Appunti sul metodo della Divina Commedia/Tecnica della Divina Commedia effetti drammatici pittorici musicali movimenti rinunzie ricchezza

Tecnica della Divina Commedia effetti drammatici pittorici musicali movimenti rinunzie ricchezza

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Tecnica della Divina Commedia effetti drammatici pittorici musicali movimenti rinunzie ricchezza
Appunti sul metodo della Divina Commedia - Perché Dante sembra subito bello Istinto e coscienza dello stile

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TECNICA DELLA DIVINA COMMEDIA
EFFETTI DRAMMATICI PITTORICI MUSI-
CALI MOVIMENTI RINUNZIE RICCHEZZA [p. 25 modifica]


La Divina Commedia piace a tutti perchè ognuno vi trova un po’ quello che gli bisogna. Ma gli episodi che piacciono di più a tutti sono sempre gli stessi, e piuttosto quelli dell’inferno. Come risolvere, rispetto a quelli, il problema? Darei queste soluzioni:

I° Perchè Dante svolge un poema descrittivo lirico con una tecnica drammatica: scossa e quindi soggezione all’effetto che meraviglia sempre.

II° Perchè realizza senza uscir dalla letteratura gli effetti che danno altre arti; pittura, scultura, musica. E questo fa impressione perchè non è nè pittore nè scultore nè musicista e non fa delle imitazioni. C’è quindi un elemento di sorpresa, di scossa, di incredibile. [p. 26 modifica]III° Perchè si è imposto dei limiti, non solo nell’architettura generale, ma in ogni canto, tali che quando Dante s’abbandona un poco si sente come un’illuminazione, come un oceanico respiro. E non c’è chi non lo senta, perchè tutti hanno sentito prima le strettoie. Gli succede come a un uomo sempre scontroso e cupo che tutti gli son grati di un’ora di buon umore e gentilezza.



TECNICA
DRAM-
MATICA

Dante rinuncia a una quantità di possibilità narrative per servirsi solo di quelle drammatiche del dialogo e dei gesti. E queste battute si arricchiscono di tutti i mezzi di cui Dante non si è servito, ricchezza questa che a un vero dramma non è concessa1.

Come nel dramma classico, non tutti i personaggi sono messi in luce, ma solo i principali, non tutte le vicende del dramma sono descritte, [p. 27 modifica]ma solo quelle culminanti che riassumono in sè l’introduzione e la continuazione. Nell’episodio di Paolo e Francesca la scena fra i due amanti:

«Noi leggevamo un giorno, per diletto,
Di Lancillotto, come amor lo strinse.
3Soli eravamo e senza alcun sospetto.
Per più fiate gli occhi ci sospinse
Quella lettura, e seoloroeci il viso;
6Ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
Esser baciato da cotanto amante,
9Questi, che mai da me non fia diviso,
La bocca mi baciò tutto tremante:
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
12Quel giorno più non vi leggemmo avante.»

Inferno, V, 127-138


Nell’episodio del Conte Ugolino la scena dei figli:

«Posciachè fummo al quarto dì venuti
Gaddo mi si gettò disteso ai piedi,
3Dicendo: «Padre mio, chè non m’aiuti?»
Quivi morì, e come tu me vedi,
Vid’io cascar li tre ad uno ad uno
6Tra il quinto dì e il sesto, ond’io mi diedi
Già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
E tre dì gli chiamai, poich’ei fur morti:
9Poscia, più che il dolor, potè il digiuno.»

Inferno, XXXIII, 67-75

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Con questa tecnica Dante riesce a darci un vero dramma in quattro versi:

«Ricorditi di me, che son la Pia.
Siena mi fè, disfecemi Maremma;
3Salsi colui che inanellata pria,
Disposato m’avea con la sua gemma»

Purgatorio, V, 133-136


Come nel teatro, abbiamo nella Divina Commedia figure segnate solo con dei gesti:

«All or si volse a noi, e pose mente,
Movendo il viso pur su per la coscia,
3E disse: «Va su tu, che se’ valente.»
Conobbi allor chi era....»

Purgatorio, IV, 112-115


episodi a base di suggestioni, di movimenti:

«Vêr me si fece, ed io vêr lui mi fei.
Giudice Nin gentil, quanto mi piacque,
3Quando te vidi non esser tra i rei!»

