Alpinisti ciabattoni/Dove si va?
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Dove si va?
La partenza dei Gibella da Orta fu addirittura una fuga.
L’indomani all’arrivo del primo battello, erano già sulla spiaggia con la loro valigia, e subito si imbarcarono.
Martina aveva giurato che piuttosto di ricadere nelle grinfe del professore, avrebbe cento volte preferito di tornarsene a casa.
Anche Gaudenzio era di questo parere.
La piazzetta era pavesata per la festa; lungo gli alberi si allacciavano filari di palloncini e festoni, le finestre ed i balconi drappeggiati e imbandierati; ma i Gibella ne avevano abbastanza di Orta, e scappavano a Omegna.
La giornata era splendida.
Sul battello c’era concorso di forestieri, ma ben pochi discesero; anzi una comitiva di signori, e signore eleganti già faceva ressa all’imbarco, e sciamò subito sul piroscafo occupando tutti i posti vacanti.
Martina riuscì a trovare un cantuccio per accomodarsi alla meglio; Gaudenzio posò il saccone e stette in piedi contro la ringhiera.
— Guarda de andà giù adess! — sclamò la moglie tirandolo per le falde.
Dal molo al battello ferveva uno scambio di saluti, inchini e scappellate, fra i viaggiatori ed un gruppo di signori che erano rimasti a terra.
La grossa matrona che il giorno innanzi aveva fermato l’attenzione di Gaudenzio, agitava il fazzoletto, e gridava infinite raccomandazioni ad alcune signorine che erano sedute presso a Martina, e queste rispondevano ridendo e salutando con vivacità giovanile.
E più in là, eccone un altro bianco niveo, dal capo ai piedi, piantato verso l’approdo; e con le scappellate e gli inchini, tirava in piedi altre signore rifugiatesi a poppa, e giù sorrisi, e scambio di facezie ed i saluti.
Ritto presso un albero, ecco l’elegante Rulloni puntato verso il battello, sempre inguantato, abbottonato, e fiero, come se già avesse detto No a tutte quelle belle signore.
Il battello stava per mettersi in moto, quando un signore scalmanato vociò dalla riva: Aspetta... Aspetta, e si precipitò sul ponte.
I Gibella voltatisi a quella chiamata, ebbero una stretta di sgomento.
— Tel chi! l’è lui! — sclamò Martina.
Era proprio il signor Noretti, impiegato della prefettura.
Aveva fatto tardi: un minuto di più, e rimaneva a secco.
Con la faccia abbaruffata, la cravatta di traverso, senza solino, i calzoni sbottonati, valigia, canna e parapioggia in una mano, soprabito nell’altra, e i polsini nello sparato del gilet, il Noretti si fece largo a spintoni fra la gente, e ruzzolò sul battello. Era tempo.
I battellieri puntarono l’arpagone, e la ripa parve ritrarsi, l’elica diede uno sbruffo poderoso nell’acqua verde, ed il naviglio girò maestoso volgendo la prua nera verso l’isola.
Ancora inchini, saluti, scappellate e squassature di fazzoletti dalla riva al battello.
Il signor Noretti terminò di vestirsi in mezzo ad un crocchio di belle signorine foggiate da alpiniste, con sottane corte, calzari di pelle, e alpenstock elegantemente tornito.
I Gibella non erano tranquilli, e manovravano in modo da non essere veduti da quello svescione che li aveva abbastanza seccati; ma per quanto si rannicchiassero dietro le spalle della gente, non riuscirono a cavarsela.
Il signor Noretti, dopo che si ebbe rimesso il solino e annodata la cravatta, incominciò a guardarsi intorno fissando ognuno in faccia con quella disinvoltura che qualche volta è una prerogativa anche degli imbecilli.
Ad un tratto la sua faccia magra si raggrinzò in un sorriso; aveva veduto i coniugi, e subito precipitò verso di loro, facendo una chiassata di saluti e di domande.
