Turandot (Carlo Gozzi)/Atto quinto
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ATTO QUINTO
Il Teatro rappresenta il Divano, come nell’atto secondo. Nel fondo vi sarà un altare con una Deità Chinese, e due Sacerdoti; ma tutto dietro una gran cortina. All’aprirsi della scena Altoum sarà sul suo trono: i Dottori saranno al lor posto; Pantalone e Tartaglia a’ fianchi d'Altoum. Le guardie disposte, come nell’atto secondo.
SCENA PRIMA.
Altoum, Pantalone, Tartaglia, Dottori, guardie, indi Calaf. Calaf uscirà agitato guardandosi intorno sospettoso. Giunto nel mezzo della scena farà un inchino ad Altoum, indi da sè.
Come! Tutta la via felicemente
Scorsi, e l’immagin della morte avendo
Sempre dinanzi, alfin nessun m’offese!
O Adelma m’ha ingannato, o Turandotte
Seppe que’ nomi, l’ordine sospese
Della mia morte, ed io perdo il mio bene.
Meglio era morte, s’avverar si deve
Il mio dubbio crudel. (resta pensoso)
Alt. Figlio, tu sei,
Ben ti scorgo, agitato. Io vo’ vederti
Ilare in volto; più non dei temere.
Oggi hanno fin le tue sventure. Io tengo
Secreti in sen di giubilo, e di pace.
Mia figlia è tua consorte. Tre ambasciate
Ebbi sin’or da lei. Calde preghiere
Spedì reiterate, ond’io volessi
Dispensarla da esporsi nel Divano,
E dalle nozze ancor. Vedi, se devi
Rassicurarti, e intrepido aspettarla.
Pant. Certo, Altezza. Mi in persona son sta do
volte a recever i comandi della Principessa alle
porte del Serraglio. Me son vestì in pressa, e
son corso. Gera un agerin freddo, che me trema
ancora la barba. Ma gnente. Confesso, che ho
abuo un gran spasso a vederla desperada, e
pensando alla allegrezza, che avemo da aver.
Tart. Io ci sono stato a tredici ore. Cominciava
appunto a spuntar l’alba. M’ha tenuto mezz’ora
a pregarmi. Tra ’l freddo e la rabbia,
credo di averle detto delle bestialità. (a parte)
L’averei sculacciata.
Alt. Vedi, come ritarda? Ho già spedite
Commession risolute, e vo’, che venga
A forza nel Divan. S’ella ricusa,
Dissi, che a forza ella sia quì condotta.
Forte ragione ho di mostrarle sdegno.
Eccola, e mesta a comparir la veggio.
Soffra il rossor, ch’io volli torle invano.
Figlio, t’allegra pur.
Cal. Signor, scusate.
Grazie vi rendo. Io combattuto sono
Da sospetti crudeli, e combattuto
Sono d’esser cagion, ch’ella patisca
Violenza e rossor. Vorrei piuttosto...
Ah, ch’io nol posso dir. Se non è mia,
Come viver potrei! Col tempo io voglio
Co’ più teneri affetti far, che scordi
Certo l’abborrimenlo. Questo core
Tutto fia della sposa. Io vorrò sempre
Ciò, ch’ella bramerà. Grazie, e favori
Chi cercherà da me, non andrà in traccia
Di adulator, di parasiti iniquì.
Dell’altrui donna, che mi possa; e solo
Dalla consorte mia richieste attendo
Per favorire altrui. Fedel, costante
Sempre sarò nell’amor suo. Giammai
Sospetti le darò. Forse non molto
Andrà, che adorerammi, e pentimento
Dell’avversion, che m’ebbe, in breve io spero.
Alt. Olà, ministri miei, più non si tardi.
Questo Divan sia Tempio, ond’ella entrando
Scopra, ch’io so voler quanto le dissi.
Si permetta l’ingresso al popol tutto.
Tempo è, che paghi quest’ingrata figlia
Con qualche dispiacer le tante angosce.
Che suo padre ha sofferte. Ognun s’allegri.
Le nozze seguiran. L'Ara sia pronta.
(Apresi la cortina nel fondo, e scopresi
l'Altare co’ Sacerdoti Chinesi)
Pant. Cancellier, la vien, la vien. Me par che la
pianza.
Tart. L’accompagnamento è malinconico certo.
