorno, arrestandoli un momento sovra ciascun oggetto, quasi per salutare una cara memoria: fece alcuni passi staccandosi da lei: s’arrestò:
— Ho capito; disse dopo averla contemplata per qualche tempo con vivissima espressione d’affetto: mi chiedi molto; ma io non mancherò mai al tuo volere. Se sará necessario che m’allontani perchè la tua volontá sia rispettata, farò anche questo sacrificio, mi allontanerò.
— Grazie! esclamò la donna, interrompendolo con amarezza. Se non sai darmi altra prova d’amore che d’abbandonar mi, sará meglio che ci separiamo addirittura.
Ella si era alzata e lo fissava con aria severa. Il suo bel viso non esprimeva piú i dolci sentimenti della donna che ama, ma lo sdegno impetuoso di un’anima fiera che si crede offesa.
— Bianca, mormorò lui con accento supplichevole, sei crudele!
— Crudele? ah, no! Sei tu che mi affliggi parlando d’allontanarti, come se il mio affetto, la mia amicizia non avessero piú alcun valore per te.
— T’inganni. La tua amicizia, il tuo affetto hanno un valore immenso, ma io ti amo d’amore, e l’amore vuole tutto. Posso desiderare d’obbedirti, ma nello stesso tempo non posso fare a meno di desiderare che tutta la tua vita m’appartenga. Perdonami: lotterò: il dolore potrá spezzarmi; ma spero che io non piegherò. Lotterò con tutte le mie forze e farò la tua volontá a qualunque costo.
Bianca s’accostò a lui e gli porse la mano ch’egli baciò.
— Se si potesse tornar fanciulli, Carlo. Se si potesse fingere di essere fidanzati.... per un tempo indefinito.... per nozze lontane lontane, forse di un altro mondo... di’ non sarebbe bello? Intanto verresti da me tutti i giorni ed io sarei felice.
— Parò tutto quello che vorrai, anche l’impossibile.
Da quel giorno essi continuarono a vedersi come prima schivando piú che potevano di parlare del loro amore.
E in fondo, a che parlarne? Non se lo dicevano con gli occhi, con l’intonazione della voce, con la pazienza di cui davano prova sopportando le visite noiose che venivano in quel frattempo? Quando erano soli egli sedeva al suo fianco e le raccontava mille episodi della sua vita avventurosa: storie serie e azioni gloriose, miste a profili grotteschi e ritratti caratteristici; descrizioni di battaglie e pericoli d’ogni maniera.
E lei pendeva dal suo labbro.
Era un uomo che aveva provato tutto: sapeva tutto: conosceva tutti. Aveva dato alla patria il sangue, il cuore, l’ingegno. Era rimasto giornate intere in mezzo al fischiare delle palle, e lunghe notti a tavolino: aveva viaggiato tutta l’Europa. Possedeva una memoria ferrea, un’intuizione meravigliosa, e nessun titolo accademico.
Aveva quarantacinque anni.
Bianca gli aveva detto di amarla come una fidanzata ideale, ed egli aveva promesso. In mezzo alle fatiche ed agli studi il suo cuore era rimasto giovane e puro. E d’altra parte ei pensava un po’ come De Musset: quando una donna che ama non si dá interamente, vuol dire che non ama abbastanza o che non si crede abbastanza amata: forzarla sarebbe mancare di tatto e spesso anche di cuore.
Intanto i giorni correvano rapidi.
L’orizzonte era nero, la tempesta che muggiva sopra le loro teste doveva forse scoppiare in breve: ma l’amore che formava la loro felicitá, nessuna tempesta poteva offuscarlo, nessuna forza strapparlo dai loro cuori.
Cosí passò un mese, un mese di felicitá ideale.
Era al principio di primavera: un bel giorno sfolgorante di sole. Mazzi di viole mammole disposti in piccoli vasi adornavano il salottino dove Bianca riceveva il suo amico. Ella indossava un vestitino d’una tinta languida che, armonizzando col biondo d’oro dei suoi capelli, la rendeva piú bella. Le sue forme ricche ed eleganti spiccavano nel giacchettino attilato. L’amore brillava nei suoi sguardi. Tutti quei fiori erano dono di lui. Epperò ella se n’era messi nei capelli e sul petto. Voleva mostrargli quanto le erano cari. Ma se ne’ suoi sguardi brillava più vivo l’amore, sulle sue labbra non scherzava il solito sorriso. Carlo doveva partire il dimani e il suo marito stava per ritornare. Chi sa quanti giorni sarebbero rimasti senza vedersi! Chi sa se si sarebbero veduti ancora con la stessa libertà!
Quando Carlo entrò nel salottino, Bianca gli mosse incontro e gli offrì due violette di quelle che aveva in petto. L’emozione che provava e l’ombra malinconica che gettava sul suo viso il pensiero della separazione imminente, davano alla sua bellezza un fascino nuovo che la rendeva irresistibile.
Egli impallidì e indietreggiò.
— Come sei bella! mormorò sommessamente.
Bianca chinò la fronte.
— Eppure tu non mi ami! disse sospirando.
— Io? io che ti do la piú grande prova d’amore di cui sia capace un uomo!
— Sì, ma intanto ami anche un’altra.
— Un’altra?... io?... ti pare momento da scherzare codesto?
— Non scherzo. Dimmi di chi è l’anello che porti sempre al mignolo? È un anello di donna!
Egli rimase perplesso, poi rispose con tristezza:
— È l’ultima memoria di una donna morta venti anni fa, quando tu non eri che una bambina. Non è colpa mia se sono nato tanto prima di te.
— Cosa c’entra questo? Tu l’ami ancora!
— Questa è la ricompensa che mi dai dell’averti obbedita in tutto: mi sospetti.
— Se mi ami, dammi quell’anello.
— Lo vuoi proprio?... Non ti basta di avermi fatto schiavo, vuoi anche rendermi vile?
— Ti amo, ti amo tanto... sono gelosa anche del passato... dammi l’anello...!
Con mano tremante e la fronte dimessa egli si trasse l’anello dal dito e gliel’offerse.
Un lampo di gioia passò negli occhi della donna.
— Carlo, esclamò, Carlo, come sono felice, come ti amo!
E quasi dimentica di sè stessa e di ciò che aveva imposto a lui: dimentica di tutto, si gettò fra le sue braccia, lo strinse al cuore, arrovesciò la testa sotto ai suoi baci, ridendo, singhiozzando.
La passione era giunta a quell’ultimo grado di forza in cui vince tutto, e tutto deve cedere al suo supremo impero.
Qualche ora dopo, la sera, Bianca era sola nel salottino, sola, e pensava:
— Dimani viene mio marito, e io dovrò sentirmi colpevole davanti all’uomo che disprezzo!
Ma le memorie dell’ebbrezza che le pareva essere rimasta viva e sempre presente nel profumo delle violette, le salí al cervello, come un’ondata di sangue ardente, e cancellò tutti gli scrupoli del sentimento, tutte le velleitá dell’orgoglio.
Bianca a Carlo.
„In questi lunghi giorni di separazione il mio pensiero si rivolge come a ristoro, verso quella sera che ti vidi la prima volta. Te ne ricordi? E dire che coloro che ci hanno presentati l’uno all’altra, non hanno mai capito che eravamo come due mondo affini, che dovevano attirarsi a vicenda! Io non ti avevo mai veduto prima, nè tu sapevi ch’io fossi al mondo. Ma io ti conosceva per fama: chi non ti conosce? Avevo letto i tuoi libri, e il tuo pensiero luminoso era penetrato nella mia mente e l’aveva rischiarata. Sapevo la tua vita tempestosa, ma ricca di gloria.
„Mi eri giá caro prima di conoscerti. Come non avrei dovuto amarti allorchè i tuoi sguardi s’incontrarono nei miei, quando la mia mano strinse la tua, e quella voce ferma e sonora mi discese al cuore, dolce come una carezza? Mi pareva che ti avevo aspettato e cercato, e che giungevi finalmente tardi, ma giungevi.
„E ora che ti amo, che bouo amata, ora che sono tua, che sento di non poter vivere senza di te, ecco il destino ci divide.
„Oh se potessi fuggire con te e col mio povero piccino, lontano, lontano, oltre l’Oceano, in altri paesi, come sarei felice!.... La realtá mi spaventa: io sogno per consolarmi, ma i sogni non mi bastano piú, ho bisogno di una realtá felice...
„Mia suocera mi ha portato via anche il mio bimbo che mi sarebbe stato di qualche conforto. Lo amo tanto, anche perchè porta il tuo nome. Non pensar male di me, senti: quando penso ch’è figlio di lui, provo come un senso di freddezza, ma quando lo chiamo per nome, col tuo nome, mi par che sia tuo, mi par che ti somigli... e lo adoro!...