Purgatorio, VIII, 52-54


«....E l’ombra, tutta in sè romita,
Surse vêr lui dal luogo ove pria stava,
3Dicendo: «O mantovano, io son Sordello,
Della tua terra.» E l’un l’altro abbracciava.»

Purgatorio, VI, 72-75


La drammaticità degli episodi è rinforzata dalla intuizione, di cui Dante riveste quasi tutti [p. 29 modifica]i personaggi che incontra, Virgilio e Beatrice sopratutto.

Quando si è con un intuitivo si atteggia d’istinto la faccia in modo che l’intuitivo capisca il nostro sentimento, perchè si ha la certezza che con questa mossa ci risparmiamo la pena di dir delle cose magari difficili, mentre quando si è con un tonto, d’istinto rinunciamo a qualsiasi gesto che sappiamo rimarrà sterile. L’intuizione aggiunge snellezza al dialogo, permette a Dante di esprimersi per accenni, per gesti, per movimenti, anziché per discorsi. Vedi quanto vigore prende dai gesti l’incontro con Stazio:

«Volse Virgilio a me queste parole
Con viso che, tacendo, dicea: taci!
3Ma non può tutto la virtù che vuole;
Che riso e pianto son tanto seguaci
Alla passion, da che ciascun si spicca,
6Che men seguon voler nei più veraci.
Io pur sorrisi come uom che ammicca:
Per chè l’ombra si tacque, e riguardommi
9Negli occhi, ove il sembiante più si ficca.
«Deh! Se tanto lavoro in bene assommi»
Disse — «perchè la faccia tua testeso
12Un lampeggiar di riso dimostrommi?»
Or son io d’una parte e d’altra preso:
L’una mi fa tacer, l’altra scongiura
15Ch’io dica: ond’io sospiro, e sono inteso
Dal mio maestro, e: «Non aver paura»
Mi dice — «di parlar; ma parla, e digli

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18Quel ch’ei dimanda con cotanta cura.»
Ond’io: «Forse che tu ti meravigli,
Antico spirto, del rider ch’io fei;
21Ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi, che guida in alto gli occhi miei,
E’ quel Virgilio, dal qual tu togliesti
24Forse a cantar degli uomini e de’ Dei.
S’altra caigion al mio rider credesti,
Lasciala per non vera, ed esser credi
27Quelle parole che di lui dicesti.»
Già si chinava ad abbracciar li piedi
Al mio Dottor; ma e’ gli disse: «Frate,
30Non far, chè tu se’ ombra e ombra vedi.»
Ed ei surgendo: «Or puoi la quantità te
Comprender dell’amor che a te mi scalda,
33Quando dismento nostra vanitate,
Trattando l’ombre come cosa salda.»

Purgatorio, XXI, 103-136


L’intuizione aggiunge drammaticità al dialogo anche per l’elemento di ansia che ha l’indovinare il pensiero dell’interlocutore. Il lettore resta sospeso al gesto da interpretare:

«E pur convien che novità risponda,»
Dicea tra me medesmo, «al nuovo cenno,
3Che ’l Maestro con l’occhio sì seconda.»

Inferno, XVI, 115-117


«Ma quel padre verace, che s’accorse
Del timido voler, che non s’apriva,
3Parlando, di parlare ardir mi porse.»

Purgatorio, XVIII, 7-9

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Beninteso Dante usa questo mezzo perchè è intuitivo. I personaggi non dicon mai niente, non sanno mai niente, non sono mai niente di più di quello che dice, che sa, che è l’autore.

L’intuizione è la prima virtù che Dante nota in Virgilio:

«Se’ savio, e intendi me’ ch’io non ragiono.»

Inferno, II, 36


Per tutto il dramma Dante e Virgilio si intendono a volo, non solo, ma si adontano quando l’uno crede che l’altro non l’abbia capito a volo:

«Io credo ch’ei credette ch’io credesse....»

Inferno, XIII, 25


«Io vidi ben, sì com’ei ricoperse
Lo cominciar, con l’altro che poi venne,
3Che fur parole alle prime diverse.»

Inferno, IX, 10-12


«O dolce padre mio, se tu m’ascolte,
Io ti dirò,» diss’io, «ciò che m’apparve
3Quando le gambe mi furon sì tolte.»
Ed ei: «Se ’tu avessi cento larve
Sopra la faccia, non mi sarien chiuse
6Le tue cogitazion quantunque parve.»

