Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo XX
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CAPO XX.
Sicilia, Sardegna, e Corsica:
marineria degli Etruschi e d’altri popoli italici.
La favola omerica dei Ciclopi era stata assai probabilmente imaginata in sulle inaudite narrazioni, che gli antichi navigatori per le terre occidentali andavano divulgando intorno a’ primi selvaggi e inospitali abitanti della Sicilia. Ma concordemente le storie riconoscono soltanto ne’ Sicani i più vetusti popolatori dell’isola. Tucidide1, seguitato in ciò da Filisto2, e da parecchi altri scrittori, li teneva per Iberi scacciati della patria loro dai Liguri: pure non è di poco dubbioso se i Liguri avesser mai avuto sede oltre i Pirenei3: dove cercavasi invano dai geografi anche quel fiume Sicano, che si diceva aver dato il suo nome al popolo originario: così meglio si vede che riferiva Tucidide senz’altro esame una tradizione straniera, piuttosto verisimile, che certa. Timeo4 all’opposto redarguiva cotesta sentenza, ed accusando l’ignoranza di Filisto provava non dubbiamente5, e per documenti irrefragabili, che i Sicani furono anzi popolo indigeno, e li più antichi abitatori o cultori dell’isola: alla quale opinione positivamente consente anche Diodoro6. E nel vero i costumi stessi de’ Sicani sparsi per campagne in buona parte incolte, infamati per ladroneggi, e senza stato fermo7, ben manifestano un popolo nativo, mantenutosi lungo tempo nel primitivo essere di vita sociale. Niente più civili han dovuto ritrovarsi i Sicani allora quando sopravvennero in moltitudine i Siculi dall’Italia, ed occuparono grandissima parte de’ luoghi che tenevano i Sicani, respingendo indentro con la forza del numero costoro al lato occidentale e meridionale dell’isola. Importantissimo evento, già narrato di sopra distesamente, per cui si formaron nuove correlazioni, parentele, e commerci tra Italia e Sicilia, così appellata quindi innanzi col nome de’ suoi più potenti dominatori8. Non per tanto dimesticatisi in progresso di tempo Sicani e Siculi, si ristrinsero ambedue quasi come se fossero un popol solo: e giustamente son dessi quei barbari siciliani abitanti l’interno dell’isola, non pure parlanti un dialetto speciale ma in ogni età distinti, per la razza loro diversa, sì dai coloni fenici e cartaginesi, come dai greci. Senza parlare degli Elimi, che si reputavano per solito vanto troiani qua venuti in fuggendo gli Achivi, e dimoranti in Erice, Egesta ed Entella.
Molti secoli avanti la fondazione di Cartagine i Fenici di Tiro frequentavano nelle spiagge dell’Affrica, dove aveano stazioni e commerci dai confini della gran Sirti e Cirene insino alle colonne d’Ercole, cioè del massimo eroe Tirio. I cui molti viaggi accennano, sotto figura d’allegoria, le colonie condotte fuori dagli stessi navigatori fenici. Non diversamente approdarono essi in Sicilia: ed a comodo dei loro traffici si posero principalmente in sulla costa di fronte all’Affrica tra occidente e mezzogiorno, là intorno al capo di Lilibeo. Benchè non siavi certezza alcuna intorno l’epoca delle prime colonie fenicie nell’isola, si può ragionevolmente credere, che elle fossero edificate nei tempi più floridi della città di Tiro, circa un secolo dopo la guerra troiana. Tennero ugualmente da quel lato le isole minori di Malta, Gozo9 e Cossura, scale opportunissime alle navigazioni nel mediterraneo occidentale, e che portano ancora nel nome un sicuro vestigio della dominazione fenicia10.
In sulle tracce della metropoli fu così agevol cosa ai Cartaginesi il passare essi stessi in Sicilia, dove ereditarono delle possessioni e delle colonie maggiori fondatevi dai Fenici, tra le quali Motia, Soloente e Panormo, mandandovi gente nuova ovunque elle erano decadute. D’allora in poi il dominio punico, fattosi ognor più prepotente, non cessò d’aver parte grandissima negli affari pubblici, fino a tanto che la Sicilia non venne a stato di provincia romana. Ma più che altro l’immenso traffico che facevano insieme Siciliani e Cartaginesi, permutando in grande le loro cose venali, era stato di moltissimo guadagno ad ambedue: ed è pur vero, che di Sicilia s’esportavano in gran copia per l’Affrica, e con largo profitto degli isolani, vini generosi, olj, e altre derrate11.
Maggior fortuna e splendore ebbero tuttavia le colonie greche che passarono in Sicilia dopo i Fenici, e vi tennero un più durevole e florido impero. Primi di tutti si furono i Calcidesi d’Eubea, fondatori di Nasso diciassette anni innanzi l’era romana12. L’anno appresso Archia corintio edificò Siracusa: e ad esempio loro altre generazioni di Dorj e Ionj vi posero l’un dopo l’altro sue colonie, che occuparono grande spazio delle marine all’intorno dei tre promontori, pe’ quali portava l’isola in bocca de’ Greci il nome di Trinacria. Di tal modo divenne presto la Sicilia quasi tutta greca: e fu tale e tanta l’influenza della civiltà e della lingua ellenica, che vi restò preponderante per secoli: pure, tuttochè l’idioma greco fosse il più usitato nel civil commercio non per questo vi si spense del tutto il proprio dialetto siculo, nè tampoco il punico13; ond’è che i Siciliani in genere sono pure chiamati trilingui14.