„Sai, consolati, lui non è venuto ancora, e forse non verrá. Che fortuna se non venisse! Pare che non possa ottenere il permesso dal colonnello... pretenderebbe che tu ti rivolgessi al Ministro. Ma io non voglio. Ricordati bene che se te lo scrive risponderai che non puoi. Non so capire da dove gli venga questa smania di ritornare, dopo tanto che ha fatto per allontanarsi da me.
„O Carlo mio, mi par d’essere in una prigione lontana da te: la vita mi pare un lungo supplizio: tutti questi provvedimenti di leggi sociali fatti per quelli che hanno paura dell’aria e del sole, spezzano le mie fibre, schiacciano il mio cervello. Carlo mio, vorrei essere nel deserto con te.
Carlo a Bianca.
„Leggo e rileggo la tua lettera e la bacio, e non credo agli occhi miei, e non mi persuado, d’essere io quello di cui tu parli. Ma credo tutto quello che dici perchè sei il mio Dio e la mia fede.
„Ho fatto però una cosa che ti fará andare in furia, ma che spero finirai coll’approvare. Appena ricevuta la tua lettera mi sono rivolto a chi di ragione e gli ho ottenuto un permesso di venti giorni.
„Ho combattuto molto con me stesso prima di prendere questa risoluzione, ma l’ho presa.
„Che io, per interesse mio, di volontá deliberata impedisca a un esiliato di rivedere la patria, di riabbracciar la famiglia, non è possibile. Tu stessa ripensandoci un giorno a mente fredda dovresti disprezzarmi, sebbene ora forse mi condannerai. Non so se ci vedremo prima, in ogni modo; qualunque cosa accada, e qualunque sentimento tu sii per avere verso di me, ricordati che i miei per te resteranno tutta la vita inalterati ed inalterabili.“
Scrivendo questa lettera Carlo non si dissimulava in alcun modo il fiero colpo che portava all’amore di Bianca. Sapeva che la donna quando ha ceduto è sempre disposta a dubitare, e pronta a rinfacciare all’uomo che ama la sua supposta ingratitudine; ma egli l’aveva detto, poteva essere vinto dalla passione, non commettere deliberatamente un’azione vile.
Eppure, quanto soffriva, quanto gli costava quel sacrifício! Egli stimava Bianca al di sopra di qualunque donna: sapeva di possederne tutto l’amore, ma sapeva pure che aveva amato ardentemente suo marito nei primi anni: era stato un matrimonio d’amore.
Soltanto le infedeltá e l’indifferenza di lui avevano cancellata a poco a poco nel cuore di Bianca quel primo affetto giovanile. Ma ora ritornava; forse stanco di una vita scapestrata ritornava nuovamente innamorato, deciso a riconquistare ciò che aveva perduto. E Carlo lo vedeva quel bell’ufficiale pieno di baldanza e di foco; e la sua esperienza gli diceva che le donne sono sempre indulgenti per gli uomini che ritornano umili e supplicanti dopo averle disprezzate.
Questi pensieri lo laceravano.
Chiuso nella sua camera, la percorreva in tutti i sensi, arrestandosi di quando in quando e fissando gli occhi nel vuoto, come affascinato da un immagine spaventosa. Pallido, le guancie incavate, le mani gelide, quando si rimetteva a camminare pareva volesse spezzarsi la fronte contro il muro. E forse aveva bisogno di tutta la sua energia per resistere a questa terribile tentazione. Ma la battaglia era il suo elemento. Il dolore poteva schiantargli il cuore, ucciderlo forse: la sua volontà resisteva fino all’ultimo. Una vita muta, deserta, piena di spine, forse non gli restava altro oramai: ma qualunque fosse sapeva che bisognava sopportarla.
A notte inoltrata, vedendo che il sonno non gli concedeva il conforto di un po’ d’oblio, egli uscì fuori all’aperta campagna. Ai prati e ai campi seguiva una piccola selva; il fiume scorreva in mezzo a due file di cipressi e di pioppi. Camminò lungo tempo in silenzio; la tranquillità della notte, l’aria fresca e profumata del bosco, calmarono un po’ la febbre che gli ardeva le vene: i pensieri meno tristi si affacciarono al suo spirito, la dolce speranza s’infiltrò a poco a poco nell’anima sua e rese meno amaro il dolore. Tornava a pensare che Bianca lo amava e lo avrebbe amato sempre; che domani gli avrebbe scritto, e le sue parole avrebbero versato un balsamo sulla piaga che lo rodeva. Intanto era giunto sopra un’altura, da dove vedeva tutto il corso del fiume. Le stelle brillavano in cielo, la luna era tramontata; l’acqua bruna aveva subitanei splendori. Egli la contemplò a lungo, immoto. Un brivido acuto lo fece tremare improvvisamente da capo a piedi; il freddo acuto del dubbio premeva un’altra volta il suo cuore.
— Non scriverá, mormorò; la mia risolutezza le sembrerá segno di poco amore; m’accusa in cuor suo tante volte....
Tacque, e discese d’alcuni passi verso la riva del fiume; avrebbe voluto che il suo corpo fosse trascinato lontano, lontano, fin negli abissi dell’Oceano da quell’acqua rapida e vorticosa.
Ma perchè mostrare sempre una fermezza che non aveva? Perchè richiamare colui?... Bianca dubitando che l’amasse meno, sentirebbe forse il bisogno di vendicarsi: era donna!... E quell’uomo che ritornava era stimato irresistibile dalle donne, e la fama dei suoi trionfi gli dava un’ aureola che doveva essere un fascino di piú per quella che lo rivedeva a’ suoi piedi.
E certo si sarebbe messo ai suoi piedi. Lo vedeva di giá. Dopo tanto tempo Bianca gli sarebbe sembrata una donna nuova, resa più seducente dalla resistenza e da quell’aere profumo che dá la completa conoscenza della vita. Innocente gli era venuta a noia, ora l’avrebbe adorata. Sarebbe stato amoroso, tenero, seducente!... E lui?... lui che non aveva altro che il suo valore interno, e l’amore immenso inestinguibile, lui, che doveva star lontano, mentre l’altro sarebbe lá presso di lei... lui aveva fatto quanto poteva perchè questo riavvicinamento avesse luogo; perchè Bianca pensasse che l’amava meno!...
E l’uomo provato, l’uomo fornito di una volontá ferrea; nell’etá in cui è piú ferma; l’uomo avvezzo a guardare in faccia tutti i nemici, tra il fischiar delle palle e il rumoreggiar del cannone, come tra i sibili degli uragani che sconvolgono l’anima umana, si sentiva impotente dinanzi allo spasimo che lo assaliva. Il turbine della passione lo aveva afferrato e lo gettava intorno come una piuma; il mondo reale non esisteva piú per lui... un fiero grido usciva dall’anima sua, un grido selvaggio. — No, no! Muori, miserabile! — E tutto il limo insito alla natura umana, che l’uomo virtuoso crede di avere distrutto, ma che ha solamente compresso in fondo all’abisso del proprio cuore, tornava a galla improvvisamente e minacciava di soffocarlo. Non riconosceva piú sè medesimo.
Oh se un urto improvviso lo avesse spinto nel fiume, come si sarebbe lasciato calare a fondo! almeno sarebbe sfuggito a quelle visioni! Ma il cielo era sereno, l’aria mite; nessun nemico sorgeva ad incalzarlo. Il nemico invisibile, e il piú crudele, lo portava con sè, nel suo cuore: impossibile scacciarlo; impossibile vincerlo. Doveva lasciarsi lacerare, sopportare il suo martirio in silenzio, e aspettare; lunghi anni forse, prima che la sospirata liberazione giungesse. Prostrato di forze si lasciò cadere sul margine sdrucciolevole, la faccia contro terra; le sue mani convulse strappavano le radici dell’erba. E non piangeva; le sue ciglia erano asciutte; anche questo conforto gli era negato. Rimase lá un pezzo. Un brivido di freddo e lo stormir delle foglie scosse dal vento lo richiamarono alla memoria delle cose. Era quell’ora misteriosa che precede l’alba. Egli si alzò.
Il cielo era ancora scuro; solo verso oriente si stendeva una striscia biancastra. Carlo guardò un momento quello splendore, ravviò alla meglio i suoi abiti scomposti, e s’incamminò verso la cittá. La strada era deserta, solo di quando in quando qualche carretta di contadini che si recavano al mercato, carichi di frutte o di erbaggi, o alcune povere donne che vi andavano a piedi con gravi ceste sulle spalle, interrompevano quella solitudine. In cittá le vie erano ancora illuminate dal gaz. Alcuni bugigattoli che sembravano portar con orgoglio insegne di caffè, brulicavano di gente di varie classi e di varie età. Carlo andava a passi lenti e a capo basso. Il portiere dell’albergo lo guardò stranamente vedendolo rientrare a quell’ora. Egli non se ne accorse; andò nella sua camera e si gettò sul letto. Dormí alcune ore d’un sonno agitato; alle dieci si alzò, si vestì con cura per nascondere il disordine interno, e uscí per le mille incumbenze che aveva. Non riposò un momento in tutto il giorno, la fatica lo ubbriaca va, e lo toglieva a se stesso: unico sollievo della sua disperazione. A mezzanotte rientrò e gli sovvenne che non aveva desinato. Uno strano sorriso errò sulle sue labbra. Mangiò un boccone e si coricò, sperando che avrebbe dormito fino all’ora della posta, e che Bianca gli avrebbe scritto.