— Oh cari! come va?... dove sono andati jeri?... — e gridava così forte da richiamare su di lui gli sguardi di tutti.
Sor Gaudenzio l’avrebbe mandato all’inferno tanto volontieri, ma si limitò a ringhiargli sottovoce:
— Che el fasa èl piasì de botonarsi la brajeta! — e gli voltò le spalle.
Noretti si provò ad attaccare conversazione dicendo che andava ad Omegna, avendo saputo che ella era colà; ma i Gibella muso duro, non risposero e guardavano via; ed egli o che avesse capito il latino, o che si riservasse di ripigliare più tardi l’argomento, si allontanò.
— Anca lu el ven a Omegna! — mormorò Gaudenzio desolato alla moglie.
— Anca lu?... — rispose Martina. — Piuttosto alora in fond del lag, ma mi a Omegna ghe vegni pu!
Decisero di scendere a Oira.
Il battello rallentava approdando all’isola di San Giulio. Sulla spianata, all’ombra delle piante alcune signore villeggianti stavano guardando l’imbarcazione, e man mano che riconoscevano qualcuno, si stempravano in saluti, riverenze, e discorsi buttati a frammenti nell’aria.
I Gibella guardavano l’isola, e stavano sbadati a sentire le chiacchiere.
Gaudenzio ricordandosi in confuso quella cantafera di Mimulfo e di Agilulfo gonfiatagli la sera innanzi dal professore, sclamò comicamente sorridendo:
— Ehi Martina?... lì nell’isola, ghe el Re Mistulfo senza la testa!
E tutti e due questa volta risero proprio di cuore.
Tutti sul battello erano in chiacchiere; fervevano discorsi fra le donne sedute e gli uomini in piedi, si ciaramellava dappertutto e tratto tratto qua e là scoppiavano ilarità fragorose.
Tutti erano allegri, di quell’allegria che viene da una bella mattinata alla gente che è fuori per ispassarsela senza fastidii.
C’erano là in mezzo tipi strani, disparatissimi, affollati, accumulati in quel pigia pigia festajolo, che sui piroscafi e sui treni ferroviarii esercita un’efficace propaganda di uguaglianza civile e democratica.
Dame con bambini sonnecchianti in grembo; belle fanciulle serrate in un’eleganza sciolta e civettuola da villeggiatura, sporgevano lungo la fila dei sedili certi piedini che facevano pensare a mille diavolerie; e gli allegri visetti incartocciati in cappelli birichini, si barattavano sorrisi vibranti di spensierata giocondità.
I giovanotti della comitiva ballonzolavano or su questa or su quella, come se volessero beccarle tutte, e lanciavano certi sguardi fulminei che a spingerli ancora un poco, figliavano addirittura.
A Oira scese un nugolo di gente.
Sulla spianata fulminava un sole trionfante, rifrangentesi in un tremolìo di lucori guizzanti sul grande speglio del lago.
Oira si allungava con le sue casettine colorite sulla spiaggia, inerpicandosi per un lato su su nel verde ed ombreggiato scenario della montagna.
La comitiva alpinistica imbarcatasi a Orta, si riversò tutta allo sbarco, e le eleganti signorine col loro cappellino brigantesco, l’alpenstock nelle manine inguantate, e gli occhi dardeggianti di letizia e di follia, presero la rincorsa schiamazzando e ridendo dietro ai giovinotti carichi di scialli, saccapani, borracini e bastoni ferrati.
Un signore alto, dalle spalle vigorose, con un cappellaccio da Caruso, capitanava la spedizione diretta sui monti del Varallese.
Gaudenzio e Martina sbarcarono ultimi col loro saccone, e si fermarono sulla spianata, in mezzo al sole, per guardare il battello che già fuggiva portandosi via quel seccatore che non avevano neanche salutato.
— Dove se va? chiese Martina aprendo il parasole.
— All’osteria. — E s’incamminarono.
Dopo pochi passi verso l’abitato, scorsero l’insegna dell’albergo d’Italia; flagellati da un sole che cuoceva le cervella, corsero tosto a rifugiarsi in cucina.
