Sentenza Tribunale penale di Perugia - Vicenda Federconsorzi

Tribunale di Perugia

2002 diritto diritto Sentenza Tribunale penale di Perugia - Vicenda Federconsorzi Intestazione 30 agosto 2011 50% Da definire

Organo giudicante: Tribunale penale di Perugia
Deposito in Cancelleria: data del deposito in cancelleria
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Indice















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- La tetragona condotta del Presidente Greco, deciso a seguire il percorso segnato dalla proposta Capaldo, va peraltro messa a confronto con quella di chi per avventura si trovò a fare i conti con i diversi passaggi della procedura. Ed invero, dapprima erano stati i commissari governativi Cigliana, Locatelli e Gambino a dimettersi, una volta verificate le reali prospettive di sviluppo del concordato  : questa volta toccò al dott. Piovano. Il predetto, pur dichiarandosi favorevole in linea di principio alla vendita in massa, aveva in precedenza cercato di opporsi all’accoglimento della proposta Casella, adducendo argomentazioni di vario genere. D’altro canto egli, dopo aver elaborato un progetto di vendite frazionate, aveva vanamente cercato di propiziarne una almeno parziale attuazione. Ed ancora egli si era impegnato sul versante della riattivazione dell’attività di commercializzazione, seguendo la strada indicata dai primi commissari: in particolare egli aveva cercato di far partire il progetto incentrato sulla società Fedit-Agrisviluppo, con il chiaro intento di far transitare nella nuova struttura una parte del personale e delle funzioni di Federconsorzi. In tale prospettiva aveva mutato il nome della società in “Agrisviluppo” ed aveva delineato un primo programma per l’avvio dell’attività, prevedendo il progressivo trasferimento di quote di personale . Fra l’altro nel mese di novembre presso il Ministero del Lavoro era stato sottoscritto un accordo sindacale, che prevedeva l’impegno a trasferire ad “Agrisviluppo” per intanto 50 unità di personale proveniente da Federconsorzi ed a regime 125 . La nuova società era stata fatta inoltre oggetto di una valutazione di stima da parte del prof. Gianfranco Zanda, che peraltro si era espresso in termini del tutto ipotetici, stante il mancato avvio della fase operativa. Sta di fatto che tutto questo lavoro ebbe termine all’improvviso nel mese di maggio del 1993, all’indomani dell’autorizzazione alla vendita in massa. Il dott. Piovano ha in proposito segnalato che proprio in vista dell’ulteriore fase della procedura di cessione, egli, qualificatosi “motozappa del diritto”, avrebbe avuto bisogno della consulenza di un legale, che potesse indirizzarlo nell’impervio percorso. Ma una siffatta richiesta gli fu inopinatamente respinta, essendosi addotta la necessità di contenere le spese. Non accettando tale atteggiamento assunto nei suoi confronti dagli organi della procedura, egli preferì rinunciare all’incarico, pur rappresentando ufficialmente anche l’esigenza di stare vicino alla moglie malata. Certo è che la procedura veniva in tal modo ad essere connotata da una singolare tendenza dei commissari governativi alla fuga, dipendente non solo dallo stressante impegno, ma anche da scelte che evidentemente non si riusciva a condividere . Ma il tema della riottosità dei commissari avrebbe conosciuto con l’Avv. Lettera un capitolo ancora più importante, perché non conclusosi con la fuga, ma con lo scontro diretto. Peraltro nulla di tutto ciò valse a modificare il corso degli eventi, che sempre più appariva il risultato di un’intesa intercorrente tra il Presidente del Tribunale, deciso a procedere a tutti i costi, e il gruppo dei promotori, di cui il prof. Capaldo era senza dubbio il più prestigioso esponente.

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- Le tappe successive furono quelle già descritte della costituzione della nuova società, delle trattative per la stipula dell’atto quadro, del parere espresso dai vari organi della procedura, fino all’autorizzazione alla stipula del contratto, emessa dal Tribunale con proprio decreto del 20-7-1993.

Non costituì elemento meritevole di considerazione negativa il fatto che la società, pur avente ad oggetto esclusivamente la gestione ed il realizzo di quanto proveniente dal concordato Federconsorzi, fosse costituita solo dai maggiori creditori e che in concreto ne fosse preclusa la partecipazione agli altri, stante l’insostenibile aggravio derivante dal conferimento di nuovo capitale di rischio e dalla sottoscrizione di onerosissimi patti parasociali implicanti la disponibilità ad ingenti finanziamenti pro-quota.

Ciò è vero al punto che neppure tutti i creditori che avevano inizialmente aderito alla cordata, fecero parte di “S.G.R.” Del resto, pur essendo stato, anche successivamente, inoltrato a tutti i creditori l’invito a partecipare, non consta che fossero state raccolte in un secondo momento significative adesioni Neppure suscitò alcun allarme il fatto che il principale creditore, cioè Agrifactoring, fosse rimasto escluso dall’affare, al quale del resto, stante la pendenza della procedura di concordato e l’impossibilità di assumere specifici rischi, non avrebbe potuto partecipare. E in nessun conto fu tenuto il pericolo, a suo tempo segnalato dal commissario Piovano in uno dei suoi pareri, derivante dalla paradossale commistione che si sarebbe potuta registrare per alcune società tra il ruolo di partecipate da Federconsorzi e quello di creditrici, teoricamente legittimate a entrare in SGR. Peraltro, allorché una di tali società, la ARSOL, prospettò concretamente l’intenzione di aderire, tanto da aver perfino ottenuto l’autorizzazione dal G.D. della procedura concorsuale alla quale era sottoposta, la richiesta all’uopo avanzata non ebbe alcun seguito .

Sorte identica toccò ad un piccolo creditore, che per quanto appreso, fu specificamente dissuaso dal partecipare . In compenso la presidenza della società, come a voler rappresentare plasticamente la paternità dell’operazione, fu affidata al prof. Capaldo, mentre l’amministrazione fu affidata ad un consiglio di sei membri, tra i quali il prof. Carbonetti, presidente di Banca Fideuram e già componente della commissione che solo un mese prima aveva depositato il proprio elaborato sui bilanci dell’ultimo quinquennio, nonché redattore nel giugno e luglio 1992 dei due appunti sul rapporto tra prezzo offerto nella proposta Casella e valore del patrimonio di Federconsorzi. Potrebbe sembrare che in quest’ultimo caso vi fosse un conflitto di interessi: ma in realtà il problema neppure dovrebbe porsi, poiché, secondo quanto emerso al dibattimento, il prof. Carbonetti risolse il quesito, interrogando la propria coscienza e ricevendo da essa una risposta altamente tranquillante. Certo è però che quel problema da qualcuno fu avvertito, qualcuno che pensò bene di far scomparire dagli atti della procedura tutti i pareri emessi a suo tempo dal prof. Carbonetti in merito alla vendita in massa e alla cessione della Banca di Credito Agrario di Ferrara: tale persona va necessariamente individuata nel Presidente Greco, il solo ad avere la disponibilità degli atti e dunque la possibilità di agire e soprattutto il concreto interesse, avendo egli stesso conferito in precedenza gli incarichi informali al Carbonetti ed avendo dunque specifico motivo di temere che la nomina, forse imprevista, del predetto a consigliere di amministrazione di S.G.R. potesse gettare ombre sul suo operato. Una siffatta condotta appare una volta di più rivelatrice, poiché non vi sarebbe stata ragione di temere alcunché, se qualcosa di scorretto non fosse stato fatto e d’altro canto non vi sarebbe stato motivo di correre un rischio tanto grosso, quale quello derivante dalla sottrazione di atti, se la scorrettezza da coprire non fosse stata di pari livello: ed allora anche per tale via deve concludersi che il Presidente Greco avesse preordinato l’esito della procedura ed avvertisse la necessità di allontanare da sé ogni sospetto in tal senso.

