Turandot (Carlo Gozzi)/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto
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ATTO TERZO

Camera del Serraglio.



SCENA PRIMA.

Adelma e una Schiava Tartara sua confidente.


Adel. (con fierezza)
     Ti proibisco il favellarmi ancora.
     Già capace non son de’ tuoi consigli:
     Altro mi parla al cor. Possente amore,
     Che dell’ignoto Principe m’abbrucia,
     Odio, che a questa empia superba io porto,
     Dolor di schiavitù. Troppo ho sofferto.
     Scorsi cinqu’anni or son che dentro al seno
     Chiudo il velen, rassegnazion dimostro,
     E amor per questa ambiziosa donna.
     Della miseria mia prima cagione.
     In queste vene real sangue scorre,
     Tu ’l sai, nè Turandot m'è superiore.
     In vergognosi lacci schiava umile

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     E sino a quando una mia pari deve,
     Come ancella, servir? Gli sforzi estremi
     Per simular m’hanno già resa inferma;
     Di giorno in giorno io mi distruggo, come
     Neve al sol, cera al foco. Dì, conosci
     In me più Adelma? Io risoluta sono
     Oggi d’usar quant’arte posso. Io voglio,
     Per la strada d’amor, di schiavitude,
     O di vita fuggir.
Sch. No, mia Signora...
     No, non è tempo ancor...
Adel. (con impeto) Va, non tentarmi,
     Ch’io soffra più. D’un solo accento, un solo
     Non molestarmi ancora. Io tel comando.
     (la schiava, fatto un inchino con una mano alla
     fronte, timorosa partirà)
     Ecco la mia nimica, accesa l’alma
     Di rabbia, di vergogna, forsennata,
     Fuor di sè stessa. È questo il vero punto
     Di tentar tutto, o di morir. S’ascolti. (si nasconde)


SCENA SECONDA.

Turandot, Zelima, indi Eunuchi.


Tur. Zelima, più non posso. Sol pensando
     Alla vergogna mia, sento, che un foco
     L’alma mi strugge.
Zel. Come mai. Signora,
     Un sì amabile oggetto, un sì bell’uomo,

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     Sì generoso, tanto innamorato
     Può destarvi nel seno odio, e puntiglio?
Tur. Non tormentarmi... sappi... ah mi vergogno
     A palesarlo... ei mi destò nel petto
     Commozioni a me ignote... un caldo... un gelo...
     No, non è ver. Zelima, io l’odio a morte.
     Ei della mia vergogna nel Divano
     Fu la cagion. Per tutto il Regno, e fuori
     Si saprà, ch’io fui vinta, e riderassi
     Dell’ignoranza mia. Dimmi, se ’l sai,
     Soccorrimi, Zelima. Il padre mio
     Diman vuol, che nell’alba si raduni
     L’assemblea de’ Dottori, e, s’io mal sciolgo
     L’oscurissimo enigma, ch'è proposto,
     Vuol, che seguan le nozze in quel momento.
     Di chi figlio è quel Principe, e qual nome
     Porta lo stesso Principe, ridotto
     A mendicar il pane, a portar pesi
     A prezzo vil per sostener la vita;
     Che giunto al colmo di felicitade
     È sventurato ancor più che mai fosse?

     Lo scorgo ben, che questo sconosciuto
     È ’l Principe proposto; ma chi puote,
     Del padre il nome indovinar, e ’l suo?
     S'è sconosciuto? Se l'Imperatore
     Grazia gli diè di star occulto insino
     Alla fin del cimento? Io l’accettai
     Per non ceder la destra. Ah ch'è impossibile
     Ch’io l’indovini. Dì, che far potrei?
Zel. Quivi in Pechin v'è ben, chi l’arte magica

