Turandot (Carlo Gozzi)/Atto quarto

Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto
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ATTO QUARTO

NOTTE

Atrio con colonne. Una tavola con un grandissimo bacile, colmo di monete d’oro.



SCENA PRIMA.


Turandot, Barach, Timur, Schirina, Zelima, Eunuchi. Gli Eunuchi legheranno a due colonne separati Barach e Timur, i quali saranno in camicia sino alla cintura. Zelima, e Schirina saranno da una parte piangendo, Turandot dall’altra in atto di fierezza.


Tur. Tempo è ancor di salvarvi. Io rinnovello
     I prieghi miei. Quel monte d’oro è vostro.
     Ma se del padre, e dell’ignoto il nome
     V’ostinate a occultarmi, flagellati
     Dalle robuste braccia de’ miei servi
     Senza compassion cadrete morti.
     Olà ministri, pronti a’ cenni miei.
     (Gli Eunuchi, fatto un profondo inchino, s’armano di bastoni)

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Bar. Paga sarai Schirina, Or t'è palese
     L’effetto del tuo errore. (con forza) Turandot,
     Saziatevi pure. Io non intendo
     Di sospender tormenti. Risoluto
     Anzi son di morir. Crudi ministri,
     Percuotetemi, via. Del Prence ignoto
     Conosco il padre, d’ambidue so i nomi;
     Ma strazio, angoscia vo’ soffrire, e morte;
     E non mai palesarli. Quei tesori
     Meno del fango apprezzo. Tu, consorte,
     Non t’affligger per me. Quelle tue lagrime.
     Se in un barbaro cor penetrar ponno,
     Per quell’afflitto vecchio impiega solo.
     Resti ’l misero salvo, (piangendo) Egli ha sol colpa
     D’esser amico mio.
Sch. (supplichevole) Deh per pietade...
Tim. Nessun s’affligga, alcun non prenda cura
     D’un, che a uscir di miseria ha esperienza
     Che sol morte può trarlo. Amico, io voglio
     Te salvare, io morir. Sappi, tiranna...
Bar. (impetuoso) No, per pietà. Non v’esca dalle labbra
     Il nome dell’ignoto: egli è perduto.
Tur. (sorpresa) Vecchio, tu dunque il sai?
Tim. Se ’l so? crudele!
     (volto a Barach) Dimmi, amico, l’arcano. Perchè mai
     Non poss’io palesar?
Bar. Perch'è la morte

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     Certa dell’infelice. Perchè siamo
     Tutti perduti.
Tur. Vecchio, non temere.
     Costui vuol spaventarti. Olà, ministri,
     Si percuota l’audace. (gli Eunuchi s’apparecchiano
     a percuoterlo
)
Sch. Oimè! che pena!...
     Marito mio... marito mio... Fermate...
Tim. Dove son!... che mai soffro!... Principessa,
     Giura sopra ’l tuo capo, che la vita
     Di lui fia salva e che fia salva quella
     Del Prence sconosciuto. Sulla mia
     Cada pure ogni strazio. Non mi curo
     Punto di sua salvezza. Io ti prometto
     Tutto di palesarti.
Tur. Al gran Confuzio
     Solenne giuro io fo su questa fronte,
     Che salva dell’ignoto fia la vita,
     Salve fieno le vostre. (si mette la mano alla fronte)
Bar. (audacemente) Ah menzognera!
     Vecchio ti ferma; il giuramento ha sotto
     Velen nascosto. Turandot, giurate,
     Che, sapendo i due nomi desiati,
     Sposo vostro è l’ignoto, com'è giusto,
     Ben lo sapete ingrata; o ch’ei non more,
     Ricusato, d’angoscia, o non s’uccide.
     Giurate ancor, che queste nostre vite,
     Tosto che palesati hanno i due nomi,
     Non sol da crudel morte andranno esenti,

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     Ma che a perpetua carcere rinchiuse
     Non saranno da voi, perchè celato
     Resti l’enorme tradimento vostro.
     Questo sia ’l giuramento. Io sono il primo
     A palesarvi i desiati nomi.
Tim. (sbalordito) Quali arcani son questi! O Ciel, mi togli
     Fuor da tante miserie.
Tur. (sdegnosa) Io stanca sono
     Di sì gran pertinacia. A voi, miei servi,
     Muoiano tutti due. (gli Eunuchi s’apparecchiano
     alle percosse
)
Sch. Pietà, Signora...
     Vi domando pietà.
Bar. Vecchio, or palese
     T'è ’l cor della crudel.
Tim. Figlio, io consacro
     Questa vita al tuo amor. Morta è tua madre.
     Seguirò l’alma sua. (piange)
Tur. (sorpresa) Figlio!... Fermate.
     Tu Re! Tu Prence! Tu genitor sei
     Del sconosciuto?
Tim. Sì, tiranna: io sono
     Re... padre... un disperato.
Bar. Ah, che faceste!
Sch. Che sento! Un Re ridotto a tali estremi?
Tur. (commossa da sè) In tal calamitade! Un Re! costui
     Padre del sconosciuto! Oh Dio! mi sento
     Commossa il cor... Padre e di lui, ch’io bramo

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     D’abborrire, e non posso... e in questo seno...
     (scuotendosi) Ah, che diceva mai! Padre all’oggetto,
     Cagion del mio rossor, che la mia gloria
     Avvilisce, distrugge. Il tempo è breve. (alto)
     Vecchio, mi dì più oltre; io più non soffro.
Tim. Amico, che far deggio?
Bar. (con forza) Sofferite.
     Turandot, quello è un Re. Non offendete
     Voi stessa almen con un’azione indegna
     Della nascita vostra. Rispettate
     Le venerande membra. In me si sfoghi
     L’inumana fierezza. È vana ogn’opra;
     Non saprete di più.
Tur. (collerica) Sì, rispettato
     Questo vecchio sarà, che l’ira mia
     Tutta è contro di te. Tu lo stogliesti
     Dall’appagarmi, e tu paga la pena, (fa cenno
     agli Eunuchi, i quali s’avvicinano tutti a
     Barach per flagellarlo
)
Sch. Misera me! marito mio... marito...