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- Il coronamento di tutti gli sforzi fu il contratto “quadro”, preceduto dall’autorizzazione alla sua stipula emessa dal Tribunale con proprio decreto del 20-7-1993. Trattasi di un’elaborazione particolarmente ingegnosa, in cui ogni tassello ha un suo significato. Di tale contratto si è detto di tutto da parte degli studiosi più qualificati. Ed in effetti esso si presta a svariate interpretazioni e ricostruzioni, costituendo un vero diletto per gli amanti del cavillo. Ma al fondo, cioè appena oltre la patina di raffinatezza, si riconosce la medesima trama. Sotto il profilo sostanziale tre aspetti meritano più degli altri uno specifico esame: l’oggetto, le detrazioni e le dilazioni. Se fin dall’inizio nella proposta Casella erano stati indicati come oggetto di cessione tutti i beni menzionati nella relazione particolareggiata, nel contratto quadro, in virtù di quanto previsto dal secondo comma dell’art. 1, vengono più genericamente ricompresi tutti i beni comunque esistenti alla data del 30-11-1991. Trattasi di aggiunta che desta sconcerto. Già l’indicazione originaria scontava la mancanza di un inventario e si risolveva dunque in un richiamo alla relazione particolareggiata del commissario giudiziale, che a sua volta si rifaceva agli elaborati dei singoli consulenti all’uopo nominati, ponendo il problema della validità di un rinvio di secondo grado agli effetti della determinazione dell’oggetto, richiesta dall’art. 1346 cc . Ma la generica indicazione di tutti gli altri beni, formulata in modo da non far comprendere di quali ulteriori cespiti potesse trattarsi, rappresentava un caso di scuola di nullità per indeterminatezza dell’oggetto, riconosciuta del resto anche nell’autorevole parere al riguardo formulato dal prof. Schlesinger , sebbene quest’ultimo avesse fatto leva sulle peculiarità della procedura concorsuale e sulla necessità che vi fosse corrispondenza tra l’oggetto della liquidazione da un lato e i cespiti sui quali si era formato il consenso delle parti ai fini dell’omologazione dall’altro. Ben poco importa che a detta del prof. Picardi venissero in considerazione beni residui di modesto valore: ciò in realtà avrebbe potuto assumere rilievo solo al fine di stabilire l’effetto della nullità parziale. Infatti, nella prospettiva di cespiti scarsamente incidenti sulla sostanza dell’accordo, si sarebbe potuto motivare che, essendosi fin dall’inizio fatto riferimento ad un determinato prezzo per i beni inclusi nella relazione particolareggiata, la nullità della clausola riguardante gli ulteriori cespiti rimasti innominati, non avrebbe potuto influire sulla volontà delle parti di dare comunque corso all’intesa. Sta di fatto che il prezzo già proposto per i beni inclusi nella relazione particolareggiata rimase immutato, nonostante la previsione di altri beni dal valore potenzialmente incognito. A sostegno di tale opzione è stato sostenuto dal prof. Picardi che in realtà la pattuizione aveva la finalità di compensare la rinuncia da parte di SGR alla garanzia del verum nomen, che, stante l’incertezza di alcuni crediti inerenti soprattutto al rapporto con Agrifactoring, sarebbe risultata per Federconsorzi troppo rischiosa o comunque tale da allungare i tempi per un’intesa. Ma a parte la più generale previsione che dovesse detrarsi l’importo corrispondente a beni e diritti che fossero risultati inesistenti, se per davvero la clausola relativa alla cessione -a richiesta- dei beni non individuati avesse avuto quella determinata finalità, ben si sarebbe potuto sostenere che in realtà essa avesse una funzione essenziale, con ogni conseguenza circa l’effetto estensivo della nullità parziale. Ed ancora va segnalato che, contrariamente a quanto prospettato dal dott. Greco, sentito anche sul punto, le clausole in esame non soddisfacevano l’interesse della procedura a liberarsi di ogni bene residuo, accollandone comunque il peso alla società cessionaria, giacché il secondo comma dell’art. 1 rimetteva alla stessa SGR la facoltà di chiedere il trasferimento degli ulteriori beni, in quanto, è sottinteso, fossero d’interesse per la società . Quanto alle dilazioni di pagamento, pare evidente che il meccanismo della rateizzazione, peraltro contemplato fin dalla prima ora, avrebbe avuto l’effetto di differire l’acquisizione del corrispettivo da ripartire tra tutti i creditori, nel contempo riducendo sensibilmente l’entità del prezzo, dal quale sarebbe dovuto detrarsi un importo corrispondente alla fruttuosità del denaro nel periodo intercorrente tra la pattuizione e il versamento effettivo. Ed allora può affermarsi che il prezzo della cessione era già solo per questo di poco superiore a 1.900 miliardi di lire. Ma, come si è rilevato, erano previste svariate detrazioni, corrispondenti al ricavo delle alienazioni già effettuate nel corso della procedura. Tale previsione risulta totalmente ingiustificata. Nessuno in effetti ha saputo fornire un’adeguata spiegazione di tale scelta, del tutto pretestuose ed a posteriori essendo risultate le argomentazioni del prof. Capaldo, escusso sul punto al dibattimento . Va infatti considerato che il valore del patrimonio era frutto di una stima, per giunta formulata in termini prudenziali. A fronte di ciò il prezzo rappresentava o avrebbe dovuto rappresentare tendenzialmente un dato certo, appunto per questo, secondo i proponenti, apprezzabile nell’ambito della procedura. Ma quel prezzo, come si è già veduto, era stato formulato nella percentuale del 55% del valore stimato nella relazione particolareggiata e dunque avrebbe dovuto e potuto rappresentare nella stessa percentuale tutti i cespiti stimati, di cui si sosteneva essere incerto un realizzo pari alla stima. Se è così, non si vede perché mai dal prezzo totale dovesse detrarsi l’importo effettivamente ricavato dalle precedenti alienazioni e non invece una somma pari al 55% del valore attribuito nella stima al cespite già alienato e comunque una somma percentualmente corrispondente al valore di quel cespite rispetto al totale. E ciò, si badi, non aveva una rilevanza puramente teorica, ma era destinato ad influire sensibilmente sul valore economico dell’operazione, in quanto dell’eventuale surplus ricavato non avrebbe fruito la massa dei creditori, bensì esclusivamente SGR. La circostanza appare tanto più significativa, se si considera che il meccanismo delle detrazioni non era contemplato nella prima proposta Casella del 27-5-1992, ma comparve solo nella lettera del gennaio 1993, quando era ormai chiaro che la procedura aveva autorizzato nelle more alcune cessioni dalle quali erano derivati ricavi addirittura superiori al valore di stima dei cespiti venduti. Ed allora la previsione della decurtazione finiva per assicurare ai proponenti un lucro ingiustificato, non più legato all’alea tipica di un affare di quel genere e neppure conseguito con la partecipazione attiva della società, ma semplicemente sottratto ai creditori. Il meccanismo delle detrazioni era peraltro destinato a produrre ulteriori, non meno gravi conseguenze per la procedura di liquidazione e nel contempo rilevanti benefici per SGR. Infatti, dovendosi computare le detrazioni direttamente sulla prima rata (e non su quelle successive ) ed essendo il loro ammontare superiore all’importo di questa, nulla la società cessionaria avrebbe dovuto per il momento sborsare, mentre il residuo, produttivo di interessi, sarebbe stato portato in detrazione dalla seconda rata. All’evidente vantaggio per SGR faceva in tal modo riscontro un’allarmante mancanza di liquidità, necessaria invece alla Liquidazione per provvedere sollecitamente, secondo i piani, al pagamento dei creditori privilegiati. Ha sostenuto più in generale il P.M. che l’atto quadro avrebbe di fatto consentito a SGR di acquisire il patrimonio ad un prezzo irrisorio, non superiore a 600 miliardi. Si è infatti rilevato che a tanto sarebbe ammontato il fabbisogno di nuove risorse finanziarie, a fronte del meccanismo contrattuale che, oltre alle dilazioni e alle detrazioni di cui s’è detto, prevedeva la possibilità di cessione di cespiti direttamente a terzi, indicati da SGR, e l’accantonamento delle somme in questi casi pagate a Federconsorzi, da computarsi in detrazione della rata successiva, previo conteggio degli interessi prodotti . In realtà sul piano giuridico non è corretto far coincidere il fabbisogno di risorse con il prezzo. Ma, volendo aver riguardo alla sostanza del fenomeno e dunque agli interessi dei soci di SGR, chiaramente visibili dietro il fragile schermo di una società transeunte, può certamente notarsi che le dilazioni erano volte a ridurre il contenuto economico dell’offerta, che le detrazioni implicavano di per sé l’assenza di esborsi immediati e che l’accantonamento delle somme, produttive di interessi, pagate da terzi, era nel contempo idoneo a ridurre e a ritardare la necessità di esborsi diretti, il tutto con la prospettiva di riparti nel frattempo disposti dalla Liquidazione in favore dei creditori, sulla base di quanto già ricavato. Si è addotto al dibattimento che SGR si sarebbe trovata a far fronte con nuove risorse finanziarie, in parte reperite sul mercato, ad una piccola parte della seconda rata ed a gran parte della terza, per un totale di circa 680 miliardi . Il dato non smentisce nella sostanza la ricostruzione del P.M., dovendosi inoltre considerare gli introiti di SGR, successivi al pagamento della terza rata, ciò che convince della modestia del fabbisogno finanziario richiesto dall’affare così come concepito e del pregiudizio arrecato alla Liquidazione, costretta a riconoscere anche interessi su quanto incassato prima del pagamento delle tre rate, già di per sé implicanti una riduzione di valore.

