Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XXV
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Arti del disegno: monumenti principali degli Etruschi
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CAPO XXV.
Arti del disegno: monumenti principali
degli Etruschi.
L’arte ha il suo proprio linguaggio, e giustamente la storia delle sue vicende debb’essere dimostrata mediante le sue opere stesse. Or, senza por mente a dettare una storia generale delle arti del disegno appresso gli Etruschi, toccheremo soltanto quelle parti che possono dar meglio a comprendere da quali principj elle mossero, come progredirono, e per quali vie e mezzi andarono di mano in mano avanzandosi maggiormente col sussidio di nuovi e più venusti esemplari. Il che basterà pure a manifestare insieme qual fosse tutto quanto il progresso morale che sortì alla nazione italica per questa nobile facoltà dell’umano ingegno. Pittori dei paterni costumi e semplici naturalisti nell’arte, gli antichi maestri attendevano meno a produrre il bello imitativo, che a percuotere fortemente i sensi con immagini significative di miti e di simboli della domestica religione, parlante quasi in ogni lavoro di stile vetusto. Ristretta l’arte dapprima alla sola espressione d’un determinato ordine d’idee, trovavasi anch’ella necessariamente posta sotto l’influsso della sacerdotale politica: anzi dirizzando l’intelletto a gravi pensieri molto potentemente concorreva allo scopo principale di rappresentare con figurato artifizio, e vie meglio scolpire nell’animo, ogni maniera di simbolico insegnamento, che tendesse a confermare la stabilita istituzione religiosa e civile. Forse ancora certe arti prime del disegno, come il fare in terra e la scultura, s’appartenevano in principio ad alcuni casati di stirpe sacerdotale, che soli ne possedevano le teorie e la pratica; giusto qual era l’antichissima stirpe dei Dedali; nè per altra cagione ne venne all’arte antica quel tale stile convenzionale, mantenutosi inalterato gran tempo, e che a difetto di miglior denominazione diciamo sacro, o vero-ieratico. Così pure religione insieme e politica volgevano tutte le altre arti, dette liberali, a uno scopo. Non senza riti consacrati edificarono gli Etruschi le mura fortissime delle loro città primarie con smisurate pietre rettangolari disposte per piani orizzontali murati a secco: in che adoperarono essi, come si vede1, tal perizia e pratica d’arte, che n’ebbero lode d’inventori2. Questa forte e stabile maniera di fabbricazione si ritrova in tutti i grandi edifizj costrutti fuor d’ogni dubbio da capo maestri toscani, così in Etruria, come in Roma sotto il governo dei re. Tra i quali basti nominare la cloaca massima, conservatasi per tanti secoli nella sua prima saldezza e integrità3, la sponda del Tevere, ed i grandi muramenti inferiori per sostegno del Campidoglio. Volte arcuate con tre ordini di pietre s’osservano tanto nella cloaca massima, che in diverse fabbriche più notabili dell’Etruria centrale ad uso di sepolcri4. Nella bella porta di Volterra ornata di tre teste colossali incastrate di prospetto, si hanno archi perfetti circolari di pietre ben tagliate5; e quanto ella serba ancora dell’antica fabbricazione etrusca ne mostra evidentemente, che nell’architettura pubblica i maestri dell’arte sapevano accordare molto a proposito i convenienti termini della solidità, del semplice e del grande, principali bellezze. Nessun vestigio abbiamo dei tempj d’ordine proprio toscano, il più sodo e semplice di tutti. Per ciò che dice Vitruvio6 delle distribuzioni e proporzioni generali di siffatti tempj, dessi erano di forma quadrilunga non molto grandi, con tre celle, una maggiore nel mezzo e due laterali: nello spazio dell’antitempio avanti le celle stavano con ordinata simmetria distribuite le colonne, e sopra la fabbrica del fregio posava il tamburo co’ suoi frontespizj, i quali solevano ornarsi di sculture di creta o di bronzo indorato7: mirabili, dice Plinio, per intaglio ed arte8. Tal era il tempio di Giove Capitolino fabbricato da etruschi artefici9, non pure all’uso toscanico, ma col rito stesso dell’Etruria, siccome palesano chiaramente i triplicati santuari di Giove, di Giunone e di Minerva, posti sotto uno stesso tetto. Tale ancora, benchè più ingegnosamente condotto, era il tempio di Diana cacciatrice in Aricia, per l’aggiunta di altre colonne a destra ed a sinistra dell’antitempio10. Altri tempj, ordinati bensì con simmetrie toscane, partecipavano delle distribuzioni di qualche altra specie, soggiugne pure Vitruvio. Benchè ugualmente in tutti, per principale precetto, s’avesse sempre in mira stazione, usanza, natura. Una idea qualunque di tali fabbriche e simmetrie può ritrarsi dalla forma di alcuni tempietti figurati in creta, che diamo a luce per saggio11, dove appunto si vede ben distinta la parte superiore di legno col corrispondente asinello, puntoni e assi12, per modo che lo scolo del tetto vi sta pendente a due acque: foggia consueta di moltissime urne sepolcrali etrusche non dubbiamente rappresentative di veri tempietti, edicole, o simili edifizj sacri facenti manifesta allusione al sacro riposo delle
anime. In tutte le sue parti l’ordine toscano, qual si comprende robusto e semplice più di ogni altro, per legge forse meglio di giudizio che d’arte, ottimamente si confaceva per la sua sodezza all’indole grave e religiosa della genie. Ma prima assai che s’introducesse nell’arte imitazione alcuna delle maniere greche, non può essere dubbioso, che l’architettura pubblica etrusca non tirasse molto all’egizio. Le facciate architettoniche di tanti sepolcri di Tarquinia e di Vulci13; quelle ancor più numerose dei sepolcri di Castel d’Asso e di Norchia nel viterbese14; e principalmente le porte rastremate delle mentovate tombe danno una qualche idea di quel far primitivo egizio-toscanico: poichè, se bene molti di cotesti monumenti qui mentovati non sieno, al nostro giudizio, di fabbricazione troppo antica, pure apertamente si vede che i costruttori seguivano per religione di sepoltura una maniera consacrata dall’uso, che forse non era lecito alterare. Una forma singolare di capitello ritrovato a Tuscolo, e intagliato in pietra del paese, fornisce al pari un altro esempio di singolare imitazione egizia15: e come usarono gli Egizj, così gli Etruschi solean colorire alle volte i loro monumenti d’architettura ricoprendoli di fino stucco. Per un’altra foggia di capitello, testè trovato dentro a Tarquinia segnato di lettere etrusche, abbiamo un saggio dell’ordine toscano rimodernato16, da poi che il vecchio stile architettonico s’andava di mano in mano migliorando, rassomigliandosi più direttamente al dorico. Nulla sappiamo dell’interno adornamento dei tempj, se non che tutto v’era ugualmente toscanico: così quelle porte di rame tolte via da Cammillo nel sacco di Vejo, e già di ragione dei soggiogati, dovevano esser quivi le stesse del tempio principale di Giunone regina17.
L’architettura civile degli Etruschi non tendeva meno all’utilità, che al comodo della vita privata. Le case loro signorili erano più tosto spaziose, e bene distribuite per quartieri18. Vitruvio parla di cortili alzati alla maniera toscana19: e per avviso concorde di scrittori la fabbricazione del portico, parte nobilissima delle case grandi, dovrebbe di più attribuirsi ai Toschi stessi, o più tosto agli architetti d’Adria, come ne suona il nome20. Aveano le case degli Etruschi una sola porta: di quella forma a due imposte che si vede ritratta in monumenti: e giusta ogni apparenza s’aprivano per di dentro, uso non pure delle case italiche, ma romane. Che l’etrusche favole abbiano esagerata, oltre a ogni ragion dell’arte e della statica, la struttura piramidale della regal tomba di Porsena, situata a Chiusi, il fa manifesto la descrizione medesima del monumento riferita da Plinio, secondo ciò che ne diceva Varrone21. Ma non per questo vorremmo tenere sì fatto edifizio chiusino per favoloso del tutto. I narratori toschi ampliarono senz’alcun dubbio, per dir cosa mirabile, sì le proporzioni, sì le parti integrali del monumento in guisa talmente ideale, che invano finora si è cercato per molti sagaci eruditi di trar da quel racconto una possibile ristaurazione dell’edifizio che appaghi22. La descrizione recata da Varrone è sicuramente un composto di fantasia, ma tuttavolta dal primo dicitore ideato non senza forme corrispondenti ad altre fabbriche del paese e del suo tempo. Niente meno esagerata, benchè fondata nel vero, si è pure la forma descritta del famoso sepolcro d’Osimandia in Egitto23. L’uno e l’altro erano stati per avventura architettati con qualche particolare concetto simbolico. Apparisce in oltre evidentissima nella mentovata descrizione del sepolcro di Porsena l’imitazione del far egizio: il quale, singolar cosa, si riconosce più maggiormente ne’ vetusti lavori dell’arte ritrovati nella regione medesima di Chiusi24. Il grande monumento sepolcrale di Vulci25 ne dimostra altresì quanto gli Etruschi mirassero allo straordinario in questo genere di edifizi, in cui il fasto umano non si disdiceva alla religione pietosa. Sì che in tutto cotesto celebrato laberinto di Porsena poteva di fatto essere una fabbrica singolarissima, e se vuolsi ancora capricciosa, comandata da fastoso principe per far mostra di suo potere, o, come dice Varrone, per superare la vanità d’estranei regnanti 26.