La Sardegna e la Corsica, situate ambedue quasi nel centro del Mediterraneo, non potevano non essere visitate ugualmente nella più remota età dai primi navigatori. Soprattutto la Sardegna di tanto più grande, più fertile, e di facile accesso per la comodità dei suoi porti, e di numerose cale, sì molto acconce ai marinari, che andavano cercando alla ventura bramate sorgenti di ricchezze, ha dovuto invogliare per tempo animosi stranieri a posar quivi sue dimore. V’approdarono dapprima i Fenici; e, come in Sicilia, avvedutamente si stanziarono nel lato meridionale di contro all’Affrica, che di sua natura è anche quasi per tutto arabile e piano, e circuito d’una spiaggia meglio accessibile alle navi. Ivi intorno all’entrata del maggior golfo stava Nora col suo porto: Carali, o Cagliari, occupano il fondo del golfo stesso: ed ugualmente là presso sul lido di mezzogiorno trovavasi Sulci, porto e citta nulla meno antica, nè manco ragguardevole dell’altre due. Le quali terre, senz’alcun dubbio di stato fenicio-cartaginese, furono pure abitale ed accresciute di mano in mano dai Cartaginesi stessi la cui repubblica, al principio dell’impero persiano, già teneva in suo potere parte grandissima della Sardegna con certa e stabile signoria. Il possesso di un’isola sì tanto ferace, copiosa di miniere, ed il cui regno vegetabile porge a un tempo e le piante dell’Europa temperata, e quelle dell’Affrica settentrionale, era al certo di moltissima importanza per Cartagine, se non altro per potervi cambiare a suo total profitto le proprie derrate contro legname, pece, ferro, e altre materie gregge abbondevoli in Sardegna, e di cui più maggiormente bisognava il comune cartaginese per le sue fabbricazioni navali. Onde non fa specie alcuna se non bastando la forza, adoperassero i Cartaginesi ogni più estremo spediente a soggettare e domare il feroce animo de’ Sardi. Con tal fine si vuol che usassero il crudel ripiego di disfare tutto ciò, che trovaron di colto nell’isola; d’estirparvi le piante; e di più vietare sotto pena capitale agl’indigeni la lavorazione dei terreni15: mezzo acerbissimo per cui tendevano i dominatori a mantenere i paesani suoi vassalli in continuo bisogno dell’alimento, perchè fossero miseri, poveri e deboli. Nè sicuramente più mite, o men confacente al sospettoso tirannico impero di mercatanti, sarebbe stato il loro dritto delle genti se, come dice Eratostene16, statuirono per legge, che si sommergessero in mare le navi e le genti forestiere colte a trafficare nell’isola. Con tutto questo i Sardi più animosi, già riparatisi tra le balze di scoscesi monti, dove tenean vivo il nome d’Iliensi, Corsi e Balari, mai non cessarono nella lor salvatichezza di contrastare ferocemente all’armi puniche. E par di certo che i primi fossero anche i più antichi e indigeni isolani, somiglianti, così dice Pausania in sembiante e costume ai Libj17. Erano i secondi una mano di nativi Corsi, discacciati per sedizioni domestiche dalle case loro, donde passarono ad abitare i dirupati monti che fronteggiano il lato settentrionale della Sardegna; laddove i Balari, d’origine iberica, si tien che fossero una generazione di stipendiarj dei Cartaginesi, che malcontenti si rifuggirono anch’essi nelle montagne; e narra Pausania, che ivi stesso i Corsi posero loro l’appellativo di Balari, che in suo dialetto valea quanto dir fuggitivi: se pure non eran coloro, siccome suona il nome, una banda di que’ famosi arcieri delle Baleari, occupate per l’innanzi dai Fenici che aveano Gadira, Tartesso, e altri luoghi della Spagna18. Benchè dai geografi sieno mentovate non poche altre popolazioni sarde d’oscuro nome, Iliensi Corsi e Balari, furono sempre le maggiori e le più temute19. Ma di gran tempo stanziati tra monti inaccessibili vivevano essi senza cultura in povero stato: abitavano per entro tugurj o caverne: vestivano pelli di capre o di muflone, razza tuttora natia della Sardegna: si nutrivano di soli latticini e di carne; e sempre armati portavano seco targa e pugnale20. Così fuggenti lo stadio e le fatiche dell’agricoltura, non attendevano essi che a vagante vita pastorale; dalle loro alture non finivano d’infestare e depredare intorno i luoghi colti sottoposti: tanto che ognor molestevoli allo straniero, nè la dura severità cartaginese, nè la forza bellica de’ Romani, furon mai sufficienti a domare la loro inflessibile natura, od a mutare i costumi selvaggi21. Che già tutto non era invettiva in Cicerone, se al suo tempo ei chiamava ancora per nota di spregio i Sardi mastrucati ladroncelli22.