SCENA SECONDA.

Adelma, e detti.


Adel. Fermatevi. Signora, quanto basta
     Quì occulta intesi. Questi due ostinati
     Ne’ sotterranei del serraglio chiusi
     Sieno subitamente. Altoum parte

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     Dalle sue stanze per venir a voi.
     A me Schirina, e a me tutto quell’oro.
     Corrotte son le guardie, che alle stanze
     Dell’ignoto han custodia. È mia l’impresa.
     Puossi entrar alle stanze, ove soggiorna.
     Favellar seco, e, se de’ miei consigli
     Ognuno farà buon uso, consolata
     Fia Turandotte, sciolta, e gloriosa.
     Schirina, se ti preme il tuo consorte,
     Zelima, se t'è cara la tua madre,
     A modo mio farete. Chi avrà sorte
     Di vincer quant’io penso, ricco fia.
     Non si perda più tempo. Io spero in breve
     Di rallegrarvi.
Tur. Amica, a te m’affido.
     Seco vada il tesoro. Teco vengano
     E Schirina, e Zelima. Io tutto spero
     In Adelma, in Zelima, ed in Schirina.
Adel. Schirina, e voi Zelima, mi seguite.
     Meco sia quel tesoro, (a parte) Ah forse io posso
     Or rilevar i nomi, e far, che resti
     Vinto l’ignoto; e, rinunziato, forse
     Resterà mio. Forse averò tant’arte
     Di sedurlo a fuggir, di meco trarlo
     Fuori da questo Regno. (Adelma, Zelima,
     Schirina e un Eunuco col tesoro entrano
)
Bar. Moglie, figlia,
     Non mi tradite. A quest’alme infernali
     Non siate ubbidienti. Oimè, Signore,
     Chi sa, che avverrà mai!

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Tur. Miei fidi, tosto
     Ne’ sotterranei del serraglio occulti
     Costor sien chiusi.
Tim. Turandot, adopra
     Quanto vuoi contro a me, ma ’l figlio mio
     Sia salvo per pietà.
Bar. Pietà in costei!
     Tradito è ’l figlio; e noi perpetua notte
     Chiusi terrà, che ’l tradimento celi.
     Trema del Ciel, crudele, della tua
     Alma ingrata, selvaggia, abbominevole.
     Tieni per fermo, il Ciel ti de’ punire. (Timur e Barach vengono condotti via dagli Eunuchi)


SCENA TERZA.

Turandot.


Che farà Adelma? Oh, se mai giungo al fine
Di quest’impresa, chi averà più fama
Di Turandotte? Chi sarà lo stolto,
Che più s’arrischi a vincer la sua mente?
Quanto godrò nel rinfacciargli i nomi
Nel Divan fra i Dottori, e di scacciarlo
Svergognato, e deluso! (sospesa) E pur mi sembra
Che n’avrei dispiacer... Parmi già afflitto
Di vederlo, e piangente, e, non so come,
Mi tormenta il pensarlo... Ah, Turandotte...

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Animo vil, che pensi! che ragioni!
Ebb’egli dispiacer là nel Divano
A scior gli enigmi, e a far, che tu arrossissi
Cielo, soccorri Adelma, e fa, ch’io possa
Svergognarlo, scacciarlo, e rimanere
Nella mia libertà; che sprezzar possa,
Sciolta da un nodo vile, un sesso iniquo,
Che sommesse ci vuol, frali, ed inette.


SCENA QUARTA.

Altoum, Pantalone, Tartaglia, guardie e Turandot.


Alt. (da sè pensoso) Il Sultan, di Carizmo usurpatore,
     Così dovea finir. Dovea Calaf,
     Figlio a Timur, quì giugnere, e per strane
     Vicende esser felice. Oh giusto Cielo,
     Chi di tua providenza i gravi arcani»
     Può penetrar? Chi può non rispettarli?
Pant. (basso a Tartaglia) Cossa diavolo ga l'Imperator,
     che ci va barbottando?
Tart. (basso) Egli ha avuto un messo secreto:
     qualche diavolo c'è.
Alt. Figlia, il giorno s’appressa, e tu vaneggi
     Pel serraglio svegliata, che vorresti
     L’impossibil saper. Io, nol cercando,
     So quanto brami, e tu, che in traccia vai,
     Vanamente lo cerchi, (trae un foglio) In questo foglio

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     Scritti sono i due nomi, e gli evidenti
     Segni delle persone. Un messo or ora
     Secretamente da region lontane
     A me sen venne; favellommi; e dopo
     Da me chiuso, e in gelosa guardia posto,
     Sino che passi il nuovo giorno, in questo
     Foglio mi diede i nomi, ed altre molte
     Liete e gravi notizie. È Re l’ignoto.
     È figliuolo di Re. Non è possibile
     Che tu sappi, chi sieno; è troppo, o figlia,
     Rimoto il nome lor. Però quì venni,
     Perchè mi fai pietà. Là nel Divano,
     In mezzo al popol tutto, qual piacere
     Hai la seconda volta volontaria
     A farti dileggiar? Ululi e fischi
     Della vil plebe avrai, troppo giuliva
     Ch’una superba, odiata, ed abborrita
     Per la sua crudeltà, punita sia.
     Mal si tenta frenar l’impeto intero
     D’un popol furioso, (fa cenno con sussiego a Pantalone, a Tartaglia e alle guardie, che partono. Tutti con prestezza, fatto il solito inchino colla fronte a terra, partono. Altoum segue) Io posso, o figlia,
     Riparare al tuo onor.
Tur. (alquanto confusa) Che onor! quai detti!
     Padre, grazie vi rendo. Io non mi curo
     D’aiuti, o di ripari. Da me stessa
     Ripararmi saprò là nel Divano.

