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— All’osteria. — E s’incamminarono.

Dopo pochi passi verso l’abitato, scorsero l’insegna dell’albergo d’Italia; flagellati da un sole che cuoceva le cervella, corsero tosto a rifugiarsi in cucina.

La padrona, donna bonaria, famigliare, li condusse su per la scaletta in una camera con soffitto a travi, muraglie greggie, ma che in compenso aveva l’aria di semplicità domestica.

I Gibella si trovarono assai meglio in quell’ambiente senza pretensione che gli ricordava lontanamente il tepore casalingo della loro casetta, e si adagiarono soddisfatti.

Discesero presto. La sala da pranzo, bassa a soffitto, aveva il balcone prospettante sul lago; stando a tavola si vedeva l’isola di San Giulio, e la riva di Orta fino a Gozzano.

In alto, sulla costa della morena, si allungava il villaggio di Ameno, e più lungi si ergevano nell’aere lucido, la torre di Buccione, e la sagra di Mesma.

Peccato che anche lì non c’era modo di fare una mangiata senza seccature di testimoni, e quando i Gibella riuscirono a decidersi per la colazione, un signore ed una signora già occupavano un capo della tavola.