Appunti sul metodo della Divina Commedia/Istinto e coscienza dello stile
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ISTINTO E COSCIENZA DELLO STILE
METODO
Quando un fatto o una cosa ci fanno impressione tendiamo nel primo momento a far partecipare di quella impressione tutti i particolari, anche quelli che non vi hanno in definitiva partecipato che con indifferenza assoluta, e nel secondo momento a vivificare di quella commozione, a riempire di quel moto la sostanza inanimata che ci ha invece commosso per la sua forma. Così quando sentiamo che l’assassino di una vecchia era vestito di grigio o di marrone ci pare che il grigio e il marrone siano dei colori con in sè qualcosa di micidiale. Quando sentiamo una poesia in qualsiasi lingua, siamo indotti a concludere: «che bella lingua»; quando vediamo una madonna veramente religiosa, vestita di un certo azzurro o verde, l’azzurro o il verde ci sembrano colori mistici. Il metodo libera la poesia da tutti i dettagli inutili, e concentra lo sforzo su quelli importanti.
Quando un poeta concepisce una poesia il suo volo è continuamente appesantito dall’ansia di non saperlo condurre a termine, e ciò che si chiama in genere «ispirazione» è la coscienza del momento propizio alla scrittura. Un’opera di poesia non può fiorire che alla sua ora, perchè prima non era ancora matura, e dopo è già secca. Ci sono ad ogni modo due maniere di catturar l’infinito, quella di tutti i classici e quella moderna.
Fino al secolo XIX° i poeti, servendosi delle parole, non avevano ancora l’aria di mordere il freno. Le parole erano la necessità della poesia. I poeti sapevano che ci voleva un ostacolo per acquistare la gloria di averlo vinto. Consideravano l’infinito con calma, come se fosse un oggetto; non si decidevano a dargli la caccia che dopo averlo ben conosciuto, e se ne impossessavano con un certo distacco, senza perdersi d’occhio. Si può quasi dire che «raccontassero l’infinito». Anche quando era in loro, attendevano, per inseguirlo, di vederlo come una cosa lontana.
Il poeta vero invece di esprimere, appena sente tremare in sè la commozione poetica, quel sentimento, direttamente, cercando, nel suo vocabolario istintivo, delle parole che abbiano qualche rispondenza con l’affetto dell’animo (che dev’essere detto, come fa il violinista, quando tenta le corde per intonarsi al piano), e invece di scrivere una dopo l’altra queste parole, conservando alla poesia l’incoerente affollarsi e la varia intensità delle passioni, aspetta che il momento poetico si sia consunto, e poi, riordinando i ricordi e dando loro una forma armoniosa e architettonica, compone la poesia, come se pariasse di un altro, in cui potesse miracolosamente vedere.
I grandi classici hanno tutti aspettato, per scrivere dei versi tristi, che la loro tristezza adagio adagio avesse lasciato il proprio deposito. Ma dall’ottocento in poi si sono visti i poeti, presi direi quasi dallo struggimento di esprimersi per capirsi, spremere l’infinito senza guardarlo, con gli occhi chiusi, come si spreme un limone. Il poeta concita in sè medesimo questo infinito che vorrebbe traboccare in cascate ritmiche, e cerca, abbandonandosi ai suggerimenti di un vago istinto, delle parole che acquetino il suo furore, col sentimento di un’inestricabile concordanza, e scrive in base alla garanzia del proprio benessere. Mallarmé ci ha dato l’esempio estremo di questo metodo. Rileviamo che si possono scrivere dei capolavori in tutte e due le maniere, ma che la Divina Commedia è più bella di qualunque suo verso, mentre un verso di Mallarmé è sempre più bello di tutta la poesia.
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Per acquistare un metodo, prima di tutto, bisogna cercarlo. Par questa una verità molto comune, e di cui sono tutti convinti, mi sono accorto invece che la maggior parte degli scrittori che si preoccupano dello stile, l’aspettano dal di fuori: quasi che esso potesse scendere nell’artista come la pioggia cade sulla terra. Questo stile bisogna cercarlo tenendo conto di un principio fondamentale, che cioè non si deve semplicemente candidamente esprimere quel che si sente: ma far sì che quello che si sente venga sentito, allo stesso modo, con la stessa forza, da un essere qualunque che è al di fuori di noi: questo essere è il pubblico.