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Alt. Ah no. Credimi, figlia, è già impossibile
     Quanto speri saper. Veggo in quegli occhi,
     Nella faccia confusa, che folleggi,
     Che disperata sei. Io son tuo padre;
     T’amo, e tu ’l sai; siam soli. Dimmi, figlia,
     Se tu sai que’ due nomi.
Tur. Nel Divano
     Si saprà, s’io gli so.
Alt. No, Turandot.
     Tu non gli puoi saper. Vedi, s’io t’amo.
     Se li sai, mel palesa. Io ti dimando
     Questo per grazia. A quel meschin fo intendere,
     Ch’egli è scoperto, e fuor da’ stati miei
     Libero il lascio uscire. Spargo fama.
     Che tu l’hai vinto, e che fu tua pietade,
     Che a un pubblico rossor non s’esponesse.
     Fuggi così l’odiosità de’ sudditi,
     Che abborron tua fierezza, e me consoli.
     Ad un tenero padre, che sì poco
     Chiede a un’unica figlia, il negherai?
Tur. So i nomi... Non li so... S’ei nel Divano
     Della vergogna mia non s'è curato,
     Giustizia è, ch’egli soffra infra ì Dottori,
     Quanto soffersi anch’io. Se saprò i nomi,
     Nel Divan fien palesi.
Alt. (con atto a parte d’impazienza, indi sforzandosi
     alla dolcezza
) Ei fè’ arrossirti
     Per amor, ch’ha per te, per la sua vita.
     Ira, furor, puntiglio, Turandot,
     Lascia per poco. Io vo’, che tu conosca,

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     Quanto t’ama tuo padre. Questo capo
     Scommetto, o figlia, che non sai que’ nomi.
     Io gli so: scritti sono in questo foglio,
     E te li voglio dir. Vo’, che s’aduni
     Il Divan, fatto il giorno, che apparisca
     In pubblico l’ignoto, e ch’egli soffra
     Che tu lo vinca; che vergogna egli abbia;
     Che provi angoscia, pianga, si disperi,
     Sia per morirsi per aver perduta
     Te, che sei la sua vita. Sol ti chiedo,
     Dopo ’l tormento suo, che tu gli porga
     Quella destra in consorte. Giura, figlia,
     Che ciò farai. Siamo quì soli. Io tosto
     Ti paleso i due nomi. Tra noi due
     Rimarrà questo arcano. Gloriosa
     Appaghi il tuo puntiglio. Amore acquìsti
     De’ sudditi sdegnati. Hai per consorte
     L’uom più degno, che viva, e dopo tante
     Passion date al padre, nella sua
     Vecchiezza estrema il padre tuo consoli.
Tur. (turbata e titubante a parte)
     Ah quant’arte usa il padre!... che far deggio?
     Dovrò affidarmi a Adelma, e sol sperando
     Attender il cimento? O deggio al padre
     Chieder i nomi, e all’abborrito nodo
     Giurar d’esser consorte?... Turandotte,
     T’assoggetta alla fin... minor vergogna
     È accomandarsi al padre... Ma l’amica
     Troppo franca promise... E se rileva?...
     Ed io vilmente al padre il giuramento?...

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Alt. Che pensi, o figlia? a che vaneggi, ondeggi
     Combattuta, e confusa? e vuoi, ch’io creda
     In tanta agitazion, che sei sicura
     Di spiegar quell’enigma? Eh cedi al padre!
Tur. (sempre a parte titubante) No: s’attenda
     l’amica. Il genitore
     Qual zelo prende! Questo è chiaro segno,
     Ch'è possibil, ch’io sappia quanto ei teme.
     Ama l’ignoto, e dall’ignoto istesso
     Ebbe i nomi in secreto, e con l’audace
     È in accordo, e mi tenta.
Alt. Or via, risolvi,
     Calma quel spirto indomito, finisci
     Di tormentar te stessa.
Tur. (scuotendosi) Ho già risolto.
     Al nuovo dì là nel Divan s’aduni
     L’assemblea de’ Dottori.
Alt. Adunque vuoi
     Rimaner svergognata, e condiscendere
     Più alla forza, che al padre?
Tur. Risoluta
     Vo’, che segua il cimento.
Alt. (iracondo) Ah stolta... ah sciocca...
     Più ignorante, che l’altre. Io son sicuro,
     Che ti fai svergognar pubblicamente,
     Che possibil non è, che tu indovini.
     Sappi; il Divan fia pronto, ed il Divano,
     Per tua rabbia maggior, vinta che sia,
     Tempio, ed Ara sarà. Là fieno pronti
     I Sacerdoti, e in mezzo al popol tutto,

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     Tra le risa, e ’l dileggio, a tuo dispetto,
     Ivi, in quel punto vo’, che segua il nodo.
     Ben mi ricorderò, che sin poche ore
     D’agitazion al cor del padre tuo
     Ricusasti di tor. Folle, rimanti. (entra collerico)
Tur. Adelma, amica mia, che tanto m’ami,
     Meco è ’l padre sdegnato... abbandonata
     In te solo confido... dal tuo amore
     Solo attendo soccorso al mio cimento. (entra)


SCENA QUINTA.