Purgatorio, XV, 124-129

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EFETTI PITTORICI

Dante realizza con la parola gli effetti della pittura. Come ci arriva? Per es. Farinata, Ugolino, Manfredi, lo credo che invece di pensare a Farinata in mezzo alle fiamme, a Ugolino in prigione, a Manfredi ucciso, e renderli per iscritto, Dante pensasse già il quadro trasformato pittoricamente, e riproducesse letterariamente non l’immagine ma il quadro dell’immagine, e lo stesso facesse colle descrizioni e i paragoni che indiamantano le tre cantiche.

«Quali si fanno ruminando manse
Le capre, state rapide e proterve
3Sopra le cime, innanzi che sien pranse,
Tacite all’ombra, mentre che il sol ferve,
Guardate dal pastor, che in sulla verga
6Poggiato s’è, e lor poggiato serve....»

Purgatorio, XXVII, 76-81


Per indicare la stanchezza dei poeti che esauriti dalla salita si erano sdraiati a terra, bastava la prima immagine delle capre stanche, ma Dante precisa che si sono sdraiati come le capre che stanno tacite all’ombra (seconda immagine) mentre che il sol ferve (terza immagine) guardate dal pastore(quarta immagine) [p. 33 modifica]poggiato al bastone (quinta immagine), il quale serve di appoggio al pastore e di guida alle pecore.

Queste immagini successive non sono necessarie al racconto, ma rientrano nel quadro delle capre che un pittore dei tempi di Dante, un Simone Martini, Andrea Bonaiuti, avrebbe dipinto.

Anche noi moderni del resto per fare una descrizione efficace sogliamo spesso rendere il paese e l’effetto di luce non come sono, ma come pittoricamente potrebbero essere tradotti. (Specialmente grazie all’impressionismo).

Quando Chateaubriand parla delle ova blu dei merli — ova che sono grige — non fa che imitare un pittore impressionista. Quando Valéry parla della «dormeuse» la descrive come verrebbe dipinta da Degas o da Picasso. Dante vede in genere i quadri come i pittori del suo tempo. Ciò non gli toglie però di immaginare e rendere altre pitture

E quale il cicognin che leva l’ala
Per voglia di volar e non s’attenta
3D’abbandonar lo nido, e giù la cala».

Purgatorio, XXV, 10-13


pare una pittura cinese.

Dante fa anche del vero impressionismo:

«Là dove il sol tace...»

Inferno, I, 60 33

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«... i pensieri e chinati e scemi»

Purgatorio, XII, 9


«... alza le vele
Ormai la navicella idei mio ingegno»

Purgatorio, I, 1


«Come si frange il sonno

Purgatorio, XVII, 40


«Gli occhi miei ghiotti andavan pure al cielo

Purgatorio, VIII, 85


Coraggiosissime. Che cosa ne avran detto i contemporanei?

«Come, per sostentar solaio o tetto,
Per mensola talvolta una figura
3Si vede giugner le ginocchia al petto,
La qual fa del non ver vera rancura
Nascere in chi la vede...»

Purgatorio, X, 130-134


Dante ammetteva dunque che l’arte ha qualche volta una potenza suggestiva maggiore che la realtà.

«Morti li morti, e i vivi parean vivi»

Purgatorio, XII, 67


Una prova che ai tempi di Dante l’arte si proponeva l’imitazione della natura — e più s’assomigliava a natura, più pareva perfetta. [p. 35 modifica]


EFFETTI MUSICALI

Dante sentiva profondamente la musica. Vedi incontro con Casella.