La padrona, donna bonaria, famigliare, li condusse su per la scaletta in una camera con soffitto a travi, muraglie greggie, ma che in compenso aveva l’aria di semplicità domestica.
I Gibella si trovarono assai meglio in quell’ambiente senza pretensione che gli ricordava lontanamente il tepore casalingo della loro casetta, e si adagiarono soddisfatti.
Discesero presto. La sala da pranzo, bassa a soffitto, aveva il balcone prospettante sul lago; stando a tavola si vedeva l’isola di San Giulio, e la riva di Orta fino a Gozzano.
In alto, sulla costa della morena, si allungava il villaggio di Ameno, e più lungi si ergevano nell’aere lucido, la torre di Buccione, e la sagra di Mesma.
Peccato che anche lì non c’era modo di fare una mangiata senza seccature di testimoni, e quando i Gibella riuscirono a decidersi per la colazione, un signore ed una signora già occupavano un capo della tavola.
Anche nella saletta attigua c’era gente, bisognava dunque adattarsi.
Sedettero finalmente. Li serviva una bella giovane dall’occhio lucente, alta, eretta, elegante, nella sua modesta vesticciola di traliccio. Era la figlia della padrona.
I Gibella avevano giurato di non attaccar discorso più con nessuno; ma altro è dire, altro è riuscire. Come si fa a star là muso duro, con persone sedute alla stessa tavola? Intanto quei signori li avevano già salutati cortesemente, ed in qualche modo bisognava corrispondere.
— Han l’aria de siori come se dev, — aveva mormorato Martina, e Gaudenzio di rimando:
— Anche il professor el pareva tranquil... e dopo, nespole che battostà!
In definitiva però i Gibella non ebbero a lamentarsi. Quei signori li lasciarono in pace; parevano lieti di una notizia contenuta in una lettera ricevuta nella mattina, ed il signore riponendo in saccoccia il foglio, aveva sclamato con un sospirone di contentezza:
— Basta, domani saranno qui! — E via tutti e due, risalutando.
I Gibella rimasero soli. Ed ora che avevano mangiato, che fare? La spiaggia era come un forno... arrampicarsi su per la montagna? Martina non ci pensava neanche.
La migliore era di ritirarsi in camera e dormicchiare un poco.
Gaudenzio avrebbe pagato Dio sa quanto, a poter volare nel suo botteguccio, e mentre si levava il solino e la cravatta, pensava con un senso di tristezza agli altri quattro giorni che gli rimanevano di quello svago. Si affacciò sbadigliando sul balcone, e guardò la spiaggia schiacciata sotto il sole:
— Ah! bella cosa è il lago! — e gli chiuse la porta in faccia.
Martina trottolava in calzette per la stanza, e quando si ebbe levato la veste ed il busto, e slacciato le sottane, saltò sul letto, e Gaudenzio dopo lei.
Quei due signori che avevano pranzato coi Gibella, rientrarono subito, e mostrando la solita lettera alla padrona, che stava sparecchiando, sclamarono:
— Domani arrivano i nostri sposini!
— Domani? Ah finalmente i signori saranno tranquilli!
— La camera è pronta? — chiese la signora.
— Prontissima, in comunicazione con la sua, e così staranno tutti come in famiglia.
E scappò in cucina.
Madama volle che il marito rileggesse forte la lettera, e quando giunsero in fondo, si trovarono tutti e due con le lagrime agli occhi.
Quei signori erano lì da una settimana, avevano preso una camera per sè, ed un’altra la impegnarono per la loro figliuola, unica figliuola che aspettavano ansiosamente da un giorno all’altro, reduce dal viaggio nuziale.
Si erano dato convegno a Oira, per passare tutti insieme una quindicina di giorni allegri.
L’ostessa sapeva come il pater tutta intiera la storia commovente di quel matrimonio, giacchè madama glie la narrava regolarmente tre volte al giorno, con tutti i più minuti particolari.