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     Perfettamente sa. V'è, chi la cabala
     Sa trar divinamente; ad un di questi
     Voi ricorrer potreste.
Tur. Io non son folle,
     Come tu sei, Zelima. Per il volgo
     Sono questi impostori, e l’ignoranza
     È fruttifero campo a tali astuti.
     Altro non suggerisci?
Zel. Io vi ricordo
     Le parole, i sospiri, il duolo intenso
     Di quell'Eroe. Come prostrato a’ piedi
     Del padre vostro con sì bella grazia
     Per voi chiese favor.
Tur. Non dir più oltre.
     Sappi, che questo core... Ah non è vero...
     Io l’odio a morte. Io so, che tutti perfidi
     Gli uomini son, che non han cor sincero,
     Ne capace d’amor. Fingono amore
     Per ingannar fanciulle, e appena giunti
     A possederle, non più sol non le amano,
     Ma ’l sacro nodo marital sprezzando
     Passan di donna in donna, nè vergogna
     Gli prende a dar il core alle più vili
     Femminette del volgo, alle più lorde
     Schiave, alle meretrici. No, Zelima,
     Non parlar di colui. Se diman vince,
     Più che morte l’abborro. Figurandomi
     Moglie soggetta ad uom, immaginando,
     Ch’ei m’abbia vinta, sento, che ’l furore
     Mi trae fuor di me stessa.

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Zel. Eh, mia Signora,
     È l’età vostra fresca, che alterigia
     Vi desta in cor. Verrà l’età infelice,
     Che i concorrenti mancheranno, e allora
     Vi pentirete invan. Che mai perdete?
     Qual fanatica gloria, e qual’onore?
Adel. (che a poco a poco si sarà fatta innanzi
     ascoltando, interrompendola con gravità
)
     Chi bassamente è nata non ha idee
     Da quelle di Zelima differenti.
     Scusa, Zelima. D’una Principessa,
     Che in un Divan con pubblico rossore,
     Dopo un corso di gloria, e di trofei,
     Da un ignoto sia vinta, mal conosci
     La necessaria doglia, e la vergogna.
     Io con questi occhi vidi l’esultanza
     Di cento maschi, e un beffeggiar maligno
     Sugli enigmi proposti, quasi fossero
     Sciocchi enigmi volgari, e n’ebbi sdegno,
     Perch’io l’amo da ver. Che mi dirai
     Della sua circostanza? Ella è ridotta
     Contro l’istinto suo, contro sua voglia,
     Sforzatamente a divenir consorte.
Tur. (impetuosa) Non m’accender di più.
Zel. Ma qual sventura
     È divenir consorte?
Adel. Eh taci, taci.
     Obbligo non hai tu d’intender, come
     Un magnanimo cor de’ risentirsi.
     Non sono adulatrice. E ti par poco,

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     Ch’ella impegnata siasi con franchezza
     D’indovinar que’ nomi; e d’apparire
     Dimani nel Divano in faccia al volgo?
     Che rimarrà, se in pubblico apparita
     Scioccamente risponde, o là confessa,
     Che fu stolto il suo assunto! Ah che mi sembra
     Mille scherzi di beffe, e aperte risa
     Del popolo sentir, quasi ella fosse
     Un’infelice comica, che caggia
     In error sulla scena.
Tur. (furiosa) Sappi, Adelma,
     Se i nomi non iscopro, in mezzo al Tempio,
     (Già risoluta sono) in questo seno
     M’immergerò un pugnal.
Adel. No, Principessa.
     Per scienza, od inganno si de’ sciorre
     Quell’enigma proposto.
Zel. Ben; se tanto
     Adelma l’ama e più di me capisce,
     Più di me la soccorra.
Tur. Cara Adelma,
     Soccorrimi. Del padre il nome, e ’l suo
     Come deggio saper, se nol conosco,
     Ne so, d’onde sia giunto?
Adel. Ei nel Divano
     So che disse aver gente qui in Pechino,
     Che lo conosce. Si de’ por sossopra
     La città tutta, ed oro e gemme spendere.
     Tutto si de’ poter.
Tur. D’oro, e di gemme