Ed io: «Se nuova legge non ti toglie
Memoria o uso all’amoroso canto
3Che mi solea quetar tutte mie voglie,
Di ciò ti piaccia consolar alquanto
L’anima mia, che colla mia persona
6Venendo qui, è affannata tanto!»
«Amor che nella mente mi ragiona»
Cominciò egli allor, si dolcemente
Che la dolcezza ancor dentro mi suona.
9Lo mio maestro ed io e quella gente
Ch’eran con lui parevan si contenti
Come a nessun toccasse altro la mente

Purgatorio, II, 106-118


Ma per quanto appassionato della musica Dante non pensa a far della musica imitativa. «De la musique avant toute chose» è per noi italiani formula decadente. Dante non ha mirato a far della musica; ha mirato sopratutto ad esprimere dei sentimenti, in forma perfettamente liscia, o potentemente viva. La musica era una necessaria conseguenza della perfezione metrica, della disinvoltura linguistica, della vivacità espressiva — era, diciamolo pure, un istinto sottinteso che guidava il poeta mentre cercava le parole che si adattavano con più esattezza al [p. 36 modifica]pensiero, ma era un istinto che si inchinava sempre dinnanzi alla necessità di chiarezza, cioè all’esatta espressione.

La regola musicale che Dante tiene di conto è quella che gli viene dalla lingua. Ogni lingua ha delle esigenze e delle preferenze; ogni lingua, si potrebbe dire, è come uno strumento musicale, e come certi pezzi di violino non s’adattano al piano, così certi sentimenti che si possono esprimere in una lingua, in un’altra sono spaesati, o addirittura muoiono. Provate a tradurre le Georgiche in francese, o Verlaine in italiano.

La poesia italiana non ammette nè la mediocrità nè la debolezza. Non si adorna, come la poesia di D’Annunzio, di magnificenze verbali, di cui non è difficile trovare esempi in altre lingue; il dizionario non è per lei sorgente di eccitamenti lirici. Essa ignora il caso, sdegna la sonorità, si studia non di costruire complicati edifici verbali, quali la poesia parrebbe permettere, ma di semplificarli: è una poesia magra. Si sbaglia chi crede che la poesia italiana ami l’enfasi e la sovrabbondanza: i nostri veri poeti, Dante e Leopardi, sono duri e magri. La poesia italiana sfrutta le risorse della lingua italiana, non delle altre lingue. Non si potrebbe in francese arrivare con gli stessi mezzi agli stessi [p. 37 modifica]effetti. La poesia magra ha per substrato necessario una lingua senza mute. La pienezza delle parole nelle quali la voce non trova dei vuoti, la varietà degli accenti, suppliscono all’apparente disordine del ritmo. Le parole francesi risuonano, le parole italiane suonano. La poesia italiana deve rinunciare di partito preso alle risonanze.

Non c’è in Dante soltanto l’istinto dei limiti che la poesia non può oltrepassare, ma quello dei limiti della nostra lingua. E siccome ogni cosa d’arte è fatta di rinunce, non si lascia prendere da inutili nostalgie.

Non c’è in Dante il gusto delle parole, del suono delle parole c’è il gusto di rendere esatto un sentimento, e il piacere di trovare un’armonia che corrisponda all’armonia intima (a quell’armonia vaga che dentro l’animo del poeta avviluppa i concetti come una nebbia gli alberi della foresta), e che è la più difficile a rendere. Questa nebbia in parole non può diventare che musica. (Sviluppare questo).

Tutto questo è il contrario degli scrittori imitativi, è il metodo di Beethoven nella VI (Pastorale). Bach e Beethoven si rifiutano di adoperare i suoni per quel che possono contenere di gradevole all’orecchio — tendono a delle frasi musicali in cui le note componendosi diventino coordinate e spirituali come un’idea. [p. 38 modifica]


«Era già l’ora che volge il disio
Ai naviganti, e intenerisce il core,
3Lo dì che han detto ai dolci amici addio;
E che lo novo peregrin d’amore
Punge, se ode squilla di lontano,
6Che paia il giorno pianger che si muore.»

Purgatorio, VIII,1-6


Dante mira sempre dentro e scrive come un pianista che non pensa più alle note, ma per interpretare bene s’interna con lo spirito nel significato che dà alla musica, e suona seguendo con la mente questo sentimento più che con l’occhio le pagine. La cosa è molto diversa.

Egli non tende a darci un’imitazione musicale, ma ad esprimere le differenti impressioni che dà la musica:

«... «Te Deum laudamus!» mi parea
Udire in voce mista al dolce suono.
3Tale immagine appunto mi rendea
Ciò ch’io udiva, qual prender si suole
Quando a cantar con organi si stea,
6Ch’or sì or no s’intendon le parole.»