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- Sul piano strutturale l’atto quadro ha posto, come si accennava all’inizio, gravi problemi di inquadramento, giacché esso non pare perfettamente riconducibile a nessuno dei paradigmi contrattuali conosciuti. Sono state in proposito avanzate tesi diametralmente opposte, nel senso che da parte di taluni sarebbe stata ravvisabile non più che una manifestazione di intenti, non ancora vincolante , e da parte di altri un contratto atipico, avente una sua funzione economico-sociale correlata alla liquidazione dei beni . Limitando al massimo l’indagine, solo in parte rilevante in questa sede, e cercando di farsi largo tra le diverse impostazioni, pare difficile contestare, impregiudicatane la validità, il carattere immediatamente vincolante dell’atto quadro, in tal senso decisivamente deponendo la previsione di un prezzo globale e l’impegno al suo pagamento alle scadenze previste. Ben altri problemi pone l’espressa esclusione di qualsivoglia effetto traslativo e il differimento di quest’ultimo al momento della stipula dei contratti riguardanti i singoli beni. Sotto tale profilo si determina un risultato assai simile a quello del contratto preliminare, assumendosi da parte del venditore l’impegno a cedere. Ma la vendita in questo caso riguarda un coacervo di beni eterogenei e non è previsto il corrispettivo di ciascuna cessione, bensì solo quello complessivo. Manca d’altro canto un criterio oggettivo per la determinazione di ciascun prezzo ed incerti risultano pure i tempi per l’attuazione dei trasferimenti. Pur disciplinandovisi futuri contratti, non può dirsi neppure che l’atto quadro si attagli allo schema del contratto normativo, proprio perché da esso sorgono immediatamente delle obbligazioni e perché in realtà non si prevedono le clausole di una serie di contratti simili, ma si contempla il solo obbligo di addivenire ad una pluralità disomogenea di effetti traslativi. In realtà già la possibilità o piuttosto la necessità di ricorrere a mere ipotesi ricostruttive, al fine di qualificare la natura e il contenuto dei contratti futuri, avrebbe legittimato più che fondati sospetti di invalidità della pattuizione: con qualche attendibilità, ma non di più, si sarebbe potuto ad es. pensare ad un criterio di ripartizione in percentuale del prezzo tra i diversi cespiti; sarebbe apparso invece arbitrario attribuire a SGR la facoltà di indicare per ciascun contratto un prezzo a sua scelta, nei limiti del plafond. Di fatto si verificò proprio tale ipotesi, che dette però origine al contrasto con l’Avv. Lettera, insorto al momento di cedere il credito verso lo Stato, e che rese necessario il ricorso ad un parere del prof. Schlesinger. Anche tali incertezze tuttavia contribuiscono a disvelare la vera causa del contratto. Abilmente mescolate qui e là, alcune clausole assumono a tal fine valore decisivo. L’atto quadro avrebbe dovuto assicurare, a rigore, la cessione del patrimonio ad un soggetto terzo, nell’ambito della procedura di liquidazione affidata al controllo degli organi a ciò deputati. Corrispondentemente esso non avrebbe potuto che regolare il trasferimento delle attività, in cui la procedura avrebbe dovuto risolversi. Ma in realtà, al di là della previsione di singoli e successivi atti di trasferimento, era parallelamente contemplata la possibilità per la società di indicare come acquirenti soggetti diversi da se stessa ovvero di richiedere mandati irrevocabili per la vendita, mandati al cui rilascio Federconsorzi era immediatamente obbligata. Ciò consente di comprendere come la finalità dell’atto non fosse quella di regolare la cessione dei beni in blocco, ma quella, assai diversa, di assicurare ad un soggetto terzo, il teorico acquirente in blocco, un’ampia libertà di azione, destinata in via immediata a tradursi nella scelta delle modalità di adempimento da parte del cedente (una sorta di obbligazione facoltativa con scelta rimessa al creditore), e in via mediata a risolversi nello svolgimento sic et simpliciter di un’attività liquidatoria in proprio, volta al trasferimento dei cespiti ad altri soggetti. Così si spiega in particolare che, nonostante l’esclusione dell’immediato effetto traslativo, la gestione dei beni dovesse passare immediatamente alla società e che appunto quest’ultima, prima ancora del trasferimento, potesse direttamente procurarsi un acquirente, al quale trasferire i beni su mandato o farli trasferire da Federconsorzi. A ben guardare la funzione economico-sociale dell’atto quadro, apparentemente mutuata sia da quella del contratto preliminare che da quella della cessio bonorum di cui all’art. 1977 cc, cui certamente l’avvicinava non il trasferimento bensì la messa a disposizione, anche su mandato, dell’intero patrimonio, era solo quella liquidatoria, paradossalmente invocata da chi dell’atto avrebbe voluto riaffermare la validità, non avvedendosi che per tale via si sarebbe dovuto invece giungere alla soluzione opposta. Infatti, considerando anche il fatto che Federconsorzi era stata surrettiziamente nominata liquidatore di se stessa (cioè che non era stato nominato alcun liquidatore) e che la pretesa cessione in blocco non si sarebbe risolta “uno actu”, è agevole concludere che l’atto quadro era volto a sancire la privatizzazione della procedura di liquidazione, in pratica determinando una sorta di cessio bonorum di secondo grado, dissimulata attraverso l’artificiosa nomina di un liquidatore apparente e volta ad espropriare la massa dei creditori, a vantaggio di una sola parte di loro, delle effettive potenzialità di realizzo. Tutto questo si poneva in contrasto con le norme dettate in materia dalla legge fallimentare, comportando l’effetto di rimettere la liquidazione nelle mani di un soggetto non nominato formalmente liquidatore e non soggetto al controllo degli organi della procedura né della massa dei creditori, in nome della quale l’attività liquidatoria sarebbe dovuta avvenire. In sostanza l’atto quadro si collocava non solo al di fuori dei contratti tipici, ma anche al di fuori del pur elastico schema contemplato per la liquidazione concordatizia. L’aggiramento delle norme, insito nel meccanismo escogitato, era tale da dar luogo di per sé ad una nullità difficilmente emendabile. Sotto il profilo penale una siffatta nullità tuttavia non sarebbe stata di per sé rilevante, se non si fossero prodotti ben altri effetti. Si consideri fra l’altro che l’atto quadro veniva a realizzare quanto in precedenza nelle varie lettere dell’Avv. Casella era stato solo adombrato o tutt’al più sussurrato, sconfessando dal punto di vista strutturale l’idea stessa della vendita in blocco. Ed è singolare che della stipula di un simile atto di carattere programmatico si fosse fatto cenno già all’indomani dell’autorizzazione resa dal Tribunale con il provvedimento del 23-3-1993 . A ben guardare, quegli effetti benefici che, quanto a risparmio di tempo e di spese, sarebbero potuti discendere dalla cessione istantanea del patrimonio, sarebbero stati invece vanificati dalla previsione sia di una consistente dilazione di pagamento, sia soprattutto dall’esclusione dell’immediato effetto traslativo, che avrebbe imposto il mantenimento della struttura liquidatoria per un tempo in realtà indefinito, il tutto in un quadro di incertezza derivante dalle liti pendenti, attive e passive, e dalla sorte dei cespiti non inclusi nella relazione particolareggiata, la cui cessione era stata rimessa alla volontà di SGR, e con la consapevolezza che comunque il carico degli oneri sarebbe in gran parte dipeso dal costo del personale e non dalle spese procedurali in senso stretto. Valutando del resto i fatti a ritroso, va sottolineato come i trasferimenti, in attuazione dell’atto quadro, sarebbero poi per la gran parte avvenuti con il meccanismo della diretta cessione da Federconsorzi a terzi, assai più vantaggioso anche dal punto di vista fiscale, e sarebbero stati diluiti in un lungo lasso di tempo, a discrezione della cessionaria, non assoggettata a nessuna precisa scadenza e tanto meno vigilanza. Ed allora deve ribadirsi che l’atto quadro non garantiva affatto il rispetto di tempi certi , ma si prestava ad assecondare l’esigenza di SGR di aspettare il momento più propizio, per non gravarsi di beni (e dei relativi oneri fiscali) se non quando fosse possibile l’immediata rivendita. Ciò significa che le giustificazioni addotte a sostegno di una scelta tanto innovativa non avevano un reale contenuto, mentre sicuro era l’abbattimento del valore del patrimonio. Su tali argomenti si avrà modo di tornare, ma va per intanto focalizzata la sostanziale inidoneità dell’atto a soddisfare quelle esigenze per le quali si era ritenuto di poter soprassedere all’ottimizzazione dei realizzi.

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- Con riguardo alla fase esecutiva, non tutte le problematiche insorte appaiono rilevanti in questa sede.

Ma talune di esse paiono idonee a lumeggiare le potenzialità dell’atto quadro.

Val la pena in tale ottica rievocare la vicenda della correzione del preteso errore materiale, nel quale sarebbero incorse le parti al momento della cessione con lettera commerciale dei crediti di Federconsorzi verso alcuni consorzi agrari. Era infatti accaduto che la cessione era stata fatta, in genere nei primi mesi del 1995, sulla base dei saldi risultanti dal bilancio. Ma in realtà il bilancio di Federconsorzi, rispetto ad alcuni consorzi agrari, conteneva un abbattimento di valori, per cui non teneva conto dell’effettivo valore nominale dei crediti, impregiudicatane la concreta esigibilità. Preso atto della discrepanza, SGR chiese che la cessione venisse corretta, dandosi conto dell’effettivo valore dei crediti ceduti. Orbene, tale iniziativa era tale da assicurare a SGR un incremento almeno teorico di circa 260 miliardi di lire, che, si badi, con il ritorno in bonis di alcuni consorzi e con il finanziamento del credito MAF di loro pertinenza sarebbe stato poi in parte realizzato. L’escamotage dell’errore materiale era all’evidenza di modesto spessore, poiché non si era trattato affatto di un errore di tal genere, tanto più che i valori ridotti erano come tali confluiti nelle valutazioni dei consulenti incaricati delle stime e nella relazione particolareggiata del prof. Picardi, alla quale era primariamente riferibile l’individuazione dell’oggetto della cessione. Si è però rilevato da parte del dott. Mancinelli che a SGR spettava effettivamente la cessione dei crediti per un importo corrispondente a quello reale, ciò in quanto l’atto quadro, avallato dal provvedimento del Tribunale in data 20-7-1993, diversamente da quanto previsto nell’originaria proposta Casella e nel provvedimento del Tribunale del 23-3-1993, prevedeva la cessione di tutte le attività comunque esistenti alla data del 30-11-1991 e non delle sole attività ricomprese nella relazione particolareggiata. Non sembra peraltro che la modifica fosse stata predisposta proprio in funzione dei crediti in discorso, ciò che di per sé sarebbe valso a porre in luce una spiccata calliditas: proprio il fatto che alla resa dei conti si fosse fatto riferimento ad un errore materiale e non si fosse brutalmente invocato il tenore dell’atto quadro, sembra interpretabile nel senso che neppure SGR in origine si fosse avveduta della discrepanza, salvo attivarsi in un secondo momento per acquisire la differenza. Della vicenda delle cambiali rinvenute dal commissario governativo e sottoposte a sequestro nell’aprile 1996 si è già detto. Quanto alla fase della transazione, è appena il caso ricordare che ad essa si addivenne dopo che da più parti erano state sollevate contestazioni sulla validità dell’atto quadro ed erano state intraprese azioni legali volte ad ottenere la declaratoria di nullità. Essa determinò un parziale riassetto degli equilibri economici delineati dall’atto quadro. Fu infatti previsto che in capo a SGR si consolidasse l’acquisto dei cespiti ormai trasferiti e che restassero definitivamente alla liquidazione di Federconsorzi quelli che non avevano ancora formato oggetto di cessione. Fu altresì sancito che il minor importo indicato nelle lettere commerciali di cessione dei crediti verso alcuni consorzi agrari dovesse essere inteso come dovuto ad errore materiale e che le cambiali rinvenute nel 1996 dall’Avv. Lettera negli uffici di Federconsorzi costituissero null’altro che un accessorio cartolare di crediti già trasferiti. In favore di SGR fu stabilito l’esonero dal versamento dell’ultima tranche di prezzo, quantificata in circa 85 miliardi di lire. In tal modo ogni questione riguardante l’atto quadro sarebbe dovuta considerarsi superata in nome di un definitivo accordo, destinato a rimuovere le perplessità a mano a mano sorte. E’ però singolare che nella transazione si fosse dato atto del procedimento pendente e dunque del profilo di illiceità ipotizzato e tuttavia non si fosse presa in considerazione l’ipotesi dell’art. 1972 cc .