Cambiasi ’l Teatro in una camera magnifica con varie porte. Nel mezzo avrà un sofà all’orientale, per servir al riposo di Calaf. È la notte oscura.

Brigheilla con una torcia e Calaf.


Brig. Altezza, xe nove ore sonade. L’appartamento
     la lo ha passeggià tresento e sedese
     volte in ponto. A dirghe el vero, son stracco;
     se la volesse un poco reposar, qua la xe
     sicuro.
Cal. (ottuso) Sì, ti scuso, ministro. L’agitato
     Spirto mi fa inquìeto. Va, e mi lascia.
Brig. Cara Altezza, la supplico d’una grazia. Se
     mai capitasse qualche fantasma, la se regola
     con prudenza.
Cal. Quali fantasme? quì fantasme? come?
Brig. Oh Cielo! Nu gavemo commission, pena la
     vita, de no lassar entrar nissun in sto appartamento,

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     dove la xe; ma... poveri ministri!...
     l'Imperator xe l'Imperator, la Prencipessa xe,
     se pol dir, l'Imperatrice, e la sa, che cuor che
     la ga... Poveri ministri!... xe diffìcile a passar
     tra una giozza, e l’altra... se la savesse...
     gavemo la nostra vita tra el lancuzene e el
     martello... no se vorria desgustar nissun... se
     la me intende... Ma, poveri diavoli, se vorria
     anca avanzar qualcossa per l’età decrepita...
     ma, poveri squartai, semo a una cattiva condizion.
Cal. (sorpreso) Servo, mi dì. Dunque la vita mia
     In queste stanze non sarà sicura?
Brig. No digo questo; ma la sa la curiosità, che
     ghe xe de saver, chi ella sia. Pol vegnir... per
     esempio... per el buso della chiave qualche
     folletto, qualche fada con delle tentazion...
     basta, che la staga in filo, e che la se regola.
     Me spieghio?... Poveri ministri!... poveri
     squartai!
Cal. Va, non temer; t’intendo; avrò cautela.
Brig. Oh bravo. No la me palesa per carità. Me
     raccomando alla so protezion. (a parte) Se pol
     dar, che un borson de zecchini se possa ricusar.
     Per mi ho fatto ogni sforzo, ma no ho
     podesto. Le xe catarigole; chi le sente, e chi
     no le sente. (entra)
Cal. Costui m’ha posti de’ sospetti in capo.
     Chi mai giugner può quì?... Saprò difendermi.
     Giunga l’inferno ancor. Troppo mi preme

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     Posseder Turandot. Ancor per poco
     Penar dovrò, che non è lungi il giorno.
     Possibil, che quel cor sempre sia avverso?
     Cerchiam, se pur si può, qualche riposo.
     (è per coricarsi)


SCENA SESTA.


Schirina, travestita da soldato Chinese e Calaf.


Sch. Figlio... (si guarda intorno) Signor...
     (si guarda intorno) mi trema il cor nel seno.
Cal. Chi sei? che vuoi? che cerchi?
Sch. Io son Schirina,
     Moglie d'Assan, dell’infelice Assan.
     Quì con questa divisa militare,
     Simile a quella delle guardie vostre
     Tra i soldati m’addussi; il punto colsi,
     E venni in questa stanza. Assai sventure
     Deggio narrarvi, ma timor... sospetto...
     E più pianto, e dolor mi toglie forza...
Cal. Schirina, che vuoi dirmi?
Sch. Il miserabile
     Mio marito è celato. A Turandot
     Fu detto, ch’egli vi conobbe altrove,
     E perchè le palesi il vostro nome,
     Secretamente nel Serraglio il vuole.
     Della vita è in periglio. A mille strazi,
     S'è scoperto, è soggetto, e, se ciò nasce,
     Pria vuol morir, che palesar, chi siete.
Cal. Ah caro servo!... Ah Turandot crudele!

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Sch. Di più deggio narrarvi. Il Padre vostro
     È in casa mia, vedovo sconsolato
     Di vostra madre...
Cal. (addolorato) Oimè, che narri! Oh Dio!
Sch. Di più dirovvi. Ei sa, ch'Assan si cerca;
     Che voi siete fra l’armi. Ha mille dubbi,
     Mille spaventi e piange. Ei disperato
     Vuol esporsi alla Corte, e palesarsi,
     E «col mio figlio» ei grida, «io vo’ morire»!
     M’affaticai, narrando i casi vostri.
     Per trattenerlo: egli inventate fole
     Tutte le crede. Il tenni, e sol lo tenni
     Con la promessa di recargli un foglio
     Da voi firmato, e scritto dalla mano
     Del proprio figlio, che ’l consoli, e dica,
     Ch’egli è salvo, e non tema. A tanti rischi
     Mi sono esposta per aver un foglio,
     Per acchetar quell’angoscioso vecchio.
Cal. Il Padre mio in Pechin! La madre morta!
     Tu m’inganni, Schirina.
Sch. Se v’inganno, M’arda Berginguzin.
Cal. Misera madre!
     Padre mio sventurato! (piange)
Sch. Ah, non tardate.
     Maggior sventure nasceran, se ’l foglio
     Non vergate sollecito. Se mancano
     Fogli, ed inchiostro, e penna, io diligente
     Tutto provvidi. (trae ’l bisognevole per iscrivere)
     Quell’afflitto vecchio