Purgatorio, IX, 140-146


«Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo»
Cominciò «gloria!» tutto il Paradiso,
3Sì che m’inebrïava il dolce canto.
Ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso
Dell’universo, per che mia ebbrezza
6Entrava per l’udire e per lo viso.»

Paradiso, XXVII, 1-6

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«Te lucis ante» sì devotamente
Le uscì di bocca, e con sì dolci note,
Che fece me a me uscir di mente.»

Purgatorio, VIII, 13-15


Questo è esattamente il contrario degli impressionisti. E’ inutile voler imitare con dei suoni i rumori della natura. E’ inutile pestare le note basse per fare il tuono, o fare degli arpeggi per imitare il vento, o il ruscello o la tempesta. L’imitazione sarà sempre inferiore alla realtà, e lo sforzo ne farà notare l’impotenza. Mentre nella Pastorale di Beethoven si sente profondamente la campagna senza che ci sia nessun virtuosismo di onomatopeia.

Per uno scrittore che ci dà con tanta esattezza e succulenza la materia è strano che sia così poco sensuale dal punto di vista delle parole.

Petrarca che è infinitamente più povero di parole, è infinitamente più sensuale:

«In ramo fronde, ovver viole ’n terra
Mirando alla stagion che ’l freddo perde,
3E le stelle migliori acquistan forza;...»
«Non vidi mai dopo notturna pioggia
Gir per l’aere sereno stelle erranti,
6E fiammeggiar fra la rugiada e ’l gelo...»

PETRARCA, Canzoniere — In vita di Madonna Laura, canzone XII, strofe III e V.

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SENSAZIONI
MULTIPLE
MOVIMENTI

Nello stesso modo che ci dà l’impressione della musica Dante ci dà quella del movimento.

«Ella sen va notando lenta lenta:
Ruota e discende, ma non me ne accorgo,
3Se non ch’ai viso e di sotto mi venta.
I’ sentia già dalla man destra il gorgo
Far sotto noi un orribile scroscio,
6Per che con gli occhi in giù la testa sporgo.»
. . . . . . . . . . . . . . .
«Come il falcon, ch’è stato assai sull’ali,
Che, senza veder logoro od uccello,
3Fa dire al falconiere: «Oimè tu cali;»
Discende lasso, onde si mosse snello,
Per cento ruote, e da lungi si pone
6Dal suo maestro, disdegnoso e fello;
Così ne pose al fondo Gerïone,
A pié a pié della stagliata rocca;
9E, discarcate le nostre persone,
Si dileguò, come da corda cocca.»

Inferno, XVII, 115-136


Sentiamo qui in maniera allucinante la discesa nell’abisso. Come vi arriva? Abbinando le sensazioni dei differenti sensi durante la discesa. Noi abbiamo prima l’immagine visiva e patetica dei due poeti sulla groppa di Gerione, [p. 41 modifica]poi la sensazione tattile del vento che viene di sotto; poi lo sgomento, la vertigine del vuoto, poi la sensazione auditiva del rumore della cascata, infine l’immagine visiva del falco che lentamente si cala.

Confronta questo movimento lento e pauroso della discesa di Dante nell’abisso con l’immergersi voluttuoso delle anime del Paradiso.

«Poi, come inebriate dagli odori,
Riprofondavan sè nel miro gurge,
3E s’una entrava, un’altra n’uscia fuori.»

Paradiso, XXX, 67-69


e col rapido movimento della danza:

«Come si volge con le piante strette,
A terra ed intra sè donna che balli,
3Che piede innanzi piede appena mette....»

Purgatorio, XXVIII, 52-54


o con la caduta soffice, corposa come quella nevosa delle falde di fuoco:

«Sovra tutto il sabhion, d’un cader lento,
Piovean di fuoco dilatate falde,
3Come di neve in alpe senza vento.»

Inferno, XIV, 28-30


La descrizione di sensazioni multiple è artificio di cui Dante si serve spesso. [p. 42 modifica]

«In quella parte del giovinetto anno,
Che il sole i crin sotto l’Aquario tempra,
3E già le notti a mezzo ’l dì sen vanno;
Quando la brina in sulla terra assempra
L’immagine di sua sorella bianca,
6Ma poco dura alla sua penna tempra,
Lo villanello, a cui la roba manca;
Si leva, e guarda, e vede la campagna
9Biancheggiar tutta, ond’ei si bàtte l’anca;
Ritorna a casa, e qua e là si lagna,
Come il tapin che non sa che si faccia;
12Poi riede, e la speranza ringavagna
Veggendo il mondo aver cambiata faccia
In poco d’ora, e prende suo vincastro,
15E fuor le pecorelle a pascer caccia...»