Nell’infanzia delle arti adopera ciascuno secondo che porta la semplice materiale imitazione degli oggetti sensibili. Questa legge dell’umano intelletto guida per tutto ugualmente la mano rozza sì, ma obbediente dell’uomo. Gli ordini politici, i progressi della vita civile, la situazione, il clima stesso, accelerarono presso alcuni popoli l’avanzamento, ritardato al contrario presso d’altri posti in meno favorevoli circostanze. Non pochi lavori dell’arte toscanica mostrano in fatti una tal rozzezza ed infantile semplicità, che sembra ci trasportino all’origine stessa dell’arte imitativa. Statuette di contorni rettilinei, senza mossa, con piedi chiusi e uniti, occhi schiacciati, bocca obliqua, mento rilevato, estremità di membra soverchiamente allungate, vestimento stretto e serrato al corpo; tali quali si veggono di fattura antica; mostrano bene questa maniera primitiva della scultura etrusca, innanzi che ella tendesse a migliorare sue forme con più studiata imitazione della natura. Durante questo primo periodo dell’arte si limitavano gli artisti a porgere soltanto i principali lineamenti del corpo umano, senza dare alle figure nè l’idea della forza, nè dell’agilità. Il che, se bene avvisiamo, lungi dall’essere una degradazione, era piuttosto una maniera propria dell’arte fanciulla, che ha potuto durare lungamente prima di farsi adulta, e passare, come suole, dal semplice al manierato. Tracce evidenti dell’arte e de’ simboli egizj fanno tuttavia prova certissima, che l’Egitto ebbe grande influenza in questa prima maniera degli Etruschi, i quali, come si vede per molte imitazioni, già conoscevano ogni figurato artificio dell’età dei Faraoni. Per sola norma di classificazione, anzichè per epoca determinata o certa, a cotesto primo stile egizio-toscanico possono riferirsi generalmente i lavori che sentono maggiore antichità nell’arte, o più presto ordinaria imitazione del far vetusto. Fra questi debbono avere il primo luogo molte opere affatto nostrali, come certe sculture in pietra27, i bronzi che posson pretendere all’età più lontana28, e sì ancora il vasellame istoriato a stampa con figurine ed ogni maniera di simboli di varie nature29. Quei figurati mostri mille volte replicati, quei tanti animali, quelle atroci zuffe e ferine battaglie, espressioni tutte simboliche di un medesimo sistema d’insegnamento sacerdotale, s’appartengono non dubbiamente all’istesso ordine di idee morali: e sebbene i monumenti che poniamo per saggio davanti agli occhi non sieno tutti del medesimo tempo, nè d’uguale artifizio, non pertanto è certo, che riproducono a un modo le stesse figurate rappresentanze che il far di terra, di pietra, di bronzo effigiava nella remota età dell’arte. Tutto spira nazionalità e proprietà di costume in questi lavori: le figure collocate di profilo han quella durezza e secchezza di forme che porge la natura imitata non ancora ben diretta dall’arte; i volti sono esagerati: i capelli ora increspati, ora lunghi e prolissi alle spalle; le vesti non hanno piaghe, o minute e rettiline nel vestiario femminile; non v’ha gruppo alcuno, nè varietà di sembianze: e non di meno questi stessi lavori sì materiali piacciono per mirabil semplicità e naturalezza d’espressione. I bassi rilievi volsci in terra cotta dipinti a vari colori, i che tal era il costume della plastice antico, possono di più allegarsi come sinceri esemplari di quella vetusta maniera dell’arte italica, prima che progredisse a uno stile più metodico30. Nè in questo fatto la scuola etrusca procedè diversamente dalla greca: dove sì nella composizione, sì nella rigidezza delle figure ritrovasi primieramente uno stesso tipo convenzionale privo affatto di venustà e leggiadria.
L’epoca dell’arte etrusca più degna di considerazione si è quella che diede principio e progresso a un nuovo stile, propriamente chiamato toscanico31. In questo stile tutto metodico si ritrova pur sempre una qualche traccia del tipo egizio: cioè una maniera dura, secca e tesa, quale la ravvisava Quintiliano32, e quale apparisce ancora in opere dell’arte33. Tanto che bene e veracemente dice Strabone, il quale viaggiò così in Etruria, come in Egitto, rassomigliarsi le sculture toscaniche all’egizie e greche antiche34. Se avessimo statue grandi, come quelle d’Egina, potremmo più adequatamente comparare l’uno e l’altro stile vetusto; ma non crediamo troppo dilungarci dal vero presupponendo, che il far della scuola eginetica rigido, secco e diligente, ma non senza grandezza, si rassomigliasse molto al far etrusco. In ambedue sono quei pregi e difetti, che caratterizzano la scultura greca, prima che Fidia avesse dato per legge d’arte alle sue immagini quel bello, ch’ei trasse mirabilmente dai concetti d’Omero. Se non che qualvolta gli artefici con tal sistema puramente metodico intendevano di produrre energia d’azione, volendo esprimere la forza, davano alle figure uno straordinario movimento di membra, e atti rigidi o forzati, come se l’arte volgesse a trar le norme della bellezza dalla sola notomia. Azione soverchia nelle mosse, robustezza di forme, muscoli rilevati e pronunziati con violenza più che naturale, sono le qualità più ostensibili di questo etrusco stile scientifico, che molto si confaceva al genio e senso universale della nazione. Qua, per vigor dell’antica istituzione, tutto tendeva a mantenere nel costume pubblico gravità, serietà e dignità di natura: la bellezza e la grazia, sorgente di quell’ideale che dà vita al concetto per elette forme, quivi non ebbero venerazione, nè onore alcuno idolatro come in Grecia: ed è pur cosa notabilissima a dirsi di nuovo, che nessuna delle originali opere d’arte toscanica, che finora conoschiamo, non rappresenti soggetti impudichi. Per lo contrario in cotesti monumenti nostrali, dove non apparisce mai cosa che manifestamente alluda alle favole greche, tutto si riferisce a materie domestiche sacre o divine. Le fisonomie vi sono nazionali, e quasi diremmo per lo più locali o provinciali: di quel tipo in somma che immutabile si è conservato in natura, e si riproduce ancora al nostro tempo35.
La statuaria, ben dice Plinio, era certamente un’arte antichissima e familiare all’Italia36. Il suo avanzamento e progresso in Etruria si rende manifesto per alcuni lavori principali condotti da maestri paesani, di quello stile che diciamo toscanico, o più s’approssima a quello. Questo stile che di mano in mano andava raffinando l’arte prisca, che tenea tanto dell’egizio, ha dovuto introdursi molto per tempo nella scuola etrusca. Le statue più antiche che si conservavano in Roma ai giorni dello storico naturalista erano fattura d’etruschi artefici, o di quella scuola. Tal era, per tacer d’altre, l’immagine di Giove Capitolino, modellata in terra da un Turiano da Fregelle37: così pure il simulacro di Sanco, o d’Ercole38, e le quadrighe situate sul fastigio del tempio di Giove39, dov’era la statua di Summano40. Le molte statue onorifiche poste in Roma per decreto pubblico ne’ primi secoli41, han dovuto essere anch’elle opere di artefici etruschi: nè dubbiamente gli adornamenti tutti dei tempj v’erano, come dice Varrone, a un modo toscanici42, innanzi che l’arte greca venisse ad abbellire col suo magistero gli edifizi sacri della città. In quell’età adoperavasi la creta come materia principale degli statuari43. I Vejenti avean lode di abili formatori44; ed i moltissimi lavori in terra cotta di vetusta maniera ritrovati in suolo etrusco, evidentemente confermano quanto l’arte vi fosse coltivata per tutto. I dubbj per noi promossi altra volta45 circa un racconto di Plinio, che attribuisce l’insegnamento della plastico ad Euchira ed Eugrammo venuti qua da Corinto con Demarato46, han trovato conferma e autorità nel valente autore dell’istoria romana47: son coloro un’allegoria di certa tradizione tarquiniese, più tosto che persone istoriche; e noi stessi toccheremo di ciò più sotto ragionando dei vasi dipinti ritrovati a Tarquinia e nella prossima Vulci. Dalla plastice, madre della statuaria, venne il gittar di bronzo: nella qual arte furono di fatto sì eccellenti gli statuari etruschi, che ne riportarono, per amplificazione di cose, fama d’inventori48. Le cave di rame del paese, e specialmente di Montieri nel volterrano, testè ritrovate, fornivano loro in grande abbondanza il materiale: talchè si comprende bene come il talento degli artefici, anzi che adoperarsi nell’alabastro, nel peperino, nel tufo, o in altre pietre tenere del paese poco atte alla statuaria49, si rivolgesse più animosamente alle opere di metallo fuso, in cui abbiamo innumerabile numero di suppellettili, ed i più nobili lavori dell’arte.
