Appunti sul metodo della Divina Commedia/Come Dante dà il senso del divino
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Istinto e coscienza dello stile | Inferno e paradiso Dante non è Dante Dante e Virgilio | ► |
COME DANTE DÀ
IL SENSO DEL DIVINO
Non si pensa mai abbastanza che Dante riesce a dare il senso del divino.
Fare questo è stata la difficoltà più ardua che abbia superata. Con che mezzi?
SIMMETRIA
Il divino è rappresentabile, solo, artisticamente, come perfetto simmetrico, cioè come cosa che non ha nè principio, nè fine, nè lacuna, e non ti incute la pena che provi dinanzi a quel che poteva esser diverso. Il simmetrico è in questo caso inevitabile e necessario.
Le opposizioni rientrerebbero anche in un istinto di architettura. Come le cattedrali gotiche sono tutte costruite con delle forze contrarie che si appoggiano una all’altra e così trovano un equilibrio, così ai concetti si dà una forma più solida con l’opposizione delle immagini. Questo istinto è però primitivo e in certo senso letterario. Non è stato benefico che perchè si è ingigantito nella Commedia dove era necessario per la simmetria che devono avere le cose divine. Ma sarebbe curioso di vedere come è stato fatto il passaggio.
VERISIMI-
GLIANZA
NELL’INVE-
ROSIMILE
Arriva poi al senso del divino evitando tutto quello che è in sostanza, in sè, antiumano. Per rappresentare diavoli e angioli Dante parte dal sottinteso che i diavoli e gli angeli siano esseri sovrumani, e cerca in loro quanto hanno di umano. Volutamente: «per rendere il pubblico benevolo, attento e docile, devi far trovare nell’esordio il meraviglioso e il possibile». Convito.
E ancora: «Dall’utile di ciò che è a dirsi sorge la benevolenza, dal meraviglioso l’attenzione, dal possibile la docilità». E dice: «Possibilitatem ostendit, quum dicit, se dicturum, ea quae mente retinere potuit si enim ipse et alia poterunt». Con che dimostra che non vuol fare l’inverosimile tanto inverosimile da non essere ricordato e espresso e da non irritare il lettore, perchè è altrettanto pruriginoso il meraviglioso quanto è annoiante una stravaganza che per lungo tempo non ha punti di repere con le cose comuni.
Quello che dicevo, dunque, del senso del divino, trova conferma in questi passi.
Gli antecessori di Dante erano come degli architetti che per costruire delle cattedrali non osassero adoperare le pietre e i mattoni con cui si fanno le case. Ma quello che dà a una cattedrale l’aspetto religioso non è il fatto d’esser costruita con pietre speciali, ma d’essere costruita con una combinazione speciale di pietre normali.
Così il divino in Dante è dato dalla combinazione impensata di elementi tutti umani, i quali messi insieme danno un senso di divino. Allo stesso modo un grande scrittore prende dal vocabolario le parole che in sè non hanno alcuna luce, e combinandole in modo impensato, arriva allo stile, cioè a dare l’impressione che vuole.
Vivi, umanamente diabolici, sono i suoi diavoli:
«Io vidi, ed anche il cuor mi s’accapriccia,
Uno aspettar così, com’egli incontra
3Ch’ura rana rimane, e l’altra spiccia.
E Graffiacan, che gli era più di contra,
Gli arroncigliò le impegolate chiome,
6E trassel su, che mi parve una lontra.
Io sapea già di tutti quanti il nome;
Sì li notai, quando furon eletti,
9E poi che si chiamaro, attesi come.
«O Rubicante, fa’ che tu gli metti
Gli unghioni addosso sì, che tu lo scuoi.»
12Gridavan tutti insieme i maledetti.»
Inferno, XXII, 31-42
«E Ciriatto, a cui di bocca uscia
D’ogni parte una sanna, come a porco,
3Gli fe sentir come l’una sdrucia.
Tra male gatte era venuto il sorco:
Ma Barbariccia il chiuse con le braccia,
6E disse: «State in là mentre lo inforco.»
Inferno, XXII, 55-60
e Dante ne riceve l’impressione che sentirebbe se fossero umani:
«Per ch’io mi mossi, ed a lui venni ratto:
E i diavoli si fecer tutti avanti;
3Sì ch’io temetti non tenesser patto.
Così vid’io già temer li fanti,
Ch’uscivan patteggiati di Caprona,
6Veggendo sè tra nemici cotanti.»