Inferno, XXIV, 1-15


Noi abbiamo qui la immagine visiva della brina; la sensazione tattile del freddo che fa tremare il villanello «a cui la roba manca», le sue reazioni materiali e morali, la sua melanconia e alfine la sua gioia davanti al mondo «che ha cambiato faccia».

Più sovente le immagini visive sono abbinate semplicemente a sensazioni uditive

Ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso
Dell’universo, per che mia ebbrezza
3Entrava per l’udire e per lo viso.»

Paradiso, XXVII, 4-6

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«Facevano un tumulto, il qual s’aggira
Sempre in quell’aria senza tempo tinta,
3Come la rena quando ’l turbo spira.»

Inferno, III, 28-30


o a sensazioni tattili:

«Un’aura dolce, senza mutamento
Avere in sé, mi feria per la fronte,
3Non di più colpo che soave vento;
Per cui le fronde, tremolando pronte,
Tutte quante piegavano alla parte,
6U’ la prim’ombra gitta il santo monte.»

Purgatorio, XXVIII, 7-12


o a sensazioni olfattive:

«Non avea pur natura ivi dipinto,
Ma di soavità di mille odori
3Vi faceva un incognito indistinto.»

Purgatorio, VII, 79-81


o a sensazioni gustative:

«Sì come schiera d’api, che s’infiora
Una fiata, ed altra si ritorna
3Là dove il suo lavoro s’insapora...»

Paradiso, XXXI, 7-9 43

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Nella poesia di Dante niente è impreciso, niente lasciato all’azzardo:

«....e dismontiam lo muro;
Ché com’io odo quinci e non intendo,
3Così giù veggio e niente raffiguro.»

Inferno, XXIV, 73-75


«E sì come di lei bevve la gronda
Delle palpebre mie, così mi parve
3Di sua lunghezza divenuta tonda.»

Paradiso, XXX, 88-90


«Non è fantin che sì subito rua
Col volto verso il latte, se si svegli
3Molto tardato dall’usanza sua,
Come fec’io....»

Paradiso, XXX, 82-85


«E quale il cocognin, che leva l’ala...»

Purgatorio, XXV, 10


«A pie’ a pie’ della stagliata rocca...»

Inferno, XVII, 134


Non dice che vedeva e sentiva male, precisa: che udiva e non capiva, vedeva e non raffigurava. Non si contenta di dire che «beveva Beatrice con gli occhi», precisa che ne beve l’immagine con la gronda delle palpebre. Così, il bambino non si volge verso la madre, ma verso il [p. 45 modifica]latte, e la sua irruenza non è casuale: viene dal fatto che si è svegliato più tardi dell’usato. Non è un uccellino generico che fa le sue prove di volo, ma un cicognin. Gerione non depone Dante e Virgilio a pie’ della rocca, ma della rocca stagliata.

Dante così conciso non esita per precisare di aggiungere pensiero a pensiero, immagine a immagine:

«E come in fiamma favilla si vede,
E come voce in voce si discerne,
3Quand’una è ferma, e l’altra va e riede...»

Paradiso, VIII, 16-18


«Non altrimenti fan d’estate i cani,
Or col ceffo, or col piè, quando son morsi
3O da pulci, o da mosche, o da tafani....»

Inferno, XVII, 49-51


Come procede innanzi dall’ardore
Per lo papiro suso un color bruno,
3Che non è nero ancora, e il bianco muore...»

Inferno, XXV, 64-66


«E come in vetro, in ambra, od in cristallo
Raggio risplende sì, che dal venire
3All’esser tutto non è intervallo...»

Paradiso, XXIX, 25-27


Colla precisione meticolosa Dante spesso ottiene un’evidenza così fresca, che il lettore ha la impressione di fare delle scoperte con l’autore. [p. 46 modifica]

«Che parve fuoco dietro ad alabastro....»

Paradiso, XV, 24


«Ed io facea coll’ombra più rovente
Parer la fiamma....»