In fronte a tutti poniamo la lupa del Campidoglio50: unico lavoro per mirabil espressione, per verità di proporzioni, e per maestrevole artificio51. In questo monumento raro veggiamo con gli occhi propri qual era lo stile toscanico intorno alla metà del quinto secolo. Della medesima maniera han dovuto essere parimente la statua di Giove sopra una quadriga, e quei sogliami di bronzo e vasi d’argento in Campidoglio, fatti fare tutti insieme con la mentovata lupa da Gneo e Quinto Ogulnj edili curili nel 457 o 45852. Nè altri, per certo, se non gli artisti dell’Etruria erano abili in quel tempo a porre in opera il disegno maestoso di Carvilio, che a perpetuare la memoria del suo trionfo sopra i Sanniti, con le armature di bronzo tolte loro fece gittare non pare il colosso di Giove, ch’ei dedicò in Campidoglio, ma con la limatura di quello la sua propria statua a piè del nume53. Di tal modo è pur vero, che contenti i vecchi Romani a rendere tributarie le nazioni d’intorno a loro, e non curanti d’altra gloria, lasciavano solo ai vinti l’esercizio delle arti migliori: quasi a conforto e sollievo della servitù, dice con patrizia superbia Cicerone54. Bensì nel porre ad effetto queste grandi opere, comandate dai prepotenti vincitori, trovavano gli artisti opportuni e acconci mezzi di migliorare o nobilitare l’arte. Un saggio di stile lodatissimo, benchè sistematico anch’esso, misto d’antico e di più moderno, porge la Chimera della Galleria di Firenze55. Statua, per usar le parole di Lanzi, in cui van di pari la correzion del disegno, la simmetria, l’espressione del furore, corrispondente alle ferite che ha sul tergo, e su la testa di capra già moribonda. Ritiene dell’antico stile i velli, forse imitati da un originale vetusto, e ripetuti anche in altre immagini della Chimera56. Generalmente gli Etruschi ponevano grande studio nel figurare ogni qualità animali, e in aggrupparli insieme battagliando con atroci, ma veri atteggiamenti ferini57. E quanto bene avessero esperienza e cognizione gli artefici dell’anatomia appare massimamente per queste figure stesse d’animali, in cui d’ordinario si trova giustissima ragione de’ muscoli e membri posti in movimento: di che fu principale sussidio l’aruspicina, col frequente tagliare delle sacre vittime. La simbolica etrusca dava in oltre occasione d’effigiare spesse volte certe qualità di mostruosi animali, come alate sfingi, grifi, ippocampi, uomini a coda di pesce, e moltissime altre figure di fantasia58: immagini tutte di senso misterioso, che la nazione ricevette da’ suoi primi insegnatori, e riprodusse mai sempre sculte e dipinte in ogni qualità di monumenti ed in arredi, sotto forme più o meno abbellite dalla mano del facitore. Già fino dalla meta del quarto secolo fioriva l’arte in Etruria per la maestria di sperti operatori in formare finemente leggiadri arnesi in bronzo e in metalli preziosi cesellati con figure, sia per servizio della religione, sia per usi domestici: manifatture che i mercatanti trasportavano oltre mare, e si spandevano qual bramata merce per molte contrade. In un passo di Ferecrate ateniese59, poeta della vecchia commedia, il quale visse a’ giorni di Pericle60, per commendare il lavoro d’un candelabro, si dice esser tirrenico: erasi quello adunque un secolo di buon gusto per gli Etruschi, poichè in Atene, centro dello spirito e delle arti liberali dell’Attica, le opere toscane s’aveano in pregio, e vi si lodavano anche per belle in teatro dinanzi al popolo. Intorno la stessa età troviamo rammentate da Crizia61 tazze d’oro toscaniche cesellate, qual suppellettile preziosa delle case nobili; e se finalmente ricordiamo che Fidia, quel maraviglioso ingegno posto alla testa della scuola greca, adornò la sua famosa Minerva di sandali tirreni62, dovremo pur confessare, che l’arti e l’opere italiche non erano già ignote, nè discare alla Grecia, quanto vorrebbesi dar a credere comunemente. Anzi i Greci stessi posero ai Toscani il gentil soprannome d’uomini studiosi nell’arti belle63. Le copie fedeli che porgiamo di alcuni eleganti candelabri ed altri lavori nostrali, che certamente non sono de’ più perfetti64, ben confermano quanto a ragione l’antichità riconosceva negli Etruschi singolare perizia nell’arte65. Piaceva forse quella quasi infinita varietà di forme ne’ vasi, negli arredi, e in ogni sorta suppellettili di nobil disegno: piacevano quei leggiadrissimi intagli con animali, arabeschi, e figurine di basso rilievo: gradiva la molta diligenza in tutte quelle parti, ove il meccanismo dell’arte può meglio venire alla perfezione: nè allettavano meno certi lavori di scultura policroma formati di varie materie, de’ quali diamo un saggio condotto da mano espertissima nella toreutica66. Di tal qualità scultura pare, che possa probabilmente credersi, la sedia reale che Arimno, uno dei nostri re o lucomoni aveva dedicato a Giove Olimpico67. Nè forse Plinio esagerava dicendo, che i lavori toscanici erano già gran tempo diffusi per il mondo68. Tutta Italia, non che Roma sola, trovavasi inondata di simulacri di mano d’artefici toschi69. In Etruria per certo non eravi città, la quale non avesse opere pregiate al pari di Bolsena, entro alle cui mura si rinvennero due mila statue70. Chè, dove tutto facevasi in nome del comune del popolo, il genio avea sempre larghissimo campo d’adoperarsi producendo a onor della religione, o della patria, o de’ valorosi cittadini, nobili frutti dell’umano ingegno.
Già di buon’ora lo spirito greco penetrava nel magistero dell’arti del disegno. Noi siamo d’avviso che i nostri Etruschi usando sino dal primo secolo di Roma con i Cumani ed altri Greci, o Samj, o Rodj dimoranti nell’Opicia71, cioè, nella Campania felice, togliessero principalmente da esso loro i semi di molte cose greche. Essendo fatto innegabile tra due popoli vicini la frequentazione, e un vicendevole scambio di comodi, d’arti e d’idee. Or per tal forma dovette propagarsi assai per tempo, e più largamente che altrove nell’Etruria di mezzo, la notizia de’ miti ellenici, e delle storie di Tebe e d’Ilio: le quali è pur vero che riempievano il mondo del loro grido. Cuma, prima fra le città calcidiche della Campania, era già molto nobilitata di tempj e di profani edifizi adorni di statue nel 250 di Roma72. Ma l’arti greche erano pur allora di poco avanzate nel patrio suolo, e se meglio fiorivano nelle colonie asiatiche, e sì ancora italiche, abbiamo nelle medaglie più antiche di Sibari, di Posidonia, Crotone e Caulonia, un saggio dello stile secco e duro che ivi correva nel secondo secolo, molto somigliante all’eginetico ed all’etrusco antico: perciocchè, se bene consideriamo, in questi primi esercizi dell’arte tenne ciascuno da per se una stessa via. I naviganti etruschi frequentavano ancora in altre parti della Magna Grecia e in Sicilia. I loro corsali già infestavano il Faro siciliano nel 26073. E per altre memorie istoriche siamo fatti certi, che gli Etruschi seguitarono a navigare in que’ mari di mezzogiorno fino alla metà del quinto secolo74. Più largamente navigavano essi e mercavano nelle parti orientali e nell’Ionia75. Tarquinia avea commerci più diretti con Corinto: e da ciò appunto originava la mentovata tradizione, che poneva con Demarato a stanza in questi luoghi delle nostre maremme artisti corintj o sicioni, formatori in terra e pittori. Certo chi ha veduto una rara qualità di vasi dipinti di stile molto antico ritrovati nei sepolcri di Tarquinia e di Vulci, e di cui diamo alcun saggio76, riconosce in queste pitture sì squisitamente condotte un far del tutto speciale, vestimenti, fisionomie, simboli, particolarità, che palesano una scuola aliena, ed uno stile arcaico diligentissimo. Ma cotesti lavori d’arte venivano qua di fuori: certamente piacevano, ed uno stile conforme pare indubitabil cosa, che avesse cultori anche in Etruria, poichè non pochi dei bronzi, e delle sculture toscaniche antiche, van molto appresso a quella maniera di disegno. Per opere siffatte cominciarono gli artefici etruschi a mostrarsi in certo modo emuli a’ Greci: mancando loro un’istoria eroica nazionale tolsero a esercitarsi in soggetti di greca favola: e come prima per le leggi di Fidia e di Zeusi venne l’arte a maggior perfezione, i capi d’opera della scuola ellenica divennero anche per gli Etruschi norma di studio e d’esempio imitativo, il cui buon effetto si fu rimuovere affatto la statuaria da qualunque far egizio, e dalla imitazione gretta della natura locale. Ecco il nuovo e più lungo periodo dell’arte etrusca: periodo secondario, in cui gli artefici partitisi dalla prima maniera davan opera a produr lavori di più facile spaccio, fatti su le massime e lo stile dell’arte greca. Per l’opulenza pubblica, già venuta al suo colmo, erano gli Etruschi non solo vogliosi di cose belle, e buoni operatori essi stessi, ma di più mercanti; i quali, come suol usare chi cerca attorno compratori, secondavano la moda, adoperandosi in ciò che meglio piaceva al secolo. Il perchè non sì tosto allignarono le fogge greche in Etruria tutto vi spirava grecismo; massime dappoichè Roma, trasandato il magistero degli etruschi maestri, diede stabile ospizio alle arti greche, e singolarmente dopo la presa di Siracusa77: allora quando si divulgava appunto per tutta Italia con la nuova letteratura ogni maniera d’ellenismo. E si fattamente riuscì l’intento, che in ogni specie di lavori di quest’epoca secondaria tanto s’allontanarono gli artefici etruschi da’ loro antichi, fino a parer tutt’altri. Disegnare con verità, aggruppare con simmetria, mosse naturali, belle proporzioni, buoni panneggiamenti, e per fino una certa premura dell’ideale osservabile in alcuni monumenti, sono i caratteri distintivi di questa nuova scuola, che più gareggia col greco stile. Scuola che massimamente fioriva tra il quinto e settimo secolo di Roma, e che seguendo suo natural corso durava pure in decadenza ne’ primi secoli dell’era nostra.
I più perfetti esemplari di questo stile si hanno parimente in opere di bronzo. La statua dell’arringatore, tanto vicina alla greca eleganza78, il putto del Vaticano79, e il grazioso fanciullo che diamo fedelmente a luce80, porgono una sufficiente idea del genio del bello introdottosi nell’arte, e de’ progressi di quella. Di questo nobile stile ha dovuto essere il colosso toscanico d’Apollo, collocato nella libreria del tempio d’Augusto81. Del pari le gemme più finemente intagliate in forma di scarabeo, simbolo tanto familiare agli Egizj, come agli Etruschi82, si possono tenere, rispetto al disegno e alla diligente esecuzione, per altrettanti lavori della medesima epoca, se non ancora per veri esemplari di quelle figurine toscaniche sì pregiate in Roma nell’aureo secolo, come dice il vate di Venosa83. Sono ormai noti a tutti li due bellissimi intagli di Tideo curvato e in atto di trarsi un giavellotto dalla gamba, entrambi d’esimio lavoro84: nè meno eccellenti per insuperabil verità d’espressione, e per finezza d’intaglio, vogliono stimarsi alcuni altri scarabei inediti, che ora pubblichiamo a maggior dimostranza della mirabil cura degli artisti in queste sculture d’incavo, dove pur si richiedono uguali principi di buon disegno per far bene in piccolo, come in grande85. Per la desinenza tosca che hanno tutte volte in queste gemme i nomi greci degli eroi86, è manifesto che tali quali vivevano coteste voci nella bocca del popolo; ma non sempre in monumenti istoriati a greca mitologia appaiono le divolgate favole conformi a’ poemi greci: correvano anzi per l’Etruria particolari tradizioni differenti dalle storie omeriche: tal era quella, che Ulisse fosse sonnacchioso87.