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     Poche note firmate abbia, che ’l figlio
     È in sicurezza, e che sarà felice;
     O alla Corte sen corre, e ogn’opra guasta.
Cal. Sì, mi reca que’ fogli... (in atto di scrivere;
     poi sospendendo
)
     Ma che fo? (pensa alquanto, indi getta il foglio)
     Schirina, al padre corri, e gli dirai
     Per parte mia, che ad Altoum sen vada;
     Chieda udienza secreta, e gli palesi
     Quanto brama, e ricerchi quanto brama
     Per calma del suo core. Io mi contento.
Sch. (confusa) Ma non volete?... un foglio vostro
     basta...
Cal. No, Schirina, non scrivo. Il nome mio
     Diman saprassi solo. Assai stupisco,
     Che la moglie d'Assan tenti tradirmi.
Sch. (più confusa) Tradirvi...! che mai dite? Ah
     non si guastino (a parte)
     L’altre trame di Adelma. (alto) E bene; al padre
     Dirò quanto diceste. Io non credeva.
     Dopo tanta fatica, e tanto rischio.
     La taccia meritar di traditrice.
     (a parte) Adelma è desta, ma costui non
     dorme. (entra)
Cal. Ben mi disse il ministro, che fantasme
     Sarebbero apparite. Ma Schirina
     Con sacro giuramento ha confermato.
     Che mio padre è in Pechin, la madre estinta.

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     Purtroppo sarà ver; che le sventure
     Piovon sopra di me... (guarda un’altra porta
     della stanza
) Nuovo fantasma!
     Vediam, che venga a far.


SCENA SETTIMA.


Zelima e Calaf.


Zel. Prence, io son schiava
     Di Turandot, in questo loco giunta
     Per quelle vie, che ad una Principessa
     Possibili son sempre, e apportatrice
     Son di felice annunzio.
Cal. Oh ’l Ciel volesse.
     Schiava, non mi lusingo; è troppo barbaro
     Della tua Principessa il cor sdegnato.
Zel. È ver; nol so negar. Ma pur, Signore,
     Voi siete il primo. Impression d’affetti
     Le destaste nel sen. Parrà impossibile,
     E certa son che le parole mie
     Terrete per menzogne. Ella persiste
     Nel dir, che v’odia, eppur mi sono accorta,
     Ch’ella è amante di voi. S’apra il terreno
     E m’ingoi, se non v’ama.
Cal. E ben; ti credo.
     È felice l’annunzio; altro vuoi dirmi?
Zel. Io deggio dirvi, ch’ella è disperata
     Sol per ambizion; ch’ella confessa,
     Che impossibile assunto nel Divano
     Si prese al nuovo giorno, e che mortale

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     Rossor la prende a comparir dimani,
     Dopo tante, benchè crude, vittorie,
     A farsi dileggiar dal popol tutto.
     S’apra l’abisso, e questa schiava inghiotta,
     Se menzogna vi dissi.
Cal. Non chiamarti,
     Donna, sì gran sventure. Io già ti credo.
     Or via, dì a Turandotte, ch’io ben posso
     Sospender il cimento. Miglior fama
     Ella s’acquisterà, che co’ cimenti,
     A cambiar il suo core, a far palese.
     Che di pietà è capace, che risolta
     È di darmi la cara amata destra
     Per consolar un disperato amante,
     Un padre, un Regno. Il tuo felice annunzio,
     Serva, saria mai questo?
Zel. No, Signore;
     Non pensiamo così. La debolezza
     Scusar si deve in noi. La Principessa
     Una grazia vi chiede. Ella sol salva
     Vuol la sua vanagloria, e nel Divano
     Que’ nomi poter dire; indi pietosa
     Discender dal suo trono, e la sua destra
     Con atto generoso unire a voi.
     Qui siamo soli; a voi poco ciò costa.
     Guadagnate quel cor. Sì bella sposa
     Tenera abbiate, e non sdegnata, e a forza.
Cal. (con sorriso) Al terminar quest’ultimo discorso,
     Schiava, ommesse hai le solite parole.

[p. 300 modifica]

Zel. Quai parole, Signor?
Cal. S’apra l’abisso,
     E questa schiava nel suo centro inghiotta.
     Se menzogna vi dissi.
Zel. Dubitate,
     Ch’io non vi dica il ver?
Cal. Dubito in parte,
     E sì forte è ’l mio dubbio, ch’io ricuso
     D’appagarti di ciò. Va a Turandotte,
     Dille, che m’ami, e ch’io le niego i nomi
     Per eccesso d’amor, non per offesa.
Zel. (con audacia) Imprudente, non sai quanto costarti
     Può questa ostinazion.
Cal. Costi la vita.
Zel. (fieramente) E ben; pago sarai, (a parte)
     Vana fu l’opra. (entra dispettosa)
Cal. Ite, inutili larve. Ah, le parole
     Di Schirina m’affliggono. Vorrei,
     Che l’infelice madre... il padre mio...
     Alma, resisti. Ancor poche ore mancano
     A saper tutto, a uscir d’angoscia, e spasmo.
     Riposiam, se si può. (siede sul sofà) La travagliata
     Mente brama riposo, e par, che venga
     Sonno a recar conforto a queste membra.
     (s’addormenta)

[p. 301 modifica]


SCENA OTTAVA.


Truffaldino e Calaf che dorme.