L’opinione che teneva principalmente per Punici i Sardi più inciviliti, era altresì quella del romano oratore23. E di vero il sangue affricano non ha mai cessato di scorrere nelle vene del sardo. Perocchè i Cartaginesi mischiatevi le razze non solo renderono al tutto punica la miglior porzione dell’isola, dove signoreggiavano, ma per mezzo delle colonie v’introdussero arti e culture sue proprie. Nè forse ad altro popolo sono da attribuirsi i così detti Nuraghi, che in molto numero si ritrovano ancora per la Sardegna. Son quelli certi edifizj, o sien torri più propriamente, di trenta a quaranta piedi d’altezza, costruite di pietre calcaree del paese non collegate da cemento, e di tal forma che gradatamente si ristrigne in cono alla sommità: una porta abbasso serve d’unico ingresso, e al di dentro han d’ordinario due o tre camere arcuate soprapposte l’una all’altra, dove si sale per una scaletta piccola, o per una cordonata, la qual traversa spiralmente la grossezza dei muri. Alcuni Nuraghi si trovano circondati da larghi terrapieni, fortificati intorno da muraglie alte circa venti piedi; altri sono di più fiancheggiati da coni minori o torri laterali; e il muro, che di dentro le racchiude, è qualche volta attraversato nella sua total lunghezza da un tragitto, il qual conduce d’uno in un altro cono, e molto corrisponde all’uso delle nostre casamatte. In queste straordinarie ma rozze moli, fabbricate con sassi irregolari e mal tagliati, non si vede per certo molta arte d’edificare, ancorchè stabili24. E in ritrovarle qua e là per lo più innalzate o sulla cima delle colline, per falde dei monti, si può anche presumere, che tali fabbriche di solida struttura servissero generalmente ad uso del pubblico. Consimili edifizj si osservano nelle isole Baleari, e quivi, come in Sardegna, han dovuto esservi costrutti da un medesimo popolo dominatore. Nè questi può credersi mai l’etrusco, il quale non occupava se non che i luoghi littorali. Il nome stesso antico e paesano, che serbano mai sempre di Nuraghi, non è lieve indizio dei loro veri fabbricatori. Perchè, sebbene una tradizione genealogica attribuisca a Norace, capo d’una colonia di Iberi25, la fondazione di Nora, o Nura, ella fu più verisimilmente opera dei Cartaginesi26: ed anche oggidì monte della Nurra chiamasi dai Sardi la grande giogaia, che si distende al settentrione dell’isola verso occidente, dove forma una delle cinque catene, che s’alzano irregolarmente in sulla sua superficie. All’opposto nell’isoletta di S. Antioco, detta anticamente Enosi, prossima a Sulci, certissima colonia cartaginese27, si veggono scavate per entro il monte centinaia di tombe, che al presente servono di casale al popolo: come sembra vero erasi questa la necropoli stessa di Sulci, in cui, poco innanzi, sono stati ritrovati sopra corpi morti alcuni pezzi di notabili armature di bronzo28. Non diversamente nell’isola di Gozo, mentovata di sopra, si trovano in molto numero altre consimili grotte sepolcrali, secondochè portava l’immutabile costume e rito fenicio-cartaginese, al pari dell’etrusco: in vigor del quale i sepolti non aveano monumenti allo scoperto, ma tombe cautamente celate sotterra. Il che avverto qui espressamente onde mostrare, con tutta la maggiore probabilità, che i Nuraghi sardi non han potuto essere con proprietà sepolcri29.
Ancora che Strabone non avesse detto affermativamente che gli Etruschi abitarono in Sardegna30, lo avrebbe persuaso sì la vicinanza delle coste tirrene, come le possessioni loro nella Corsica, e il genio marittimo della gente. Ma nulla sappiamo di più del modo per cui v’ebbero per un tempo in quelle marine emporio, commercio e padronanza. Pure nel nome degli Aesaronensi31, popolo sardo, abbiamo un vocabolo di certa origine etrusca; e la citta medesima di Feronia32 posta sul mare dirimpetto al lido tirreno, v’era sicuramente intitolata del nome d’una divinità tutrice dei Toschi. I Greci dell’Ionia, regnando Ciro, già conoscevano per racconti di navigatori la Sardegna qual isola grande e copiosa di tutto ciò, ch’è al vivere necessario33: per il che in rischiosi frangenti eglino trattarono anche più volte seco insieme di trasferirsi quivi a salvezza della comune libertà34. Pausania35, relatore di tutto quel che si diceva intorno la Sardegna, parla d’una colonia pretesa greca condottavi da Aristeo: d’un’altra colonia di Tespiadi sotto la scorta d’Iolao; e finalmente di profughi Troiani, che avrebbono dato l’essere e il nome agli Iolai, o altrimenti Iliensi. Ma queste novelle di mitologi e di genealogisti, già pienamente rifiutate dai critici36, non abbisognano d’ulteriore confutazione: benchè sia dubbioso non poco se, più anticamente dei Balari, altri Iberi si fermassero nell’isola: non essendo poi tanto inverisimile, che una qualche generazione di Baschi vi giungesse per mare, e vi dimorasse alcun tempo, siccome avvenne nella propinqua Corsica37.