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     Disponi a voglia tua. Pur ch’io lo sappia,
     Non si curi un tesoro.
Zel. e dove spenderlo?
     Di chi cercar? Con qual cautela, e come,
     Quand’anche si sapesse, un tradimento
     Tener occulto, e far che non si sappia,
     Che per inganno, e non per sua virtude
     Ell’ha carpiti i nomi?
Adel. Sarà forse
     Zelima traditrice a discoprirlo?
Zel. (con ira) Ah troppo offesa son. Mia Principessa,
     Risparmiate il tesoro. Io mi credea
     Di placar l’alma vostra, e persuadervi
     Sperava a dar la destra ad un ben degno
     Tenero amante, che a pietà mi mosse.
     Trionfi in me parzialità, ch’io deggio
     A chi deggio ubbidir. Fu quì Schirina
     La madre mia. Fu a visitarmi allegra
     Per gli enigmi disciolti, e non sapendo
     Del novello cimento di dimani
     Mi palesò, che ’l Prence forestiere
     Alloggiò nel suo albergo, indi che Assan,
     Mio patrigno il conosce, e che l’adora.
     Chiesi del nome suo, ma protestommi,
     Ch'Assan non glielo disse, e ch’anzi nega
     Di volerglielo dire. Ella promise
     Di far quanto potrà. Dell’amor mio
     La mia Regina or dubiti, se ’l merto.
     (entra dispettosa)

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Tur. Vien, Zelima, al mio sen, perchè tenvai?...
Adel. Turandotte, Zelima v’ha scoperta
     Qualche util traccia, ma è imbecil di mente.
     Stoltezza è lo sperar, che volontario,
     Non usando l’ingegno, il suo patrigno
     Palesi i nomi or che saprà ’l cimento.
     Non si perda più tempo. In più celata
     Parte un consiglio mio vo’, ch’eseguiate,
     Se credete al mio amor.
Tur. Sì, amica, andiamo
     Pur che ’l stranier non vinca, io farò tutto. (entra)
Adel. Amor, tu mi soccorri, e tu seconda
     I miei desiri, onde di schiavitude
     Possa uscir lieta. M’apra la superbia
     Di questa mia nimica e strada, e campo. (entra)


SCENA TERZA.

Sala della Reggia.

Calaf e Barach.


Cal. Ma se ’l mio nome, e quello di mio padre
     Noti in Pechino solamente sono
     Alla tua fedeltà. Se ’l Regno nostro
     Da questa regione e sì lontano,
     Ed è perduto ben ott’anni or sono.
     Occulti siam vissuti, e fama è scorsa,
     Che la morte ci colse. Eh che si perde

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     Di chi cade in miseria la memoria
     Facilmente, Barach.
Bar. No, fu imprudenza;
     Scusatemi, Signor. Gli sventurati
     Anche degl’impossibili temere
     Devono sempre. Le muraglie, i tronchi,
     Le inanimate cose acquistan voce
     Contro gli sfortunati, e tutto han contro.
     Io non mi so dar pace. Avete in sorte
     Vinta una donna sì famosa, e bella,
     Vinto un sì vasto regno al grave rischio
     Di quella vita, e poi tutto ad un tratto,
     Per fralezza di cor, tutto è perduto.
Cal. Non misurar Barach coll’interesse
     Il mio tenero amor. Di Turandot,
     Sola mia vita, non vedesti, amico
     L’ira, il furor, nè la disperazione
     Contro a me nel Divan.
Bar. Doveva un figlio,
     Più che al furor di Turandot, già vinta,
     Pensar alla miseria, in cui lasciati
     Ha i genitor meschini un giorno a Berlas.
Cal. Non mi rimproverar. Volli appagarla.
     Tento ammollir quel cor. L’azion, ch’io feci,
     Forse non le dispiacque. Una scintilla
     Forse di gratitudine ora sente.
Bar. Chi! Turandotte! Ah, mal vi lusingate.
Cal. Perderla già non posso. Dì, Barach,
     Tu non mi palesasti, è ver? Avresti
     Alla tua sposa detto, chi io mi sia?