Questo è un noviziato, che mi pare un mortorio.
SCENA SECONDA.
Turandot, Adelma, Zelima, Truffaldino, Eunuchi, Schiave e sopraddetti. Ad un suono di marcia lugubre esce Turandotte, preceduta dal solito accompagnamento. Tutto il suo seguito avrà un segno di lutto. S’eseguiranno tutti i cerimoniali, come nell’atto secondo. Turandotte salita in trono farà un atto di sorpresa nel veder l'Altare e i Sacerdoti. Ognun sarà al solito posto, come nell’atto secondo. Calaf sarà in piedi nel mezzo.
Tur. Questi segni lugubri, ignoto, e questa
Mestizia, che apparisce ne’ miei servi,
So che ’l cor ti rallegra. Io miro l'Ara
Parata alle mie nozze, e mi contristo.
Quant’arte usar potei, sappi ch’ho usata
Per vendicarmi del rossor, che ieri
Mi facesti provar; ma alfin conviemmi
Cedere al mio destin.
Cal. Mia Principessa,
Vorrei poter farvi veder l’interno,
Come la gioia amareggiata viene
Dal vostro dispiacer. Deh, non v’incresca
Di far felice un, che v’adora, e sia
Con reciproco amor si dolce nodo.
Io vi chiedo perdon, se chieder dessi
Perdon d’amar chi s’ama.
Alt. Ella non merta.
Figlio, sommesse espression. È tempo,
Ch’ella s’umilj alfin. S’innalzi il suono
Degli allegri strumenti, e ’l nodo segua.
Tur. No, non è tempo ancor. Maggior vendetta
Non posso aver, che far con apparenza
L’animo tuo sicuro, in calma, e allegro,
Per poi scagliarti inaspettatamente
Da letizia ad angoscia, (si leva in piedi) Ognun m’ascolti.
Calaf figlio a Timur, dal Divan esci.
Questi i due nomi a me commessi sono.
Cerca altra sposa, e Turandot impara
Quanto sa penetrar, misero, e trema.
Cal. (attonito e addolorato) Oh me infelice!...
oh Dio!
Alt. (sorpreso) Dei, che mai sento!
Pant. Sangue de donna Checa, che la ne l’ha
fatta in barba, Cancellier!
Tart. Oh Berginguzino! questa cosa mi passa
l’anima.
Cal. (disperato) Tutto ho perduto. Chi mi dona aita?
Ah, nessun può aiutarmi. Io di me stesso
Fui l’omicida, e perdo l’amor mio
Per troppo amor. Io potea pur errore
Far negli enigmi ieri: or questo capo
Tronco sarebbe, e l’alma mia spirata
Non sentirla più doglia in queste membra,
Peggior di morte. E tu, Altoum pietoso.
Perchè non lasciar correre la legge,
Ch’anche morir dovessi, se scoperti
Fosser dalla tua figlia quei due nomi,
Ch’or più allegra saria? (piange)
Alt. Calaf, l’affanno
Vecchiezza opprime... L’impensato caso
Trapassa questo sen.
Tur. (basso a Zelima) Zelima, il misero
Mi fa pietà. Difender più non posso
Il mio cor da costui.
Zel. (basso) Deh ceda alfine.
Sento il popol, che freme.
Adel. (da sè) È questo il punto
O di vita, o di morte.
Cal. (vaneggiante) Un sogno parmi...
Mente, non vacillar. (furioso) Tiranna, dimmi;
A non veder morir chi sì t’adora
T’incresce forse? Io vo’, che tu trionfi
Anche sulla mia vita. (furente s’avvicina al
trono di Turandot) Ecco dinanzi
Ai piedi tuoi vittima sfortunata
Quel Calaf, che conosci, e ch’abborrisci,
E ch’abborrisce il Ciel, la terra, il fato,
Che disperato, fuor di sè medcsmo
Spira sugli occhi tuoi. (trae un pugnale; è
per ferirsi; Turandot precipita dal trono,
e lo trattiene)
Tur. (con tenerezza) Calaf, che fai?
Alt. Che vedo!
Cal. (sorpreso) Tu impedisci, Turandotte,
Quella morte, che brami! Tu capace
Sei d’un atto pietoso! Ah, tu vuoi, barbara,
Ch’io viva senza te, che in mille angosce.