Truff. Entra adagio, e dice con voce bassa, che
     può buscare due borse d’oro, se giugne a rilevare
     i due nomi dall’ignoto, il quale opportunamente
     dorme. Ch’egli ha comperata con un
     soldo dal N. N., ciarlatano in Piazza, la mirabil
     radice della mandragora, che posta sotto il
     capo di chi dorme fa parlare in sogno il dormiente,
     e lo fa confessare ciò, che si vuole.
     Narra degli stupendi casi avvenuti sul proposito,
     cagionati dalla virtù di quella radice, narrati
     da N. N. ciarlatano, ecc. S’accosta a Calaf
     adagio, gli mette la radice sotto al capo,
     si tira indietro, sta in ascolto, fa de’ lazzi ridicoli.
     Calaf Non parla, fa alcuni movimenti
     colle gambe, e colle braccia. Truffaldino S’imagina,
     che que’ movimenti sieno parlanti per virtù
     della mandragora. S’idea, ch’ogni movimento
     sia una lettera dell’alfabeto. Da’ movimenti di
     Calaf interpreta lettere, e forma, e combina un
     nome strano e ridicolo a suo senno; indi allegro
     sperando d’aver ottenuto quanto voleva, entra.

[p. 302 modifica]


SCENA NONA.


Adelma, velata la faccia, con un torchietto, e
Calaf che dorme.



Adel. (da se) Tutte le trame mie non saran vane.
     Se invan tentossi aver i nomi, invano
     Forse non tenterò di meco trarlo
     Fuori da queste mura, e farlo mio.
     Sospirato momento! Amor, che forza
     Sin’ or mi desti, e ingegno; e tu, fortuna,
     Che modo mi donasti, onde potei
     Tanti ostacoli vincere, soccorri
     Quest’amante affannata, e fa, ch’io possa
     Giugnere al fin de’ miei disegni audaci.
     Fammi contenta, amor. Fortuna, spezza
     Queste di schiavitù vili catene. (guarda col lume Calaf)
     Dorme l’amato ben. Ti rassicura,
     Cor mio; non palpitar. Care pupille,
     Quanta pena ho a sturbarvi! Ah, non si perda
     Un momento a’ disegni. (ripone il lume, poi
     con voce alta
) Ignoto, destati.
Cal. (destandosi, e levandosi spaventato)
     Chi mi risveglia? chi sei tu? che chiedi.
     Nuova larva insidiosa? avrò mai pace?
Adel. Qual furor! Di che temi? In me ravvisa
     Una donna infelice, che non viene
     Per saper il tuo nome, e, se pur brami
     Di saper, chi io mi sia, siedi, e m’ascolta.

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Cal. Donna, a che in queste stanze? Invan, t’avverto,
     Tradirmi tenti.
Adel. (con dolcezza) Io per tradirti! ingrato!
     Deh mi narra, stranier: Fu quì Schirina
     A tentarti d’un foglio?
Cal. Fu a tentarmi.
Adel. (precipitosa) Non l’appagasti già?
Cal. Non l’appagai;
     Che sì stolto non fui.
Adel. Ringrazia il Cielo.
     Fu quì una schiava con raggiri industri
     Per saper, chi tu sia?
Cal. Si, fu; ma andossi
     Senza saperlo, come tu anderai.
Adel. Mal sospetti. Signor, mal mi conosci.
     Siedi, m’ascolta, e poi di traditrice,
     Se lo puoi, mi condanna. (siede sul sofà)
Cal. (sedendole appresso) Or ben, mi narra;
     Dimmi, che vuoi da me?
Adel. Prima, che guardi
     Voglio queste mie spoglie, e che palesi,
     Chi ti credi, ch’io sia.
Cal. (esaminandola) Donna, s’io guardo
     A’ gesti, al portamento, all’aere altero,
     Maestà tutto ispira. Alle tue spoglie
     Schiava umil mi rassembri, e già ti vidi
     Nel Divan, s’io non erro, e ti compiango.
Adel. Ben ti compiansi anch’io, cinqu’anni or sono,
     Vedendoti servire in basso stato,

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     E più quand’oggi nel Divan ti scorsi.
     Mel disse un giorno il cor, che tu non eri
     Nato a vili servigi. So, ch’io feci
     Quanto potei per te, quando il mio stato
     Soccorso potea dar. So, che i miei sguardi,
     Per quanto puote una real donzella,
     Ti parlavano al cor. (si svela) Dì, questo volto,
     Mira, vedesti mai?
Cal. (sorpreso) Che miro! Adelma,
     De’ Carazani Principessa! Adelma,
     Creduta estinta!
Adel. Di Cheicobad,
     De’ Carazani Re, tra lacci indegni
     Di schiavitù miri la figlia Adelma,
     Per regnar nata, ed a servir ridotta,
     Miserabile ancella, oppressa, afflitta. (piange)
Cal. Morta ti pianse ognun. Qual mai ti veggio!
     Del gran Cheicobad figlia! Regina!
     In catene! vil serva!
Adel. Sì, in catene.
     Non istupir, non isdegnar, ch’io narri
     Delle miserie mie l’aspra cagione.
     Ebbi un fratel, che fu cieco d’amore,
     Come sei tu, di Turandotte altera.
     S’espose nel Divan. (piangendo) Fra i molti teschi
     Fitti sopra alla porta, avrai veduto,
     Spettacolo crudele! il capo amato
     Del caro mio fratel, ch’io piango ancora. (piange dirottamente)

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Cal. Misera! Udii narrare il caso altrove,
     Lo credei fola, or così dir non posso.
Adel. Cheicobad, mio padre, uom coraggioso,
     Sdegnato del fin barbaro del figlio,
     Radunò le sue forze, ed ebbe core,
     Per vendicar il figlio, d’assalire
     Gli stati d'Altoum. La sorte iniqua
     Gli fu contraria, e fu sconfitto, e morto.
     Un Visir d'Altoum senza pietade
     Volle estirpar della famiglia nostra.
     Per gelosia di stato, ogni rampollo.
     Tre miei fratelli trucidati furo,
     La madre mia, colle sorelle mie
     Meco scagliate in un rapido fiume
     A terminar i giorni. In sulla riva
     Il pietoso Altoum giunse, e sdegnato
     Contro al Visir, fe’ ripescar nell’acque
     Nostre misere vite. Era mia madre
     Colle sorelle morta. Io, più infelice.
     Semiviva fui tratta, e in diligenza
     Alla vita riscossa, indi in trionfo
     Schiava alla cruda Turandotte in dono
     Mi diede il padre suo. Principe ignoto,
     Se d’uman sentimento non sei privo
     Compiangi i casi miei. Pensa a qual costo,
     Con qual core a servir schiava m’indussi
     Delle miserie mie la cagion prima,
     L’abborribile oggetto de’ miei mali,
     In Turandotte. (piange)
Cal. (commosso) Sì, pietà in me destano.