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Bar. No, Signor, non gliel dissi. A’ cenni vostri
     Sa Barach obbedir. Pur non so quale
     Presentimento mi spaventa, e tremo.


SCENA QUARTA.

Pantalone, Tartaglia, Brighella, soldati e sopraddetti.


Pant. (uscendo affaccendato) Oh velo qua, velo
     qua per diana.
Tart. (a Calaf) Altezza, chi è costui?
Pant. Mo dove se fichelo? con chi parlela?
Bar. (a parte) Misero me, che fia!
Cal. Questo è a me ignoto.
     Qui lo trovai per accidente. A lui
     Chiedea della città, de’ riti, d’altro.
Tart. Perdonatemi, voi siete un ragazzo col cervello sopra al turbante, e avete un animo troppo cortese. Me ne sono accorto nel Divano. Perchè diavolo avete fatta quella balordaggine?
Pant. Oh basta, quel che xe fatto, xe fatto. Altezza, ella no sa in quanti pie de acqua che la sia, e se no averemo i occhi nù sulla so condotta, ella se lasserà far zo, come un parpagnacco. (a Bar.) Sier mustacchi caro, questo no xe logo per vu. Ella, Altezza, la se contenta de ritirarse in tel so appartamento. Brighella, za xe dà l’ordene, che se metta sull’arme domile soldai de guardia, e vu custodirè

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     coi vostri paggi sin domattina le porte della so abitazion, perchè no ghe entra nissun. Tolelo in mezzo alle arme, e fè’ el vostro debito. Questo xe ordene dell'Imperator, sala? El s’ha innamorà de ella, no gh'è caso, el trema, che nassa qualche accidente. Se no la deventa so zenero domattina, mi credo, che quel povero vecchio mora certo dalla passion. Ma la me scusa, la xe stada una gran puttellada quella d’ancuo! (basso a Calaf) Per carità no ghe sbrissasse mai de bocca el so nome; se però la ghelo disesse a sto vecchietto onorato pian pianin, el lo receveria per una gran finezza. Ghe fala sto regalo?
Cal. Vecchio, mal ubbidite al Signor vostro.
Pant. Ah bravo! O, a vù, sier Brighella.
Brig. La finissa pur ella le chiaccole, che mi farò
     i fatti.
Tart. Signor Brighella, guardate bene, che ci va
     la testa.
Brig. Conosso el merito della mia testa, e no go
     bisogno de recordi.
Tart. (basso a Calaf) Sono curioso, che crepo, di
     sapere il vostro nome. Uh, se mi faceste la
     grazia di dirmelo, lo saprei tenere rinchiuso
     nelle budella io.
Cal. Invan mi tenti; al nuovo dì ’l saprai.
Tart. Bravissimo, cospetto di bacco.
Pant. Altezza, ghe son servitor. (a Barach) E vu,
     sier mustacchi caro, farè megio a andar a fumar

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     una pipa in piazza, che a star qua in sto palazzo. Ve consegio a andar per i fatti vostri, che farè megio. (entra)
Tart. Oh meglio assai. M’hai un certo ceffo da
     birbante, che non mi piace nulla. (entra)
Brig. La me permetta, che obbedissa a chi pol comandar. La fazza grazia de restar servida subito in tel so appartamento.
Cal. Sì, teco sono. (a Barach) Amico, a rivederci.
     Ci rivedremo in miglior punto. Addio.
Bar. Signore, vi son schiavo.
Brig. Allon, allon, fìnimo le ceremonie. (ordina ai soldati di prender nel mezzo all’armi Calaf, ed entrano)


SCENA QUINTA.

Barach indi Timur. Timur sarà un vecchio tremante con un vestito che dinoti un’estrema miseria.