Quest’isola situata al settentrione della Sardegna, di cui segue la direzione verso mezzogiorno, darebbe a credere per la sua costituzione geologica, che una volta si fosse distaccata dalla maggiore, divisa soltanto per uno stretto braccio di mare; quantunque da se la Corsica per ogni parte montuosa, inculta, e piena di foreste, nulla produca che paragonare si possa alle copiose messi della Sardegna. In tempi sconosciuti vi navigarono Iberi e Liguri38: ma gli Etruschi, per la maggiore vicinanza, aveano anche più facile e sicuro tragitto nell’Isola. Quivi infatti, allora che più signoreggiavano i mari, vi fondarono Nicea39, colonia del sangue loro, la quale proteggeva non meno i traffici, che il dominio della madre patria. Poichè buona parte degl’isolani soggettati, e fatti tributari agli Etruschi, davano loro annualmente certa quantità di ragia, cera e miele40: soli prodotti di che soprabbondassero; anzi di tal natura che fan manifesta l’imperizia della sementa, la povertà dei paesani, ed i costumi materiali. Quindi è che gli scrittori antichi, e massimamente Timeo41, esagerarono di tanto la salvatichezza de’ luoghi che, al loro dire, uomini ed animali v’erano a un modo indomabili. Ma i Greci antichi conosceano sì poco questi mari di ponente, e la mappa stessa dell’Italia, che la Corsica si trova chiamata da Ecateo un’isola dell’Iapigia42: e vuol di più perdonarsi a Seneca la di lui esagerazione rettorica, per riguardo all’infelice esilio43. Erano certo gl’indigeni Corsi razza feroce44, piuttosto inasprita, che mitigata dal timore dell’armi forestiere. Datisi per natura alla vita sciolta pastorale si cibavano unicamente di latte, miele e carni delle loro greggi45: tuttavia, soggiunge Diodoro, vivean tra se non senza giustizia ed umanità: nè scarso guadagno doveano essi trarre anche dai loro boschi, folti d’alberi d’alto fusto, e molto acconci alle costruzioni navali46. Non furono dunque i nativi Corsi, dimoranti nell’interno affatto privi di beni naturali: e quanto abbondantemente vi crescessero copiosi di numero, ne fanno certa testimonianza i geografi47.
Allora quando i Focesi dell’Ionia, sottraendosi alla dura servitù dei Persiani, s’erano condotti in Corsica, dove fondarono Aleria48, di già gli Etruschi tenevan qualche parte dell’isola con istabile signoria. Perlochè collegatisi con i Cartaginesi, padroni della Sardegna, si mossero entrambi per gelosia di dominio contro gli Ionj, che interamente disfatti navigarono appresso con gli avanzi della loro gente pe’ lidi dell’Italia meridionale. Circa ottant’anni dopo stava la Corsica ancora soggetta agli Etruschi49; ma gli emuli Cartaginesi preso ardire per la declinazione marittima e terrestre della potenza etrusca, duramente angustiata in quel tempo dai Siracusani e Romani, ruppero gli antichi patti di concordia, e occuparono essi stessi sovranamente la Corsica, cacciandone i coloni toscani: ingiuria la qual diede cagione alle acerbe nimicizie, che sempre duravano per mare tra i due popoli ostili intorno alla metà del quinto secolo di Roma. Di tal maniera la Corsica divenne del tutto cartaginese al pari della Sardegna: ed ambedue già erano in potestà di Cartagine, quando soggettate a Roma per la vittoria decise la forza, se dovea dirsi la fede punica o la romana.
La dominazione degli Etruschi era stata men grave ai Corsi, che non quella dei Cartaginesi nella Sardegna: e sempre che si potesse avere buona cognizione del dialetto proprio dei montanari Corsi, non sarebbe impossibile ritrovarvi addentro talune radici affini alle antiche lingue italiche50. Possedevano ugualmente gli Etruschi l’isola dell’Elba, sì abbondante di miniere, con tutte le isolette attorno dell’arcipelago toscano: Gorgona, Capraia, Giglio, Pianosa, Monte Cristo, Gianuro e alcune altre: le quali poste come in mezzo tra il lido tirreno, e la Corsica e Sardegna, erano tante sicure scale ai primi naviganti. E noi abbiamo per fermo che questa grande comodità ch’ebbero i Toscani antichi abitanti la riviera, di provarsi senza timore negli esercizi marinareschi, fu anche la cagione principale per cui, prima degli altri italici, eglino attesero indefessamente all’arte nautica, e per essa salirono in maggiore potenza51. Vero è che il vanto d’intrepidi navigatori attribuito anticamente e concordemente ai Tirreni, vuolsi da alcuni moderni eruditi trasferire ai misteriosi Pelasghi: ma qui replico, che Dionisio ben distingue a proposito gli uni dagli altri, là dove dice sì positivamente, aver li Pelasghi durante la loro dimora in Tirrenia imparato dai Tirreni la marineria52. Furono al certo i nostri Etruschi o Tirreni antichissimo popolo, e tale in somma, che dessi facean via alle sue fortune per terra e per mare qua nell’occidente all’epoca della guerra troiana. Il nome loro già sonava glorioso in quella sì remota età degli eroi, età di forza e di violenze. Di quanto si fossero terribili ai navigatori gli audaci corsali tirreni, ne son piene le memorie antiche. E sicuramente mediante il frequente corseggiare sì nel mare Tirreno e Siciliano, come nell’Ionio e nell’Egeo, donde praticavano per le coste