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     Principessa, i tuoi casi; ma la prima
     Cagion de’ mali il fratel tuo fu certo,
     Indi ’l padre imprudente. E che mai puote,
     Adelma, Principessa, in tuo favore
     Un sfortunato oprar? S’io giungo al colmo
     De’ miei desir, spera da un core umano
     Libertade, e soccorso. Or il racconto
     Delle sciagure tue non fa, che accrescere
     Mestizia alla mestizia, che m’opprime.
Adel. A te mi palesai, scoprendo il volto.
     Noto t'è ’l mio lignaggio, e note or sono
     Le mie sventure a te. Vorrei, che l’essere
     Nata figlia di Re trovasse fede
     A quanto, mossa da compassione,
     Giacchè mossa da’ amor dir non ti deggio,
     Mi convien palesarti. Oh voglia il Cielo,
     Quantunque io sia chi son, ch’un core amante,
     Per Turandotte prevenuto, e cieco,
     Mi presti fede, ed i veraci detti
     Contro di Turandotte non disprezzi.
Cal. Dimmi, Adelma, alla fin che vuoi narrarmi?
Adel. Narrarti io vo’... Ma tu dirai, ch’io sono
     Qui giunta per tradirti, e mi porrai
     Coll’altre anime vili a servir nate. (piange)
Cal. Non mi tener, Adelma, in maggior strazio.
     Delle viscere mie, dì, che vuoi dirmi?
Adel. (a parte) Ciel, fa, ch’ei creda alla menzogna mia.
     (a Calaf con fora) Signor, la cruda Turandotte irata,

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     La scellerata Turandotte iniqua,
     Di trucidarti alla nuov’alba ha dati
     Gli opportuni comandi. Sono queste
     Delle viscere tue le amanti imprese.
Cal. (sorpreso, levandosi furiosamente) Di trucidarmi!
Adel. (levandosi con sommo vigore) Trucidarti, sì.
     All’uscir tuo diman da queste stanze,
     Venti, e più ferri acuti in quella vita
     S’immergeranno, e tu cadrai svenato.
Cal. (smanioso) Avvertirò le guardie. (in atto di partire)
Adel. (trattenendolo) No: che fai?
     Se tu speri, Signor, di dar avviso
     Alle guardie, e salvarti... Oh te meschino!
     Non sai, dove tu sia... quanto s’estenda
     Della cruda il poter... dove sien giunti
     I maneggi, le trame, i tradimenti.
Cal. (in disperato cieco trasporto) Oh misero Calaf...
     Timur... mio padre...
     Ecco il soccorso, ch’io ti reco alfine.
     (resta fuori di sè addolorato colle mani alla fronte)
Adel. (sorpresa a parte) Calaf, figlio a Timur! Oh fortunata
     Menzogna mia! Tu a doppio favorisci
     Forse quest’infelice. Amor, m’assisti,
     Colorisci i miei detti, e, s’ei non cede,
     Ho quanto basta ad annullar la brama
     D’esser di Turandot.
Cal. (segue disperato) Or che ti resta,

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     Scellerata fortuna, porre in opra
     Dopo tante miserie co’ tuoi colpi
     Contr’un oppresso, un disperato, un Principe
     Tutto amor, tutto fede, ed innocenza?
     E fia di tanto, sì, di tanto fia
     Capace Turandotte!... Ah, non può darsi
     Un cor sì traditore in sì bel volto, (con isdegno)
     Principessa, m’inganni.
Adel.                                      Io non m’offendo
     Del torto, che mi fai. Già ben previdi
     Che dubitar dovevi. Sappi, ignoto.
     Che per l’enigma tuo là nel Serraglio
     Furente è Turandot. Ella già scorge
     Impossibil l’impresa del disciorlo.
     (caricata) Forsennata passeggia, e, come cagna,
     Latra, si scuote, si difforma, e grida.
     Verde ha la faccia, di color sanguigno
     Ha gli occhi enfiati, loschi, e ’l ciglio oscuro.
     Orrida ti parrebbe, e non più quella,
     Che nel Divan t’apparve. Io m’ingegnai
     Di colorir le tue soavi forme,
     Per placare i trasporti, e tutto feci,
     Perch’ella in suo consorte ti prendesse.
     Ogni sforzo fu vano. Alcune insidie
     Ella ordì; tu le sai. S’eran fallaci,
     A certi suoi fedeli Eunuchi diede
     Ordine d’ammazzarti a tradimento.
     Son più vasti i comandi. Infernal alma
     Peggior non nacque, e tu compensi morte,
     Oh’hai sopra il capo, alla crudel d’amore