Tutti gli artisti creano per questo essere che è al di fuori di loro: il problema più solenne e struggente è d’arrivare a far sentire a quest’essere con la maggior esattezza possibile i sentimenti che ribollono in loro, conservando a questi sentimenti, catturati nelle parole, quell’umidità che avevano prima di essere detti, e alla passione generale che li ha ispirati quel misterioso alone che qualche volta trema per il godimento degli spiriti più delicati in una musica irragionevole.
Ora non tutta la sostanza che è in noi, tradotta alla lettera, diventa sostanza poetica, cioè sostanza sensibile agli altri; perchè gli altri la godano come noi la sentiamo bisogna trasformarla, sceglierla, in modo che acquisti la sua propria esistenza. Per essere poeti quello che importa è lo sdoppiamento che permette un’architettura logica.
«Non è una sola la cagione efficiente dello es-
sere delle cose, ma tra più ragioni efficienti
una è la massima delle altre; onde il fuoco e il
martello sono cagioni efficienti del coltello,
avvegnaché massimamente è il fabbro.»
Convito, Trattato I, cap. XIIL
Dante dunque, non disprezzava l’azione del fuoco e del martello, e avrebbe creduto indegno di sè affrontare una materia così alta come quella della Divina Commedia, senza aver prima studiato il modo di metterla in luce più efficacemente. Egli lo dice del resto nel Purgatorio:
«Lettor, tu vedi ben com’io innalzo
La mia materia; e però con più arte
3Non ti meravigliar s’io la rincalzo.»
Purgatorio, IX, 70-72
E nel Paradiso:
«Insino a qui l’un giogo di Parnaso
Assai mi fu, ma or con ambodue
3M’è uopo entrar nell’arringo rimaso.»
Paradiso, I, 16-18
E più chiaramente ancora nel Convito:
«E qui principalmente si vuole sapere, che cia-
scuno buono fabbricatore nella fine del suo lavoro
quello nobilitare e abbellire dee, in quanto puote,
acciocché più celebre e più prezioso da lui si
parta.»
Convito, Trattato IV, cap. XXX
In tutte le arti la semplicità è la più difficile forma di espressione.
Vero è che, come forma non s’accorda
Molte fiate all’intenzion dell’arte,
3Perchè al risponder la materia è sorda»
Paradiso, I, 127-129
L’arte ingenua è una contraddizione in termini.
Si confronti lo stile di Dante nel Convito e nella Divina Commedia e si vedrà quanto l’arte ha giovato al
«....poema sacro
Al quale ha posto mano e cielo e terra,
3Sì che m’ha fatto per più anni macro.»
Paradiso, XXV, 1-3
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L’istinto ha gran parte, certo, nella Divina Commedia, ma non può restare a lungo un mistero per l’occhio di Dante.
Tutte queste cose si toccano in quelle parole, là dove dice essere egli stato nel primo cielo, e voler narrare del regno celeste tutto quello che poteva ricordare.
«Veramente quant’io del regno santo
Nella mia mente potei far tesoro,
3Sarà ora materia del mio canto.»
Paradiso, I, 10-12
Nessun dubbio che Dante ha scritto solo quel che aveva dentro senza subire l’influenza della moda, dei potenti, e neppure del proprio interesse:
«Io mi son un che quando
amore spira, noto; ed a quel modo
3Ch’ei detta dentro, vo significando»
Purgatorio, XXIV, 52-54
Ma questo non prova affatto che abbia scritto senza riflessione e «come vien viene».
La conoscenza profonda che Dante ha del cuore umano, che dà al poema di Dante tanta vivezza, tanta spontaneità, verità e drammaticità, viene dalla sua intuizione. Il suo libero parlare, che sfocia in così stupende invettive, viene dalla sua rettitudine, dalla sua logica e dalla sua sincerità; la magnificenza del quadro in cui compone il dramma, la varietà e la molteplicità delle immagini, vengono dalla sua immaginazione, dal suo istinto. Ma rettitudine, istinto, logica, intuizione, immaginazione, non sono affatto in contrasto con la ricerca di uno stile e di un effetto, chè anzi, tanto più vasta è l’immaginazione e l’intuizione, tanto più necessario è un metodo per contenerle e ordinarle. E Dante lo sapeva. Sapeva:
Chè sempre l’uomo, in cui pensier rampolla
Sovra pensier, da sè dilunga il segno,
3Perchè la foga l’un dell’altro insolla.»