Era un po’ lunghetta quella storia, ma via, pigliandola a bocconi fra una portata e l’altra, l’ostessa riusciva tollerarla studiando intanto il modo di far entrare la pazienza nel conto.
Ecco come era accaduto il gran fatto del soave matrimonio di madamigella Zina col suo adorato Enrico, professore di disegno e di calligrafia, e dilettante di pianoforte.
I genitori della Zina abitavano in campagna nelle loro terre sul Lodigiano; erano ricchissimi e non avevano che quell’unica figliola, luce dei loro occhi. Ma la Zina era uscita dal collegio educata, ingentilita ed innamorata a perdizione del suo professore di disegno, aveva in uggia la casa paterna, e nicchiava, nicchiava in preda ad una cotta che le spegneva ogni allegria, e toglieva l’appetito ai suoi buoni genitori.
Dopo alcuni mesi di quella vita, fu deciso che la Zina avrebbe continuato i suoi studi di disegno, sotto la scorta dell’elegante professorino.
E così gli innamorati ebbero modo di rivedersi ogni sabato, giorno stabilito per la lezione; il professore arrivava col primo treno del mattino, pranzava con la famiglia, suonava a quattro mani con la Zina, faceva all’amore a quattr’occhi negli anfratti ombrosi del giardino, ed alla sera con l’ultimo treno ripartiva, lasciando in quella casa uno strascico di ineffabile letizia.
Papà Segezzi e la sua signora sapevano ogni cosa, la Zina era padrona di tutti, ed a contrariarla non ci pensavano nemmeno per sogno.
Infine le cose fra i ragazzi andarono a segno, che la migliore di tutte era quella di sposarli una buona volta, e farla finita con quell’andirivieni settimanale che aggravava sempre più la situazione.
Vero è che casa Segezzi avrebbe potuto aspirare un pò più alto nella scelta di genero; ma, Dio buono! non avevano al mondo che quell’unica figliola, denari ne portava lei a bizzeffe, e se il professore Enrico non aveva nè poderi nè rendite, tanto meglio.
Tutti i forestieri della locanda, manco a dirlo, erano a giorno di ogni cosa; i Segezzi non discorrevano d’altro; bastava un buon giorno detto passando, perchè essi sganciassero subito la persona, riferendogli le notizie fresche dei loro sposini viaggianti.
Il signor Strepponi, che da un mese era lì d’alloggio con la sua signora, si pigliava ogni giorno quelle zuppe confidenziali, e ne aveva le tasche così piene, che per non sentirne più altro, dovette cambiar l’ora del pranzo.
Il signor Strepponi dal canto suo si era sfogato una volta coi Segezzi narrandogli le sue peripezie coniugali che erano molte, le bizze, le intolleranze, i nervosismi insopportabili della sua signora; ma quei coniugi gemebondi non sapevano pensare che all’imminente arrivo della loro figliola, ed il signor Strepponi che si aspettava di imbattersi in qualcuno che comprendesse le sue disgrazie, non aveva che il conforto di confidarsi con l’ostessa, che lo lasciava dire e dire, e poi finiva col rispondergli sempre:
— Bisogna aver pazienza... la sua signora, poveretta, è ammalata.
Malata un corno, pensava il signor Strepponi, malata sì, ma di rabbia compressa; ed egli, che amava tanto la tranquillità, aveva sempre l’inferno in casa ed il diavolo dappertutto.
Già, lo scompiscione l’aveva fatto lui, sposando una vedova matura, nervosa e rabbiosa come un volpone vecchio.
Egli, da uomo pratico, aveva fatto quel passo sul ragionamento aritmetico che due e due fanno quattro; che cioè col reddito del suo impiego, e coi quattrini della dote, tutto sommato, c’era da tirare innanzi da signori.