La mattina s’alzò verso l’otto e si trovò il primo alla distribuzione: l’impiegato gli presentò un pacco di lettere, fra le quali s’affrettò a cercare quella che sola poteva recargli conforto. Le esaminò tutte ad una ad una: ma poteva forse non riconoscere a prima vista la scrittura di lei? Eppure, teneva già l’ultima, e non era quella! Ma la speranza ostinata non lo abbandonava ancora: forse gli era sfuggita! ricominciò da capo con ansia sempre maggiore. O illusioni! O speranze! egli sapeva bene che non vi era: ma il suo cuore aveva bisogno d’illudersi fino all’ultimo istante. Finalmente gli fu forza cedere alla realtà: Bianca non gli aveva scritto. Allora soffocò un sospiro e tornò all’albergo rotto, spossato. La sua alta statura era curvata; le ciocche di capelli grigi parevano aumentate. Quelli che lo incontravano, conoscendolo di vista, si domandavano come mai fosse invecchiato in così poco tempo.
Bianca intanto pensava e piangeva. I suoi pensieri erano tutti cupi e penosi: si vedeva abbandonata al sua brutto destino: Carlo stesso ve la spingeva. La sera si rifugiò nel suo salottino fra le care memorie. Improvvisamente l’uscio fu aperto e un uomo entrò: era Carlo. Bianca mandò un grido e gli corse incontro.
Egli la guardò in silenzio e il suo viso era così mutato, che n’ebbe paura. La mano che le porse era fredda e tremava; non ostante il primo a parlare fu lui.
— Perchè non m’hai scritto? le chiese con voce rauca.
— Perchè la tua lettera m’ha fatto troppo male? se tu sei tanto rassegnato, se il sacrificio ti costa così poco, a che pio scriverti?
Dunque lei credeva veramente che quel sacrificio gli costasse poco! E glielo diceva, a lui lo diceva, a lui che vedendosi nello specchio aveva dovuto indietreggiare davanti alla propria immagine!
Non rispose; si lasciò andare sovra una seggiola, oppresso da stanchezza; alzò il capo lentamente, stese le braccia irrigidite, e la guardò senza far motto. Ma che sguardo fu quello! Bianca non ebbe forza di sostenerlo. L’espressione di rimprovero di quello sguardo le parve così viva e meritata, ch’ella si sentì scossa. Incapace di resistere a questo nuovo sentimento che la trascinava, s’inginocchiò ai suoi piedi e pianse con abbandono.
Egli la lasciò fare: era in un momento strano: aveva il sentimento che quella umiliazione di Bianca gli fosse dovuta; e questo sentimento s’imponeva alla sua volontá e vinceva ogni altro riguardo. La lasciò fare; le sue lagrime gli scendevano al cuore come un balsamo ristoratore, come una rugiada benefica esse calmavano a poco a poco la febbre che gli ardeva i polsi. Il suo sguardo di severo e addolorato che era, andava facendosi piú mite e dolce; la sua mano, non piú cosí rigida, si stendeva sui biondi capelli di lei, accarezzandoli mollemente.
— Povera donna! disse, che diritto ho io di rimproverarti? Tieni qui, vieni, e sfoga il tuo affanno sul petto piú fedele che tu possa trovare al mondo.
Cosí dicendo l’alzò come una bambina. Ella appoggiò il capo sulla sua spalla e continuò a piangere. Ma improvvisamente egli si scosse, le stese la mano in segno d’addio, e s’avviò per uscire. La donna si rizzò come a uno scatto di molla.
— Così presto mi lasci?
— Devo essere alla capitale dimattina alle dieci; non ho che il tempo di partire.
—- E quando sei giunto?
— Un’ora fa. La fatica non mi pesa; ti ho riveduta, so che mi ami, torno al lavoro contento.
— Contento? Egli sará qui domani!
— Non me ne parlare, disse volgendo altrove lo sguardo: pensa al tuo dovere di madre, e lasciami ignorare almeno una parte della mia infelicità. Addio.
S’arrestò e la guardò ancora un momento: le bu^ mani, che le stringevano le braccia, si serrarono come una morsa d’acciaio. Ella mandò un grido. Allora le sue palme si sciolsero, egli si scostò improvvisamente, e s’allontanò senza parlare, a occhi chiusi.
Il giorno dipoi arrivò il marito; Bianca gli fecè dire ch’era ammalata e rimase nella sua camera. Ma egli domandò di farle una visita, ch’ella non potè rifiutare. La pallidezza e l’abbattimento che le si vedevano in volto lo persuasero che soffrisse realmente. Fu chiamato il medico, che non seppe qual nome dare alla malattia, ma non potè negare il male. Mangiava appena, e stava tutto il giorno senza lasciar penetrare la luce nella camera, non rivolgendo una parola a nessuno, e rispondendo appena a quelli che la interrogavano. Egli non sapeva cosa pensarne, nè a che attribuire quel cambiamento impreveduto. A poco a poco, l’idea che fosse soggiogata da passione violenta, s’impadroní dell’animo suo. Egli era assai penetrante; e poi la coscienza lo rimordeva. Quando Bianca lo amava, nei primi anni del loro matrimonio, l’aveva trascurata assai, sebbene l’amasse anche lui.
Finalmente aveva voluto allontanarsi per esser più libero: era giovine, bello, festeggiato, circondato da seduzioni, non poteva sopportare la catena della moglie innamorata e gelosa.
Ma ora era stanco di quella vita: aveva avuto qualche disinganno e aveva ripensato a lei, e a lei voleva ritornare. Con l’immaginazione aveva già pregustato le dolcezze di una di quelle accoglienze di donna amante che vuol essere severa e non può, e si lascia vedere tanto più tenera sotto lo sdegno apparente. E invece trovava una vera freddezza, un disprezzo glaciale; e, ciò che lo spaventava di più, tutti i sintomi di una profonda disperazione mal dissimulata. La gelosia lo acciecò: sospettò il peggio e ricorse a mezzi ignobili.
Cominciò dall’interrogare lo genti di casa, ma non rilevò nulla. Carlo ci era venuto sempre spessissimo; alle sue visite dunque non fece caso: non poteva supporre che il seduttore fosse lui.
Era quindi ridotto alle sue induzioni. Passarono così alcuni giorni, nei quali andava tutto spiando e rovistava i mobili. Una notte entrò improvvisamente nell’appartamento di sua moglie. La camera era deserta; allora i suoi sospetti si accrebbero; depose il lume ed entrò a passi sommessi in un gabinetto che dava sul giardino. La finestra della stanzetta era spalancata, la luna la illuminava; al primo momento egli non vide nessuno, ma avanzandosi, scorse una forma bianca sul pavimento; abbassi gli occhi e riconobbe sua moglie. Il primo moto fu di spavento; s’accorse però subito che non era morta, e credendo che dormisse voleva scuoterla, allorchè lei s’alzò improvvisamente. Il suo sguardo era torvo, quasi selvaggio, il viso pallido e scarno pareva di marmo al chiaror della luna. Tutti e due si guardarono un momento in silenzio, finalmente lei gli domandò che volesse.
— Vedere come stai, rispose il marito con voce mal sicura.
— Lo avete veduto: ora andate e lasciatemi.
Egli tremava di collera: ma nello stesso tempo l’idea che fosse divenuta pazza non era lontana dal suo spirito. La guardava, ma non osava avvicinarsele.... a un tratto un altro oggetto attirò i suoi sguardi. Lo fissò un momento: poi badando se l’osservava, si chinò e lo raccolse. Bianca guardava in giardino, ma come se un presentimento l’avesse avvertita, si voltò all’improvviso e sembrò cercar qualche cosa affannosamente. Egli la teneva d’occhio.
— Che cosa cercate? le chiese con voce ironica. — Nulla; che v’importa a voi?
— Potrebbe darsi che me ne importasse alquanto: almeno non sarebbe contrario al mio diritto.
Ma lei scrollò le spalle quasi volesse dirgli che non sapeva che farsi de’suoi diritti.
Allora lui pensò colpirla con queste parole:
— Tediamo intanto di chi è il ritratto che vi stringete al cuore nei vostri sogni.