Purgatorio, V, 16-18
Sapeva che l’immaginazione può far perdere di vista la realtà:
«Oh immaginativa, che ne rube
Talvolta sì di fuor, ch’uom non s’accorge
3Perchè d’intorno suonin mille tube.»
Purgatorio, XVII, 13-15
«Quando per dilettanze, ovver per doglie,
Che alcuna virtù nostra comprenda,
3L’anima bene ad essa si raccoglie,
Par ch’a nulla potenzia più intenda;
E questo è contra quello error, che crede
6Ch’un’anima sovr’altra in noi s’accenda.
E però, quando s’ode cosa, o vede,
Che tenga forte a sè l’anima volta,
9Vassene il tempo, e l'uom non se n’avvede:
Ch’altra potenzia è quella che l’ascolta,
Ed altra è quella ch’ha l’anima intera:
12Questa è quasi legata e quella è sciolta.»
Purgatorio, IV,1-12
Diffidava della sua immaginazione. E’ a sè stesso che Dante fa dire per bocca di Virgilio:
«Però che tu trascorri
Per le tenebre troppo dalla lungi,
3Avvien che poi nel maginare aborri:
Tu verrai ben se tu là ti congiungi,
Quanto il senso si inganna di lontano.»
Inferno, XXXI, 22-26
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Quelli che hanno tanta difficoltà ad ammettere che il metodo possa abbinarsi all’ispirazione, e alla sincerità, sono poi gli stessi che hanno paura ad istruirsi per non essere influenzati, che credono la conoscenza delle cose distrugga la commozione.
Un’originalità che non resiste alla cultura è ben poco forte; una sensibilità che non resiste alla conoscenza non può certo aver la forza di diventare arte.
La conoscenza delle cose e la commozione non si eliminano perchè seguono linee parallele che non si toccano e non si incontrano.
Quando si contempla la natura, come quando si sente nei campi una musichetta diffusa e vaga, improvvisata su un organino da bocca, ci lasciamo riempire da un languore musicale, abbastanza piacevole, che s’interrompe bruscamente, rivelandoci la corda dello strumento consunto e mal suonato, quando, senza pensarci, il musicista si lascia catturare dalle reminiscenze di arie molto note. Ma in verità fra la possibilità di godere la vera musica e di goder l’organino non c’è antitesi. Ed è un’illusione di credere che gli antichi, perchè lo credevano Iride, si commovessero dinanzi a un arcobaleno più di noi. Fra il concetto di una cosa e le sue relazioni estetiche non c’è antitesi. I due fenomeni coesistono senza che si tocchino l’un l’altro, semplicemente per l’orientamento che danno al nostro spirito, anche quando apparentemente dovrebbero interferire uno nell’altro e distruggersi. Succede a loro come a due sistemi di cerchi, creati da due sassi gettati in un bacino, che si tagliano senza rompersi.
La conoscenza delle cose anziché distruggere l’ispirazione l’allarga all’infinito perchè aumenta le occasioni di osservare e di dedurre (a chi è capace di farlo). La conoscenza delle cose infatti serve spesso a rivelare delle forme che si possono sfruttare poi esteticamente e che un semplice gioco di luce può nascondere a un occhio inesperto. Prendiamo per esempio la linea ondulata che fa la schiena di un bove. Niente di più attraente, semplice e nello stesso tempo complesso, se si pensa che ogni corrugarsi di quella linea tremolante corrisponde alla strutturainterna. Ma come si riuscirà a renderla perfettamente — come linea — se non si sa a che cosa quelle ondulazioni corrispondono? Qualunque ombra potrà alterare all’occhio la proporzione giusta di una gobba o di una valle. Tanto più larga quindi è la nostra attività, tanto più larga e vasta la sorgente delle nostre osservazioni, tanto più numerose sono le associazioni di idee e più vasta l’opera.
RIME
Non è senza riflessione che il poema è in rime. Noto che i versi legati in qualche modo da rima possono essere meno perfetti che degli endecasillabi sciolti, senza che infastidiscano l’orecchio, perchè la rima attira su di sè tanta parte dell’attenzione che il resto si inombra.