asiatiche, si renderono alfine esperti marinari quanto i Cartaginesi: ed all’esempio loro, da che il commercio cessò di congiungersi con la pirateria, di corsali indomiti si fecero nauti disciplinati e mercatanti53. Fino dai tempi che immediatamente precedettero la monarchia persiana, i navigatori etruschi s’inoltravano arditi per tutte le vie del mare interno, sede principale della navigazione antica. All’epoca della presa di Mileto, la quale s’arrese ai Persiani l’anno 494 innanzi l’era volgare, navi da carico tirrene trafficavano in que’ mari d’Oriente, e per le coste di Fenicia e d’Egitto, a competenza dei Cartaginesi54. Teneano ugualmente gli Etruschi in quella età navigli armati, galere, e legni sottili: se pure una città loro principale Agilla, non avea fornito ella sola le sessanta triremi, colle quali furono combattuti i Focesi nel mare di Sardegna. Or questi grandi apparati navali, quest’arte di combattere in ordine di battaglia, e questi studi di marineria, sì ardui nella pratica, erano indubitatamente per gli Etruschi non che il frutto del valor de’ maggiori, ma continovate fatiche di secoli: quindi più maggiormente si conferma di quanto antica, consueta e fruttuosa, fosse per esso loro l’arte del navigare. Nè senza verità, già nel vigore della confederazione etrusca, i loro popoli marittimi erano saliti in tal possanza, che per numero e forza di navilio ottennero anche il nome glorioso di dominatori del mare55. Quanta si fosse in allora l’audacia dei naviganti etruschi ben si comprende dal tentativo ch’essi fecero di condurre una colonia de’ suoi ad un’isola grande, fino a quel tempo incognita del mare Atlantico, che può credersi una delle Canarie, poco avanti discoperta dai Cartaginesi, ivi arrivati per fortuna di vento56: però i nocchieri toschi, cimentatisi a ritentare quel sentiero, ne furono impediti dagli emuli, mai sempre attenti a celare altrui le vie de’ traffici oltremarini che gli si erano aperte57. Vero è che il gius convenzionale tra Etruschi e Cartaginesi58 dovea determinare i diritti respettivi delle loro navigazioni, limitarle, e assicurarle: poichè ciascuno imperava solo ne’ suoi mari. E se con tal dritto i Cartaginesi vietarono la navigazione fuori dello stretto di Gadira agli Etruschi, si rende pure ragione perchè dessi stessi, padroni assoluti del Tirreno, v’esercitassero anche la guerra piratica contro chiunque non avesse seco loro patti e convenzioni legittime.
Erano di fatto gli Etruschi non solo padroni del lido tirreno con più città potenti, ma signori altresì delle spiagge di Campania ne’ primi secoli di Roma59. Per la qual cosa postisi a far l’assedio di Cuma vi sostennero quella ostinatissima infelice pugna navale, che grandemente abbassò il loro imperio marittimo60. La memoria di sì tanto vituperio vive eterna per i versi di Pindaro61; ma, non per questo eglino s’astennero dall’usare la prepotenza tolta innanzi dai loro antichi nelle acque del Mediterraneo occidentale. Nè cessarono tampoco d’infestare que’ mari per arte piratica, ordinario mestiere d’animosi naviganti. Que’ di Lipari, antichi coloni di Cnido62, dominatori dell’isole Eolie, ed esercitanti ugualmente la pirateria63, contendevano di lungo tempo cogli Etruschi64, ed ebbero anche la sorte, passando dalle rivalità alle vendette, di rompere la loro armata in un feroce combattimento navale: successo sì glorioso ai Liparoti, che quel comune dedicò al dio di Delfo tante statue, quante furono le navi predate65. Così Rodi mostrava, per trionfale monumento della sua vittoria, i ferrati rostri tolti ai corsali tirreni66. Ed Anassila, signore di Reggio, dovette egli stesso fortificare l’istmo Scilleo, onde cautelarsi da quella banda, e gastigare il temerario ardire dei pirati67. Corseggiavano essi, com’è credibile molto, a proprio e privato rischio e profitto dei padroni; in quel modo che masnade di gente a piede, secondo il costume militare, facean la guerra a conto del condottiere per solo mestiero68. Ma di consiglio pubblico degli Etruschi non so qual città nemica ai Siracusani, nell’impresa degli Ateniesi contro Siracusa, avea dato per aiuto tre navi di cinquanta remi69; e di più le sue genti d’armi combatterono a terra molto valorosamente in quella rotta dolorosa70. Non diversamente, circa un secolo dopo regnando Agatocle, per uguale nimistà contro agli odiati Cartaginesi, diciotto triremi etrusche, unite a diciassette siracusane disfecero l’armata punica71: vittoria che diè nuovamente l’impero del mare siciliano, bench’ella sia l’ultimo fatto istorico del valore navale dell’Etruria, già prossima a soggiacere tutta insieme alla signoria romana72. Cessò con la perduta libertà ogni suo dominio marittimo: vennero meno i porti, gli arsenali, le navi, i marinari e gli usati studi marinareschi: laonde di tanta scaduta sua forza di marineria non altro restava all’Etruria in sul finire della seconda guerra punica, fuorchè quella sì abbondante, ma inutil copia d’armi, d’attrezzi, e di strumenti nautici, che alcune città trassero fuori delle sue vecchie armerie, per provvedere e munire la celebre armata di Scipione73.