Bianca mandò un grido, e si slanciò per strappargli il ritratto che teneva in mano; ma non fu a tempo; egli era vicino alla finestra ed ai raggi della luna aveva riconosciuto la fotografia di Carlo. Appena ne fu certo, le volse un’occhiat a di scherno, e gettando con disprezzo l’immagine del suo rivale diè in uno scroscio di risa.
Perchè rideva? Non lo sapeva neanche. Rideva di collera e di sdegno, rideva di sè e di lei. Il sua orgoglio di bel giovane, e la sua ferocia di marito oltraggiato si ribellavano a un punto. Sentiva una doppia puntura; al cuore ed all’amor proprio. Soffriva, e si trovava grottesco. Avrebbe pianto e non poteva frenare quello scoppio di risa beffarde, oscene, che irrompevano dalla sua gola.
Dunque l’uomo che gli aveva rapito il cuore di sua moglie era quello lì di cui teneva in mano la fotografia? Quel vecchio amico di casa; quell’uomo serio, dai capelli grigi, dall’aspetto severo? Mentre lui correva dietro a avventure volgari, e gettava il tempo a farsi bello per piacere a donne che non potevano amarlo, perdeva l’amore che doveva essere il suo conforto nel giorno dei disinganni, e lo perdeva cosí miseramente per il fatto di quell’uomo che non gli aveva mai ispirato un momento di gelosia? E si vedeva nella sua attillatura ridicola, coi piedi tormentati da scarpe troppo strette e i capelli arricciati artificialmente dal ferro sapiente del parrucchiere. E rideva. No, per quel momento il suo dolore e la sua collera non potevano trovare altro sfogo. Rideva; e gli si gonfiavano le vene del collo e il suo viso diventava pallido e poi pavonazzo.
Bianca lo guardava, immobile. Quel riso che prima l’aveva indignata, ora le faceva quasi paura.
Ma anche quella esplosione ebbe fine. Egli si rimise; pronunciò alcune parole inintelligibili e esci senza occuparsi piú di sua moglie.
Qualche giorno dopo tutti i giornali parlavano di un duello avvenuto tra un ufficiale dell’esercito e un uomo politico.
Le solite divergenze politiche erano sfruttate con lunghi commenti. L’uomo politico era un moderato, l’ufficiale un ratazziano: amici intimi un tempo, si erano bisticciati per la caduta dell’ultimo Ministero ed erano scesi sul campo.
L’uomo politico era gravemente ferito, e i cronisti ben pensanti di tutti i partiti coglievano il destro per dare addosso al partito avversario o per maledire la politica; secondo l’umore.
Il Capitano Luigi Raimondi tornava in fretta e in furia al suo reggimento.
Carlo Righi aveva messo in opera tutta la sua influenza presso il Ministero perchè la cosa fosse abbuiata e il Capitano lasciato tranquillo. Pensava di dover questi riguardi a Bianca. Ma lei forse in quel momento avrebbe preferito uno scandalo e quindi una separazione. Ci avrebbe guadagnata la libertà. Invece così doveva seguire il marito, e in quel momento non sapeva immaginare un male peggiore.
Prima di partire potè togliersi un momento alla sorveglianza del marito, e portare a Carlo un filo di consolazione e un tremendo dolore: l’ultimo Addio.
La sua ferita lo forzava ancora a rimanere a letto; ma era già fuori di pericolo.
Quando la vide entrare diventò anche più pallido.
— Perchè sei venuta! mormorò; perchè rischiare di comprometterti?
Lei non rispose. Si chinò sul suo viso e lo coprì di baci e di lagrime
Taquero lungamente così.
Non trovavano parole che rispondessero a quell’intensitá d’amore è di disperazione.
Finalmente Carlo fece il maggior sforzo che poteva e cercò di calmarla:
Doveva rassegnarsi per amore del suo bambino: non compromettersi irreparabilmente. Luigi non era cattivo, non era stato che leggiero: in fondo l’aveva amata e ora era pentito. Potevano esser felici ancora, dovevano. Sarebbe stato troppo terribile per lui già consunto oramai dagli anni e dalle fatiche, se gli fosse rimasto il rimorso di avere distrutto la felicità di due creature giovani di lei specialmente che lo aveva amato. Lei doveva dimenticarlo. Rammentarsi soltanto che aveva un amico sempre pronte a soccorrerla in qualunque evenienza grave della vita. Questo era il solo compenso che ei le chiedeva dell’amor suo: amore che non sarebbe mai venuto meno.
Ma non c’era nessun merito da parte sua ad essere fedele, soggiungeva con un dolce sorriso, cercando di mitigare la lugubrità di quella posizione desolata: oramai, gli sarebbe mancato il tempo e le occasioni di dimenticare. Lei doveva invece dimenticare, doveva godersi il suo bell’estate: ciò era fatale; vale a dire ch’era giusto.
E intanto la guardava con occhi profondi e calmi, e con la sola mano che poteva muovere, la sinistra, le andava accarezzando i capelli, con atto di pietà soave, piuttosto materna che di uomo innamorato.
Lei si sentiva vinta da quella serenità: soggiogata da quella grandezza. Ma dimenticarlo, no: dimenticarlo non poteva: nè voleva. Si sarebbe disprezzata.
In quest’amore c’era la verità eterna dell’anima immortale: nell’amore di suo marito, il falso delle circostanze mutabili. Amarlo lui voleva dire essere virtuosa, elevarsi alle sfere più alte dell’idealità: se avesse amato Luigi sarebbe ricaduta nel fango della vita comune e convenzionale. Sarebbe partita tuttavia, sarebbe stata buona madre: non voleva amareggiarlo con dei rimorsi: ma non sarebbe stata mai felice lontana da lui, non avrebbe mai cessato di amarlo: mai lasciato credere a Luigi di volergli solo un pochino di bene: non si sarebbe mai abbassata a fingere: mai avrebbe profanato l’amore che Carlo le aveva insegnato a venerare come una cosa divina.
Così parlavano e si consolavano a vicenda, beati di essere ancora vicini, e in quella beatitudine incapaci di sentire tutto il peso della sventura che pendeva sul loro capo. Ma l’ore incalzavano, e già non era più possibile di ritardare il terribile momento.
Ancora un bacio, ancora un saluto: uno sguardo ancora... Era già presso l’uscio e ritornò su i suoi passi..... No, no, non poteva; le sue forze non le bastavano. Ma egli pregò, promise di scrivere tutti i giorni e che si sarebbero riveduti ancora...
Finalmente l’uscio fu chiuso dietro a lei: egli intese il suo passo incerto e barcollante allontanarsi dalla soglia.
— Bianca!
No, non gridò. La parola rimase strozzata in gola da uno sforzo supremo. E le labbra morse perchè tacessero, mandarono sangue.
Gli occhi sbarrati fissavano quell’uscio chiuso, dove forse la vedevano ancora. Grosse lagrime gli scendevano lentamente giù per le guancie. Ad un tratto si scosse, si guardò intorno, provò un senso di sollievo. La ferita si era riaperta e la fasciatura rosseggiava. Sperò che fosse la morte. Sorrise e chiuse gli occhi.
Quando tornò l’infermiera lo trovò svenuto.
Il treno correva e i viaggiatori non guardavano piú le belle campagne rinverdite, e i graziosi villaggi. Cominciava la noia della stanchezza.
Bianca rannicchiata in un angolo col suo bambino appoggiato sulle ginocchia, teneva gli occhi chiusi per essere lasciata in pace.
Il suo marito, il Capitano Luigi Raimondi, sedeva di faccia lei; era vestito da borghese con grande eleganza. Sulla sua testa la scriminatura dal mezzo della fronte formava una bella linea bianca fino al principio della nuca, in mezzo ai riccioletti artisticamente disposti in ciocchettine profumate. Era contento di sè. Aveva lavato l’offesa nel sangue, e in fondo era convinto che l’offesa non fosse mortale.
Bianca gli pareva il doppio piú bella, dopo che s’era battuto per lei.
Voleva piacerle a tutti costi.
Lei quando il bimbo si svegliò e non la lasciò piú quieta, rimase sempre seria ed indifferente, come straniera ai discorsi del marito. Il suo viso mostrava apertamente che non gustava i suoi scherzi e non accettava i suoi complimenti.
Ma lui s’era fitto in capo di vincerla e tirava innanzi per la sua strada, che gli pareva infallibile. Era riescito tante volte in quel modo, perchè non doveva riescir con sua moglie? Il bimbo intanto non faceva differenze; scherzando e ridendo passava da un braccio all’altro. Si stringeva al collo del babbo, e poi saliva sulle ginocchia della mammina. Ma vi fu un momento, in cui quelle carezze divennero un supplizio per quest’ultima, tanto Luigi insisteva nel far di suo figlio un trasmettitore di baci.