A quest’epoca secondaria dell’arte s’addicono, al nostro parere, anche le pitture dei sepolcri di Tarquinia e di Chiusi. Era senza dubbio antichissima la pittura in Italia: ne facean fede i dipinti d’Ardea e di Cere, che al dir di Plinio aveansi per anteriori alla fondazione stessa di Roma88. Più pregevoli per il colorito, che non per disegno, tenean forse del far di Giotto o di Simone da Siena. Ma per argomentar meglio da fatti e cose certe, abbiamo nelle pitture stese sopra le pareti dei mentovati ipogei non ispregevoli saggi dell’arte etrusca. Tali pitture, benchè tutte insieme mediocri e per composizione e per disegno, pure fan conoscere appieno, che i maestri adoperavano con buona pratica del modo di colorire, e con franchezza pittoresca. Quivi si ravvisano conviti funebri, bighe o quadrighe, ludi ginnastici, zuffe di gladiatori, buoni e mali genj, figure danzanti e sonanti, animali mostruosi, ed altre finzioni simboliche, tali quali si veggono figurate in opere di rilievo: cose tutte correlative ai misteri, e alla dottrina etrusca su la vita e lo stato delle anime dopo morte89. Lo stile generale di queste pitture è piuttosto semplice, che manierato: tra il far de’ moderni e il prisco: gli animali, e massime i cavalli, vi sono ritratti più svelti e ben formati, che non le figure umane: le facce di per tutto vi sono prese in profilo: nel colorito, per lo più capriccioso a talento del colorista, si cercava un certo effetto d’armonia più che verità e bellezza: però nel totale vi si trovano motivi e mosse che additano opere migliori. Nè già queste pitture tarquiniesi vogliono aversi tampoco per esemplari di buono stile: si facevano in fretta per adornamento di sepolcri, e, come pare, da mediocri artefici provinciali: tale almeno è l’idea che può formarsene giustamente chi le vede sul luogo, e voglia giudicarne senza parzialità, nè passione.
Di tutti i monumenti dell’antichità figurata etrusca i più copiosi e variati sono le sculture in pietra del paese. Ma, salvo pochi frammenti di stil vetusto90, la massima parte di tali sculture s’appartengono al tempo in cui maggiormente primeggiava in Italia il nuovo stile. La scuola volterrana soprattutto, a cagion degli alabastri nativi de’ suoi contorni, ha prodotto il maggior numero di sì fatte sculture in urne sepolcrali, talvolta assai belle, di gusto greco o romano91. Maniera di figurare che si trova continuata in monumenti con epigrafi etrusche e latine, che paiono del settimo o dell’ottavo secolo, e che certamente si praticava anche più tardi al tempo degli Antonini: indi più goffamente, come si vede per sculture deformi, fino alla total declinazione dell’arte. A Volterra, a Chiusi, a Perugia ed altrove, tali urne si lavoravano senza troppo studio nelle officine degli scultori per esporle in vendita, lasciandone abbozzate le teste, che dovevano esser dipoi ritratti. Mortori occorrevano spesso, e ciascuno sceglieva o commetteva a suo genio quel figurato artificio che più gli aggradiva. Or queste urne mostrano un’arte d’imitazione al tutto provinciale; la qual se non basta veramente a porne sotto gli occhi lo stile migliore, giova però moltissimo a confermare e illustrare i costumi nazionali. Poichè, se bene presso che tutte le sculture di cui ragioniamo sieno rappresentative di miti greci, molte cose ritratte non di meno sono pur sempre vera immagine di credenze antiche, e d’usanze paesane. Di tal modo vi si trovano frequentissimamente effigiati i buoni e mali genj, benchè sotto forme dissimili a quelle che concepiva in prima il dualismo92. Di già era arbitrio d’artista, non che costume nell’arte, il frammettere alla rappresentanza de’ miti ellenici ogni forma di cose nazionali, quali s’aveano dinanzi agli occhi: come a dire arredi sacri, armi, vestimenti, edifizj: di che, per ogni più certa prova, ne basti allegare il basso rilievo già per noi pubblicato di un’urna volterrana significante la morte di Capaneo: dove, in luogo della porta Elettride, l’artefice ha sculto la porta antica di Volterra, tal quale si vede tutt’ora in piede93.
Nulla meno numerosi, e non troppo antichi, sono certi lavori di metallo fatti a graffito. È questo una specie d’intaglio lineare a bulino, in cui le figure sono segnate con puri tratti senza lume e senz’ombre, quasi come nelle pitture de’ vasi. Più comunemente questa sorte d’incisione si trova adoperata sopra le patere sacre, le ciste, ed altri arnesi del culto: lavori tutti niente più antichi del sesto secolo di Roma; però tanto più notabili, in quanto che danno iscritti i titoli etruschi di molte deità nazionali, già identificatesi per correlazione di simboli con quelle dell’Olimpo94. La notabile conformità, o medesimezza piuttosto del lavoro nell’etrusche patere, non lascia punto dubitare, ch’elle non sieno d’età assai vicini l’una dall’altra: come arredi spettanti all’esequie ben s’addicono loro quei miti religiosi ed eroici: nella più parte appare visibilmente alcun simbolo di Bacco: e le ciste medesime delle orgie, entro cui si trovano frequentemente poste le patere, son pruova certissima, che cotesti arredi si riferivano alle sacre teletee, o più generalmente ai misteri e riti dionisiaci. Laonde non crediamo mal giudicare appropriando tali lavori all’epoca, in cui s’era maggiormente dilatato in Etruria, e nell’Italia tutta, il gran fanatismo per Bacco: periodo che può ordirsi, come dicemmo altrove, da’ principj del sesto secolo, o poco avanti95.
D’assai maggiore importanza per l’istoria della religione, de’ costumi e dell’arte, sono i vasi di terra figurati e dipinti, che in variatissime forme, e di quantità pressochè infinita, si traggon fuori dei sepolcri per tutta Italia. Dovendo noi ragionare più distesamente di quelli che si trovano tutto giorno in suolo etrusco, cominceremo a considerare i più vetusti d’artificio, indi li meno antichi, e finalmente il genere più qualificato per fregi d’arte. Spettano alla prima classe il copioso vasellame di terra nera di color naturale non cotti, ma prosciugati con tal maniera, che dava loro solidità bastante a farne uso, ed a ricevere alla superficie una certa lucentezza che tira al piombo. I più notabili hanno comunemente improntati o nel corpo, o nei manichi e nel piede, opere di disegno fattevi colla stampa di bassissimo rilievo, la cui rappresentanza simbolica si riferisce soltanto a religione, e massimamente alla dottrina dell’Erebo. Offerte ai numi che fanno officio di giudici infernali; genj alati, già custodi della vita, che s’intromettono in que’ giudizj; processioni d’iniziati; simboli d’iniziazione e di consacrazione; ludi e sacre cerimonie; in fine tutte altre cose non dubbiamente allusive ai misteri ed alla vita futura96. Il gran dio delle anime, o altrimenti Bacco; ciò è Tinia secondo l’etrusca mitologia; vi si trova molto spesso effigiato come spirito infernale, o Mantu97, sotto forma gorgonica sannuta, colla lingua tirata fuori, orrido in vista quanto spaurevole98. Immagine mostruosa che tiene un posto primario nei monumenti funerei dell’Etruria, e grandemente atta a spaventare il sacrilego violatore dei sepolcri. Moltissime altre figure o di animali, o di mostri capricciosi, o di enti a doppia natura, quali si veggono figurati sopra i vasi di tale specie, sono pur dessi tanti emblemi e simboli del culto stesso di Bacco infernale, e del misterioso dualismo, apparente tutte volte sotto strane forme. Laonde abbiamo per cosa verissima, che tutto questo vasellame antico in terra nera non cotta, quindi sì poco sufficiente agli usi domestici, servisse unicamente qual suppellettile universale dei riti sepolcrali, massime delle libazioni e del convito funebre: ufficio pietoso significativo del godimento che all’anime beate, partite dai corpi, era dovuto nell’altra vita. Non solamente, come credono taluni, si ritrovano sì fatte figuline nel territorio di Chiusi, o de’ suoi contorni, ma in grandissimo numero in quel di Vulci, di Tarquinia e di Cere, ugualmente figurate con i medesimi simboli e segni d’iniziazione nei misteri di Bacco99. La prima semplicità religiosa delle feste o processioni Dionisie si riconosce di fatto in queste figurine a stampa, ornamento consueto di vasi. I ministri del dio, o gl’iniziati, vi recano, giusta il rito primitivo, il cratere, rami sacri, animali graditi, bende, ghirlande d’onore, e più altre cose allegoriche: non mai il Fallo, che non era per ancora introdotto pubblicamente nelle festività dei baccanali consacrate in Etruria100. Nè ciò soltanto è buon indizio di molta antichità, ma lo conferma lo stile medesimo di coteste piccole immaginette, i cui artefici non ebbero per certo niuno ellenismo: anzi di maniera somigliantissima in tutto al far degli Egizj, e tale, a dir breve, che quasi in ogni particolare accenna i primi passi dell’arte. Di uguale specie sono altresì quei vasi cinerarj in forma di Canopi con teste umane d’ambo i sessi, che si ritrovano negli stessi antichi sepolcri, ora con le braccia e mani tese in alto di supplicazione, ora congiunte sul petto101. Tanto che in somma sia per la forma medesima dei vasi, sia per tutto il figurato, non è troppo l’argomentare da ciò, quale si fosse in prima non che l’arte, ma l’instituzione religiosa degli Etruschi, e da quali popoli civili l’avessero essi tolta.