Vero, che ella era un po’ passata, un po’ avariata dagli anni, dai nervi, e da un tirocinio di dodici anni di vita coniugale; ma essendo anch’egli sulla maturità, voleva fare le cose ponderate, e giacchè i suoi begli anni li aveva passati sanza frascherie amorose, non voleva adesso sul tramonto tirarsi la brace sui piedi, e spropositare in un matrimonio di capriccio.
Egli era un uomo sodo, positivo, dunque trattandosi di avventurarsi a quel passo, voleva far le cose serie, e non ragazzate.
Accidenti!... altro che seria! marchiana addirittura. Ah giurabacco... se ne accorgeva tardi che anche l’aritmetica in fatto di matrimonio ha i suoi inconvenienti! Magari Dio avesse preso una cotta lasciandosi guidare dal senso della natura! chè invece di avere sulle braccia una vecchia sardella coriacea, vivrebbe forse in santa pace, con una donnina giovane, bella, presentabile se non altro. Oh sì, è vero, aveva duplicato, triplicato il suo reddito, ma... bisogna vedere che pezzo patologico si era tirato in casa!
Fuori, quando madama si metteva in linci e squinci, a furia di stoppaccio, di unguenti e di tinture, riusciva a un tutt’insieme tollerabile; ma egli che se la godeva tutto l’anno in matinée ed in ciabatte; egli che per i famigliari contatti coniugali, era ammesso alle intimità dei penetrali domestici, egli solo, povero Strepponi, era in grado di constatare che neanche le rendite del Gran Turco potevano pagare le sue abnegazioni!
Oh sì, bisogna far le cose positive, ponderare, calcolare, e lui... giù minchione a pigliarsi una donna già fatta col suo bel borsone. Sono gli asini, gli imbecilli che si lasciano accalappiare dai vezzi giovanili, dalla grazia, dalla bellezza.
Oh quanto avrebbe pagato il signor Strepponi ad essere stato un imbecille!
Giurabacco, un pezzo di donnettina sana, gioconda, è un gran bel rinfresco per la casa.
A parte poi le deplorevoli condizioni di salute e di estetica, la signora Strepponi aveva un temperamento diabolico; era sempre sossopra, in convulsioni, e guai allora a contrariarla! pigliava le fumane, e scappava saettando a barricarsi in camera.
E se il signor Strepponi fingeva di non accorgersene, ella si vendicava nella notte, facendosi venire le nausee, gli svenimenti, e tutti i diavoli, proprio nel bel momento del sonno. Ed allora, poveretto! su e giù per la stanza, in pantofole, in camicia, a riscaldare le pezzuole e mettergliele sul seno, e strofinarle le essenze sotto il naso, e vedersi lì sotto la candela quella testa spelata, quella faccia gialla ossuta da virago, da ermafrodito, e lei sempre svenevole, stecchita, in posa da Maddalena bizantina, col seno sbardellato, la pelle rossa grinzita, squamosa.
Ah mondo cane! ce ne volevano delle rendite per pagare quelle notti travagliose, scongiurate il più delle volte con coraggiose, eroiche dedizioni, a prezzo delle quali il povero signor Strepponi si assicurava un po’ di quiete per il resto della nottata.
Dio dei Santi, a questa si viene facendo le cose con giudizio? Che glie ne importava a lui, povero signor Strepponi! di quei cuponi che staccava ogni semestre dalle cartelle? A che valevano i suoi comodi, la casa in città, i sollazzi della campagna, la bellezza dei monti, il sorriso del cielo e del lago azzurro, se dovunque egli si trascinava dietro quel pezzo archeologico e patologico che lo martoriava?
Il capitano Errero, un Catalano alloggiato fin dal principio dell’estate nella stessa locanda, udendo il miserevole racconto di tanti guai dallo stesso signor Strepponi, era venuto a questa marinaresca conclusione:
— Che l’homo despierto non si lascia encantar, che l’argento della mujer conta tanto come una fumarada nella vivienda, e che piuttosto di convivere con una moglie vecchia, una pamposada, una pijota dura da mascar, lui capitano Errero, preferiva andare all’infierno, o farsi fusilar!