In sostanza nessuno ebbe la forza o la volontà di vanificare l’attività di liquidazione fino ad allora svolta, dovendosi peraltro convenire che in quella determinata situazione assumere decisioni radicali sarebbe stato difficile per chiunque. Certo è che SGR vide salvaguardata in modo definitivo la propria posizione, mentre la Liquidazione di Federconsorzi recuperò dei cespiti di rilievo.

Sembrerebbe un pareggio, ma ai punti fu una grande vittoria di SGR, poiché nell’ambito della procedura sulle varie problematiche sarebbe dovuto calare il silenzio.

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- Tra i profili di rilievo della fase esecutiva dell’atto quadro, non può trascurarsi quello riguardante la sorte dei lavoratori di Federconsorzi. Va premesso che costoro beneficiavano in origine di un trattamento economico e normativo assolutamente privilegiato, assicurato dal relativo contratto collettivo. Ma a partire dalla fase del commissariamento si era subito posto il problema di come far fronte al relativo onere, mirandosi principalmente alla riduzione del numero dei lavoratori in servizio. Poi era intervenuta l’ammissione al concordato con cessione dei beni e di conseguenza si era in concreto prospettata per tutti l’eventualità del licenziamento. Erano cominciate delle trattative sindacali, finalizzate alla previsione di forme di esodo incentivato e nel contempo all’adozione di misure a salvaguardia dei posti di lavoro. Un fondamentale accordo del novembre 1992, concluso presso il Ministero del Lavoro, previde che varie unità di personale dovessero transitare in Agrisviluppo, adeguatamente rivitalizzata, o essere assunte presso le c.d. agenzie CEE. Sul piano politico si era frattanto cercato di trovare una soluzione al problema e si era cominciato a pensare alla possibilità di un graduale passaggio del personale presso enti o uffici pubblici. Sta di fatto che, come già rilevato, le confederazioni sindacali di maggiore rilievo nazionale, nel momento della decisione più importante, concernente l’autorizzazione alla vendita in massa, si schierarono a favore, venendo altresì ricevute dal prof. Capaldo. Tale passaggio appare cruciale per comprendere il ruolo svolto dai vari soggetti implicati in questa vicenda. In effetti deve escludersi che il confronto sindacale potesse vertere sul prezzo offerto dalla cordata Capaldo e sulle prospettive di realizzo dei cespiti. Né potrebbe mai pensarsi che fosse stato dato decisivo rilievo alla prevista assunzione da parte della costituenda società di 60 o 70 dipendenti di Federconsorzi, numero all’evidenza irrisorio rispetto al gruppo di lavoratori residui. Vanno invece considerati gli sforzi fatti sia dai primi commissari, che di ciò avevano fatto menzione già nel ricorso per l’ammissione alla procedura, sia dal dott. Piovano per dare una concreta base organizzativa alla società che avrebbe dovuto almeno in parte assumere l’eredità di Federconsorzi e per il cui decollo sarebbe occorso il contributo degli istituti bancari. In tale ottica è agevole ritenere che le confederazioni avessero espresso il loro consenso all’operazione proprio perchè indotte a valutare positivamente gli scenari loro prospettati, in termini di ripresa dell’attività di commercializzazione e di mantenimento complessivo dei livelli occupazionali . In altre parole, così come già nell’accordo sindacale del novembre 1992 e in altri che lo avrebbero seguito, ribadendone la vincolatività, pur prendendo atto della sua mancata esecuzione , anche nella fase coeva all’autorizzazione alla vendita in massa dovette venire in considerazione la sorte di Agrisviluppo, società partecipata per intero da Federconsorzi e dunque destinata ad essere trasferita alla costituenda società in sede di attuazione della vendita in massa. L’occasione poteva infatti apparire propizia, concretamente profilandosi la possibilità che i soci promotori assumessero altresì l’impegno di farsi carico della nuova struttura. Tutto ciò ha trovato conferma anche nelle dichiarazioni rese al dibattimento dal prof. Capaldo. Costui ha sostenuto che la Banca di Roma sarebbe stata disponibile ad impegnarsi nel finanziamento della cennata società e che per questo sondò gli altri partners, al fine di verificare se essi potessero concorrere nella nuova operazione. Ma in pratica, a suo dire, nessuno manifestò interesse, cosicché il progetto fallì. Tale versione da un lato dà la misura di come il problema “Agrisviluppo” avesse fatto parte delle discussioni correlate alla vendita in massa e dall’altro risulta totalmente inappagante. In gioco, infatti, non vi erano solo degli equilibri finanziari, ma anche la vita di numerose persone, la loro professionalità e la loro volontà di essere e sentirsi utili. Il prof. Capaldo, con la sua indiscutibile autorevolezza, del resto ampiamente spesa in questa vicenda, non avrebbe potuto abbandonare con tanta nonchalance un progetto sul quale si fondava un preciso accordo sindacale e che, fin dalla prima ora, rivestiva un carattere strategico. Né potrebbe semplicemente farsi leva sulla riottosità dei partners. In realtà non consta, stando alle illusioni nutrite dalla parte sindacale , che fosse stato chiarito il vero ruolo di SGR, vincolata statutariamente al solo realizzo, in base a precise disposizioni impartite dalla Banca d’Italia fin dal 1992 e non in conseguenza di un mutamento di programma dell’ultim’ora. Appare infatti singolare che, pur essendo noto da tempo ai promotori di SGR che la società non avrebbe potuto assumere in proprio la gestione di “Agrisviluppo”, i loro interlocutori potessero invece vedere nella cessione ad essa di tutti i cespiti un valido strumento per promuovere l’attività di commercializzazione e creare in tal modo nuovi sbocchi occupazionali. E’ d’uopo piuttosto opinare che da parte di coloro che parteciparono al confronto con il sindacato fosse stato mantenuto sul punto un atteggiamento ambiguo, destinato a creare un erroneo convincimento. Ma le conclusioni non sarebbero diverse, anche nel caso in cui fosse stato chiaro a tutti che le sorti di Agrisviluppo sarebbero dipese solo da una parallela azione dei soci di SGR. In effetti, se alcuni tra i maggiori promotori (come B.N.L.) avevano già manifestato, dopo le iniziali proposte del Ministro Goria, totale contrarietà a qualsiasi avventura di quel genere , ciò vuol dire che il progetto non aveva futuro o che si sarebbe dovuto fondare sullo sforzo degli altri soci, sostenuti proprio da Banca di Roma. Nel primo caso il prof. Capaldo non avrebbe potuto evocare alcuno scenario, mentre nel secondo non avrebbe potuto sottrarsi, quasi immediatamente, agli impegni assunti, di fatto mostrando di aver intessuto una trama contrassegnata da una sua riserva mentale. Del resto appare significativo che, quando nel mese di ottobre del 1993, dunque all’indomani della stipula dell’atto quadro, il commissario governativo D’Ercole diramò un comunicato nel quale si manifestava l’intendimento di porre in mobilità una quota di personale , nel presupposto che non vi fosse possibilità di riassorbimento altrove, nulla di concreto fosse stato fatto da SGR o dai suoi soci. In pratica da questo momento al personale non sarebbe restato altro da fare che contare sul buon cuore dei cessionari o sulla politica. Nulla del resto era venuto dal Tribunale, che, pur dichiaratosi primariamente interessato alla sorte dei lavoratori, si era piegato rapidamente alle ragioni dei promotori di SGR, addivenendo ad una vendita in blocco che non forniva altra garanzia che l’assunzione di 70 unità. E si badi che, se da un lato può ragionevolmente affermarsi che tutto ciò non rientrava tra i primari compiti del Tribunale, dall’altro non può sottacersi che si era instaurata una sorta di trattativa finalizzata alla cessione in blocco, nella quale il profilo occupazionale avrebbe potuto trovare ben più incisivo spazio, non essendo del resto prescritto da nessuno che le aspettative dei promotori di SGR dovessero essere, come invece furono, per forza soddisfatte.

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L’ESAME DELLE IMPUTAZIONI: FATTO, QUALIFICAZIONE GIURIDICA E RUOLO DEGLI IMPUTATI

- A questo punto devono raccogliersi le fila dell’analisi a mano a mano condotta, venendo più da vicino all’esame delle imputazioni.

Al Presidente Greco è innanzi tutto addebitato di aver occultato sia l’istanza dei commissari governativi del 27-5-1992, riguardante la necessità o meno della convocazione dell’assemblea per la messa in liquidazione, sia le tre relazioni redatte in forma di appunto dal prof. Carbonetti, relative alle modalità di vendita della Banca di Credito Agrario di Ferrara e alle valutazione sulla differenza tra il prezzo offerto dalla cordata Capaldo e la stima del patrimonio di Federconsorzi, elaborata dai consulenti e dal commissario giudiziale. Allo stesso Presidente Greco è inoltre addebitato di essersi rifiutato indebitamente di provvedere sull’istanza del 27-5-1992. Orbene, nel quadro complessivo della vicenda trattasi di episodi sintomatici di una condotta compiacente, volta alla salvaguardia di determinati interessi.

L’istanza del 27-5-1992 costituiva il frutto di un compromesso tra i commissari, tendente ad assicurare ai medesimi una forma di tutela, ove l’adempimento prospettato fosse stato ritenuto necessario. Del resto dopo aver segnalato l’inevitabilità della convocazione, essi avevano avuto un ripensamento, manifestando tale diverso convincimento proprio attraverso l’istanza del 27-5-1992.