La collera le imporporava la fronte; ma non voleva dir nulla: il silenzio, la resistenza passiva, dovevano formare la sola sua arma. Tacere e soffrire, e col silenzio e l’indifferenza far ben comprendere al suo nemico, poichè lei non era capace di considerarlo altro che come nemico, a quale distanza dovessero vivere, sebbene uniti sotto lo stesso tetto. Dopo una mezza giornata di viaggio, giunsero ad una stazione, dove, non essendovi subito la coincidenza, bisognava che si fermassero due o tre ore. I viaggiatori ne approffittavano per desinare, lavarsi e riposarsi un poco. Scesero ad un primo albergo, e il Capitano ordinò uno di quei pranzi squisiti e eleganti che era solito offrire alle sue innamorate.
Allorchè Bianca entrò nella sala, non potè a meno di meravigliarsi di quella tavola preparata per loro tre soli in un salottino particolare. Tolse uno sguardo trano al marito, che le si faceva incontro porgendole il braccio per accompagnarla al suo posto. Lui tutto gonfio di quello sguardo si credeva già quasi sicuro di vincerla con la galanteria. Nulla mancava sulla tavola, nè fiori olezzanti, nè frutta scelte, nè dolci profumati, nè sciampagna spumante: chi godeva era il bimbo. Il marito metteva fuori tutto il suo spirito, raccontava anedotti piccanti, si pavoneggiava, mangiava e beveva per tre, e di quando in quando non poteva trattenersi dal fare una carezza alla moglie. Non era ben accolto; ma lí davanti al suo figliuolo, in un luogo pubblico, conoscendo il carattere di quell’uomo capace, quando beveva, di passare subitamente dallo scherzo alla violenza, non poteva mostrarsi troppo severa. Doveva lasciarlo fare e sentiva le lagrime che le facevano nodo in gola. E pensava a Carlo, se lo figurava solo, triste, malato ancora, e si pentiva di averlo lasciato, s’accusava d’ingratitudine, di poco amore. Porse se si fosse mostrata più risoluta Luigi avrebbe accettata una separazione amichevole e non le avrebbe tolto Guidino; e poi, in tutti i modi il bimbo aveva la nonna che lo adorava e che per lui era un’altra mamma, mentre Carlo era solo, solo colla sua disperazione. In che difficile posizione era scivolata, Dio mio! Se almeno avesse potuto sfogare col pianto l’affanno che la tormentava! Luigi intanto scherzava e aveva giá bevuto troppo per potersi trattenere. Finalmente come Dio volle arrivò l’ora della partenza e bisognò affrettare il pranzo.
— Ancora un brindisi con lo sciampagna!
— Sì, sì, bravo babbo! bravo babbo! gridò il bimbo.
Bianca taceva. Egli mescè il vino.
— Permettete, madama?.. Via! alzate il calice spumante!...
Parlava con l’enfasi particolare delle persone un pò brille, e a lei cominciava a scappar la pazienza. Pallida come uno spettro, prese il bicchiere e lo alzò con mano tremante.
— Alla salute del nostro secondo figlio! gridò il marito. A queste parole, nel momento in cui l’urto dei bicchieri mandava quel suono particolare che generalmente è segnale di più viva allegiia, il bicchiere alto e sottile che Bianca teneva, le sfuggí di mano e andò a spezzarsi fragorosamente sul pavimento, spargendo il liquido prezioso che conteneva. Lui la guardò bieco, e afferrandola per la mano gliela strinse sì forte, che non potè trattenere un grido. Guidino, salito in piedi sulla seggiola, guardava coi suoi occhioni spalancati.
— Babbo! gridò se fai male alla mammina non ti vorrò piú bene!
Il babbo restò interdetto. Intanto venne il cameriere e tutti si disposero a partire. La seconda parte del viaggio fu silenziosa. Arrivati nella nuova dimora a sera avanzata, ciascuno si ritirò nelle sue camere; Bianca non si separò dal suo bambino.
Il giorno dopo ricevo una lettera di Carlo che la consolò alquanto; ripeteva ciò che le aveva detto a voce: l’esortava a darsi pace, la pregava che facesse ogni sforzo, perchè la sua condizione divenisse meno penosa; era giovane, non poteva sopportare una vita di tormenti e di lagrime, e doveva vivere per suo figlio.
Anche lui stava meglio e voleva vivere per pensare a lei: per amarla sempre da lontano e in silenzio: per amarla in qualunque caso. Ma per carità fosse tranquilla e cercasse di accomodarsi alla realtá. Non poteva vivere se lei era infelice.
Ma lei non voleva intenderle queste ragioni: era in uno stato di continua esaltazione. Gli diceva franco che era infelice e che voleva essere infelice; che aveva messo tutta la sua vita nell’amore di lui e che lontana da lui non poteva vivere. Ma i giorni passarono, e i mesi. Luigi le faceva una corte assidua. S’alzava tutte le mattine colla speranza di piacere. La sua vanità era punta, e un po’ anche il suo cuore. Bianca lo aveva amato una volta, egli se ne rammentava; lo aveva amato ed era stata gelosa, al punto che per liberarsene, seguire i proprii capricci e dar libero corso a tutte le mattane che gli frullavano pel capo, l’aveva lasciata sola. E ciò era avvenuto appunto nel momento, in cui il cuore di sua moglie gli era tolto per sempre. Ora vedendo la sua indifferenza, comprendendo che poteva amarne un altro, il suo amor proprio ne aveva sofferto; anelava ad una rivincita. Più gli sfuggiva e più s’attaccava a lei.
Lui non era di quelle anime elette che amano le persone e apprezzano le cose per il loro valore intrinseco: non conosceva che un valore relativo alla difficoltà di ottenerle.
Arrivò un giorno in cui Bianca capi che non poteva tirare avanti così: bisognava cedere o uscire da quella casa.
D’altra parte le lettere di Carlo divenivano sempre più rade e brevi. Ciò la pungeva. A momenti capiva benissimo che questo era il più grande dei sacrifici che le faceva; ma s’indispettiva che avesse la forza di farlo.
Mille pensieri contrari si combattevano dentro di lei.
La vita materiale, spicciola, giornaliera, l’assaliva da tutte le parti per trascinarla giù da quell’altezza ideale, dove le era parso così facile di poter vivere.
Quando suo marito era di cattivo umore per qualche sua ripulsa, si mostrava freddo e sgarbato, verso il povero Guidino.
Queste erano le ferite più acerbe. Ma poi lui riconosceva di avere avuto torto, e le domandava perdono. E queste erano le ferite più pericolose. Il suo cuore si commoveva; le vecchie abitudini della vita riprendevano il loro dominio. Le circostanze la andavano mutando, e lei si sentiva mutare e si ribellava inutilmente: la realtà voleva imperare con tutta la sua brutalità fatale.
Una mattina si levò con la risoluzione di fuggire: non aveva ancora stabilito dove sarebbe andata: le bastava fuggire.
Ma a mezzogiorno arrivò la suocera, e altri avvenimenti la trascinarono.
Codesta suocera era un curioso tipo di donna. Bellissima in gioventú, ora non era piú bella e mancava di quella elevatezza d’animo che mette alcune donne, rarissime, al di sopra di questa perdita irreparabile: però era invidiosa e maligna. Nonostante questo peccato era buona madre, adorava i suoi figliuoli, e piú particolarmente Luigi ch’era il suo ultimo; ma per una logica particolare di certe anime, odiava tanto piú cordialmente la nuora.
Le bastarono pochi giorni per comprendere la posizione psicologica dei due sposi. Quel nuovo riaccendersi dell’amore del suo figliuolo per quella donna aumentò il suo cattiv’umore naturale.
Cercava ogni occasione di pungerla: ogni mezzo le sarebbe parso buono per far crollare l’amore nel cuore di Luigi.
Se uscivano assieme le rimproverava indirettamente l’eleganza de’ suoi vestiti. Aveva paura di farla scomparire con le sue vesti semplici: ma lei il denaro non lo sciupava in frascherie, lo serbava per i suoi figli: certi lussi una madre non avrebbe mai dovuto permetterseli: lei non se li era permessi mai, manco da giovane.
Una volta a Bianca scappò la pazienza, e disse che lei pure ne avrebbe fatto a meno, clre quei vestiti erano regali spontanei di suo marito.
Ma la suocera se l’era immaginato, certo con le rendite della sua dote, lei non poteva far tanto! Ma era vana, e per soddisfare la sua vanitá rovinava il marito ottenendo tutto dalla sua bontà e dalla sua debolezza a forza di diaboliche civetterie.
Un giorno entrò a parlare di Carlo Righi: lo aveva conosciuto in gioventù: lei era ancora una bella donna quando lui era studente: le aveva fatto la corte: con quell’aria di filosofo gli era un galletto il signor Carlino: non aveva mai preso moglie perchè trovava molto piú comodo di amare la moglie degli altri. Ma con lei non aveva trovato filo da dipannare, il suo marito non era come certi mariti di adesso: gli aveva mostrato la strada che doveva tenere se non voleva misurare l’altezza della finestra. Poi naturalmente veniva a parlare del duello. Aveva fatto bene Luigi a dargli una lezione. La politica già era un buon pretesto, bene scelto: la politica si prestava a tutto.