Così dunque gli Etruschi, fino dai tempi mitici, erano stati prodi e valenti naviganti. Nell’età propriamente istorica navigavano essi e mercavano per le terre dell’Asia occidentale, e per l’Egitto: frequentavano a un modo nell’Ellade propria, nell’isole dell’Egeo e nelle Sporadi; e solcando altre acque del mare interno orientale, del Tirreno e dell’Adriatico, potea dirsi che praticassero di fuori ed usassero, con quasi tutti i popoli civili del mondo antico. La qual cosa senz’altro basterebbe da se a confermare per quanti mezzi validi potessero di fatto gli Etruschi avanzarsi in civiltà, recando a casa tutto quanto ricoglievano altrove a comodo e pro della loro vita politica: sì che giustamente non si maraviglia il filosofo, se buon numero di ordini, di religioni, d’usanze e di dottrine forestiere, massime egizie, fenicie, sirie e greche, si ritrovino introdotte nel costume pubblico degli Etruschi: essendo vero che migliore ammaestramento non soccorre a un popolo industre ed operoso, quanto il commercio morale d’uomini più colti. Pure, non soltanto le genti del nome etrusco attesero alla marineria, nè furono le sole che per facoltà d’industria partecipassero in qualche forma dei vantaggi d’una professione sì utile all’universale. Principalmente Liguri, Rutuli, Volsci e Campani, posti su’ lidi suoi, esercitavano con più ardita competenza l’arti navali. Dalle loro riviere solcano i primi far vela per la Corsica, la Sardegna e l’Affrica, sopra piccole navicelle guernite di rozzi arredi74: nè meno sicuri scorrevano i marinari Campani (progenie degli Amalfitani) gli stessi mari, con una specie particolare di barche lunghe e veloci75. Con pari franchezza i Rutuli d’Ardea andavano visitando i lor confratelli ne’ lidi orientali della Spagna76. Ma i Volsci d’Anzio e di Terracina, forniti di migliori navi, furono anche li più temuti, come audacissimi nell’arte marinaresca. Valentia che insieme coi Campani doverono principalmente all’antica fratellanza cogli Etruschi77. Con tutto ciò navigando essi con legni fragili in un solo circuito del Mediterraneo occidentale, e per paesi poco in allora civili, non aveano nè pur modo di bastantemente vantaggiarsi mediante limitati commerci: onde vennero poco in istato: dove che al contrario gli Etruschi signori di tante marine, e potentissimi navigatori, aventi in casa propria il materiale più bisognevole alla costruzione, all’arredo e all’armamento dei navigli, furono altresì di tutti i popoli italiani li più valorosi nelle imprese, ed insieme i più inciviliti per costume e per aumentate ricchezze.
Quanto attamente natura abbia collocato Italia ad agevolare e mantenere vivi e floridi i suoi commerci oltremarini per tutto il Mediterraneo; e quanto potente insieme sia stato in ogni tempo il genio de’ suoi per la nautica, lo manifestano al mondo le rinate navigazioni nell’età di mezzo per sola virtù dei nostri medesimi popoli italiani. Ed invero è cosa mirabile a dire, che in quel modo che gli Etruschi già navigavano e trafficavano per le coste dell’Asia minore, e fors’anco più addentro nel Bosforo Tracio, così pure i navigatori Pisani dagli stessi lidi tirreni dirizzarono le prode non solamente all’Occidente e all’Affrica, ma inverso la Soria, l’Anatolia, e il Ponto Eusino. Mal avveduto sarebbe l’istorico, il quale volesse far paragoni e agguaglio dell’antica navigazione italica colla moderna. Però se Pisa sola già nel decimo secolo poteva mettere in mare trecento navi tra galee, dromoni, cocche, e legni minori, certo si può presumere che Luni, signora del magnifico golfo della Spezia, Populonia, Pirgo, con gli altri porti e terre marine lungo la riviera occidentale dell’Etruria, tutte insieme tenessero un navilio più numeroso, atto non meno alla guerra, che alla mercatura. I dominatori Etruschi sull’Adriatico frequentavano ugualmente nelle contrade di levante, nè forse al tempo antico essi vi furono men operosi trafficanti dei moderni Veneziani. Il valore marittimo dei Campani testè mentovati si rinnovò coll’istessa ventura nei prodi Amalfitani: ma soprattutto l’audacia dei Liguri, franchi sprezzatori dei pericoli del mare, ben presagiva qual sarebbe stata un giorno la fortuna navale del valente popolo genovese. Tratterò alquanto distesamente al suo luogo del fondo e del materiale di questi continovati traffichi italiani78. Qui non curo ripetermi: l’incivilimento maggiore, le dovizie, l’arti migliori, tutta fu opra anticamente del commercio marittimo, e delle relazioni vicendevoli con più coltivate nazioni.