Nulla meno antichi, nè meno alieni al sistema dei miti propriamente ellenici, sono da stimarsi i vasi in terra cotta di color rossigno con pitture vetuste, rappresentanti quasi unicamente certe generazioni animali quadrupedi e volatili, mescolate con immagini mostruose di sfingi aligere ed altre figure simboliche di doppia natura. Per sì fatti simboli questi vasi sono chiamati volgarmente, benchè con improprietà grande, egizj. Si ritrovano in sepolcri molto antichi: la più parte sono venuti fuori di quelli di Vulci, di Tarquinia, e di Chiusi: ancora che non solamente in Etruria, ma pure in Campania, e giusto nelle tombe che possono pretendere a maggiore antichità, si rinvengono di frequente vasi consimili. Hanno per lo più una forma speciale di balsamari talvolta di straordinaria grandezza102; nè si può dubitare tampoco, che questa sorte vasellame non abbia servito anch’essa unicamente alla religione della sepoltura. Ivi sono effigiate le stesse simboliche figurazioni d’origine orientale ed egizia, quali si veggono nelle figuline di terra nera soprammentovate, e ne’ bronzi etruschi più vetusti. Vi comparisce Bacco, ora trasformato come Osiride nel dio sotterraneo, ora nel genio buono, avversevole inimico e domator de’ mali del suo contrario principio103: quasi sotto le sembianze medesime, in cui ne’ cilindri orientali appare Ized alato e in costume babilonese, in atto di premere con ciascuna mano il collo d’uno struzzo, uccello d’Ahriman. Queste notabili e vie più manifeste rassomiglianze di dottrine arcane, e di costume religioso, mostrano assai chiaramente donde veniva la sorgente di tali insegnamenti, diramatasi qua per l’Etruria, che fino da tempi lontanissimi avea commerci nelle parti orientali. E ciò spiega ancora perchè il più antico Bacco dell’oriente si trovi ne’ monumenti nostrali figurato con tanta moltitudine di forme e sembianze diverse: mentre, secondo teosofia, questo dio grandissimo moltiforme104 simboleggiava soprattutto le trasformazioni moltiplici, che il principio universale pativa in passando per tutte le sostanze del mondo. È vero che uguali simboli ed emblemi si ritrovano effigiati anche in vasi e lavori greci; ma di qual luogo passarono negli Elleni sì fatte cose misteriose se non dalla medesima unica fonte? Or dunque, per virtù di dottrine conformi, una medesima serie d’idee morali reggeva da prima e guidava a un tempo non meno il costume, che l’arte dei popoli civili.
Era bensì naturalissima cosa, e non tanto conforme al progresso di migliorato incivilimento, quanto alla tendenza dell’umana mente, che dalle immagini simboliche di creature o mostruose, o irrazionali, o in apparenza deformi, di che s’appagava in prima una rozza fantasia, si passasse gradatamente alle rappresentazioni figurate d’una nuova mitologia poetica, la quale di sua natura, introduceva alla volta nelle arti del disegno il desiato genio del bello. Di tal maniera anche le dipinte figuline, al pari d’ogni altr’opera figurata, cominciarono a rappresentare storie religiose ed eroiche della già divolgata mitologia ellenica. Ma, come generalmente l’uso de’ vasi, onore primario di sepolcri, avea tolto origine dal culto e dai misteri di Bacco infernale, detto pure Zagreo, a causa che tira a se l’anime, così il servigio loro principale fu sempre quello di arredi indispensabili al sacro rito dei morti. Noto è bene per Aristofane, che gli Ateniesi stessi facean dipingere certa forma di vasi105 pe’ soli funerali. Con tutto questo insostenibile si è l’opinione di alcuni eruditi che tutti quanti i vasi, e tutte le pitture di quelli, abbiano sempre correlazione, per figurato allegorico, ai misteri: essendo al contrario certissimo che buon numero di tali stoviglie, sia per la forma loro speciale, sia per opera di disegno, servivano onninamente ad usi civili e domestici106. E se questi ancora si trovano, come tutti gli altri, per entro i sepolcri, v’erano riposti come donativi di parenti e d’amici, o come suppellettile gradita al defunto mentr’era in vita. I vasi più propriamente adoperati nell’esequie, e che avean servito o alla cena funebre, od a spandere sul corpo morto liquori, unguenti e profumi, quali augurj e contrassegni di beatitudine nell’altra vita, si riconoscono assai facilmente per la qualità e significanza degli argomenti istoriati. Tutto vi si riferisce a miti religiosi ed eroici. Con questi i donatori, per allegoria gentile di laudate imprese, quasi complimentando l’amico od il congiunto estinto, gli rendevano atto di riverenza e d’ossequio, augurando al benvoluto le sedie ripiene di vita eterna degli eroi: con gli altri miti puramente divini, dove bene spesso stanno congregate insieme deità tutelari o della famiglia, o del luogo, s’addimandava di là pace all’anima e riposo nel soggiorno dei beati. Così pure i molti vasi, in cui si veggono figurati ludi ginnastici ed equestri, anzichè reali offerte di premio agli atleti, alludevano similmente sia al costume antico funerale dei giuochi, sia alla cura posta in vita nella virtù e nel valore dell’animo, sia ancora ai misteri: il tema religioso eroico e ginnastico si trova alle volte unito sopra un solo vaso107: benchè non contrastiamo al fatto certo, che numero di tali stoviglie dipinte potessero, secondo costume, esser date in guiderdone di gare atletiche: anzi lo conferma l’aver trovato nei sepolcri stessi di Vulci pesi di piombo, dischi, ed altri strumenti della ginnastica108. La massima parte delle pitture e degli emblemi de’ vasi, giusta la prima intenzione religiosa, si riferiscono non pertanto più direttamente a Bacco ed a’ suoi misteri. Ora sotto figura divina, ora simbolica, quel potentissimo iddio e la sua compagna immortale vi sono istoriati come dettano i miti principali, e in tutte le forme dell’allegoria. Bambino nelle fasce, adulto in giovanil bellezza, d’età matura vecchio barbato, vi si mostra ognora insignito dello splendore divino, o corteggiato in brigata da’ suoi lascivi e petulanti seguaci. Spessissimo v’appare simbolicamente come preside benigno della generazione, o qual nume spietato della morte. Nè diversa significanza, per nostro avviso, ha quel simbolo si frequente ne’ vasi degli occhioni sì tanto spaventevoli e smisurati: vero geroglifico col quale si rappresentava senza più il tremendo ingoiatore delle anime109. Sovente ancora, secondo la più antica mitologia, Bacco si vede in unione con Apollo; non tanto a causa della facoltà divinatrice, degli studi conformi, e del culto comune che tennero ambedue in sul monte Parnaso110, quanto perchè i misteri del sole vivificante si ripresentavano in quelli di Bacco111. Frequentemente ritratte vi sono del pari le idroforie, e altre scene non dubbiose delle sacre iniziazioni e lustrazioni; mascherate dionisie; sacrifizi al nume del suo animale diletto; esplorazioni di vittime: sì che in conclusione, questo sovrano culto di Bacco è non solo il tema principale e santo, ma sicuramente il più replicato mille volte sopra i vasi dipinti, che da sì lungo tempo si vanno ritrovando nel nostro suolo. Intendo dire di quel Bacco primigenio dei misteri, del quale si narrava aver recato agli uomini in Egitto, in Grecia, nella terra intera, l’agricoltura, l’arti, i benefizi tutti della prima civiltà.