Inferno, XXI, 91-96
Lo stormo dei diavoli è paragonato a quello di cavalieri:
«Io vidi già cavalier mover campo,
E cominciare stormo, e far lor mostra,
3E tal volta partir per loro scampo;
Corridor vidi per la terra vostra,
O Aretini; «vidi gir gualdane,
6Ferir toreamenti, e correr giostra,
Quando con trombe, e quando con campane,
Con tamburi, e con cenni di castella,
12E con cose nostrali e con istrane:
Né già con sì diversa cennamella
Cavalier vidi muover, né pedoni,
18Né nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con li dieci dimoni
(Ahi fiera compagnia!); ma nella chiesa
21Co’ santi, ed in taverna co’ ghiottoni.»
Inferno, XXII, 1-15
Non soltanto i diavoli ma anche gli angioli, i santi che popolano il Paradiso hanno figure e atteggiamenti umani: cantano, godono, guardano:
«Qual è quell′angel, che con tanto gioco
Guarda negli occhi la nostra Regina?....»
Paradiso, XXXII, 103-104
Le virtù teologali han figura di donne:
«Tre donne in giro dalla destra rota
Venian danzando: l’una tanto rossa,
3Ch’appena fora dentro al fuoco nota;
L’altr’era, come se le carni e l’ossa
Fossero state di smeraldo fatte;
6La terza parca neve testè mossa.»
Purgatorio, XXIX, 121-126
Le sante creature del Paradiso volano e cantano:
«....come augelli surti di riviera,
Quasi congratulando a lor pasture,
3Fanno di sé or tonda or lunga schiera....»
Paradiso, XVIII, 73-75
Lo schiarito splendore si accosta a San Pietro e a S. Giacomo:
«....come surge, e va ed entra in ballo
Vergine lieta, sol per far onore,
3Alla novizia, non per alcun fallo....»
Paradiso, XXV, 103-105
Quando la corona dei teologi si ferma per parlare con Dante «Quegli ardenti soli»:
«Donne mi parver non da ballo sciolte
Ma che s’arrestin tacite, ascoltando
3Fin che le nuove note hanno rivolte».
Paradiso, X, 79-31
Virgilio ha tutti gli attributi dell’uomo vivo, e dotato di sensi: vede, sente, odora, è incagliato come gli uomini dall’oscurità, dai rumori:
Attento si fermò, com’uom ch’ascolta:
Che l’occhio nol potea menare a lunga
3Per l’aer nero e per la nebbia folta».
Inferno, IX, 4-6
ha mani che si aggrappano come le vive, soffre angoscia e stanchezza:
«E quando l’ali furo aperte assai,
Appigliò sè alle vellute coste:
3Di vello in vello giù discese poscia
. . . . . . . . . . . . . . .
Lo Duca con fatica e con angoscia...».
Inferno, XXXIV,72-78
Le anime sono un po’ sempre dimentiche delle leggi divine che regolano quei mondi. V. Stazio:
«Già si chinava ad abbracciar li piedi
Al mio Dottor, ma e’ gli disse: «Frate,
3Non far; chè tu se’ ombra ed ombra vedi».
Ed ei surgendo: «Or puoi la quantitate
Comprender dell’amor che a te mi scalda,
6Quando dismento nostra vanitate
Trattando l’ombre come cosa salda.»
Purgatorio, XXI, 130-136
«Io vidi una di lor traggersi avante,
Per abbracciarmi, con sì grande affetto,
3Che mosse me a far lo simigliante.
Oh ombre vane, fuor che nell’aspetto!
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
6E tante mi tornai con esse al petto.»
Purgatorio, II, 76-81
Questo dimenticarle accresce in noi la sensazione dell’anormalità e della fatale necessità di quei mondi.
Più si tratta di cose divine e arcane, più Dante le riattacca con le immagini all’umano. E questa, che dà al poema un senso di lirica soda e sostanziale, era poi la sola maniera di risolvere il problema del soprannaturale in arte, senza cadere in uno stucchevole e facile delirio di immagini. Dante aveva dunque perfetta conoscenza di questi problemi.
Bisogna notare però che la maggior parte delle immagini con cui Dante suol rendere le cose divine, sono tratte dal campo del sentimento o da quello del pensiero, che sono in verità i due mondi più misteriosi e in un certo senso più divini che siano sulla terra.