E sul dubbio che il signor Strepponi non avesse ben capito, gli aveva chiesto: comprende?
Povero Strepponi, altro che comprendere! anch’egli era dello stesso parere.
Farsi fusilar.... lasciamo andare; ma era un fatto che il capitano tagliava netto le questioni col suo coltello catalano.
Del resto, lo spagnolo era uomo che non si lasciava facilmente abbordare; pareva lunatico, e qualche volta passava sui piedi dei suoi colleghi di locanda, senza dir: bada.
Era un bell’uomo sulla cinquantina, tarchiato, con un torace atletico, un collo taurino, e certe spalle che spingevano lontano solo a guardarle.
Aveva viaggiato tutti i mari del globo, ed ora in causa di frequenti attacchi artritici, aveva dovuto abbandonare la sua nave per curarsi gli acciacchi.
Sopra Oira possedeva una villetta, ma egli preferiva restarsene sulla spiaggia vicino a quel lago, quella chiazza azzurra e mobile che gli richiamava nei suoi mingherlini rapporti l’aere ampio, e l’infido coltrone spumeggiante dell’oceano.
Era splendido il capitano, cavaliere perfetto, quando non aveva la luna di traverso. Stava tutto il giorno nella sua camera, scriveva, fumava e beveva grappa.
A notte usciva, talora spassandosela in barchetta, o internandosi nella gola del torrente, o rampicandosi su per l’erte, per udire da lontano il chiurlo dei venti, e respirare la raffica dell’aere nereggiante di tenebre dense.
Spesso pranzava nella sua camera, e si divertiva allora nell’unica compagnia del figliolino dell’oste, un ragazzo molto vispo, molto vivaracho, e quando aveva volicion di chiacchierare, scendeva abbasso in sala, ed aspettava che gli rivolgessero la parola.
Era franco, schietto fino alla rudezza, sputava il vero delle sue impressioni, senza badare a circonlocuzioni.
Con le signore era di una galanteria da can mastino a primo incontro, ma poi si rimetteva subito. Non gli piaceva galantear, ma talvolta pigliava le donne in una guardata di falco rapida così, che faceva pensare ai pirati fremebondi, balzati dalle cetre dei poeti romantici.
Gli piacevano le donne belle, giovani, vivaci, e non poteva perciò assolutamente tollerare madama Strepponi, sempre irta di nervosismi e di saette.
Una volta avendolo l’ostessa celiato sulla vicinanza di camera che egli aveva con quella signora, e sulla probabilità di intendersi, aveva risposto scappando:
— Soga soga! Sobreseguro che starò guardado! piuttosto saltar da una ventana!
Oltre a questi, altri due ospiti erano all’albergo; il professore Augustini e Carlino suo figliuolo, un bel ragazzetto sui quattordici anni tutto innamorato del suo papà.
Erano lì da alcuni giorni, ma si vedevano raramente. Alla punta del giorno padre e figlio pigliavano la strada della montagna e non ritornavano che a notte fatta, stanchi, trafelati; un boccone di cena in fretta, e poi subito a letto, per ricominciare all’indomani le sgambettate attraverso ai monti.
Il professore Augustini era un bell’uomo oltre la quarantina, alto, membruto; una testa da evangelista, ma con solchi e rilievi arditi che la improntavano di maschia vigoria.
Padre e figlio vivevano modestamente; non erano quello che si dice avventori di lusso, nondimeno l’oste e tutta la famiglia prodigavano ogni sorta di cure a quel buon professore così distinto, gentile e schietto di famigliarità bonaria.
Egli non disturbava nessuno; se aveva bisogno di qualche cosa, si serviva da sè con la disinvoltura d’un uomo pratico in ogni mestiere, superiore a tutte le piccinerie del sussiego.
Andava egli stesso in cucina, maneggiava le casseruole come una massaia, e messosi subito in famigliarità col padrone cuoco, gli dava ogni giorno utili consigli in materia culinaria.