Le mirabili scoperte fattesi in questi ultimi anni nel territorio dell’etrusca Vulci di grandissima copia di siffatti vasi, han ridestato l’importante quistione per l’innanzi agitata, se debbano aversi per manifattura del paese, o vero della Grecia. Pari alla forza dell’ingegno è la nobiltà dello scopo nei contendenti. Ma l’amore stesso della patria, passione bella se moderata, dee lasciar luogo al vero. Or, dopo il considerato esame da me fatto in sul posto di qualche migliaia di tali vasi, mi debbe esser lecito esporre la mia propria opinione senza studio di parte. A saziare le brame dell’avido ricercatore, un giorno, un’ora sola, basta talvolta a metter fuori dei sepolcri buon numero di vasellame, che v’era stato per avanti sepolto nel corso di secoli. Quindi è che i molti vasi recati a luce in confuso, e principalmente nella necropoli di Vulci, dove si trovano più interi, più conservati, e più belli per singolarità di pitture, dimostrano con evidenti contrassegni che tutti non sono della medesima età: ma piuttosto vi si conosce varietà grandissima di fatture, tanto per opera di vasaio, che di pittore, e tale in tutto, che manifestamente accenna diversità notabile di tempi, di scuole e d’arte. Che nel numero dei vasi fittili, quivi ritrovati, molti sieno verissimamente greci, non si può dubitare affatto: che una gran parte di quelli sieno etruschi, o d’artificio del paese, è ugualmente certissimo: perciocchè gli artisti qua, come altrove, conducevano il lavoro delle argille con i metodi stessi, e giusta un ordine stabilito d’idee. Tanto copioso numero di vasi che tutto dì occorrevano pe’ mortori, e che si van ritrovando per tutta Etruria in etruschi sepolcri, che han titoli e nomi di orrevoli famiglie paesane112, non possono di certo esser venuti di fuori unicamente. Cresciuta la pompa dei funerali, secondo che portava la dignità, la ricchezza, e il numero degli attenenti dell’estinto; ampliatosi il lusso delle libazioni, dei donativi, e de’ conviti funebri a tal segno, che in uno stesso sepolcro si rinvengono alle volte sino a venti o più vasi differenti; vagheggiavano i facoltosi con naturalissima bramosia le più belle stoviglie forestiere delle fabbriche di Corinto e della Sicilia, o pure dell’industria nolana e attica, che superavano in venustà tutte le altre: ecco perchè di fatto vasi di queste scuole aliene si ritrovano mescolati con altri molti vasi indubitatamente nostrali, e di manifatture locali. Il paragone, e la molta esperienza decidono di queste differenze di fazione meglio che il ragionamento. Alcune copie accurate, che pongo a bella posta sotto gli occhi del lettore, agevoleranno tuttavia a ben giudicare. Primi per antichità, e per ispeciale artificio di disegno, sono senza dubbio certi vasi di stile vetusto rigido e secco, dove le figure stan collocate ritte l’una dopo l’altra con simmetria uniforme, benchè non prive talvolta di vivacità e di movenza nell’azione113. Singolarissima soprattutto si è la foggia quadrata dei vestimenti all’orientale riccamente fregiati, non meno che la qualità propria delle armature portanti divise a tutto rilievo: il che forse vuol indicare lavori di toreutica. Ma più che altro siffatti vasi di stile arcaico mostrano certo, nella fazione loro meccanica e pittorica, una scuola d’assai anteriore ai monumenti lavorati su le massime fattesi universali nell’arte greca dopo Fidia e Zeusi. Per il che sembra verisimile molto che questo stile medesimo, sì proprio de’ pittori greci più antichi, derivasse originalmente dalla Grecia asiatica, la prima florida d’arti; indi passasse nella scuola di Corinto, e di quivi anche in Etruria. Grandi erano due o tre secoli dopo la guerra di Troja le frequentazioni tra l’industriosa e commerciante Corinto, che Omero chiama ricca, con le coste dell’Asia minore114. Di qua dove gl’Ionj, benavventurati eredi dell’antica civiltà asiatica avevano aperto scuole a tutte l’arti e le scienze, non solo passarono i primi filosofi e artefici nella Grecia europea, ma le venivano altresì i più preziosi arredi, ad uso dello nobili famiglie115: di maniera che non è punto incredibile, come opina un giudizioso critico, che l’arca stessa di Cipselo fosse un mobile lavorato in Asia, anzichè fatto in quell’età da un artefice corintio116. Vero è nondimeno che Corinto e Sidone, se non inventarono l’arte del far di terra e di dipingere, come favolosamente fu detto117, pure diedero ad ambedue quelle arti notabile accrescimento, e vi si mantennero floride gran tempo appresso. Già nel primo secolo di Roma frequenti erano le relazioni vicendevoli e i traffici in fra l’Etruria e Corinto, siccome lo prova il fatto medesimo di Demarato, trafficante egli stesso, venuto a ripararsi presso gli ospiti suoi di Tarquinia118. Corinto passata dal mite reggimento de’ Bacchiadi in quello de’ Cipselidi, trovavasi in allora piena di ricchezze e di splendore: attendeva con istudio all’esercizio dell’arti nobili, tra cui la plastice e la pittura singolarmente119: nè i vasi fittili dipinti ad uso de’ mortori, già ritrovati in molta abbondanza ne’ suoi antichi sepolcri, e che Strabone chiama con proprietà necrocorintj120, non erano nulla meno una delle sue ordinarie manifatture, da cui traevano i facitori utile copioso121. Moltissimi per ciò di questi vasi si trasportavano dai mercatanti nei porti dell’Etruria, massime in quel di Tarquinia, e in altre navali stazioni delle nostre ricche maremme122: tanto che appresso, in secoli meno antichi, potè foggiarsi senza inverisimiglianza il divolgato racconto della venuta colà di formatori e pittori corinti o sicioni, condottivi da Demarato123. È bensì vana cosa il credere istoricamente che per opera di Demarato avesse Tarquinia sua civiltà e sue arti. Quel Bacchiade ancorchè ricco, e di nobilissima stirpe, era fuori affatto del governo in Tarquinia: quindi privo di potere e d’influenza: nè tampoco suo figlio, o Lucio Tarquinio nato di madre tarquiniese, potette egli stesso aver parte nessuna agli onori della magistratura nella repubblica: sì molto cautamente l’aristocrazia etrusca, forte d’instituzione, teneva chiusa la via allo straniere124. Or dunque, se mal non m’appongo, l’artificio più antico di buon numero dei vasi volcenti, vuol dedursi dalla scuola medesima di Corinto, o di Sicione125. Ed è questa una particolarità degna di considerazione, che i numi più antichi e li maggiori di Sicione, Apollo, Diana, Ercole e Minerva126, sien giusto le divinità, che si riscontrano più di frequente effigiate nelle stoviglie di terra ritrovatesi a Vulci. Cotesti vasellami corintj vera merce, e materia ordinaria di traffici, atteso massimamente il loro principal uso sepolcrale, non solo si trasportavano qua in Etruria, ma per tutt’altrove: ed ecco senza più la ragione per cui tante idrie corintie ed altri vasi dipinti della stessa maniera arcaica, e con i medesimi nomi d’artefici, si vanno ritrovando di luogo in luogo tanto nei sepolcri di Vulci, come in quelli di Sicilia e di più luoghi della Magna Grecia127. Forse a trenta nomi tra vasai128 e pittori129, si leggono finora sopra i vasi della più nobile specie tratti fuori della necropoli di Vulci130: sono essi, a quel che pare, artefici valenti per la maggior parte di una medesima e unica scuola; sì tanto è uniforme l’artificio loro nella fazione pittorica e nel meccanismo della ruota: altri, siccome i pittori de’ vasi a figure rosse in campo nero, appaiono non pure artisti di un’età posteriore ma di un’arte più raffinata131. Sicchè può aversi per cosa certa, che tra i vasi volcenti, quelli che in molto numero si possono dir greci veramente, e venuti di fuori, appartengono ad epoche diverse, e fors’anco a’ figuli dell’Attica o d’altre scuole. Dal primo al terzo secolo di Roma la pompa e il lusso dei funerali s’erano fatti eccessivi nell’Etruria: anzi nel Lazio stesso, dacchè la legge delle dodici tavole provvide a moderarne l’abuso. Erasi quella altresì l’epoca della maggiore opulenza degli Etruschi e delle tirrene delizie. Il danaro tira a se da per tutto le cose più bramate e pellegrine. I cittadini volcenti erano ricchi: il comune potente: per mezzo di Cossa, colonia loro, avean traffici oltremarini; nè di certo può far maraviglia se a suo uopo i facoltosi, come dissi poco anzi, adoperavano sì fatte stoviglie forestiere, che i mercatanti dovean pur essere solleciti recar loro di fuori per trarne guadagno. Così lo stesso vasellame si spandeva per altre città opulenti dell’Etruria: ne aveva Tarquinia, Cere, Chiusi132, Volterra; nè v’ebbe forse in quella età sepolcro veruno gentilizio, dove per religione, e per onor di famiglia, non s’adoperassero consimili vasi. Mille, due mila, dieci mila vasi di tal specie raccolti insieme fanno stupire; ma che son eglino a petto a’ bisogni d’una popolazione intera osservante il costume nel corso di secoli? Sopra tutto se riguardiamo all’uso loro più specialmente sepolcrale, confermato anche dal fatto, già per altri avvertito, che queste stoviglie per la maggior parte si trovano verniciate freschissime all’esterno, e senza vernice alcuna nella superficie interna, ciò che osta all’uso di porsi olio, vino, o qualunque altro liquido bisognevole alla vita comune. Che Vulci in fine, dalla cui necropoli si traggono ogni dì monumenti di tanto pregio, fosse una terra molto copiosa di popolo, e gagliarda di stato, lo dichiara senz’altro il fatto rilevantissimo ch’ella sola, unitamente con Volsinio, ebbe animo, mezzi ed armi, di resistere a Roma vittoriosa dopo ancora la fatal rotta del Vadimone. Fu debellata anch’essa è vero nel 473, come mostrano i Fasti trionfali; ma se perde in allora lo stato politico, le rimase bensì in sua integrità e pienezza il municipale, sotto cui Vulci, pari a ogni altra città dell’Etruria, continuava a reggersi con propria amministrazione e col governo di se stessa, secondo che portava la nuova sua condizione di municipio: stato politico pieno di oziosità cittadinesca, che alimentava d’ogni maniera la mollezza della vita privata133.