Note
- ↑ vi, 2.
- ↑ Ap. Diodor. v. 6.
- ↑ Vedi sopra p. 4.
- ↑ Ap. Diodor. v. 6.
- ↑ ἀκριβῶς ἀποφαίνεται.
- ↑ v. 6.
- ↑ Diodor., v. 6.
- ↑ Vedi Tom i. p. 70.
- ↑ Gawdesch chiamata oggidì dai paesani. (Vassali, Less. malt. p. 323). Quivi sono notabili molto le rovine d’un vasto edifizio chiamatovi dai paesani la torre dei Giganti: monumento di straordinaria forma, benchè di rozza fabbricazione, e probabilmente lavoro della colonia fenicia. Vedi la descrizione e il disegno del monumento stesso fatto sul luogo dal capitano Smith; Archaelogia, or miscell. tracts relating to antiquity. vol. xxii. p. 294.
- ↑ Hamaker, Miscellanea Phoenicia. p. 46. 142. 146.
- ↑ Diodor. xiii.
- ↑ Ol. xi. 1. a. c. 736. Ephob. ap. Strab. vi. p. 184.; Diodor. xiv. 55.; Thucyd. vi. 2.; Scymn. 271. sqq.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 72.
- ↑ Siculi trilingues. Apul. Met. xi.
- ↑ Auct. De Mirab. p. 1159.
- ↑ Ap. Strab. xvii. p. 552. E fu questo appunto uno degli odiosi pretesti, che allegava Catone, per muovere il senato ad occupare la Sardegna: negotiatores spoliabatis, et ut scelus lateret, mergebatis in mare. Cato ap. Appian. Bell. Pun. p. 85. ed. Toll.
- ↑ Pausan. x. 17.
- ↑ Strabo iii. p. 116.
- ↑ Plin. iii. 7.; Mela ii. 7.; Strabo v. p. 155.; Ptolem. iii. 7. Ad alcuni di coloro han dovuto appartenere le figurine in bronzo di varie fogge, al tutto deformi e senz’arte, che si sono trovate nell’isola. Vedi Winkelmann, iii, 4. 42; Caylus. T. iii. tav. 17.; Barthelemy, Mém. des Inscript. T. xxviii. p. 595.; Munter, Under einige sardische idole. p. 2.
- ↑ Nymphodor. ap. Aelian. de Animal. xvi. 34.; Strabo v. p. 156.; Diodor. v. 15.
- ↑ Liv. xli. 6.
- ↑ Mastrucatos latrunculos: in Orat. de prov. cons. 7. Così detti da Mastruga, vocabolo sardo: vestiario di pelle usato anche al presente dai montanari. De la Marmora, Vayage en Sardaigne, 1826.
- ↑ Cicer. pro Scauro 42. ed. Peyr.
- ↑ Vedi l’alzato e la pianta del Nuraghe d’Isili. tav. lxxi. 4
- ↑ Pausan. x. 17.
- ↑ Nuroli, Narag, Naraggara sono tanti nomi di città e fiumi dell’Affrica, di radice fenicia. Vedi Hamaker, Miscell. Phoenicia, p. 260. 269.
- ↑ Strabo v. p. 155.; Mela ii. 7.; Steph. v. Σύλκοι; Claudian. Bell. Gild. sub fin.
- ↑ Mem. dell’Accad. delle scienze di Torino. T. xxv. cl. delle scienze morali, p. 107. p. 119.
- ↑ Espongo i miei dubbi, senza contrastare all’opinione altrui. Nè trovo tampoco ragioni sufficienti a credere i Nuraghi lavori de’ coloni etruschi, e molto meno de’ greci. Se, come pare probabile, l’autore dei racconti maravigliosi (p. 1159), ebbe in mira cotesti monumenti, dove narra dei Tholi (θόλοι) «edifizj costrutti all’antica maniera greca»; questo solo basterebbe a provare che gli Elleni non udirono altro che relazioni fantastiche di viaggiatori: quindi v’accomodarono alla loro maniera la favola, che Iolao ne fosse l’edificatore. Forse il mirabile racconto veniva da Timeo, che scrisse a un modo stranissime cose della Corsica, e ne fu ripreso da Polibio agramente.
- ↑ Καὶ συνοικῆσαι τοῖς τὸν νῆσον ἔχουσι βαρβάροις. Τυῤῥηνοὶ δ´ ἦσαν. ὒστερον δὲ Φοίνικες ἐπεκράτησαν οἱ ἐκ Καρχηδόνος. Strabo v. p. 155.
- ↑ Αἰσαρωνηνσίοι. Ptolem. iii. 7: Aesaronensi derivativo di Aesar.
- ↑ Φηρωνία πόλις: tra Olbia e il fiume Cedrio. Ptolem. l. c.
- ↑ Herodot. i. 170., v. 107., vi. 2.; Pausan. iv. 13.
- ↑ Herodot. v. 124. 125.
- ↑ x. 17. Al dire di lui la Sardegna era pochissimo nota ai Greci, conf. Voss, Veltkunde p. x. 1.
- ↑ Cluver. Sard. ant. p. 484.; Bochart, Geogr. Sacr. p. 630.