Se c’era posto, sedeva a mensa, altrimenti mangiucchiava in piedi sulla porta, o in qualunque luogo. Faceva tutto bene, senza stonatura, si adattava ai più umili uffici senza ledere per nulla la sua distinzione di perfetto gentiluomo. Brandiva il mestolo, ripuliva l’insalata, si lucidava le scarpe, e tutto andava bene; anche a vederlo con la spazzola del lucido nelle mani, pareva la cosa più naturale del mondo.
In meno di una settimana il professore era già conosciuto da tutti gli abitanti del paese e del dintorno.
Chiacchierava volontieri con le popolane, con le trecche, coi barcajuoli; ognuno lo trovava famigliare, alla mano; pareva nato lì sulla spiaggia, tanto facilmente sapeva intonarsi e trovare un linguaggio persuasivo per tutti.
Quando di buon mattino il professore e Carlino attraversavano le strette callaje di Oira per le solite escursioni, tutti si sberrettavano salutandolo col sorriso che si rivolge ad un vecchio amico.
Entrava nella bottega del prestinaio per la provvista del pane, e poi dal salumaio per formaggio e salame, e giù tutto nella sacca di Carlino; poi passava dall’acquavitaio per riempire il borraccino, e lì, due ciancie in fretta, saluti al padrone, alla padrona, ai piccini, e via; e tutti fuori sulla bottega a riverire e salutare il signor professore.
Egli stringeva la mano a tutti, dava del voi senza distinzione, e tutti si pigliavano contenti quel tono confidenziale come una mancia.
Infine padre e figlio prendevano l’erta, e su, un giorno a Varallo passando per Artò, e ritornando la sera per la via di Arola; l’indomani a Celio, poi a Valduggia, poi a Omegna girando le punte delle montagne.
Sgambettate da camoscio; e sempre innanzi coi loro bastoni, con le loro scarpacce, soffermandosi in qualche casolare, in qualche alpe, per sbocconcellare la colazione inaffiata con una scodella di buon latte, o, in difetto, con acqua fresca e chiara di sorgente.
E quell’allegria sana, quella festa di muscoli e di polmoni esercitati all’aria libera, durava tutta la giornata. Entrambi sentivano la smania febbrile di arrampicarsi per pigliar sempre il sole più in alto, e sboccare nella purezza dell’aria viva ossigenata, l’infetto accumulato nella vita inerte della città.
Non tolleravano di vedersi barricato l’orizzonte da un ostacolo, e lo pigliavano d’assalto, fosse ciglione o fosse montagna.
Strada facendo, il ragazzo tempestava il babbo di mille interrogazioni. Papà, come si fa la rugiada? Che roccia è questa? Come si formano i terreni? Perchè nascono i funghi? Ed il professore, con la letizia di un papà che scopre i germogli intellettivi della sua creatura, sempre pronto a dargli la nozione delle cose, con chiarezza e semplicità accessibile al ragazzo; il quale non era mai in fondo delle interrogazioni, e dalla geologia, dalla botanica, saltava di un tratto nell’astronomia ed il babbo sempre disposto e non mai imbarazzato a rispondere.
Così in quelle gite da Robinson svizzero, le ore ed i chilometri filavano via allegramente che era un piacere, e quando il babbo credeva di non stancar oltre il figliuolo con le sue investigazioni, lo interrompeva sclamando:
— Carlino, adesso cantami l’Ave Maria di Gounod!
E Carlino subito intonava con la sua voce argentina, voce di verginella, che saliva su su nell’aria frizzante, perdendosi nei lontani meandri della montagna.
Il papà rinforzava qualche volta la frase, e più spesso si soffermava per bearsi di quella melodia che aveva per lui un doppio fascino; bella oltre ogni dire per il pensiero dell’artista, bellissima, potente, perchè vibrava dal cuore e dalle labbra del suo gentile fanciullo.