Molto usitata, quanto antica, era quest’arte del vasellaio non solamente in Etruria e in Campania, ma per tutta Italia134. Che il vasellame di terra anche usuale vi fosse venuto a molta perfezione si vede chiaramente per la quasi incredibile varietà delle forme, unita a leggiadria di contorni e di proporzioni. Gli artefici etruschi con uguale maestria formavano e dipingevano quei vasi stessi, che più propriamente hanno un carattere dichiarato di stile etrusco, qual si ritrova ne’ bronzi e in altri lavori vetusti: stile di cui ho ragionato poco anzi. Moltissimi tra i vasi volcenti si riconoscono di questo fare etrusco manifestissimo. Vuolsi por mente soprattutto a quel simbolo sì particolare degli occhioni, di che favello altrove135, ripetuto le mille volte, e unicamente proprio di questi vasi: i quali, ancorchè non fossero tutti a un modo di pennello etrusco, sono bensì foggiati secondo le idee, e le divolgate credenze nazionali. Certissimamente di mano d’un etrusco artefice è la tazza dov’è figurato un convoglio funebre: scena del tutto locale136: parimente etruschi sono que’ molti vasi, in cui si trova istoriata, sotto differentissime forme, la dottrina dei buoni e de’ mali genj, non che tutt’altre cose più specialmente proprie della fede popolare. Cotest’arte fiorente si mantenne qua in Etruria per non interrotta successione d’artefici fino al sesto secolo: e ne fan prova manifesta quei vasi, dov’è rappresentata al vero l’insensata ebrietà delle feste Dionisie, e di quelle veglie dissolute; dipinture che non possono essere anteriori alla introduzione del nuovo licenzioso culto di Bacco137. E se talune di queste figurazioni oscene hanno lettere greche, e voci strane, son queste altrettante acclamazioni e invocazioni di foggia ditirambica a Libero Padre, che i baccanti gridavano con clamore nelle orgie, senza nè pure comprenderne in quella età il senso ascoso138. Dopo l’abolizione di cotesti riti nefandi dovette gradatamente scemare l’uso di riporre entro i sepolcri vasi allusivi a Bacco ed a’ suoi misteri: vi contribuì non poco anche il costume fattosi più generale dell’abbruciamento de’ corpi: perchè da indi innanzi le ceneri si ponevano in piccole urne di pietra, fregiate anch’esse d’immagini: e quantunque lo stile di queste opere di disegno null’abbia che fare con quel de’ vasi dipinti, pure vi si ravvisano per continovata tradizione popolare genj contrari, enti a doppia natura, mostri capricciosi, ed altre figure di simbolo, che tuttavia riflettevano languidamente simulate le credenze antiche.
Così dunque dal primo al terzo secolo di Roma fu non meno copioso che apprezzato l’uso dei vasi fittili dipinti, di cui ragiono: migliorò l’arte nel corso del quarto secolo notabilmente: durava in Etruria nel quinto e sesto di quell’era: decadde col vietato culto dei baccanali; e d’allora in poi vi cessò fors’anche totalmente. Sì che a ragione al tempo di Giulio Cesare e d’Augusto parvero vetustissimi139 i vasi di tal genere, che si trovarono casualmente ne’ sepolcri di Capua140 e di Corinto in gran numero141, come appunto oggidì avviene a noi in quelli di Vulci. Però, da che in sul finire della repubblica romana s’introdussero per tutta Italia superstizioni stranie, e massimamente egizie142, avvenne che ritornò, come suole, quel ch’era in disuso: onde chi seguiva nella sepoltura il rito egizio volea vasi, immaginette, e utensili di quella foggia misteriosa: e tali sono que’ molti vaselli e bronzi d’imitazione egizia, che sovente si ritrovano nelle tombe; ma di fattura e pittura sì grossolana e materiale, che al solo vederli ne riconosce ognuno la sconcia imitazione. — Per riguardo all’importanza della materia mi vorrà perdonare il lettore sì lunga, benchè forse non superflua digressione, atta a schiarire la grande quistione motivata dalle scoperte mirabili di Vulci: rapportandomi bensì nelle cose più particolari all’esposizione medesima dei monumenti che ho posto in luce.
Note
- ↑ Vedi i monum. tav. ix-xii.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 129.
- ↑ D’uguale costruzione etrusca è un avanzo di altra grande cloaca, che vedesi a piè del colle dove siede l’antica Tarquinia.
- ↑ Il più grande con etrusca iscrizione trovasi presso Perugia. Vedi Mus. Etr. T. iii. tav. 5. ed i nostri monumenti tav. lxxi. 3.
- ↑ Vedi tav. vii. viii.
- ↑ iv. 7 Vedi Klenze, Saggio di ricostruzione del tempio toscano: nelle Memorie dell’accad. di Monaco T. viii. parte filolog.
- ↑ Ornantque signis fictilibus aut aereis inauratis earumque fastigia Tuscanico more. Vitr. iii. 2.
- ↑ Fastigia quidem templorum etiam in Urbe crebra, et Municipiis, mira caelatura, et arte aevique firmitate sanctiora auro. xxxv. 12.
- ↑ Intentus perficiendo templo, fabris undique ex Etruria adeitis. Liv. i. 56.
- ↑ Vitruv. iv. 7.
- ↑ Vedi tav. lxxiii. 2. 3., lvii. 3. 4. 5.
- ↑ Vitrur. iv. 6.
- ↑ Vedi tav. lxii. 10. 13., lxvii. 5., lxix.
- ↑ Vedi Orioli, dei sepolcrali edifizi dell’Etruria media.
- ↑ Vedi tav. cxx. 2.
- ↑ Vedi tav. cxx. 1.
- ↑ Plin. xxxix. 3.; Plutarch. Camill.
- ↑ Diodor. v. 40. Vedi sopra p. 209. 210.
- ↑ vi. 3. Varro, l. l. iv. 33. Tuscanicum dictum (impluvium) a Tuscis, posteaquam illorum cavum aedium simulare coeperunt.
- ↑ Atrium appellatum ab Atriatibus Tuscis Varro, l. l. iv. 33.; Diodor. v. 40; Fest. v. Atrium.
- ↑ Ap. Plin. xxxvi. 13.
- ↑ Graves, De Brosses, Cortinovis; e, per tacer d’altri, il più recente di tutti Quatremere de Quincy, Restitut. du tombeau du Porsenna ec.
- ↑ Diodor. i. 47.
- ↑ Vedi tav. xiv. sqq.
- ↑ Vedi tav. lxii.
- ↑ Varro ap. Plin. xxxvi. 12. Quem fecit... simul ut externorum regum vanitas quoque ad Italis superetur.
- ↑ Vedi tav. li.
- ↑ Vedi tav. xxviii sqq.
- ↑ Vedi tav. xvii sqq.
- ↑ Vedi Becchetti, Bassi rilievi volsci: ed i nostri monum. tav. lxi.
- ↑ Tuscanicus: onde trattandosi d’opere d’arte dicevasi con proprietà signa et opera tuscanica.
- ↑ Duriora, et Tuscanicis proxima Callon, atque Hegesias fecere. xii. 10.
- ↑ Vedi tav. xxxviii. xxxix. e più altre.
- ↑ Strabo xvii. p. 554.
- ↑ Vedi tav. xv. xvi.
- ↑ Fuisse autem statuariam artem familiarem Italiae etc. Plin. xxxiv. 7.
- ↑ Varro ap. Plin. xxxv. 12.
- ↑ Hercules fictilis. Plin. l. c.; Martial. xiv. ep. 178.
- ↑ Varro l. c.
- ↑ Cicer. de Div. i. 11.
- ↑ Plin. xxxiv. xxxv.; Liv. passim.
- ↑ Tuscanica omnia in aedibus fuisse. Varro ap. Plin. l. c.
- ↑ Praeterea elaboratam hanc artem Italiae, et maxime Etruriae. Varro ap. Plin. l. c.
- ↑ Festus v. Ratumena.
- ↑ L’Italia av. il dominio dei Rom. T. ii. p. 161. ed. 1810.
- ↑ Plin. xxxv. 12.
- ↑ Niebuhr. T. i.
- ↑ Has (statuas) primum Thusci in Italia invenisse rereferunt. Cassiod. Var. vii. 15.
- ↑ Le cave di Luni, o sia de’ marmi di Carrara, non furono aperte prima dei tempi di Augusto. Plin. xxxvi. 4.
- ↑ Χάλκεα ποιήματα παλαιᾶς ἑργασίας Dionys. i. 79.
- ↑ Vedi tav. xlii. 1.
- ↑ Liv. x. 23.
- ↑ Plin. xxxiv. 7: amplitudo tanta est, ut conspiciatur a Latiario Jove: che vuol dite 14 e più miglia discosto da Roma.
- ↑ Ut haberent haec oblectamenta et solatia servitutis. Cicer. 6. Verr. 60.
- ↑ Vedi tav. xlii. 2.
- ↑ Vedi per un esempio tav. xxvi 2., xxviii. 3.
- ↑ Vedi tav. xlv. 2., xlix. xcviii. 1.
- ↑ Vedi tav. xxviii. sqq., xlii. 4.
- ↑ Ap. Athen. xv. 18.
- ↑ Protagora questionando con Socrate parla di una favola di Ferecrate (Ἄγριοι) rappresentata nell’anno quarto dell’Olimp. lxxxix. an. di r. 333. Plat. Protagor. 327. D.
- ↑ In Eleg. ap. Athen. i, 22. Crizia figliuolo di Calliscro fu capo dei trenta tiranni nell’Olimp. xciv. an. di r. 350.
- ↑ Polluc. vii. 92. Fidia fece la Minerva nell’Olimp. lxxxvii. an. di r. 322. Aristoph. Schol. ad Εἰρήνην.
- ↑ Ποικίλαι γὰρ ἦσαν αἱ παρὰ τοῖς Τυῤῥηνοῖς ἑργασίαι, φιλωτέχνων ὄντων τῶν Τυῤῥηνῶν. Athen. xv. 18.
- ↑ Vedi tav. xl. cxiii. 1-4.
- ↑ Τέχνας ἔχουσι πλεῖστας. Heracl. de Polit. pag. 213.
- ↑ Vedi tav. xlv.
- ↑ Θρόνος έστὶν Ἁρίμνου τοῦ βασιλεύσαντος ἐν Τυρσηνοῖς. ὂς πρῶτος βαρβὰρων ἁναθὴματι τὸν ἐν Ὀλυμπίᾳ Δία ἐδωρήσατο. Pausan. v. 12.
- ↑ Signa Tuscanica per terras dispersa, quae in Etruria factitata non est dubium. Plin. xxxiv. 7.
- ↑ Ingegnia Tuscorum fingendis simulacris Urbem inundaverant. Tertul. Apolog. 25.
- ↑ Plin. xxxiv, 7. ex Metrodoro Scepsio: Propter duo milia statuarum Volsinios expugnatos.
- ↑ Strabo xiv. p. 450.; Steph. v. Παρθενόπη. v. Πουτίολοι. Vedi Tom. i. p. 227. 228.
- ↑ Dionys. vii. 3.
- ↑ Strabo vi. p. 177.