- ↑ Vedi Humboldt, Prüfung ec. o sia Esame delle ricerche su i primi abitanti della Spagna, p. 167.
- ↑ Senec ad Helv. 8.; Sallust. fragm. hist. ii. p. 259. ed. Bip.
- ↑ Τὴν δὴ Νικαίου ἔκτισαν Τυῤῥενοὶ θαλαττοκρατοῦντες. Diodor. v. 13. Κυρνίαται venivano chiamati dai Greci i coloni della Corsica, come Ἰταλιῶται, Σικελιῶται, i coloni dell’Italia e di Sicilia. Senza ragione gl’interpreti han dato a quella voce il senso di Κυρνία ἄτη, Cyrnium malum: motto del quale Erasmo adduce una ideale spiegazione. Adag. iii. 7. 92.
- ↑ Diodor. v. 13. Similmente i Romani prendevano il tributo dai Corsi in tanta cera (Liv. xlii. 7), propriamente chiamata corsica cera. Plin. xxi. 4.
- ↑ Ap. Polyb. reliq. xii. 3. 4.
- ↑ Ap, Steph. v. Κύρνον.
- ↑ Senec. ad Helv. 6. 8. 9.
- ↑ Strabo v. p. 155.
- ↑ Diodor. v. 14.; Lyc. Rheg. ap. Athen. ii. 7.
- ↑ Theophr. Hist. plant. v. 9.; Dionys. Perieg. v. 460.; Eustat. ad h. l.
- ↑ Plin. iii, 6.; Mela ii. 7.; Ptolem. iii. 6.: tuttavia è un fallo evidente nel testo di Plinio il dare alla Corsica xxxiii terre o città, mentre la Sardegna, di tanto maggiore, ne contava solo xiv.
- ↑ Herodot. i. 165.; Antioc. Syrac. ap. Strab. vi. p. 174.; Diodor. v. 13. — Ol. lvi. 2. di R. 214.
- ↑ Diodor. xi. 88. — Ol. lxxxi. 4. di R. 300.
- ↑ Nel dialetto corso, uno dei meno alterati, s’adopera comunemente l’U per O: proprietà dei primi linguaggi italici: quindi dicono i nativi duve, truvatu, biancu, specchiu ec.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 107.
- ↑ Dionys. i. 25. Vedi T. i. p. 87. n. 12.
- ↑ Nam e barbaris quidem ipsis nulli erant ante maritimi, praeter Etruscos et Poenos, alteri mercandi causa, latrocinandi alteri. Cicer. de Rep. ii, 4. Non vuol prendersi a rigore l’antitesi che fa qui Cicerone: perchè anche Fenicj e Cartaginesi furono ugualmente per natura di cose prima pirati, poscia trafficanti.
- ↑ Herodot. vi. 17.
- ↑ Ναυτικαῖς δυνάμεσιν ἰσχύσαντες, καὶ πολλοὺς χρόνους θαλὰττα κρατέσαντες. Diod. v. 40., Strabo v. p. 153.; Liv. i. 2.
- ↑ Forse Lancerota o Fuente-Ventura, le più prossime al continente tinente. V. Gosselin. Rech. sur la géogr. systèm. des anc. T. i. p. 145.
- ↑ Diodor. v. 19. 20.
- ↑ Aristot. de Rep. iii, 6.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 118.
- ↑ Diodor. xi. 51. et Συναγωγὴ ἱστορίων ad Ol. lxxvi. 3. di R. 279.
- ↑ Pyth. od. i. 139. et Schol. ad h. l.
- ↑ Antioc. Syrac. ap. Pausan. x. 11; Thucyd. iii. 88.
- ↑ Liv. v. 28.
- ↑ Diodor. v. 9.; Strabo vi. p. 190. Pare che la di loro inimicizia cominciasse dopo l’Ol. l: circa la fine del secondo secolo di Roma.
- ↑ Pausan. x. 11. 16.
- ↑ Aristid. Orat. Rhod. T. i. p. 540. ed. Iebb.
- ↑ Strabo vi. p. 177: in tra l’anno 260 e 268 (Ol. lxxvi. 1.) in cui Anassila mancò di vita.
- ↑ Liv. iv. 53., vi. 6.
- ↑ Thucyd. vi. 88. 103. 104.
- ↑ Thucyd. vii. Ol. xci. 4. di R. 341.
- ↑ Diodor. xi. 71. Ol. cxviii. 2. di R. 447.
- ↑ An. 472. 473
- ↑ Liv. xxix. 36. Populoniesi offersero il ferro: Tarquiniesi telerie per le vele: Aretini 30 mila scudi, e altrettante celate, pili e gesi: aste lunghe di ciascuna sorte sino a 50 mila: scuri, asce, falci, vasi da serbare acqua, macinette ed altri strumenti, quanti ne bisognavano a fornire 50 navi lunghe. Chiusini, Perugini e Rosellani, diedero gli abeti.
- ↑ Diodor. v. 29.
- ↑ Nonius, xiii. 7.; Acro ad Horat. iii. od. 2. 29.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 224.
- ↑ Vedi Tom. i. p. 236-37.
- ↑ Vedi appresso cap. xxviii.