Bar. (verso Calaf, che parte nel mezzo all’armi)
     Il Ciel t’assista,
     Principe incauto. Dal mio canto certo
     Custodirò la lingua.
Tim. (vedendo partire il figliuolo nel mezzo
     all’armi, agitato da sè
)
     Oimè! mio figlio!
     In mezzo all’armi! Ah che ’l Soldan tiranno
     Di Carizmo, crudele usurpatore
     Del Regno mio, sino in Pechin l’ha giunto!

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     Io seco morirò, (disperato e in atto di seguirlo)
     Calaf, Calaf...
Bar. (sorpreso sguainando la scimitarra, e pigliandolo
     per un braccio
)
     Vecchio ti ferma, taci, o ch’io ti uccido.
     Chi sei tu! donde vieni? come sai
     Di quel giovane il nome?
Tim. (guardandolo) Oh Dio!... Barach...!
     Tu quì in Pechin! Tu ribellato ancora!
     Col ferro in pugno contro al tuo Monarca
     In miseria ridotto, e contro al figlio?
Bar. (con somma sorpresa) Tu sei Timur!
Tim. Sì, traditor... ferisci...
     Tronca pur i miei giorni. Io son già stanco
     Di viver più; nè sopravviver voglio,
     Se i più fidi ministri ingrati or miro
     Per interesse vil; se ’l figlio mio
     Sacrificato al barbaro furore
     Del Sultan di Carizmo io veggio alfine. (piange)
Bar. Signor... misero me!... questo è ’l mio Prence!
     Sì, pur troppo ’l ravviso. (s’inginnocchia) Ah mio Sovrano,
     Io vi chiedo perdono... Il furor mio
     Fu per amor di voi... Per quanto caro
     V'è ’l vostro figlio, mai di bocca v’esca
     Nè ’l nome di Timur, nè quel del figlio.
     Io quì mi chiamo Assan, non più Barach.
     (sorgendo, e guardando intorno e agitato)
     Ahi, che forse fu inteso. Dite... dite...
     Elmaze, vostra sposa, è quì in Pechino?

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Tim. (sempre piangendo) Non mi rammemorar la
     cara sposa.
     Barach, in meschinello asilo in Berlas
     Tra le passate angosce, e le presenti,
     Cedendo al rio destin, col nome in bocca
     Dell’amato suo figlio, ed appoggiando
     A questo afflitto sen la cara fronte.
     Tra queste braccia sfortunate e stanche.
     Me confortando, spirò l’alma, e giacque.
Bar. (piangendo) Misera Principessa!
Tim. Io disperato
     In traccia dell’amato figlio mio,
     E in traccia della morte in Pechin giunsi,
     E appena giunto il misero mio figlio
     Veggo tra l’armi al suo destin condotto.
Bar. Partiam, Signor. Del figlio non v’incresca.
     Diman fors'è felice; in un felice
     Diverrete anche voi, pur che non v’esca
     Dalle labbra il suo nome, e ’l nome vostro.
     Io quì Barach non son, ma Assan mi chiamo.
Tim. Qual arcano mi dì?...
Bar. Farò palese
     Lungi da queste mura ogni secreto.
     Partiam tosto, Signor, (guarda intorno con sospetto)
     Ma che mai vedo!
     Schirina dal Serraglio! Ohimè! meschino!
     D’onde vieni? a che andasti?

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SCENA SESTA.

Schirina e detti.



Sch. L’allegrezza,
     Che l’ignoto gentile ospite nostro
     Vittorioso sia; curiositade
     Di saper, come quella tigre ircana
     S’assoggettasse a divenir consorte,
     Nel Serraglio mi spinse, e con Zelima,
     Figlia mia, m’allegrai.
Bar. (sdegnoso) Femmina incauta...
     Tu non sai tutto, e garrula ghiandaia
     Ten corresti al serraglio. Io ti cercai
     Per proibirti ciò, che tu facesti.
     Ma stolta debolezza femminile
     Più sollecita è sempre d’ogni saggio
     Pensier dell’uom, che rare volte è a tempo.
     Quai discorsi tenesti? Udirti parmi
     Nella folle allegrezza a dir: L’ignoto,
     Zelima, ospite è nostro, e mio consorte
     Lo conosce, e l’adora. Ciò dicesti?
Sch. (mortificata) Che! saria mal, se ciò le avessi detto?
Bar. No, confessalo pur: dì, gliel dicesti?
Sch. Gliel dissi: ella volea dopo, che ’l nome
     Le palesassi; e a dirti ’l ver, promisi...
Bar. (impetuoso) Misero me! perduto sono... Ahi stolta!...
     Fuggiam di qua.