- ↑ Vedi sopra p. 54. 55.
- ↑ Vedi p. 51. 55.
- ↑ Vedi tav. lxxv-lxxviii.
- ↑ Ceterum inde primum initium mirandi Graecarum artium opera. Liv. xxv. 40.; Plutach. Marcell.
- ↑ Vedi tav. xliv. 2.
- ↑ Idem n. 1.
- ↑ Vedi tav. xliii.
- ↑ Videmus certe tuscanicum Apollinem in bibliotheca templi Augusti quinquaginta pedum a pollice, dubium aere nobiliorem ac pulcritudine. Plin. xxxiv. 7.
- ↑ La figura di quest’insetto, emblema egizio notissimo, era certamente un capo d’etrusca superstizione: ognuno voleva averne e in vita e in morte: perciò fanti se ne trovano di prezzo vile, con forme globose ed informi; meccanismo tenuto dai poco avveduti per uno de’ primi passi dell’arte.
- ↑ Tyrrhena sigilla. Horat. ii. ep. 2. v. 180.
- ↑ Vedi i monum. dell’Italia ec. tav. liv. 1.; Winckelmann, Mon. ined. 106.
- ↑ Vedi tav. cxvi. cxvii.
- ↑ Tute, Pele, Achele, These, Hercle ec.: consueta terminazione in retto di mascolini.
- ↑ Plutarch. de audiendis poetis. T. ii. p. 27. Nanu, cioè vagabondo in suo linguaggio, chiamavano essi l’eroe. Jsacius in Tzetz. ad Lycophr. 1244.
- ↑ Plin. xxxv. 3.
- ↑ Vedi tav. lxv-lxx.
- ↑ Vedi tav. lii-lviii.
- ↑ Vedi tav. lix. 5. 6., lx. civ-cviii: ed i monumenti dell’Italia ec. tav. xxx-xxxvii.
- ↑ Vedi sopra p. 115. 116.
- ↑ Vedi tav. vii. tav. cviii.
- ↑ Vedi sopra p. 112. 160.
- ↑ Vedi sopra p. 163: ed i monumenti tav. xxxvi. 3., xlvii. 1.
- ↑ Vedi tav. xvii-xxii.
- ↑ Vedi sopra p. 105.
- ↑ Vedi tav. xxii. cii. 2. 3. 5-8.
- ↑ Una quantità innumerabile di questi vasi volgari, e di forme speciali, tratti dai recenti scavi della Badia e di Canino, ho veduto ammassati sul posto, e non curati dai possessori. Nei sepolcri donde si levano colali vasi a stampa raramente si rinvengono vasi dipinti. Vedi per saggio tav. xxvii. 3-13.
- ↑ Vedi sopra p. 161.
- ↑ Vedi tav. xiv-xv.
- ↑ Vedi tav. lxxiv.
- ↑ Vedi tav. lxxiii.
- ↑ Myriomorphos.
- ↑ Λήκυθος: gutto o balsamario.
- ↑ Circa la forma e la nominazione greca di tali vasi usitati, vedi la recente opera del dotto sig. Panofka, Recherches sur les véritables noms des vases grecs ec. Paris 1829.
- ↑ Gli esempi sono frequenti. Vedi tav. xcv.
- ↑ Vedi tav. cxiii. 5. 6.
- ↑ Vedi tav. lxxxiv, 3., xcix. 2. 5. 6. 9. 15. 16. 17.
- ↑ Pausan. x. 19. conf. Vandale, de Oracul. p. 179. 571.
- ↑ Plutarch. de inscript. Et. T. ii. p. 388. 389.; Macrob. Sat. i. 18.; Arnob. iii. p. 119. Cum Liberum, Apollinem, Solem, unum esse contenditis numen.
- ↑ Tali sono nella sola Vulci con leggende etrusche la Minucia, l’Annia, l’Aruntia o Aruntilia, la Velia ec: gentilizj che si ritrovano tutti in altre iscrizioni dell’Etruria centrale.
- ↑ Vedi tav. lxxv-lxxviii.
- ↑ Dei due porti di Corinto il Cenereo serviva a’ suoi traffici coll’Asia; il Lecheo alla mercatura coll’Italia. Strabo viii. p. 262.
- ↑ Tali per es. quei trinclini che Mirone, tirano di Sicione, aveva offerto in Olimpia circa l’Olimp. 33. Pausan. vi. 19.
- ↑ Meiners, Storia delle scienze ec. T. i. p. 268. not. 5.
- ↑ Plin. xxxv. 3.
- ↑ Ἔχων δὲ φίλους πολλοὺς καί ἀγαθοὺς Τυῤῥηνῶν, διὰ τάὰς συνεχεῖς ἑπιμιξίας; μάλιστα δ’ἐν Ταρκυνίοις. Dionys. iii. 46.
- ↑ Μάλιστα γάρ καὶ ἐνταῦθα, καὶ ἐν Σικυῶνι ηὐξήθη γραφική τε, καὶ πλαστικὴ, καὶ πᾶσα ἡ τοιαύτη δημιουργία Strabo viii. p. 263.
- ↑ Οἱ τὰ ἐρείπια etc. «I nuovi abitanti di Corinto (colonia d’Augusto) in scalzando quelle rovine e scavandone i sepolcri, vi trovarono molti vasi di terra cotta e di bronzo lavorati in rilievo (τορευμάτων). Per l’ammirata bellezza di tali opere dessi non lasciarono nessun sepolcro senza vuotarlo, di modo che raccogliendo gran copia di cotesti vasi e vendendoli carissimo, riempierono Roma di Necrocorinthia: questo era il nome che da vasi a coteste opere tratte fuori dei sepolcri, massimamente a quelle di terra cotta. Furono in prima molto stimate, e avute in pregio quanto i bronzi di Corinto; indi si cessò dal ricercarle, non tanto perchè vennero meno, quanto perchè la più parte delle figuline che ne restavano non valevano le prime». Strabo viii. p. 263.
- ↑ Un esemplare di coteste figuline corintie si ha nel vaso pubblicato da Dodwell, Classical tour trough Greece. T. ii. p. 196.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 143. 157.
- ↑ Parrà un fatto singolare che il nome di Euchira appaia in una coppa rarissima del Principe di Canino. Dessa è di finissima terra, senza pittura esterna, e di forma consueta (tav. c. 2); nell’interno dentro a un circolo v’è dipinta la Chimera di stile arcaico, rappresentatavi della solita forma mista di leone, di capra e di serpente. Al di fuori ha per leggenda da un lato EV+EPOS; EΠOIESEN; dall’altro ΗΟΡΑΟΤΙΜΟΗVΙΗVS (sic.), Non vorrei già affermare che questi fosse lo stesso Euchira mentovato da Plinio; bensì è notabilissima cosa il ritrovare in un vasaio, e precisamente sopra un vaso rinvenutosi a Vulci, il di lui omonimo.
- ↑ Ἀπελαυνόμενος δὲ πανταχόθεν, ὑπὸ τῶν ἐπικωρὶων, καὶ ὀυχ ὅπως ἐν τοῖς πρώτοις ἀριθμούμενος, ἀλλ’ούδ’ἐν τοῖς μέσοις, ἀναρῶς ἔφερε τήν ἀτιμίαν. Dionys. iii. 47
- ↑ Benchè il dialetto delle iscrizioni sia comunemente ionico, non mancano esempi di leggende che hanno forma dorica: il digamma, ancora che raro, vi si vede qualche volta; e sì ancora nomi dorici, come Ἰμερότα, titolo proprio d’un Sirena: non vi sono tralasciati nè pure gli eroi della razza dorica; tal è Glenos figliuolo d’Ercole, in un vaso del P. di Canino.
- ↑ Plin. xxxvi. 4.
- ↑ Tal è il vaso siculo col nome di Talide (Lanzi, de’ vasi ant. p. 147. tav. iii); l’altro col nome di Nicostene trovato in Agrigento (Mus. Blacas tav. ii.), e quello ancora col nome di Archicle tratto dagli scavi di Campania (Mus. Blacas tav. xvi): tutti artefici che si ritrovano nominali in vasi volcenti d’arie e fattura identica.
- ↑ Ἐποίησεν.
- ↑ Ἔγραφσεν.
- ↑ V. Museum Etrusque de L. Bonaparte p. 5-10. Bisogna aggiungervi altri nomi noti: Xenoclis, Archicles, Sosias ec.
- ↑ Vedi per confronto le tav. xc. xciv.
- ↑ Sopra un frammento di vasi quivi trovato, ho letto il nome d’Ierone: lo stesso replicato più volte in vasi di Vulci. V. Museum Etrusque. N. 24. 48. 64.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 157.
- ↑ Plin. xxv. 12.; Marziale (xii. ep. 102. 114., xiii. 110) loda le tazze cumane e le surrentine: quest’ultime sono più specialmente encomiate da Macedonio, autor greco della Antologia. Brunk, Analect. T. iii. 33. p. 120.
- ↑ Lo stesso simbolo degli occhioni ho veduto più volte in vasi consimili trovati a Chiusi; e ne conservo presso me il disegno. All’opposto non è a mia notizia che si rinvenga frequente cotesto emblema fuori del suolo etrusco. Due o tre coppe soltanto con occhioni corrispondenti si veggono nel Museo copioso Borbonico di Napoli: diconsi di Nola; però non molta fede vuol darsi alla provenienza di tali vasi spacciata dagli antiquarj mercanti: molti e molti sono chiamati tuttodì o di Grecia, o di Nola, che mai non videro quelle beate contrade.
- ↑ Vedi tav. xcvi.
- ↑ Vedi sopra p. 161. 162.
- ↑ Vedi tav. cxviii. 4- 5.
- ↑ Antiqui operis.
- ↑ Sveton. Caes. 81.
- ↑ Strabo viii. p. 263.
- ↑ Vedi sopra p. 146.