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     Se tu non credi, il torto, che mi fai,
     Men mi dorrà, che ’l mal, che a te sovrasta. (piange)
Cal. Dunque in mezzo a’ soldati d’un Monarca,
     Posti per mia salvezza, io son tradito!
     Ah, ben mel disse quel ministro infame,
     Che interesse e timor spezza ogni fede.
     Vita, più non ti curo. Invan si tenta
     Fuggir da cruda stella, che persegue.
     Barbara Turandot, in questa forma
     Paghi un amante fuor di sè medesmo,
     Che s’abbassa, si sforza, e l’impossibile
     Vince in se stesso ad appagar tue brame? (furioso)
     Vita, più non ti curo. Invan si tenta
     Fuggir da cruda stella, che persegue.
Adel. Ignoto, di fuggir tua cruda stella
     T’apre Adelma una via. Sappi, un tesoro
     Giusta compassion m’indusse a spendere
     Per corromper le guardie. Io cerco trarre
     Te dalla morte, e me dalle catene.
     Là nel mio Regno in sotterraneo loco
     Altro immenso tesoro sta nascosto.
     Congiunta son di sangue, e d’amistate
     Ad Alinguere, Imperator di Berlas.
     Quì tra le guardie un numero è già pronto
     Per scorta mia. Destrier parati sono.
     Fuggiam da queste sozze orride mura
     In odio ai Dei. Forze avrò in campo, ed armi,
     Unite a quelle d’Alinguer, di Berlas,

[p. 310 modifica]

     Da riscattare il Regno mio. Fia tuo.
     Tua questa destra fia, se gratitudine
     Per me ti prende, e, se ti spiace il nodo,
     Fra Tartari non mancan Principesse,
     Che avanzano in bellezza questa fiera,
     Affettuose in cor, degne del tuo;
     Suddita io resterò. Pur che tu sia
     Salvo da morte, e ch’io d’indegno laccio
     Esca di schiavitù, saprò in me vincere
     Quell’amor, che mi strugge, e che rossore
     Mi prende a palesarti. Ah, la tua vita
     Ti stia a cor solamente, ed abborrisci,
     Quanto vuoi, questa destra. E presso il giorno...
     Io mi sento morir... stranier, fuggiamo.
Cal. Adelma generosa! Oh qual dolore
     Provo per non poter condurti a Berlas,
     Trarti di schiavitù. Che mai direbbe
     Altoum della fuga? Egli a ragione
     Mi diria traditor; che per rapirti
     Le sacre leggi d’ospitalitade
     Non curai di tradir.
Adel. Anzi la figlia
     D'Altoum le tradisce.
Cal. Io non ho ’l core,
     Che più sia mio. Godrò morendo, Adelma,
     Per commession d’una crudcl che adoro.
     Tu puoi fuggire. Io risoluto sono
     Di morir per colei. Che val la vita?
     Senza di Turandotte io più, che morto,
     Mi considero al mondo: ella s’appaghi.

[p. 311 modifica]

Adel. Dì tu da ver! sì cieco sei d’amore?
Cal. Sol d’amore, e di morte io son capace.
Adel. Ah, ben sapea, stranier, che la tiranna
     Di bellezza m’avanza, e sperai solo,
     Che ’l mio cor differente gratitudine
     Potesse ritrovar. Io non mi curo
     De’ disprezzi, che soffro, e sol mi preme
     L’adorabìl tua vita. Deh fuggiamo:
     Salva quella tua vita, io ti scongiuro.
Cal. Adelma, io vo’ morir; son risoluto.
Adel. Ingrato! resta pur; per tua cagione
     Io pur non fuggirò, rimarrò schiava,
     Ma per momenti ancor. Se ’l Ciel m'è contro,
     Vedrem chi di noi due la propria vita
     Sa sprezzar maggiormente a’ casi avversi.
     (a parte) Perseveranza amor premia sovente.
     Calaf di Timur figlio? (alto) Ignoto, addio. (entra)
Cal. Notte più cruda chi passò giammai?
     Combattuto lo spirto da un ardente
     Amor, che mi distrugge. Sfortunato,
     Dall’amata abborrito, circuito
     Da tante insidie, ed intronato il capo
     Da funeste novelle di mia madre,
     Del genitor, del servo, e, quando io spero
     D’esser in porto, in mezzo a chi mi salvi,
     Al colmo d’ogni gioia, trucidato
     Mi vuol chi è la mia vita, e chi tant’amo.
     Turandotte spietata! Ah, ben mi disse
     La tua schiava crudele, a cui non volli

[p. 312 modifica]

     Palesar il mio nome, e quel del padre,
     Che la mia ostinazion costar dovrebbe
     A caro prezzo. Or ben, già spunta il sole, (si rischiara)
     Tempo è, che ’l sangue mio satolli alfine
     La serpe, che n'è ingorda. Usciam d’angoscia.


SCENA DECIMA.


Brighella, guardie e Calaf.


Brig. Altezza, questa xe l’ora del gran cimento.
Cal. (agitato) Ministro, sei tu quello?... Via, s’adempiano
     Gli ordini, c’hai. Crudel, finisci pure
     Di troncar i miei giorni; io non li curo.
Brig. (attonito) Che ordeni! Mi no go altro ordene,
     che de farla incamminar verso el Divan,
     perchè l'Imperator s’ha za pettenà la barba
     per far l’istesso.
Cal. (con entusiasmo) Vadasi nel Divan. Già nel Divano
     So che non giugnerò. Vedi, se intrepido
     Io so andar a morir. (getta la spada) Non
     vo’ difesa.
     Sappia almen la crudel, che ignudo esposi
     Volontario il mio seno alle sue brame. (entra furioso)
Brig. (sbalordito) Cossa diavolo diselo! Gran

[p. 313 modifica]

     maledette femene! No le l’ha lassa dormir, e le ga
     fatto zirar la barilla. Olà, presentè l’arme, compagnelo,
     steghe attenti. (entra. Odesi un suono
     di tamburi, e d’altri strumenti
)