Bianca per non rispondere, che non ne potava più e si sentiva andare il sangue alla testa, piantava la suocera senza neanche scusarsi, e andava a chiudersi nella sua stanza.
In questo tempo Luigi subiva le insinuazioni della sua mamma, e la sua passione contrastata si mutava in collera.
Bianca non aveva piú altro rifugio che l’amore del suo bambino. Ma la suocera faceva quanto poteva per toglierle anche questo conforto: voleva il bimbo per sè.
Carlo a poco a poco tralasciava di scriverle. Capiva che le sue lettere sarebbero state un continuo impedimento alla sua felicitá, oppure cominciava a dimenticarla?
Il cuore le diceva che il dubbio solo era un delitto verso quest’uomo: ma lo avrebbe voluto meno rassegnato al sacrificio: avrebbe voluto che fosse venuto là a qualunque rischio, magari a costo di comprometterla: che le importava? Avrebbe scontato con qualunque tormento il piacere di vederlo ribellarsi al destino, accorrere per stare con lei un momento, incapace di sopportare quella separazione.
Invece l’abbandonava cosí alla corrente fatale che la trascinava, e alla sua debolezza.
E ogni giorno si sentiva come tramutare.
Già il pensiero di riconcigliarsi definitivamente con suo marito non le taceva piú tanto orrore. In certi momenti di stanchezza provava come un sollievo a adagiarsi nelle comode massime della moralità convenzionale.
Infine, era suo marito, il padre del suo bambino: con lui doveva vivere; perchè non avrebbe fatto un qualche sacrificio per vivere il meglio che poteva? Non era questo il consiglio che le aveva dato anche Carlo? Il suo desiderio forse?
E poi non era quello il solo mezzo di combattere le insidie di quella vecchia che voleva schiacciarla; il cui ultimo scopo era forse quello di provocare uno scandalo, di toglierle il marito e il figliuolo? Perchè doveva lasciarsi sopraffare quando era in suo potere di vincere?
Eppure non poteva risolversi. In fondo al cuore provava come un rimorso; un presentimento di decadenza che la rendeva perplessa.
Infine quell’uomo che davanti alla societá era suo marito, era, davanti alla sua coscienza di donna, un uomo che la voleva, e che lei non amava. E in grazia di certe convenienze, per mantenersi una certa soddisfazione di amor proprio, per non sacrificare una certa pace apparente, si trattava che lei donna onesta, si sarebbe data a quell’uomo.
Lei sarebbe discesa dalle regioni sublimi delibamore vero, avrebbe tradito l’uomo che amava, mancato ai suoi giuramenti piú spontanei, per divenire l’amante di uno che l’aveva calpestata e che ora l’egoismo della vita, l’istinto volgare del benessere materiale le consigliava di tenersi attaccato!
Se non era scender nel fango codesto, cos’era?
Se essere una prostituta, voleva dire essere una donna che finge amore per un interesse purchessia, assolutamente estraneo all’amore, era veramente sul punto di diventare una prostituta.
Peggio. Poichè la sua vergogna sarebbe stata coperta ipocritamente dal manto della legalitá.
Questo le diceva la voce della coscienza: questo le ripeteva il rimorso del cuore.
Ma queste voci si affievolivano a poco a poco.
Quando si trovava tra suo marito e la suocera, e questa cercava ogni occasione di pungerla, lei si sentiva irresistibilmente trascinata a combattere il potere maligno di quella donna. Ma con quali armi combatterlo, se noa con quelle potenti della civetteria? E quasi involontariamente i suoi occhi si fissavano in quelli di Luigi, le sue labbra si schiudevano al sorriso: e i suoi ginocchi non si ritiravano dispettosamente quando lui vi si accostava troppo coi suoi.
Inesplicabili sensazioni le faoevano salire il sangue alla faccia. Non beveva che acqua e si sentiva ubbriaca.
Una sera la suocera capí che oramai aveva perduto, e stabili di ritirarsi. Prima di ritirarsi però meditò ancora un assalto.
— Domani parto! disse a suo figlio in aria di minaccia.
Questi fece alcune obbiezioni di complimento, poi finse di rassegnarsi alla sua volontá. In fondo era beato, che finalmente poteva rimanere in piena libertá con la sua Bianca, le cui buone disposizioni a suo riguardo gli parevano oramai incontrastabili. Accompagnò, la mamma fino all’uscio della sala, le augurò la buona notte, poi si voltò rapidamente e come sollevato da un peso, corse vicino e sua moglie e la strinse fra le sue braccia.
Ma la vecchia aveva veduto e capito tutto. Quella ritirata era una finta.
Rimase un momento nella sua camera, poi colse un pretesto e tornò in sala, come se cercasse qualche cosa.
Aveva in mano un giornale. E con la voce piú calma e naturale si mise a discorrere col suo figliuolo dei fatti della giornata.
Fatti tristissimi, poichè quell’anno era il 1865 e tutti i giornali parlavano del colèra scoppiato in Ancona.
Luigi veramente trovava che quel momento era il meno opportuno per parlare di codeste malinconie. Tanto, che ci poteva fare, lui, se in Ancona morivano?
Ma la buona mamma non badava al suo malumore.
Pareva ci avesse un gran gusto a intrattenersi su quell’argomento. Forse era la paura. Si sa, la lingua batte dove il dente duole. Luigi pensava a questo e non osava mostrare l’impazienza che lo pungeva.
Finalmente accennava a andarsene. Gli diede la buona notte. Voleva essere svegliata presto la mattina per fare i suoi preparativi di partenza.
Prese il suo lume, ma arrivata all’uscio si fermò e tornò indietro.
Oh bella! s’era dimenticato il meglio. Una novitá curiosa. Indovinassero un po’ chi era stato mandato in Ancona, con una missione di alta sorveglianza?
Bel tiro che gli aveva giuocato il Ministro suo nemico personale per liberarsi di lui! Povero diavolo! La gli stava bene però: rischiava di scontarle tutte una buona volta.
— Di chi parli? domandò Luigi sorpreso.
— Di chi? Non sai? di Carlo Righi. Quello che non ha fatto la tua sciabola, lo fará probabilmente il colera.
All’altra estremitá della sala s’intese un gemito.
Luigi si voltò con impeto.
La signora posò il lume sulla tavola e guardò anche lei. Bianca era svenuta.
Carlo, solo in Ancona, pensava che la sua vita era chiusa: finita. Era ben contento che lo avessero messo in quella posizione pericolosa.
Avrebbe voluto soltanto che Bianca non lo sapesse.
Però non le scriveva piú.
Pregava che fosse felice. Sperava che la sua immagine sarebbe rimasta come un dolce ricordo in quel cuore, senza turbarne la pace. Era contento che il destino gravasse la sua mano sopra di lui, poichè forse a questo patto avrebbe risparmiata lei.
Che la sua vita non dovesse esser lunga, di questo era certo. Se non lo liberava il flagello asiatico, lo avrebbe liberato un qualche altro benefattore oscuro.
Unico conforto a quegli ultimi giorni era la memoria delle ore felici passate vicino a lei. Andava morendo.
Tutte le volte che incontrava un amico, leggeva su quel volto la pietá e la meraviglia. E quando gli capitava di guardarsi allo specchio, sorrideva stranamente. L’ora desiderata era vicina oramai. Intanto i giorni passavano; giorni orribili.
La casa dove abitava era posta sopra un’altura, dominava la città, il porto e un vasto tratto di mare.
Tutte le sere verso il tramonto si metteva a una di quelle finestre, e guardava malinconicamente lo splendido quadro.
Guardava e pensava.
Le sue giornate erano piene di mille affari, gravi e penosi, quali gliel’imponevano le circostanze e la carica ch’egli occupava. Ma, a quell’ora di pace verso il tramonto, non aveva la forza di rinunziare.
Era una sera di settembre; il sole scendeva maestosamente; dorava le nubi che lo circondavano, illuminava le bianche vele delle navi che passavano sul mare, faceva brillar come acciaio brunito le onde, e andava a nascondersi dietro alle più alte cime dei monti. Il giorno moriva con tutta la sua pompa; discendeva nella tomba con tutto lo splendore della sua gloria; entrava nell’immenso infinito, nel regno sconosciuto, dove vanno i giorni che muoiono e le vite che si spengono; siccome l’anima del forte che sfavilla fino all’ultimo istante.
Oh, i bei tramonti d’autunno! Il loro fulgore armonizza bene colla natura terrestre, nel momento in cui ci offre i più nobili frutti: la fine dell’uomo che, giunto all’estremità della sua vita, s’affatica ancora, non per amore di sè, ma dell’opera, ha uno splendore che somiglia a quello.