«Deh, se miseria d’esto loco sollo
Rende in dispetto noi e i nostri prieghi
3— cominciò l’uno — e il tinto aspetto brollo.»
Inferno, XVI, 28-30
«Ed io m’innamorava tanto quinci,
Che infin a lì non fu alcuna cosa
3Che mi legasse con sì dolci vinci.»
Paradiso, XIV, 127-129
«Se io avessi le rime ed aspre e chiocce»
Inferno, XXXII, 1
Le cercava dunque le rime con due consonanti. Vedi i ritmi di cui parla nelle Epistole.
EFFETTI
STUDIATI
SISTEMATI-
CAMENTE
La gente è ormai talmente avvezza all’architettura e alle immagini della Divina Commedia che, leggendo, non s’accorge più dello sforzo che è costata, e nella idea della loro esistenza artistica s’acqueta facilmente. Nessuno di noi si meraviglia di quei simboli, di quelle divisioni, di trovarsi dinanzi le varie parti di questo poema, come se, perchè le conoscevamo sin da prima, tutto questo fosse nato da sè. Ma se ci penso io mi spavento. Bisogna ripetersi che prima non c’era niente e reagire contro quel sentimento che ci fa parere inevitabili delle opere d’arte, solo perchè sono state pensate bene.
Noi non possiamo ammirare la Divina Commedia più che la Canzone a Nice, se non sottintendendo che Dante e Metastasio disponevano degli stessi mezzi, come noi non possiamo ammirare un corridore che ne batte un altro, se non quando corrono tutti e due a piedi o tutti e due in bicicletta.
Che gloria avrebbe Dante di aver scritto una più vasta opera e che gloria un corridore di essere arrivato il primo, se avessero usato di mezzi più potenti che gli altri concorrenti?
In tutti i nostri giudizi noi sottintendiamo i «mezzi» coi quali un’opera d’arte è stata fatta, e noi ce lo spieghiamo grazie a una legge estetica: «il piacere»1
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Anzichè credere che molte cose gli sian venute per istinto io comincio a credere che di infinite cose, ben pensate perchè diano un certo effetto, noi non ci rendiamo più conto.
Non bisogna ribellarsi alla parola «metodo», perchè nessuno scrittore è mai stato così metodico, come Dante. La sua grande arte è in questo, che non ce l’ha lasciato più vedere che in quelle parti formali in cui era bene vederlo.
Del resto il metodo ha successo in quanto ci fa provare la sensazione che Dante vuole e gli serve di norma per dire quello che vuole lui, con chiarezza.
Nessuno di noi immagina, che, come risulta dall’ultima epistola, quel canto è diviso a quel modo per obbedire a quelle regole del metodo. (Se si fosse potuto vedere il piano della Divina Commedia si sarebbe inorriditi, per la complicazione simmetrica dei paragrafi e dei numeri iscatolati uno nell’altro). Ma io mi domando se l’artista vero non è proprio quello, perchè chi possiede il metodo profondamente, provoca negli altri le sensazioni che vuole, e lo nasconde del tutto, e chi non lo possiede non provoca compiutamente negli altri le sensazioni che vuole e dà l’impressione di averne uno. (Per questo le donne non arrivano alla grande arte). Avere un metodo vuol dire obbiettivare la propria materia poetica, e vederla con occhi indifferenti.
STILE
E SENSO
DELLA
LINGUA
Differenza fra lo stile latino di Dante e l’italiano. Lo stile latino deriva da S. Agostino ed è un S. Agostino imbarocchito.
Bisognerebbe studiare come è venuto allo stile diretto.
«Assumite rastrum bonae humilitatis, atque glebis exustae amimositatis ocatis agellum sterilite mentis vestra....»
Qui l’immagine è adoperata all’opposto — ha un valore quasi direi pedagogico, per ficcar in testa il concetto con più forza a chi ascolta. Questo però ci rivela il senso che Dante aveva dei limiti e delle risorse della lingua.
Quando si possiede questa coscienza in una lingua si possiede in tutte.