Purgatorio, XXVI, 7-8


«E come questa immagine rompeo
Sé per sé stessa, a guisa d’una bulla,
3Cui manca l’acqua, sotto qual si feo....»

Purgatorio, XVII, 31-33


Non altrimenti il fisico con lo stereoscopio ci fa vedere le figure in rilievo con l’immagine presa dall’occhio destro e dall’occhio sinistro.


PROUSTISMI

Trasportate questa esattezza nel dominio dei sentimenti e avete veri proustismi. Per il fatto che il Proust si attarda così lungamente su un atto o una sensazione si chiama oggi «proustiano» lo scrittore che si dilunga in descrizioni inutili, che raccoglie in un elegante periodare impressioni vaghe, che si ferma a mezzo per descrivere dettagli che stavano per sfuggir via senza che si desse loro importanza, che fa una raccolta di gemme che hanno una bellezza ognuna per sè. Questi letterati sono molto lontani da Proust. Essi per amore del nebbioso e del vago cercano di sfuocare le sensazioni semplici, di annebbiarne i contorni, con delle frange di atmosfera che le imbevono ad un [p. 47 modifica]tratto, o coi riflessi multicolori e inquietanti delle cose disposte intorno a loro nell’universo. Così una sensazione si confonde ad un tratto con altre sensazioni di origine diversa, come in certi quadri impressionisti si ritrovano sulle facce delle signore i verdi dei prati. Proust invece cerca di rendere chiari e ben definiti dei sentimenti e delle sensazioni indistinte. Ma quello che fa Proust in molte pagine Dante riassume qualche volta in un verso:

«E come l’un pensier dall’altro scoppia»

Inferno, XXIII, 10


ora in tre o quattro versi:

«Che riso e pianto son tanto seguaci
Alla passion, da che ciascun si spicca,
3Che men seguati voler nei più veraci»

Purgatorio, XXI, 106-108


«A guisa d’uom, che in dubbio si raccerta,
E che muta in conforto sua paura,
3Poi che la verità gli è discoverta...»

Purgatorio, IX, 64-66


«Vedrai te somigliante a quella inferma,
Che non può trovar posa in su le piume,
3Ma con dar volta suo dolore scherma.»

Purgatorio, VI, 149-151


«Io era come quei che si risente
Di visione oblita, e che s’ingegna.
3Indarno di ridursela alla mente.»

Paradiso, XXIII, 49-51

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«La turba, che rimase lì, selvaggia
Parea del loco, rimirando intorno,
3Come colui che nuove cose assaggia.»

Purgatorio, II, 52-54


«Noi andavam per la solingo piano,
Com’uom che torna alla smarrita strada,
3Che infino ad essa gli pare ire invano»

Purgatorio, I, 118-121


«Noi eravam lunghesso il mare ancora,
Come gente che pensa al suo cammino,
3Che va col cuore e col corpo dimora.»

Purgatorio, II, 10-12


In ognuna di queste terzine (ne possiamo trovar centinaia) noi abbiamo la rivelazione di uno srato d’animo espresso con vivacità precisione e concisione singolari. Abbiamo poi proustismi più lunghi, più complicati, in cui parecchi stati d’animo reagiscono gli uni sugli altri:

«Quando per dilettanze, ovver per doglie,
Che alcuna virtù nostra comprenda,
3L’anima bene ad essa si raccoglie,
Par ch’a nulla potenzia più intenda;
E questo è contro quello error, che crede
6Ch’un’anima sovr’altra in noi s’accenda.
E però, quando s’ode cosa, o vede,
Che tenga forte a sé l’anima volta,
9Vasseme ’l tempo, e l’uom non se n’avvede:
Ch’altra potenzia è quella che l’ascolta,
Ed altra è quella ch’ha l’anima intera:
12Questa è quasi legata, e quella è sciolta.»

Purgatorio, IV, 1-12

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RINUNZIE
GRAZIA
RICCHEZZA


Quasi tutti gli effetti della Divina Commedia sono dati dalle rinunzie che Dante si è imposto in ogni episodio, in ogni canto. In ogni canto si sente che Dante ha rinunciato a svolgerlo di più; in ogni effetto pittorico, drammatico, si sentono infinite possibilità di effetti sacrificati.

«Ed io, temendo nol più star crucciasse
Lui, che di poco star m’avea ammonito,
3Tornaimi indietro....»