Ma la cittá sulla quale il sole gettava i suoi ultimi raggi purpurei, che una natura benigna cingeva di vigneti carichi di grappoli, di verdi colline, e di boschi odorosi, era cupa e squallida.
E lui s’immedesimava in quello squallore, e sentiva tutta l’acre ironia di quello sfarzo di colori. Di tratto in tratto i suoi occhi s’inumidivano. Ma pensava che non era il solo a piangere sovra quei lembo di terra. Mille e mille piangevano. Migliaia di finestre erano chiuse in quella maniera assoluta e desolata che indica l’assenza d’ogni abitante; innumerevoli case abbandonate affatto. Il silenzio regnava per le vie deserte; ben pochi osavano interrompere il suo triste impero. Le botteghe si chiudevano già a quell’ora, e i loro proprietari si fermavano un momento coi loro vicini, in mezzo alla strada, comunicandosi a bassa voce le dolorose vicende della giornata, e le gravi apprensioni che a ognuno ispirava la notte. Nel separarsi si salutavano con piú affetto del solito, e, giunti alla prima svoltata, volgevano uno sguardo a quell’angolo oscuro, testimone delle loro fatiche e dei loro guadagni che forse non dovevano rivedere mai piú. Del resto, il commercio era quasi sospeso; poche navi visitavano il porto, e quelle poche rimanevano lontane, o fuggivano rapide. Perfino gli animali parevano ammutoliti; i cani vagavano a capo chino. Solo alcuni gruppi di fanciulli si vedevano trastullarsi in riva al mare; i loro giuochi continuavano come di solito, scendevano nei battelli, fingevano viaggi lontani; partivano, arrivavano. Ma i fanciulli sono osservatori ed imitatori per eccellenza. Tutti gli avvenimenti della vita vengono riprodotti nei loro giuochi. E le cose che vedevano, con tanta frequenza in quei giorni, gliene avevano ispirato uno di nuovo. Alcuni fra i piú grandicelli si staccavano dai loro compagni, toglievano alcune assicelle o panchette dai batelli dove s’erano baloccati, e si ritiravano in un canto. Uno cominciava a contorcersi e a mandar lamenti, due o tre compagni lo circondavano e parevano assisterlo e consolarlo; veniva il medico, che per rappresentare la sua parte a dovere s’era messo in testa un gran cappello di carta e legatosi una pezzuola intorno al collo; ei si avvicinava con cipiglio severo, toccava il polso, scuoteva il capo, e andava via brontolando.
Intanto un altro s’era disteso sovra un’asse, e stava lí intirizzito senza fiatare; quattro fra i piú robusti alzavano la bara improvvisata, altri coprivano il morticino colle loro pezzuole; e lo strano corteggio partiva. Ma un movimento impreveduto di quello che giaceva sull’asse, o una scossa mal calcolata dei portatori li faceva traballar tutti cinque; alcuni erano gettati sul lastrico, donde un piccolo tumulto, grida, pugni, e scrosci di risa, che facevano rivolgere la faccia meravigliata di un passante silenzioso e affrettato.
Carlo guardava quei giuochi e quei ragazzi, e gli pareva come se un raggio di luce entrasse nell’anima sua. Ammirava la dolce infanzia, piú audace del trafficante assetato di guadagno, piú noncurante del pescatore che confida la sua vita alle onde sopra un piccolo legno, allegra e spensierata, e nella sua spensieratezza, unicamente felice.
Ma l’immagine della morte scacciava inesorabilmente qualunque altra immagine.
Spaventevole era stato il numero delle vittime quel giorno. E chi sa quanti morivano soli, abbandonati fin dai piú cari. Le cure dei pietosi non bastavano alla quantitá dei morti.
Carlo si ritirò dalla finestra per dare alcune commissioni, al suo servo.
Quella sera la sua ora di riposo era stata più breve del solito; molte cure d’ufficio richiedevano la sua attivitá: gravi cure, irremissibili.
Finalmente aveva finito: il servo fu mandato a dormire. S’era fatto tardi; egli era solo nella sua stanza da studio, e leggeva. Di tratto in tratto un lugubre mormorio turbava il silenzio della notte, e passi pesanti e rapidi, come di chi, portando grave e disgustoso peso, s’affretti. Carlo alzava il capo a quei rumori sinistri, e stava sopra pensiero. Dolorosi pensieri lo assalivano. Non aveva alcuna nuova di Bianca. Il sacrificio era dunque compiuto? Egli alzò gli occhi al cielo, stringendosi le mani sul petto come se volesse trattenere un sospiro.
Eppure, anche s’era felice, anche se aveva trovato pace, gli pareva che non avrebbe dovuto dimenticarlo. I giornali avrebbero pur dovuto rivelarle il segreto del suo silenzio.
Ma! s’era felice! I felici dimenticano. V’ha al mondo gente piú immemore di chi, dopo aver lottato lungamente colle onde entra finalmente in porte?
Egli s’èra alzato, e camminava a passi lenti. Ripensava all’amore di Bianca, alle sue promesse, ai suoi pianti. Allora pareva rassegnarsi. Povera donna! diceva, purchè sia felice!
Non l’aveva voluto lui? Non avrebbe sacrificata la vita stessa alla sua felicitá? Non aveva implorato mille volte che l’obblio scendesse sovra il suo cuore esulcerato?... Ahimè! che illusione! aveva pregato, ma sperava di non essere esaudito. E ora che temeva di esserlo, la natura vigliacca si risvegliava, il cuore s’accasciava, il peso della sua sventura lo schiacciava. Era l’istinto inconscio del bruto, che respinge disperatamente fino che può il calice avvelenato che lo fará immortale. Pece uno sforzo sopra se stesso e si rimise a tavolino. Posò la fronte fra le mani, appuntellando i gomiti sopra la tavola, e fissò gli occhi sul libro; ma il pensiero era lontano, lontano, di lá dai monti, oltre ai mari. Sarà passato un’altra mezz’ora, allorchè un nuovo rumore lo scosse. Era un rumore insolito a quell’ora, in quei momenti. Una vettura saliva la strada, e si fermava dinanzi alla porta della sua casa. Chi poteva essere? Tutti i pigionali degli altri piani, ricchi negozianti, avevano abbandonato la città da un pezzo, nè certo, pensavano a ritornare. Di forestieri non c’era dubbio, nè di amici che venissero da lontano per visitarlo. Era ben raro che un forastiero si recasse nella cittá infetta, in quei giorni, nemmeno per affari; e dove pescare la stampa d’un uomo che si mettesse a quel rischio per confortare un amico? Inoltre le leggi sanitarie erano severissime, chi entrava non sapeva come fare per uscire. Non poteva essere che una cattiva nuova. Forse qualche suo collega, assalito improvvisamente, desiderava vederlo. Carlo s’avvicinò alla finestra e l’aprì. La vettura si rimetteva in moto per partire: la persona che n’era scesa, era di giá entrata dentro alla porta che lui aveva lasciata aperta. Era una donna: aveva veduto lo strascico d’una lunga veste nera. Qualche pigionale che ritornava chi sa per che ragione improvvisa. Carlo si mise un’altra volta al tavolino: ma la sua immaginazione vagava più che mai. Intanto un passo leggiero e rapido saliva le scale; egli Io sentiva; sentiva il fruscio della veste di seta che lo accompagnavo, e null’altro: la donna era dunque venuta sola! Ascoltava suo malgrado: conosceva di vista tutte le sue vicine, nei primi giorni le aveva vedute; ma non riesciva a rammentarsene nessuna, alla quale quel passo leggiero potesse appartenere. Quella che saliva doveva essere una figura snella, elegante.
L’incognita intanto era giunta al pianerottolo, su cui metteva il suo studio; e... non saliva più. Veniva dunque da lui? Una donna da lui a quell’ora! ma che! impossibile. Eppure!... Che strana emozione provava! Tutti i ragionamenti della logica contrastavano quel fatto, e il fatto era innegabile. I sensi non gli permettevano di dubitare e tuttavia non poteva astenersi dal dichiararlo impossibile. Ma la donna che s’era arrestata un momento, forse per orientarsi nelle tenebre, o per riposare, suonò. Carlo era giá in piedi; accorse e aprì... La donna lo guardò un momento, e poi si precipitò come un turbine, colle braccia aperte, cascò quasi sovra il suo petto... E lagrime, singulti, grida di dolorò e di gioia, parole interrotte, deliranti, tale fu il loro incontro. Era arrivata, era là.
Aveva sfidato la morte; oltrepassato i suoi desideri piú folli; indovinati e resi possibili i suoi sogni piú stravaganti.
Che voleva di piú?
Non si saziava di guardarla. La stringeva fra le sue braccia, la baciava, poi si staccava da lei e la guardava ancora: era proprio lei!