E pensava: C’è un mondo, una moltitudine che non intende queste soavi effusioni dell’anima. La volgarità pratica dei baratti quotidiani offusca le gioie schiette, legittime del pensiero. I volghi procedono asserragliati schiacciando gli entusiasmi ed il sentimento sotto il loro passo armentale.
Il cinismo utilitario ha buttato fra i ciarpami della rettorica le effusioni delle anime elevate. Non si osa più essere allegri se non a banchetto, non si canta se non si è ubbriachi; non si osa più confessare l’amore, la fede, l’entusiasmo, perchè la caricatura, la satira, la freddezza triviale, assassina, sono lì in agguato per mettere la coda e le orecchie d’asino agli ingenui del sentimento.
È lecito solo adoprarsi, arrabattarsi per gli interessi della bottega.
Un onesto negoziante della giornata vive le settimane ed i mesi lontano dalla famiglia: passerà le notti nelle locande, in ferrovia, in carrozza, per il suo commercio del vino o del formaggio, ma non trova il tempo di passare un’ora al capezzale di un suo bambino infermo. — Così si va americanizzando il mondo. E sia pure; ognuno secondo la sua natura! — Ma intanto il professore si compiaceva del fervore adolescente del suo figliuolo, e gli alitava più che poteva, nella vergine coscienza, il sentimento del bello e del buono.
Egli ben sapeva che in questo modo non agguerriva il suo Carlino contro il formidabile scetticismo del mondo grezzo; ma che monta? Il sentimento quando non sia buono per gli altri, ha virtù intrinsiche che sorreggono e confortano colui che ne sente nell’anima i bagliori.
Carlino così cresciuto, illuminato nella mente e nel cuore, non diventerebbe certo quel che si dice un uomo esperto, non avrebbe le vertigini tormentose, le malsane bramosie dell’utile ad ogni costo; tanto meglio.
Carlino diventerà un visionario, un poeta, un rettorico, non farà fortuna... alla buon’ora! ma egli avrà l’amore della casa e della famiglia, le letizie del cuore, ed i conforti ineffabili di un’intelligenza cosciente della propria levatura.
E rallegrato da questo pensiero il professore abbracciava nelle spalle il suo bambino, e gli gridava:
— Carlino, credi tu che tutti si divertano, come noi in queste gite? Neanche per sogno! C’è della gente che muore di inedia in mezzo all’abbondanza... Oh caro mio, quando si è ignoranti di tutto, è inutile essere milionario. Le ricchezze sono per molti un sacco di piombo da portare.
La sete del guadagno fa lavorare come cani gli uomini gretti ed egoisti a beneficio dell’umanità. Guai se non ci fossero questi lavoratori ciechi, questi cirinei del capitale! La natura, figliolo mio, è grande nella sua sapienza! Dunque, Carlino, avanti sempre così; borsa leggiera, e cuore aperto. Vedi laggiù che splendido effetto di sole... che maraviglia di colori e di rifrazioni! Osserva, adesso che siamo in alto, ecco si spiega tutto il bacino dell’antico ghiacciaio... Carlino, un’altra rampicata, e vedremo il Mont’Orfano e la Valle del Toce. Su su, in meno di un’ora avremo guadagnato quella punta, e faremo colazione in faccia al sole! — Avanti.
E si arrampicavano con fervore, con entusiasmo manovrando di bastone, ed il professore per dar più lena alla marcia, volgendo al figlio la faccia imperlata di sudore:
— Carlino, — sclamava — cantiamo l’inno di Garibaldi! E tutti e due insieme a vociare con foga giovanile. Ed alla strofa:
«Bastone tedesco Italia non doma, |
il professore ebbe una vertigine di orgoglio nazionale che gli diede un brivido sotto la pelle, e per espandersi in qualche modo, abbracciò il figlio tuonandogli nelle orecchie:
— Senti, Carlino... Così a vent’anni si andava cantando contro le fucilate, senza un pensiero al mondo! — Ah, questa musica fa bene al cuore!
Ed intanto il buon professore aveva gli occhiali pieni di lagrime.