Non è vero che chi ha il senso integrale dell’italiano debba italianizzare tutte le lingue in cui scrive. Si troverà a italianizzare anche le altre lingue, quello che imbarbarisce l’italiano. Infatti c’è in Dante un senso intelligente delle possibilità del latino. Basta leggere questo passo in latino e in italiano per vedere la differenza. In italiano è orribile: in latino se non bello sopportabile. Bisognerebbe trovare lo stesso concetto nelle due lingue.
Tutti sanno che è dopo lunga meditazione e per sistema, non per istinto, che Dante scrisse in volgare:
1) Perchè ciascuno di noi conosce meglio la lingua che parla che non quella che ha appreso:
«Quegli che conosca alcuna cosa in genere, non conosce quella perfettamente; siccome chi conosce da lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perchè non sa s’è cane o lupo o becco.»
(Convito, Trattato I, cap. VI)
2) Perchè è più usato:
«....perocché nulla cosa è utile, se non in quanto è usata; né è la sua bontà in potenza, che non è essere perfettamente; siccome l’oro, le margherite e gli altri tesori che sono sotterrati....»
(Convito - Trattato I, cap. IX)
e ancora:
«E però sappia ciascuno, che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra trasmutare, senza rompere tutta la sua dolcezza e armonia.»
(Convito - Trattato I, cap. VII)
3) Perchè è più bello come suono:
«La gran bontà del Volgare di Sì si vedrà.... quando solo sua natural bellezza si sta con lui da tutto accidentale adornamento discompagnata; sicome sarà questo Comento, nel quale si vedrà l’agevolezza delle sue sillabe, la proprietà delle sue condizioni, e le soavi orazioni che di lui si fanno: le quali chi bene agguarderà, vedrà piene di dolcissima ed amabilissima bellezza.»
(Convito - Trattato I, cap. X)
4) Perchè è più esatto:
«E noi vedremo che in ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto è più amato e commendato: dunque è questa la prima sua bontà
«E qui è da sapere che ogni bontà propria in alcuna cosa è amabile in quella; siccome nella maschiezza essere bene barbuto, e nella femminezza essere bene pulita di barba in tutta la faccia; siccome nel bracco bene odorare, e siccome nel veltro bene correre.»
(Convito, Trattato I, cap. XI!)
5) Perchè più virtuoso:
«Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura, che fa quello a che ella è ordinata; e quanto meglio lo fa, tanto è più virtuosa... Onde diremo del cavallo virtuoso, che corre forte e molto, alla qual cosa è ordinato.... Così lo sermone, il quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso, quando quello fa, e più virtuoso è quello, che più lo fa.»
(Convito, Trattato I, cap. V)
E dopo aver speso tanto studio per scegliere la lingua in cui scrivere, Dante avrebbe scritto «come vien viene?».
Basta leggere le Epistole e il Convito per persuadersi che Dante ha studiato lungamente non solo la lingua in cui scrivere, il metodo con cui arrivare agli effetti che si propone, ma la disposizione della materia che fa il testo più efficace.
«... Sempre lo litterale dee andare innanzi, siccome quello nella cui sentenza gli altri sono inchiusi, e senza lo quale sarebbe impossibile e irrazionale intendere agli altri, e massimamente all′allegorico. E’ impossibile, perocché in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori, è impossibile venire al dentro, se prima non si viene al di fuori. Onde,....impossibile venire all’altre, massimamente all’allegorica, senza prima venire alla litterale. Ancora è impossibile.... procedere alla forma, senza prima esser disposto il suggetto, sopra che la forma dee stare. Siccome impossibile è.... la forma dell’arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta ed apparecchiata.... Ancora è impossibile, perocché in ciascuna cosa naturale e artificiale è impossibile procedere, se prima non è fatto lo fondamento, siccome nella casa, e siccome nello studiare....
«Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe irrazionale, cioè fuori d’ordine: e però con molta fatica e con molto errore si procederebbe. Onde.... la natura vuole che ordinatamente si proceda nella nostra conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio, in quello che conoscemo non così bene....»
(Convito - Trattato II, cap. I)
I simbolisti vogliono in fondo far fare al lettore questo volo.