Ed in mille tormenti io resti in vita.
Di tanto almen non esser cruda; lascia,
Ch’esca da tal miseria, e, se capace
Sei di qualche pietà, so, che in Pechino
E Timur, padre mio, privo di regno.
Perseguitato, lacero, mendico.
Invan cercai di sollevar quel misero.
Abbi di lui compassione, e lascia,
Ch’io m’involi dal mondo, (vuol uccidersi;
Turandot lo trattiene)
Tur. No, Calaf.
Viver devi per me. Tu vinta m’hai.
Sappi... Zelima, a’ prigionier te’n corri,
Consola il vecchio afflitto, ed il fedele
Ministro suo; la madre tua consola.
Zel. E come volontier! (entra)
Adel. (con entusiasmo da sè) Tempo è di morte;
Più speranza non c'è.
Tur. Sappi, ch’io vinsi
Per un trasporto sol. Tu palesasti
Ad Adelma, mia schiava, in non so quale
Trasporto tuo stanotte, i due proposti
Nomi, e gli seppi. Il mondo tutto sappia,
Ch’io capace non son d’un’ingiustizia,
E sappi ancor, che le tue vaghe forme,
L’aspetto tuo gentile ebbero alfine
Forza di penetrare in questo seno,
D’ammollir questo cor. Vivi e ti vanta.
Turandotte è tua sposa.
Adel. (da sè con dolore) Oh estrema doglia!
Cal. (gettando in terra il pugnale) Tu mia! lasciami
in vita, estrema gioia.
Alt. (discend. dal trono) Figlia... mia cara figlia,
io ti perdono
Tutto il duol, che mi desti. In questo punto
Compensi al padre tuo tutte l’offese.
Pant. Nozze, nozze. Siori Dottori, le daga logo.
Tart. Si ritirino nella parte diretana del Divano.
(i Dottori si ritirano indietro)
Adel. (furente si fa innanzi) Sì, vivi pur, crudele,
e lieto vivi
Colla nimica mia. Tu, Principessa,
Sappi, ch’io t’odio, e che gli arcani miei
Furono sol per divenir consorte
Di costui, ch’adorai, cinqu’anni or sono,
Sin nella Corte mia. Tentai stanotte,
Fingendo favorir le tue premure.
Di fuggir seco, e ti dipinsi iniqua;
Tutto fu vano. Dalle labbra sue
Uscir per accidente que’ due nomi.
Palesandoli a te sperai per questo,
Che tu ’l scacciassi, e di poter ancora
Meco a fuggir sedurlo, e farlo mio.
Troppo t’ama costui per mio tormento
Tutto fu vano, ogni speranza è persa.
Una sol via mi resta, e usar la deggio.
Di regio sangue io nacquì, e mi vergogno
D’esser vissuta in vil lorda catena
Di schiavitù sin’ora. In te abborrisco
Un oggetto crudel. Tu mi togliesti
Padre, fratelli, madre, suore, regno,
E l’amante alla fin. Esca da tante
Sciagure Adelma. Togli anche il residuo
Della mia stirpe, ed il mio sangue lavi
Viltà fin’or sofferta. (raccoglie il pugnale di
Calaf, indi fieramente) È questo il ferro,
Che risparmiasti al sen del sposo tuo,
Perch’io mi trucidassi. Il popol miri.
Se dalla schiavitù so liberarmi. (in atto di
ferirsi. Calaf la trattiene)
Cal. Fermati, Adelma.
Adel. Lasciami, tiranno... (con voce piangente)
Lasciami ingrato... io vo’ morir. (si sforza
d’uccidersi. Calaf le leva il pugnale)
Cal. Non fia.
Io da te riconosco ogni mio bene.
Util fu il tradimento. Ei disperato
Mi rese sì, che ’l cor potei commovere
Di chi m’odiava, e ch’or mi fa felice.
Scusa un amor, che vincer non potrei.
Non mi chiamar ingrato. Ai Numi io giuro,
Che, s’altra donna amar potessi, tua
Questa destra saria.
Adel. (prorompendo in pianto) No; mi son resa
Di quella destra indegna.
Tur. Adelma, e quale
Furor ti prese!