Di fatto il Tribunale di Roma si era pronunciato più volte, come riconosciuto dal Presidente Greco, nel senso della compatibilità con la procedura concorsuale dell’autonoma messa in liquidazione della società che avesse perduto il capitale.

Ma nel caso di specie il problema era assai più complesso, poiché in ballo vi era non solo il fatto tecnico della convocazione dell’assemblea, ma anche la gestione della medesima e soprattutto il pericolo che Federconsorzi, in regime di commissariamento, fosse posta in liquidazione coatta amministrativa .

Un siffatto evento era del tutto inviso al dott. Greco, il quale si sarebbe battuto contro il provvedimento di messa in liquidazione anche nella sede giurisdizionale amministrativa.

Il perché di tanta gelosia è da ricercarsi nell’interesse, manifestato fin dall’inizio, a condurre in porto la procedura fino al suo fisiologico epilogo, cioè innanzi tutto fino all’omologa, che certamente avrebbe conferito stabilità al concordato, ed in secondo luogo fino alla fase della liquidazione non coatta.

Di certo non si trattava di assicurare vantaggi agli iniziali commissari che da un lato avevano avuto plurimi contrasti con gli organi della procedura, di cui contestavano l’eccessivo rigore nell’autorizzare dismissioni e atti di gestione, e dall’altro si erano poi liberati dell’incarico, rimettendo al dott. Greco proprio la scottante decisione sulla messa in liquidazione.

E neppure sarebbe potuto ipotizzarsi un qualche accordo con il Ministro, visto che in realtà l’unico plausibile motivo di timore proveniva dalle sue possibili iniziative.

E’ invece ineluttabile correlare l’atteggiamento del magistrato ai prevedibili sbocchi della procedura di concordato, cioè essenzialmente alla sorte del patrimonio, posto che il dott. Greco si era già dichiarato disposto ad attendere la cordata fino ad ottobre e che la proposta Capaldo era stata finalmente presentata, per una singolare fatalità, lo stesso 27-5-1992.

In effetti se si giudicava opportuno attendere la cordata, ciò vuol dire che si intendeva tutelarne le aspettative.

Ed allora il disagio del magistrato a provvedere secondo coscienza sull’istanza dei commissari governativi trova una sua ragionevole spiegazione.

Ciò è vieppiù confermato dal fatto che nello stesso lasso di tempo il dott. Greco ebbe modo di confrontarsi con il prof. Capaldo e di conferire al prof. Carbonetti l’incarico di fornire una sua valutazione sull’enorme divario tra la stima del patrimonio e il prezzo offerto.

La sollecita e, si badi, personale attenzione rivolta all’offerta non poteva infatti avere altro scopo che quello di creare uno strumento in qualche guisa idoneo a conferirle piena credibilità, in vista dell’imminente sentenza di omologa, ciò tanto più a fronte dell’inusitata inconsistenza delle valutazioni richieste, rispondenti a criteri di massima, ampiamente apprezzabili dallo stesso Greco, come da ogni magistrato (non solo perché peritus peritorum), senza bisogno del supporto di un esperto. Ciò val quanto dire che il magistrato, di fronte ad un prezzo tanto inferiore alla stima del patrimonio, anziché prendere ragionevolmente atto dell’inidoneità dello stesso a costituire un valido punto di riferimento, cercò invece di colmare il gap, quasi che quella fosse la “mission” della procedura.

Ed allora tanto la mancanza di sollecite determinazioni sull’istanza dei commissari quanto il conferimento di un incarico informale al prof. Carbonetti si prestano ad essere ricondotti alla medesima chiave di lettura.

Sta di fatto che l’istanza rimase per più di un mese nella borsa del magistrato, senza aver mai avuto l’onore di un timbro di cancelleria o di protocollo.

Ciò non significa, si badi, che il dott. Greco avrebbe dovuto personalmente protocollare l’istanza, in senso contrario valendo i rilievi difensivi del magistrato, ma semplicemente che il documento sarebbe dovuto essere depositato e messo ufficialmente a disposizione di qualunque interessato.

Al contrario egli lo custodì nella borsa per quasi un mese e mezzo, evidentemente al fine di far trascorrere il tempo e poter così giungere senza problemi a quello che riteneva il punto di non ritorno, la sentenza di omologa.

Infatti, quando il giorno 10 luglio il nuovo commissario Piovano si presentò inopinatamente per chiedere informazioni in merito, il dott. Greco sollecitamente tirò fuori il documento, così mostrando di saper bene dove fosse, e lo restituì, suggerendo che l’istanza fosse corredata da un parere legale da parte di un esperto da lui stesso indicato.

Ed allora la condotta in concreto tenuta finisce per colorarsi di illiceità, avendo il magistrato occultato il documento, impedendo a chiunque vi avesse avuto interesse di prenderne conoscenza, e poi avendolo restituito tal quale al nuovo commissario, nell’insussistente presupposto che costui intendesse riprenderselo , ma in realtà al solo fine di non far risultare che l’istanza fosse stata presentata.

Tale comportamento vale ad integrare gli estremi del delitto di falso per soppressione di atto pubblico, sia perché non par dubbio che avesse quella natura un’istanza proveniente dai commissari governativi, destinata all’inserimento nel fascicolo di una procedura concorsuale, sia perché realizza l’ipotesi dell’occultamento, contemplata dall’art. 490 cp, la condotta di chi custodisca uno scritto in modo da renderlo anche temporaneamente irreperibile.