Inferno, XVII,76-78


con questo artificio Dante evita un inutile colloquio con Gerione e attacca subito il discorso con gli usurai.

«Così di ponte in ponte altro parlando,
Che la mia commedia cantar non cura,
3Venimmo....»

Inferno, XXI, 1-3


così Dante taglia le discussioni con gli indovini e si attacca ai barattieri. [p. 50 modifica]

«Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
Più lungo esser non può, però ch’io veggio
3Là surger nuovo fummo dal sabbione.
Gente vien con la qual esser non deggio:
Sieti raccomandato il mio Tesoro;
6Nel quale i’ vivo ancora, e più non chieggio.»

Inferno, XV, 115-120


così Dante taglia il discorso con Brunetto Latini sui letterati contemporanei.

Quasi in ogni canto Dante trova un espediente per tagliar corto il discorso incominciato:

«S’io avessi, lettor, più lungo spazio
Da scrivere, io pur canterei in parte
3Lo dolce ber, che mai non m’avria sazio:
Ma perchè piene son tutte le carte
Ordite a questa Cantica seconda,
6Non mi lascia più gir lo fren dell’arte.»

Purgatorio, XXXIII, 136-141


Sono «le rinunzie» che danno al poema tanta vivezza, suggestione e sopratutto grazia.

(Grazia — vedi Leonardo — è una potenza repressa, un sentimento espresso un po’ meno del necessario, un atteggiamento che per eccesso o per difetto non è sullo stesso piano del sentimento. Grazia ha l’uomo nell’opera d’arte quando lo si vede più forte del suo gesto e che lo modera, la donna quando è intimidita dal suo sentimento e non osa esprimerlo tutto. Non c’è [p. 51 modifica]grazia, se non si sente in un’opera d’arte una folla di suggerimenti inespressi.)

Queste rinunzie danno il senso di un’architettura gigantesca molto più che le divisioni amministrative dei tre regni che in verità non contano, perchè la costruzione interna non tiene nessun conto di queste divisioni amministrative — come è giusto e lodevole.

Questo però spiega le assurde (apparenti) imposizioni che Dante si è fatto: 33, 33, 33, e non 35, 35, 35 etc. Questo senso di rinunzia non poteva darlo che con dei tagli netti e come indifferenti alla materia. Dare il senso che la costruzione dell’edificio poetico sia come una forma estranea, immodificabile e dispettosa, dentro cui bisognava colare la materia, con ogni rispetto.

A questo non poteva arrivare se non con un profondo senso religioso.

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La rinunzia per un’opera d’arte è così importante come la preda, però presuppone la preda, cioè la ricchezza. Dico ricca la poesia in cui c’è l’ombra di molte idee sacrificate, quella in cui ogni problema è stato risolto in dieci modi e ne è rimasto uno — e a ogni conclusione si è [p. 52 modifica]arrivati con molti più sforzi e mezzi che non ce ne fosse bisogno; in cui si sa più di quel che si dice, si è visto più di quel che è descritto; quella che è affiorata pura e schematica sulla rovina di molte idee scartate, quella in cui la rinunzia indiamanta di una luce misteriosa ogni filo d’erba.

Questa ricchezza si può intravedere anche a traverso la critica. L’atteggiamento della critica (fino a un certo punto), indipendentemente dai suoi giudizi, è un elemento importante per capire un artista, perchè un artista spesso (non sempre) è responsabile dello stile dei suoi critici. Non tutti però. Quali? Quelli che hanno molte idee appena suggerite ma pregne di sviluppi. Questa è la ragione per cui sono fioriti tanti libri su Valéry. Perchè Valéry ha condensato in un’opera ristretta molti spunti di idee, molti suggerimenti di idee che a tutti vien voglia di sviluppare. Ora, quando questi sviluppi sono lirici, storici, artistici, filosofici, ecc., com’è il caso della Divina Commedia, vuol dire che nell’autore c’è una folla di suggerimenti e di spunti che l’autore non si è degnato o non ha potuto sviluppare; e che oltre a quelli sviluppati ce n’è di appena suggeriti che servono ai critici che li sviluppano a creare su un metro dato delle facili opere d’arte.

Note

  1. Per le idee drammatiche di Leo vedere ultima parte.