ESATTEZZA
Per Dante poesia è maggiore esattezza. Confronta la trasformazione che Baudelaire fa di un concetto semplicissimo nei «Paradis Artificiels» quando lo scrive in versi in «Les Fleurs du Mal». Le piccole cose della prosa si ingigantiscono a concetti universali quanto gli oggetti erano precisi e poveri. A fare il paragone si prova un senso melanconico di riscaldamento a freddo. Invece in Dante è il rovescio:
In prosa descrive le pecore così:
«Questi sono da chiamare pecore e non uomini: chè se una pecora si gettasse da una riva di mille passi, tutte le altre le andrebbero dietro, e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte le altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. E io ne vidi già molte in un pozzo saltare, per una che dentro vi saltò, forse credendo di saltare un muro, nonostante che il pastore piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi si parava.»
(Convito, Trattato I, cap. XI)
In poesia così:
«Come le pecorelle escon dal chiuso
Ad una, a due, a tre, e l’altre stanno
3Timidette atterrando l’occhio e il muso;
E ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
Addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
6Semplici e quete, e lo perchè non sanno...»
Purgatorio, III, 79-84
Lo stesso concetto è in poesia più conciso, più breve, più esatto, più rappresentativo. In prosa raccontava il fatto, in poesia lo fa vedere. Bisogna tener conto che in prosa questa non è immagine visiva, ma morale, e quindi non doveva farla vedere, mentre nel canto III è immagine visiva e non morale. E di questo bisogna tener conto quando si parla di esattezza anche in un altro senso. Ma vedi per es. il concetto «tutte le altre saltano eziando nulla veggendo da saltare» che in poesia è detto «e lo perchè non sanno». Questo «lo perchè non sanno» è molto più vago, ma molto più esatto, perchè dà quel misterioso senso di impaccio e di credulità mettendosi quindi dal punto di vista delle pecore, mentre il «nulla veggendo da saltare» è il punto di vista ragionevole.
Confronta ancora la tirata sulla nobiltà di sangue nella prosa del Convito e nel Paradiso.
Nel Convito è così:
«O voi, che udito m’avete, vedete quanti sono coloro che sono ingannati! cioè coloro che, per essere di famose antiche generazioni e per essere discesi di padri eccellenti, credono essere nobili, nobiltà non avendo in loro. E qui surgono due quistioni, alle quali nella fine di questo Trattato è bello intendere.
Potrebbe dire ser Manfredi da Vico, che ora Pretore si chiama e Prefetto: «come ch’io mi sia, io reduco a memoria e rappresento li miei maggiori, che per loro graziosamente posto, e le progenie, ovvero schiatte, non hanno anima, siccome è manifesto, nulla progenie, ovvero schiatta, dicere si potrebbe nobile: e questo è contro all’opinione di coloro, che le nostre progenie dicono essere nobilissime in loro cittadi.
Alla prima quistione risponde Giovenale nell’ottava Satira, quando comincia quasi esclamando: «Che fanno queste onoranze che rimangono degli antichi, se per colui che di quelle si vuole ammantare, male si vive; se per colui che delli suoi antichi ragiona, e mostra le grandi e mirabili opere, s’intende a misere e vili operazioni? Avvegnaché (dice esso poeta satiro) chi dirà nobile per la buona generazione quegli che della buona generazione degno non è? Questo non è altro che chiamare lo nano gigante....»
(Convito, Trattato IV, cap. XXIX)
In poesia:
«O poca nostra nobiltà di sangue,
Se glorïar di te la gente fai
3Quaggiù, dove l’affetto nostro langue,
Mirabil cosa non mi sarà mai;
Chè là dove appetito non si torce,
6Dico nel cielo, io me ne gloriai.
Ben se’ tu manto che tosto raccorce,
Sì che, se non s’appon di die in die,
9Lo tempo va d’intorno con le force.»
Paradiso, XVI, 1-9
Tutto il concetto della nobiltà così oscuramente esposto in un capitolo intero del Convito è qui in nove versi, e più chiaro. Confronta anche l’Epistola latina contro i Fiorentini e la tirata di Sordello: «Vedi là un’anima che a posta....». Il metodo poetico si vede appunto confrontando le stesse idee espresse in prosa e in versi.
Note
- ↑ Nel libro: «Leonardo o dell’Arte» l’autore ha lungamente svolto questo concetto. Egli scrive: «Noi ammiriamo un’opera d’arte, in quanto ci meraviglia l’effetto raggiunto con mezzi limitati»..