Adel. A te palesi sono
Le mìe sciagure. Or sappi, che mi togli
Anche un amante, in cui sperava solo
Per lui son traditrice, ed ei mi toglie
Modo di vendicarti. Almen mi lascia
Nella mia libertà. Lascia, ch’io fugga
Raminga di Pechin. Non usar meco
L’ultima crudeltà, ch’io miri in braccio
Calaf di Turandot. Io ti ricordo,
Ch’un cor geloso, un’alma disperata
Tutto può, tutto tenta; e mal sicura
Ognor sei, dov'è Adelma. (piange)
Alt. (a parte) Io ti compiango,
Misera Principessa.
Cal. Adelma, lascia
Di tanto lagrimar. Vedi, che in grado
Son or di compensare in qualche parte
Quant’ho per tua cagion. Sposa, Altoum,
Se nulla posso in voi, quest’infelice
Principessa abbia libertade in dono.
Tur. Padre, anch’io ve lo chiedo. Io mi conosco
Oggetto agli occhi suoi troppo crudele
Da poter sofferir. L’amor, l’intera
Confidanza, che in lei posi, fu vana.
L’odio chiuso tenea. Mai non potrebbe
Turandotte ad Adelma esser amica
Più, che Signora; ella nol crederia.
Libera vada, e se maggior favori
Puote Ottener, padre, a Calaf mio sposo,
Ed alla figlia vostra li donate.
Alt. In sì festevol giorno non misuro
Le grazie mie. Le mie felicitadi
Vo’ anch’io da lei. La libertà non basti.
Abbia Adelma il suo Regno, e scelga sposo,
Che seco regni di prudenza ornato,
E non di cieca, e mal fondata audacia.
Adel. Signor... troppo confusa da’ rimorsi...
Oppressa dall’amor... de’ benefizi
Il peso non conosco. Il tempo forse
Rischiarerà la mente... Or sol di pianto
Capace son, nè raffrenar lo posso.
Cal. Padre, in Pechin tu sei? Dove poss’io
Ritrovarti, abbracciarti, e d’allegrezza
Colmarti ’l sen?
Tur. Presso di me è tuo padre;
A quest’ora gioisce. In faccia al mondo
Non obbligarmi a palesar le mie
Stravaganti opre; che di me medesma
Meco arrossisco. Già tutto saprai.
Alt. Timur presso di te! Calaf t’allegra.
Quest'Impero è già tuo. Timur gioisca.
Libero è ’l Regno suo. Sappi, che ’l crudo
Sultano di Carizmo, mal sofferto
Per le sue tirannie, da’ tuoi vassalli
Fu trucidato. Un tuo fido Ministro
Tien per te ’l scettro, ed a’ Monarchi invia
Secretamente lumi e contrassegni
Di te, del padre tuo, chiamando al trono
L’uno, o l’altro, se vive. In questo foglio
Leggi, che tronche son le sue sventure.
(gli dà un foglio)
Cal. (osservato il foglio) O Dei celesti, puote
esser mai questo!
Turandotte... Signor... Ma a che mi volgo
A’ mortali in trasporto? I miei trasporti
Sieno a voi, Numi; a voi le mani innalzo,
Voi benedico, e a voi chiedo sventure
Maggiori ancor delle sofferte, a voi,
A voi, che contr’ogni pensiero umano
Tutto cambiate, umil perdono io chiedo
De’ miei lamenti, e, se talor la doglia
Questa vita mortal disperar fece
D’una provvida mano onnipossente,
A voi chiedo perdono, e l’error piango.
(Tutti gli astanti saran commossi, e piangeranno)
Tur. Nessun funesti più le nozze mie.
(in atto riflessivo) Calaf per amor mio la vita arrischia.
Un Ministro fedel morte non cura
Per far felice il suo Signor. Un altro
Ministro, ch’esser puote Re, riserva
Pel suo Monarca il trono. Un vecchio oppresso
Vidi pel figlio apparecchiarsi a morte;
Ed una donna, che quì meco tenni
Amica più, che serva, mi tradisce.
Ciel, d’un abborrimento sì ostinato.
Che al sesso mascolino ebbi sin’ora
Delle mie crudeltà, perdon ti chiedo.
(si fa innanzi) Sappia questo gentil popol dei maschi,
Ch’io gli amo tutti. Al pentimento mio
Deh qualche segno di perdon si faccia.