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- Non può invece dirsi integrato il delitto di cui all’art. 328/1° co. cp. Tale norma sanziona infatti il rifiuto indebito di un atto che deve essere compiuto senza ritardo per ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico o igiene e sanità. Nel caso di specie il pronunciamento del giudice delegato non era affatto doveroso, venendo in considerazione esclusivamente la competenza dei commissari governativi, sui quali sarebbe dovuta gravare ogni eventuale responsabilità. Né diversamente potrebbe opinarsi sul rilievo che, secondariamente, veniva richiesta l’autorizzazione alla convocazione dell’assemblea, ove ritenuta necessaria, essendo quella richiesta non più che un escamotage, per sollecitare l’intervento chiarificatore del magistrato, peraltro non tenuto ad autorizzare alcunché, ove si fosse per davvero trattato di un atto dovuto. E neppure potrebbe farsi leva sulla mancata risposta nei termini ad una istanza, se del caso rilevante ai sensi dell’art. 328 cpv. cp, giacché a tal fine occorre che il privato interessato diffidi in modo inequivoco il pubblico ufficiale a pronunciarsi nei termini , requisito che nella specie all’evidenza non ricorreva. Il rifiuto di atti d’ufficio va dunque giudicato insussistente. 39 - Quanto alle relazioni del prof. Carbonetti, è pacifico che agli atti della procedura di concordato le stesse non furono rinvenute nonostante una diligente ricerca effettuata a seguito della richiesta di acquisizione inoltrata dal P.M. inquirente . Va in proposito segnalato che la circostanza dell’avvenuto affidamento del relativo incarico al Carbonetti era risultata dall’elenco delle liquidazioni di onorari a consulenti, all’uopo predisposto dalla procedura , nel quale si faceva menzione anche delle liquidazioni effettuate in favore del Carbonetti, riguardanti sia il compenso per il lavoro svolto all’interno della commissione incaricata di esaminare i bilanci degli ultimi cinque anni di Federconsorzi sia quello per altri pareri. In proposito risultava che al Carbonetti era stata erogata la somma di £ 20.000.000 a seguito di istanza presentata agli organi della procedura nel mese di settembre del 1992. Alla fine il testo dei pareri fu fornito al P.M. inquirente dal prof. Picardi, che disponeva di una copia, a suo tempo inviatagli dallo stesso Carbonetti. Fu così possibile verificare che si trattava degli “appunti” relativi alla vendita della Banca di Credito Agrario di Ferrara e alle valutazioni sulla differenza tra il prezzo offerto dalla cordata Capaldo e il valore del patrimonio risultante dal bilancio di Federconsorzi e dalle stime dei consulenti. Non fu invece rinvenuto alcun decreto di conferimento del relativo incarico. Peraltro non può escludersi, ed anzi sembra preferibile opinare, che un siffatto provvedimento non fosse stato formalmente emesso, in tal senso deponendo proprio la veste di appunto assunta dal parere reso dal Carbonetti, in specie per ciò che attiene al quesito sul prezzo. Si trattò dunque di incarichi concernenti temi che al magistrato, nella delicata fase precedente la sentenza di omologa, stavano particolarmente a cuore e che tuttavia, stranamente, non furono ritenuti meritevoli di specifica formalizzazione. Non è un caso che gli altri membri del collegio giudicante non abbiano palesato alcuna conoscenza di quegli appunti e che successivamente, in sede di omologa, pur avendone utilizzato vari spunti, il dott. Greco non li avesse mai espressamente citati, implicitamente attribuendo alcune argomentazioni a sue personali intuizioni. Non sembra che la singolarità di tale modus procedendi coinvolgesse il prof. Carbonetti, il quale non avrebbe altrimenti chiesto la liquidazione dei compensi con istanza rivolta agli organi della procedura. Essa riguardava invece il solo dott. Greco, il quale avrebbe voluto avvalersi di strumenti logico-motivazionali idonei a superare l’obiettiva difficoltà derivante dall’esiguità del prezzo proposto dal Capaldo. A ben guardare gli appunti del prof. Carbonetti non avevano in sé nulla di anomalo, provenendo oltre tutto da un personaggio stimato e già nominato membro della citata commissione. Problemi di carattere più generale sarebbero potuti invece derivare dal fatto che il Carbonetti ricopriva la veste di presidente della Banca Fideuram, compresa tra i creditori di Federconsorzi, a seguito dell’incorporazione di Banca Manusardi. Pare peraltro legittimo opinare che il dott. Greco non si fosse inizialmente avveduto di tale evidente causa di incompatibilità, che del resto il Carbonetti non aveva esplicitato. Assai meno giustificabile sarebbe potuto risultare il fatto che Banca Fideuram fosse poi entrata nell’operazione, aderendo alla cordata nella fase antecedente l’autorizzazione alla vendita in massa, e che il Carbonetti fosse stato nominato membro del consiglio di amministrazione di SGR, per divenirne in prosieguo addirittura presidente. Ciò avrebbe potuto contribuire a rivelare una trama sotterranea, ordita dal magistrato con il beneplacito degli strateghi della cordata Capaldo, volta a creare una surrettizia legittimazione dell’operazione attraverso il contributo fattivo di un professionista vicino agli ambienti interessati all’operazione e poi addirittura partecipe. In altre parole il dott. Greco sarebbe stato concretamente esposto al rischio di veder interpretate le proprie scelte come manovre di un piano ben congegnato. In realtà una persona che non ha nulla da temere e si fa forte dei convincimenti dettatigli dalla propria coscienza avrebbe potuto ovviare all’incresciosa situazione, denunciandola in modo aperto ed esplicito: ma ciò evidentemente non rientrava nei programmi del magistrato, già fattosi forte di alcune argomentazioni del Carbonetti nella sentenza di omologa. La soluzione prescelta si colloca invece nel quadro di una condotta preordinatata ad un determinato risultato, quello di salvaguardare ad ogni costo la vendita in blocco del patrimonio a SGR. Infatti gli appunti del Carbonetti, fino ad allora rimasti sotto traccia, scomparvero dal fascicolo della procedura, tanto da non essere più ritrovati. Nessuno, all’infuori del dott. Greco, avrebbe potuto operare in tale guisa, solo il predetto avendo un concreto interesse ed una altrettanto concreta possibilità di manipolare il fascicolo e sottrarne alcuni atti. Al magistrato va dunque ascritto l’occultamento dei pareri del prof. Carbonetti, presumibilmente in epoca successiva all’adesione di Banca Fideuram a SGR ed all’attribuzione al predetto della vesta di membro del CdA. Né rileva in senso contrario che negli atti fosse rimasta traccia della liquidazione di somme in favore del Carbonetti per pareri da lui redatti: una cosa è infatti avvedersi della liquidazione di un compenso, nella congerie degli incarichi attribuiti all’interno della procedura, e un’altra, ben diversa, è prendere atto della stretta inerenza del parere alla congruità della vendita in blocco e del prezzo offerto. Del tutto fantasiosa è poi la giustificazione fornita dalla difesa, incentrata sullo stato del fascicolo, dal quale gli atti sarebbero potuti comunque scomparire a prescindere da qualsivoglia preordinazione. Innanzi tutto non rileva che il dott. Norelli, all’epoca giudice delegato della procedura di concordato, avesse rilevato la mancanza nel fascicolo anche della relazione Martellini-Sica-Carbonetti, di cui aveva trasmesso al P.M. inquirente solo una copia, posto che diversamente da quanto riscontrato per gli “appunti”, vi era comunque quella copia e che nei faldoni acquisiti al presente fascicolo processuale è ricompreso anche l’originale, evidentemente reperito altrove. Inoltre è agevole osservare che ben difficilmente, per puro caso, sarebbero potuti scomparire proprio i tre pareri del Carbonetti, risalenti ad epoca omogenea, ma depositati a distanza di parecchi giorni l’uno dall’altro. Altrettanto fragile è l’ulteriore spiegazione che si è cercato di dare, addebitando il mancato ritrovamento ad un precedente sequestro di P.G., effettuato nell’ambito di un’indagine della magistratura inquirente romana. In realtà nel verbale di sequestro in proposito invocato si fa cenno di tre istanze del prof. Carbonetti e non di tre pareri o appunti, che dir si voglia. L’assoluta incompatibilità tra le nozioni, pur utilizzate da persona inesperta, non consente di nutrire in proposito dubbi di sorta. Ed allora è d’uopo ritenere che i pareri del Carbonetti fossero stati sottratti e che ciò fosse avvenuto ad opera del dott. Greco. L’imputato va dunque riconosciuto colpevole anche per questa parte del delitto di cui all’art. 490 cp, essendo d’altro canto indubbio che le relazioni rivestissero il carattere di atti pubblici, in quanto provenienti da un ausiliario del giudice. 40 - L’imputazione sub c) evoca il fatto di maggior rilievo, in quanto afferisce alla vendita a prezzo vile del patrimonio di Federconsorzi. Si è visto in effetti che per gli organi della procedura il valore del patrimonio era stimabile in circa 3.939 miliardi di lire. In particolare tale cifra era stata indicata nella sentenza di omologa, anche al fine di verificare la capienza dell’onere concordatario, comprensivo di una percentuale minima del 40% in favore dei creditori chirografari. A fronte di ciò si addivenne alla cessione in blocco al prezzo solo teorico, in quanto in realtà addirittura inferiore, di 2.150 miliardi di lire. Si è ipotizzato da parte del P.M. che nella specie siano configurabili i delitti di abuso di ufficio ex art. 323 cp e di bancarotta fraudolenta ex artt. 236 cpv e 223 LF. Detti reati sono stati addebitati a tutti e quattro gli odierni imputati. Ricapitolando alcune osservazioni già formulate, non v’è dubbio che al momento dell’omologa il prezzo offerto dalla cordata Capaldo non potesse trovare accoglimento, poiché ciò avrebbe comportato un ricavo non sufficiente ad assicurare ai creditori chirografari la percentuale del 40% prevista dalla legge. Ed invero nella sentenza, pur facendosi menzione dell’offerta ed anzi espressamente privilegiandosi l’ipotesi della cessione in blocco, si rinviò ogni determinazione definitiva. Nonostante una trattativa, fatta di incontri e contatti epistolari intercorsi tra i promotori della cordata, rappresentati dal prof. Capaldo e -sul piano tecnico- dall’Avv. Casella, e gli organi della procedura, i termini economici dell’offerta non ebbero alcun incremento, ma anzi paradossalmente subirono un progressivo ridimensionamento. Dalla proposta di acquisto con dilazione di pagamento si passò infatti all’offerta formulata nel mese di gennaio 1993, contenente la richiesta di detrazione del corrispettivo ricavato dalle vendite effettuate. Inoltre all’indomani dell’autorizzazione alla cessione in blocco fu elaborato l’atto quadro che da un lato era destinato a protrarre i tempi della procedura e dall’altro includeva nella cessione anche i beni non ricompresi nella relazione particolareggiata del commissario giudiziale, il tutto senza alcun aumento del prezzo. Va ancora sottolineato come da parte degli esponenti della cordata non si fosse mai giustificato in modo preciso e puntuale il prezzo offerto e come per contro tanto il commissario governativo Piovano quanto il commissario giudiziale avessero espresso le loro perplessità, fra l’altro suggerendo una serie di correttivi, alla resa dei conti rimasti tutti lettera morta. Le giustificazioni addotte anche al dibattimento dal dott. Greco, pur dichiaratosi consapevole dell’insufficienza del prezzo, sono risultate quanto mai fragili, visto che il parere del comitato dei creditori era viziato da un palese conflitto di interessi, non sanzionato dal magistrato, nonché dal carattere strumentale di alcune valutazioni, e che il risparmio di tempo e di spese non avrebbe potuto in alcun modo giustificare una rinuncia all’ottimizzazione del risultato. Ed è qui che si