Quando l’emozione di quel momento fu un poco quietata, e i loro cuori perfettamente sicuri del loro bene, egli cominciò a interrogarla.
E com’era venuta? E come aveva saputo ch’egli era lá? E come aveva avuto la forza di abbandonare la famiglia?
Lei raccontò tutto.
Le proprie debolezze, i dubbi, i timori, l’abbiezione in cui era stata per cadere: e come*s’era riscossa, e come la notizia della posizione in cui egli si trovava l’aveva richiamata alla coscienza del vero assoluto, squarciato il velo e mostrato l’abisso in cui stava per cadere; e come aveva sentito rinascere l’amore suo piò ardente, più impetuoso che non era mai stato.
Fu una confessione generale fatta con tutta l’umiltà dell’amore.
Lui la mandò assolta con un milione di baci.
Non era lá con lui? Non era sua? Che gl’importavano i dubbi passati e i pericoli, poichè aveva finito col vincere?
Ma la sua indole generosa lo svegliò presto da quell’ebbrezza di giubilo. E pensò a ciò che Bianca gli aveva sacrificato, al suo onore perduto, al bimbo abbandonato, al suo avvenire, alle mille miserie che la societá prepara alle donne che osano sfidarla. E proruppe. Rimproverò sè stesso di non averla saputo difendere da tanta sventura, di non averla avvertita prima.
Ma lei gli chiudeva la bocca coi baci.
— Ora è fatto! diceva, e cosa fatta capo ha. Non turbarmi la gioia divina di quest’istante con meschinitá da borghesi. Ti giuro che non mi pentirò mai. E poi, forse non ne avrò nemmeno il tempo. Qui si muore, sai. Non te ne sei ancora accorto o l’hai dimenticato?
Ma questa era un’altra ferita al cuore di lui. Anche la vita aveva rischiata quella povera donna che lui non poteva altro che rendere infelice; in tutte le maniere infelice.
Lei peraltro non gli lasciava tempo di abbandonarsi a queste malinconie; era gaia come non l’aveva vista mai. Chiamava il colera il suo salvatore; s’inginocchiava e lo ringraziava perchè aveva assecondato i suoi voti: additata la strada: rivelata l’anima sua a sè medesima.
Poichè la missione della donna era di assistere gl’infelici, e il suo posto al capezzale dei moribondi, tutti quelli che erano in pericolo di morte avevano diritto alle sue cure. Ma poichè lei tutti non li poteva assistere era giusto che assistesse quello che amava di piú.
E intanto rideva e lo abbracciava, e non gli permetteva di fare la più piccola osservazione in contrario.
Ma neanche lui aveva voglia di farne. Era vinto: la teoria del fatto compiuto s’impadroniva anche della sua coscienza.
E poi, gli pareva che quell’anima così fermamente convinta d’aver fatto il suo dovere venendo a lui, non potesse essere contradetta; che quella coscienza così serena e tranquilla, non potesse ingannarsi.
Il mondo sparì agli occhi suoi: la felicità che gli si presentava era irresistibile.
Così dunque era proprio vero? Dopo tante angoscie, dopo tanti tormenti, dopo aver creduto che la vita era chiusa per lui, il destino gli offriva improvvisamente un’esistenza nuova piena di felicità?
Quanto più la guardava e tanto più la trovava bella.
Ma lei veniva da un lungo viaggio, e non aveva ancora pensato a farla ristorare; oh che ospite era mai lui!
E presto correva in cucina, dove il servo teneva sempre la credenza ben fornita. Anzi voleva chiamarlo perchè preparasse lui la cena, ma la Bianca si oppose. Stavano meglio soli; si faceva una festa di preparare tutto lei.
Lui voleva aiutarla, e imbrogliava ogni cosa. Quando si piegò per distendere la tovaglia, il vestito che aveva incrociato sul petto si aprì un momento, lui ne approfittò per basciarle il collo: e la tovaglia andò a ciondolare sul pavimento. Ma lei andava in collera di questi scherzi. Se l’avessero veduto quell’uomo serio, quell’uomo politico, come faceva il ragazzo! E voleva fuggire, ma lui l’arrestava, l’alzava di peso e un diluvio di baci le innondava il collo e le spalle.
Finalmente la tovaglia era distesa e la tavola preparata.
Erano seduti uno accanto all’altro nella prima dolcezza della vita in comune.
La città desolata non esisteva più per loro. Avevano dimenticato il colèra, i morti, la loro posizione anormale e il pericolo che li minacciava; tutto: erano uniti, soli, e divinamente felici.
Bianca impallidì improvvisamente. Un rumore sordo, fatale come il destino, intollerante di quell’obblio come l’invidia della felicità altrui, l’aveva fatta riscuotere. Erano i soliti passi pesanti e rotti e un suono di voci roche e avvinazzate. Una torcia a vento si riflettè un momento sui cristalli della finestra: gli orribili lavoratori si riposarono un momento in mezzo alla strada.
— Ho freddo mormorò Bianca, ho paura.
Carlo la fece sedere sulle sue ginocchia, l’avvoltolò in un scialle e cercò d’infonderle un po’ del suo calore.
Ma un’immagine spaventosa lo fece fremere: se Bianca fosse morta! Se la malattia l’avesse colta subito, quella sera! Rabbrividì. La fissò attentamente e la strinse con piú forza al suo cuore.
Lei capì e sorrise.
— Non aver paura, disse, non morirò; ma se morissi non saremo divisi perchè tu morirai con me; ci seppelliranno insieme.
E abbandonò la testa sulla sua spalla, e chiuse gli occhi vinta dalla stanchezza e dal sonno, come un bimbo tra le braccia della sua mamma.
L’alba sorgeva e la sua luce faceva impallidire le candele rimaste accese, e Carlo Righi vegliava ancora come può vegliare un avaro alla custodia del suo tesoro minacciato.
Allorchè al venire dei primi giorni freddi il nemico fatale s’allontanò da quella piazza, dileguandosi misteriosamente, i cordoni sanitari furono levati, e Ancona tornò al consorzio delle genti.
Allora, passata la paura, anche il marito di Bianca pensò d’andare in traccia della sua moglie, o almeno di vendicarsi se altro non era possibile.
Sapeva certo che lá doveva trovarla, non aveva alcun dubbio di potersi ingannare. Ma non era ancora arrivato in Ancona che lo sorprese la notizia della morte di Righi. Era stato una delle ultime vittime, dicevano compiangendolo; aveva lavorato finchè potè per il bene della disgraziata cittá: quando vide che poteva riposarsi, morí.
Questi elogi suonavano male al capitano Raimondi, ma non osava criticarli. Nè pure osava chiedere notizie di Bianca.
Quando fu in città si fece indicare la casa dove aveva abitato Carlo Righi. Tutti la conoscevano; ma ora il suo quartierino era chiuso e deserto; custodito unicamente da un vecchio servo che piangeva la morte del suo padrone, e non sapeva decidersi ad allontanarsi da quel luogo.
Il marito di Bianca vollè parlare a queiruomo.
Gli diede una mancia e lo interrogò sugli ultimi mesi di vita del Righi e sulle persone ch’erano venute a visitarlo. Il vecchio pareva diventato un po’ ebete; rispondeva cosí a casaccio, ma con molta ingenuitá; senza meravigliarsi di alcuna domanda, quasi meccanicamente.
Una signora era veuuta difatti; bella, giovane, se la ricordava precisamente; ma, poverina, dopo pochi giorni aveva fatto anche lei come tanti: paff! s’era buttata sul letto e non s’era levata piú finchè non erano venuti a pigliarla: si chiamava Bianca.
Luigi ne sapeva abbastanza.
S’allontanò da quella casa a capo basso, riflettendo malinconicamente.
Ma il vecchio servo lo guardava dalla finestra; e, oh meraviglia! non aveva piú la faccia d’ebete di poco prima. I suoi piccoli occhi brillavano: un sorriso malizioso increspava le sue labbra.
Quando il tardo visitatore svoltò la cantonata, il vecchio alzò lo sguardo e fissò gli occhi sulla vasta superficie del mare. Rimase un pezzo come sospeso facendosi solecchio colla mano, cercando ostinatamente un oggetto che non riesciva a vedere. Finalmente un lampo di gioia, illuminandogli la faccia, mostrò che l’aveva trovato.
Rimase come estatico alcuni momenti. Ma la finestra d’accanto fu aperta improvvisamente e una donna sporse la testa.
Il vecchio rispose al saluto della sua vicina, e tornò ebete. Poi sbatacchiò un poco le imposte e si ritirò.
Intanto sull’ultimo punto dell’orizzonte, là dove pare che il mare e il cielo si congiungano, appariva come l’ala bianca di un alcione, l’estremo lembo di vela di un bastimento che s’allontanava rapidamente col vento in poppa.
Fine.