Dante nel momento supremo della Commedia, quando si immerge nella contemplazione di Dio, si serve come similitudine di un geometra che non riesce a ricordare le regole per trovar la circonferenza:
«Qual è il geomètra, che tutto s’afflige
Per misurar lo cerchio, e non ritrova,
3Pensando, quel principio ond’egli indige;
Tal era io a quella vista nuova...»
Paradiso, XXXIII, 133-136
Nel momento che vede la Rosa paradisiaca Dante si rappresenta come i pellegrini che vanno al tempio:
«E quasi peregrin, che si ricrea
Nel tempio del suo voto riguardando,
3E spera già ridir com’egli stea....»
Paradiso, XXXI, 43-45
Al momento in cui vede Dio si rappresenta come quei che sogna:
«Qual ö colui che somnïando vede,
E dopo il sogno la passione impressa
3Rimane, e l’altro alla mente non riede,
Cotai son io....»
Paradiso, XXXIII, 58-61
Al momento in cui entra nella stella sesta (quella dei principi giusti) egli si rappresenta come donna vergognosa che diventa franca:
«E quale è il trasmutare, in picciol varco
Di tempo, in bianca donna, quando il volto
3Suo si discarchi di vergogna il carco;
Tal fu negli occhi miei, quando fui volto,
Per lo candor della temprata stella
6Sesta, che dentro a sé m’avea ricolto».
Paradiso, XVIII, 64-69
Per descrivere la successiva impressione che gli dà il cielo empireo, egli si paragona a gente mascherata che a un tratto si sveste:
«Poi come gente stata sotto larve,
Che par altra che prima, se si sveste.
3La sembianza non sua in che disparve,
Così mi si cambiaro in maggior feste....»
Paradiso, XXX, 91-94
All’udire le invettive di San Pietro contro i papi che insozzano la Chiesa, Beatrice si inquieta:
«E come donna onesta, che permane
Di sé sicura, e per l’altrui fallanza,
3Pure ascoltando, timida si fane,
Così Beatrice trasmutò sembianza...».
Paradiso, XXVII, 31
Dante parte dal sottinteso che Inferno e Paradiso sieno popolati da esseri sovrumani e s’interessa a quello che in loro rammenta la natura degli uomini.
■ ■
Tanto dal punto di vista pittorico come da quello professionale, i diavoli sono incantanti in un gesto che ha un valore universale nel momento e che risuona, come un sasso gettato nell’acqua, dopo che s’è adagiato sul fondo, riga ancora la superficie di tremanti anelli. Ma questo avviene direi quasi contro il volere di Dante, e per via di quella sua immaginazione troppo concreta che dove accenna scolpisce, e dove disegna solca.
In verità Dante avrebbe voluto dare, candidamente, alle cose il loro valore relativo, e sfuggire quell’assoluto che si attacca a ogni gesto e l’ingrandisce a dismisura. Ora questa intenzione non rimase assolutamente sterile. Per quanto quei diavoli si pietrifichino in un certo momento, noi sappiamo, in via teorica, che quello non è che un momento, e che essi avranno molte altre brighe, oltre quelle che si son potute vedere, e tutta una vita in ombra, che s’è rivelata, per quel fascio di luce, in una sua faccia; ma nonostante il nostro invincibile buon senso, che ci costringe a dare anche alla vita dei diavoli una cornice adeguata, la nostra immaginazione non riesce a rappresentarsi nulla di quello che Dante non dice, perchè Dante l’attira su quello che vuole con troppa violenza.
Allo stesso modo il pubblico, quando, a teatro, segue le vicende di un dramma con interesse, non s’accorge che gli attori si scambiano, quasi con la stessa voce, delle battute che non riguardano per nulla il testo; e questo non perchè, come dicevo, quelle frasi sian dette in sordina, ma perchè l’attenzione, orientata in un senso, si rifiuta di sentire tutto quello che non è sulla sua linea.
Nella Divina Commedia, Dante è talmente padrone del lettore, che non gli permette più neanche un briciolo di libertà. Ma quando, per piccoli accenni, circonda questi diavoli di un alone di possibilità misteriose, noi ci troviamo dinnanzi a personaggi ricchi insieme della definitezza di una posa scultorea, e del mistero di una vita sconosciuta.
Qui Dante ottiene l’effetto più alto, e mi fa pensare a quello che, senza volerlo, ha ottenuto Proust, dipingendo quei mondani, che hanno una vita concreta soltanto quando parlano nei salotti, e che appena usciti da quell’atmosfera di luminoso artificio si sciolgono in nebbia.