annida l’insuperabile vizio della scelta operata. Se il prezzo offerto era inadeguato al momento della sentenza di omologa, non diversamente esso sarebbe potuto considerarsi a distanza di pochi mesi, solo perché nel frattempo l’omologa era ormai intervenuta. In realtà le modalità della liquidazione, che accedono all’omologa, devono mirare al conseguimento del miglior risultato possibile, proprio in conformità con le valutazioni formulate nella sentenza e comunque in linea con il precetto che impone di valutare la sussistenza dei presupposti per la distribuzione ai chirografari di una percentuale non inferiore al 40%. Per contro l’adozione di modalità che già a priori non avrebbero potuto garantire quel minimo, sarebbe dovuta considerarsi illegittima, a prescindere dal momento in cui la scelta fosse stata effettuata, poiché un conto è verificare che gli sforzi fatti non hanno prodotto il risultato sperato e tutt’altro è scegliere un meccanismo che fin dall’inizio si sa essere inidoneo. In altre parole, al di là dell’artificiosa separazione della fase dell’omologa da quella dell’indicazione definitiva delle modalità di liquidazione, resta il fatto che quest’ultima avrebbe dovuto conformarsi al presupposto che l’aveva legittimata, ogni diversa opzione esulando dallo schema normativo. Se in tale ottica il prezzo offerto non era tale da assicurare i valori imposti dalla legge, l’offerta non sarebbe potuta accettarsi, dovendosi in quel caso imporre condizioni diverse ovvero rinunciare alla prospettiva della cessione in blocco, fermo restando che di fatto non fu espletata neppure una gara e che non fu in alcun modo sondato il mercato internazionale, onde verificare la concreta praticabilità di offerte diverse. E’ del tutto irrilevante che le prospettive di liquidazione del patrimonio potessero essere nel frattempo mutate. Peraltro, per poterne compiutamente prendere atto, gli organi della procedura e per primo il Tribunale avrebbero dovuto addivenire ad una nuova valutazione del patrimonio, rideterminando i prezzi di vendita dei cespiti, ovvero acquisire specifiche valutazioni di tecnici all’uopo incaricati. Nulla di ciò fu fatto e fu invece percorsa la strada segnata dall’offerta Casella, come se una forza invisibile quanto irresistibile spingesse inesorabilmente in quella direzione. In definitiva, alla sostanziale mancanza di spiegazioni circa la ragione di un prezzo tanto esiguo, corrispose una sua acritica e supina accettazione, tanto che quello che era parso ancora incerto e fluido al momento dell’omologa, si trasformò improvvisamente, dopo pochi mesi, in una proposta credibile, sebbene essa fosse nella sostanza diminuita di valore e fosse formulata in termini così generici da esigere addirittura un atto di fede, che fu in effetti compiuto. Il relativo passaggio motivazionale del decreto del 23-3-1993, che richiama la buona fede dei proponenti, appare in tale prospettiva emblematico quanto imbarazzante. Detto provvedimento reca l’impronta di un pregiudizio favorevole alla vendita in blocco e dà la misura di come la proposta Capaldo dovesse comunque essere accettata. Non vi compare nessuno dei suggerimenti del commissario giudiziale, tesi a riequilibrare l’offerta. L’enorme gap tra il valore del patrimonio e il prezzo offerto viene colmato da mere parole, volte ad evocare un claustrofobico scenario da catastrofe incombente, abbattutasi sui mercati interni e internazionali, tale da determinare un abbattimento dei prezzi. Ma non è dato sapere quali fossero le fonti di informazione ufficiali e giuridicamente spendibili, diverse dalle vaghe prospettazioni dell’Avv. Casella, dalle quali il Tribunale avesse attinto un sapere tutt’altro che condiviso, se è vero che, per quanto riguarda il mercato immobiliare, il commissario giudiziale aveva riportato nel proprio parere le valutazioni in realtà rassicuranti di una nota società, specializzata nel settore. E tutto ciò ancor più sorprende se si considera che solo due mesi prima, nel gennaio, il Collegio aveva espressamente chiesto all’Avv. Casella di esplicitare le ragioni di quel gap, evidentemente ritenuto non giustificabile alla stregua di considerazioni di carattere generale. Ma se il Tribunale ritenne di addivenire all’accettazione di una proposta dall’andamento decrescente, nonostante il mancato esperimento di una gara, la mancata acquisizione di valutazioni ufficiali circa l’andamento del mercato e la concreta praticabilità di una cessione in blocco e l’assenza di puntuali spiegazioni da parte dell’Avv. Casella o del prof. Capaldo circa il contenuto economico della proposta, ciò significa che si trattò di una scelta fatta a prescindere da tutto questo e semplicemente destinata ad assecondare gli auspici dei proponenti, del resto già gratificati dall’eloquente riferimento alla buona fede. La violazione di legge insita nella preordinazione di un meccanismo a priori inidoneo ad assicurare l’erogazione di una percentuale pari almeno al 40% ai creditori chirografari, rappresenta peraltro solo un aspetto dell’operazione sfociata nella stipula dell’atto quadro. Il fatto che non si fosse pervenuti alla cessione uno actu costituiva infatti un grave vulnus per la procedura, tale da contraddire la stessa prospettiva di una sua rapida definizione. L’ulteriore decremento dell’offerta, insito fra l’altro nell’inserimento di nuovi cespiti per lo stesso prezzo, era un’ulteriore dimostrazione della totale sudditanza ai voleri dei proponenti. Ed invero l’autorizzazione alla stipula dell’atto quadro rappresentò l’epilogo di una vicenda segnata fin dal suo esordio dalla volontà del dott. Greco di mantenere in vita la procedura di concordato e di orientarla verso un esito ben preciso. Essa presenta dunque i medesimi vizi dei provvedimenti precedenti, corroborandone l’effetto. La successiva e conseguente stipula dell’atto quadro, pur non determinando l’immediato trasferimento del patrimonio, ne pregiudicò definitivamente la sorte, posto che fu da quel momento stabilito il corrispettivo e fu altresì sancito che tutti i cespiti erano messi a disposizione di SGR, che ne acquisiva la gestione. Potendo la società pretendere la cessione ovvero, per sua libera scelta, individuare direttamente l’acquirente, pare chiaro come la formalizzazione dei trasferimenti costituisse un mero accidente, non più afferente all’amministrazione di Federconsorzi, ma ormai rientrante nella sfera di interessi di SGR. In tale prospettiva il rilievo anche giuridico dei singoli atti di trasferimento sfuma, stante il significato assorbente dell’atto quadro, cui va riferito il definitivo assetto economico dell’affare. 41 - Così inquadrato il problema, ritiene il Collegio che il prezzo proposto e accettato fosse effettivamente vile, come ipotizzato nel capo di imputazione. Costituisce dirimente argomento che esso fosse incongruo già dal punto di vista giuridico, utilizzando gli snodi della procedura come parametro normativo. Ma anche riguardando la cessione come affare a se stante, esso sarebbe dovuto considerarsi irragionevole. La liquidazione avrebbe dovuto mirare al massimo risultato possibile ed invece ripiegò su una soluzione all’evidenza insoddisfacente, destinata a deprimere le molte risorse del patrimonio di Federconsorzi. L’eventualità della cessione in blocco, che in effetti avrebbe potuto assicurare il teorico vantaggio della celerità e del prezzo certo, non costituiva peraltro una medicina per ogni male. Ad essa non si sarebbe dovuto addivenire ad ogni costo, ben potendosi e dovendosi percorrere all’occorrenza strade alternative. Non si nascondono le molteplici difficoltà insite nella dismissione di un patrimonio tanto eterogeneo, composto da immobili, partecipazioni e crediti non di identico valore. Ed è anche vero che rispetto alle iniziali stime, molti di quei cespiti si erano deprezzati in conseguenza dell’assoggettamento a procedure concorsuali di molte partecipate, dell’ammissione a liquidazione coatta di taluni consorzi agrari, debitori di Federconsorzi, e della stasi del mercato immobiliare, tale da determinare una riduzione della domanda. Ma non risulta da nessuno degli elementi acquisiti nel corso del processo che, anche in tale prospettiva, il prezzo proposto fosse accettabile tal quale. Anzi, il commissario governativo Piovano ha ribadito che nel tempo gli erano pervenute molteplici richieste per svariati cespiti immobiliari, che avrebbero reso di per sé consigliabili vendite frazionate. Inoltre le alienazioni già effettuate avevano garantito una cospicua plusvalenza rispetto alle stime, quella plusvalenza di cui SGR intendeva appropriarsi attraverso l’escamotage della detrazione dei ricavi conseguiti. Ed in ogni caso, si ribadisce, non si sarebbe potuta accettare una proposta, che a priori implicava una rinuncia all’ottimizzazione dei ricavi. Tutto ciò non significa che fosse congruo solo un prezzo pari alla stima. E’ infatti evidente che il prezzo ricavabile da una vendita in blocco o da vendite frazionate dipende dalle condizioni del mercato. Peraltro non è detto che si dovesse per forza vendere tutto e subito, ben potendosi attendere almeno per una parte dei beni tempi migliori. E comunque il ricavo avrebbe dovuto avvicinarsi quanto più possibile al valore stimato, esperendosi ogni procedura idonea allo scopo, a meno di non pervenire con strumenti affidabili e giuridicamente apprezzabili ad una stima diversa. Non conducono a diverse conclusioni le giustificazioni fornite dal prof. Capaldo, sentito sul punto sia nel corso delle indagini che al dibattimento. A detta di costui avrebbero inciso sul prezzo proposto una pluralità di fattori: innanzi tutto l’evidente flessione del mercato immobiliare, che non avrebbe consentito di vendere i cespiti al valore indicato dai consulenti all’uopo nominati in corso di procedura; in secondo luogo lo stato delle partecipazioni, relative a società a loro volta in difficoltà e assoggettate a procedure concorsuali; infine l’esigibilità assai ridotta dei crediti, soprattutto per la parte riguardante i consorzi agrari, che si trovavano assoggettati a procedure di liquidazione. Su tali basi, ma soprattutto in considerazione del primo e del terzo aspetto, la stima del commissario giudiziale avrebbe dovuto ridursi almeno di un 25% e scendere a non più di 3.000 miliardi. A fronte di ciò sarebbero dovute considerarsi le spese di struttura relative alla costituzione e al funzionamento di SGR, stimabili in circa 200/300 miliardi, Infine vi sarebbe stato da considerare il fattore tempo, poiché a fronte di un pagamento immediato o comunque poco dilazionato la liquidazione si sarebbe distribuita su più anni. In ogni caso, secondo il prof. Capaldo, l’operazione avrebbe potuto aspirare non più che al pareggio di bilancio, prospettandosi un realizzo pari o solo di poco superiore al prezzo e agli altri oneri. A sostegno di tale argomentazione, oltre a valutazioni di carattere tecnico , si è soprattutto addotto che, sommando quanto già ricavato dalle vendite effettuate e quanto ancora potrebbe ricavarsi dalla cessione dei cespiti residui, comprese le partecipazioni nelle società immobiliari SAGRIM, SAIIM e INDIPENDENZA, tuttora in sequestro preventivo, SGR al termine della fase liquidatoria potrebbe ritrovarsi con un modesto utile di circa cento miliardi di lire, a fronte di ricavi non superiori a 2.700 miliardi di lire circa. Quanto alle valutazioni tecniche, esse sono parse in alcuni casi scontate o inutili, in altri più incisive. Così va rilevato che l’argomento principe del prof. Lacchini, secondo cui nell’ambito di una procedura concorsuale non si sarebbe potuto ottenere neppure un realizzo complessivo corrispondente al prezzo pagato da SGR, è inficiato da un vizio di fondo, il suo fondarsi sul presupposto del tutto astratto e ipotetico, cioè sulla mera congettura, che le procedure concorsuali debbano per forza condurre ad un infimo risultato.