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Tim. Deh dì; che arcano è questo?
Bar. (agitato) Fuggiam da queste soglie, e di Pechino
     Fuggiamo tosto. (guarda dentro)
     Ohimè! non è più tempo...
     Gli Eunuchi della cruda Turandot...
     (a Schirina) Ingrata... ingrata, folle... Io più non deggio
     Fuggir. Tu fuggi, e questo miserabile
     Salva teco, e nascondi.
Tim. Ma mi narra...
Bar. (basso a Timur) Chiudete il labbro. Il nome vostro mai
     Dalla bocca non v’esca. Tu, mia sposa,
     (con fretta) Se de’ tuoi benefizi, ch’io sia grato...
     Se del mal, che facesti, alcun rimedio
     Desideri di oppor, non nel tuo albergo,
     Ma in altro asilo celati, e quel vecchio
     Teco celato tien, sin che passata
     Sia la metà del nuovo giorno.
Sch. Sposo...
Tim. Con noi vieni. Perchè?...
Bar. Non replicate.
     Di me si cerca, io fui scoperto. Andate.
     Io devo rimaner. Tu non tardare, (guarda dentro)
     Ite a celarvi tosto... m’ubbidite.
Tim. Ma perchè mai non puoi?...
Bar. (inquìeto) Oh Dio! che pena! (guarda dentro)
Sch. Dimmi, in che feci error!

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Bar. Oimè, infelice!...
     (respingendoli) Ite... tacete il nome vostro.
     (guarda dentro) Ah invano
     Getto il tempo, e i consigli... Ingrata sposa!...
     Misero vecchio!... sfortunato vecchio!...
     Tutti fuggiamo adunque... Ah tardi è ornai.
     (tutti in atto di fuggire)


SCENA SETTIMA.

Truffaldino, Eunuchi armati e detti. Truffaldino il fermerà presentando loro l’arme al petto; farà chiudere tutti i passi.


Bar. So, che d'Assan si cerca, io teco sono.
Truff. Che non faccia romore; ch’egli è venuto
     per fargli una grazia grande.
Bar. Sì, nel Serraglio vuoi condurmi. Andiamo.
Truff. Esagera sulla gran fortuna di Assan. Che,
     se una mosca entra nel serraglio, si esamina,
     s'è maschio o femmina, e s'è maschio, s’impala,
     ecc.: chiede, chi sia quel vecchio.
Bar. Quegli è un meschin, ch’io non conosco. Andiamo.
Truff. Che ha fatto conto di voler fare la fortuna
     anche di quel vecchio meschino. Chi sia
     quella donna.
Bar. So, che la tua Signora di me cerca.
     Lascia quel miserabile. La donna
     Io non vidi giammai, nè so, chi sia.
Truff. Collerico rimprovera Barach della bugia

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     detta. Ch’egli la conosce per sua moglie, e per
     madre di Zelima: che l’ha veduta al serraglio.
     Ordina con maestà a’ suoi Eunuchi di coprire
     quelle tre persone, e che col favore del buio
     della notte le conducano nel serraglio.
Tim. Dimmi, che fia di me?
Sch. Io nulla intendo.
Bar. Vecchio, che fia di te? Di me che fia?
     Io tutto soffrirò: tu soffri ancora.
     Non scordarti i miei detti. Or sarai paga,
     Femmina stolta.
Sch. Io son fuor di me stessa.
Truff. Minacciante li fa tutti coprire, ed entrano.