Ogni caso fa ovviamente storia a sé, contribuendo, a seconda del risultato, ad abbassare o elevare la media.

Ma soprattutto non può assimilarsi la procedura di concordato che ci occupa a nessuna diversa procedura concorsuale, stante l’entità e le peculiarità del patrimonio assoggettato a liquidazione, fermo restando che, proprio sfruttando la flessibilità del modello procedurale si sarebbero potuti conseguire nel caso di specie risultati apprezzabili. Argomentazioni di maggior spessore sono state utilizzate per contestare alcune specifiche stime, soprattutto concernenti alcuni immobili. Sul punto si è già avuto modo di convenire. Si è peraltro invocata anche la crisi del mercato immobiliare, che dopo un picco alla fine del 1991 avrebbe conosciuto una progressiva flessione per alcuni anni, e si è sostenuto che un’operazione di liquidazione di vasta portata avrebbe fatalmente influito sui prezzi determinando una saturazione del mercato. Ma in realtà, a tutto voler concedere, non si è considerato in senso opposto che le valutazioni dei consulenti, già di per sé prudenziali, erano state ampiamente riviste dal commissario giudiziale, il quale aveva apportato dei temperamenti, e che la saturazione del mercato non si sarebbe potuta valutare in termini assoluti. Peraltro la correttezza tendenziale di quelle valutazioni è confermata dal fatto che, relativamente agli immobili, il ricavato della liquidazione effettuata da SGR, come emergente dalla documentazione prodotta, non si è di troppo discostata alla resa dei conti dai valori stimati, se si fa eccezione per il Palazzo Rospigliosi. Quanto poi alle partecipazioni, lo stesso prof. Capaldo ha riconosciuto che nella sostanza il valore stimato, sia pur attraverso una diversa distribuzione dei valori, derivante dall’abbattimento di alcune partecipazioni fino a zero e dal riscontro di plusvalenze in altri casi, non era lontano dal vero: sta di fatto che la liquidazione di SGR ha in parte qua condotto a ricavi addirittura superiori alle stime. Maggiori problemi sarebbero potuti porsi per i crediti. Particolarmente severe sul punto sono state le critiche riferite alla pretesa esigibilità degli stessi e al criterio utilizzato per i relativi abbattimenti. Il prof. Capaldo ha infatti sottolineato che un abbattimento generalizzato sarebbe stato possibile solo per crediti di modesto importo verso soggetti in bonis, dovendosi altrimenti considerare ciascuno specifico caso e soprattutto valutare la sostanziale inesigibilità dei crediti verso i consorzi agrari. Ma alla resa dei conti è agevole osservare come tanto la prof.ssa Misucci, nominata nel corso della procedura, quanto i commissari governativi in sede di bilancio al 31-12-1991 avessero formulato in proposito valutazioni sostanzialmente coincidenti. Anzi, fatta eccezione per il credito MAF, può sostenersi che la prof.ssa Misucci fosse stata ancor più rigorosa, prevedendo un’enorme decurtazione del valore di realizzo, basata su analisi del tutto pertinenti e tutt’altro che suscettibili di censura. Ciò significa che gli organi della procedura avrebbero dovuto valorizzare i cespiti destinati alla liquidazione e non accettare il brutale abbattimento del loro valore, privo in gran parte di plausibile giustificazione. Ma ancor più significativi paiono due ordini di argomenti. La tesi del riscontro a ritroso rappresentato dai ricavi di SGR è da un lato fuorviante e dall’altro indicativo del contrario. In effetti quanto in concreto ha potuto e potrà ricavare la società cessionaria è del tutto ininfluente, dovendosi in questa sede aver riguardo invece alla potenzialità realizzativa del patrimonio affidato ad un’ordinaria liquidazione. Ma soprattutto è d’uopo rilevare come lo stesso importo denunciato da SGR valga a porre in luce l’incongruità del ricavo assicurato a Federconsorzi dalla cessione in massa. L’equivoco risiede nel porre in relazione tale cessione con gli interessi e con le modalità operative del cessionario e considerare del tutto fisiologica un’operazione non connotata dal conseguimento di smisurati profitti. In realtà in questa sede può valutarsi esclusivamente la resa del patrimonio in funzione del riparto. In tale ottica la mera circostanza che SGR abbia ricavato o possa prevedibilmente ricavare almeno 2.700 miliardi costituisce la prova di un macroscopico deprezzamento, posto che mentre la cessionaria deve scomputare spese e oneri (per finanziamenti) -che, si badi, Federconsorzi non avrebbe avuto- da tale già ingente somma, la Liquidazione deve fare altrettanto quanto alle spese in prededuzione, rispetto a quella assai inferiore di 2.000 miliardi, che, con la massima benevolenza, corrisponde al prezzo e dunque al ricavo, salve le decurtazioni dei precedenti realizzi. Né si dica che le spese di Federconsorzi per le operazioni di liquidazione sarebbero state effettivamente tali da rendere del tutto irragionevole il meccanismo delle vendite frazionate, posto che la gran parte degli oneri in prededuzione derivava dalla gestione della società e dal costo del personale, l’una e l’altro resi necessari anche dal tipo di liquidazione delineata con l’atto quadro. Argomentando da un diverso angolo visuale, la circostanza che il prezzo accettato fosse del tutto insufficiente è palesata dal fatto che, decurtando a mano a mano da esso il ricavato delle ulteriori cessioni a terzi, rapidamente si esaurì il plafond, così da rendere necessaria per gli ulteriori trasferimenti l’indicazione di un prezzo del tutto simbolico, al fine di poter rimanere all’interno della somma complessivamente pattuita. Vi è poi un ultimo argomento, che, pur assai importante, è del tutto taciuto nella relazione della Commissione Parlamentare presieduta dal Sen. Cirami. Si muova pure dal presupposto che SGR, al termine della liquidazione, ricavi un utile di soli 100 miliardi o addirittura si trovi a gestire una situazione di pareggio. Trattasi a dir il vero di ipotesi irreale, poiché, fra l’altro, non tiene conto dell’attuale valutazione delle tre società immobiliari in sequestro preventivo, società cui la gestione custodiale ha talmente giovato che esse si trovano attualmente in uno stato di straripante floridezza . Né in tale ottica va trascurato il consistente patrimonio immobiliare di recente interamente trasferito, per ragioni rimaste invero oscure, alla società SMIA, partecipata al 100% da SGR. In ogni caso, anche a voler accettare quel dato, non si tiene conto che l’operazione di cessione è stata nel frattempo riequilibrata dalla transazione del luglio 1998, con la quale si è stabilito che potessero restare a SGR i cespiti ormai trasferiti e alla Liquidazione di Federconsorzi i cespiti residui. Non si è trattato affatto di poca cosa. Vi erano infatti ancora beni di rilevante valore, e tra questi il famoso credito MAF, stimato -con gli interessi- circa 1.000 miliardi di lire. Anche a voler prescindere da quanto si è osservato in ordine alla consistenza del credito, non può sottacersi che la Liquidazione è attualmente pervenuta alla distribuzione ai chirografari del 40% solo in virtù della titolarità di quel credito, che è stato posto in compensazione con un debito verso lo Stato per oltre 100 miliardi di lire, oltre che in virtù del passaggio di una quota rilevante di crediti dalla categoria dei privilegiati a quella dei chirografari. Ignorare tale passaggio è assolutamente impossibile, se si vuol comprendere fino in fondo la dinamica degli avvenimenti. Ciò significa che quel credito aveva comunque un valore intrinseco e poteva dunque incidere concretamente sul patrimonio di Federconsorzi, seppur in misura inferiore a quella nominalmente risultante dai bilanci e dalla contabilità. Va peraltro aggiunto che nel corso della procedura lo stesso credito MAF ha formato oggetto di un tentativo di cartolarizzazione: si erano infatti presi accordi con importanti istituti finanziari, interessati all’operazione, che avevano indicato un valore di circa 250 miliardi . In concreto nulla di ciò si è concretizzato poiché la sciagura dell’11 settembre 2001 ha riguardato proprio la sede dell’istituto bancario in discorso, dislocata in una delle “Torri Gemelle” di New York. Ma al di là delle perplessità che la tentata cartolarizzazione può ingenerare , si ha un riscontro ulteriore dell’oggettiva consistenza del credito in esame, che in nessun modo sarebbe potuto considerarsi pari a zero. In definitiva, per quanto appaia improbabile che in sede di liquidazione fossero realizzabili ricavi pari al valore del patrimonio, così come stimato dai consulenti e dal commissario giudiziale, deve tuttavia rilevarsi come la scelta in concreto adottata abbia in radice pregiudicato la possibilità di ottenere molto di più, per lo meno quanto ottenuto da SGR , cui devono aggiungersi il credito MAF e i realizzi anteriori alla cessione in blocco, inopinatamente decurtati dal prezzo. Vanno del resto considerati nella stessa ottica anche altri fattori. Se in origine molti consorzi agrari versavano in precarie condizioni, così da far apparire difficilmente realizzabili alcuni crediti, anche di ingente importo, in prosieguo di tempo molti di essi sono tornati in bonis o comunque hanno acquisito nuove risorse, anche attraverso il finanziamento del credito MAF, per la cospicua parte ancora di spettanza dei consorzi agrari, effettuato dalla L 410/99 . Ciò ha reso possibile il pagamento di rilevanti somme in favore di SGR, che ha così introitato assai di più di quanto in precedenza ipotizzato. Inoltre va rimarcato che se SGR ha attuato un programma di dismissioni efficiente , ciò non vuol dire che nell’ambito della procedura non si potesse fare altrettanto, ricorrendo ad opportuni accorpamenti, suggeriti a suo tempo anche dai consulenti stimatori, e utilizzando strumenti più duttili, idonei ad assicurare un’adeguata concorrenza. Deve allora convenirsi che la cessione in blocco a SGR, come trasfusa nell’atto quadro, al prezzo di 2.150 miliardi ha irrimediabilmente compromesso le potenzialità di realizzazione che il patrimonio di Federconsorzi indubitabilmente assicurava, riducendo il ricavo e dunque la somma da ripartirsi tra i creditori chirografari a livelli inaccettabili. Né si potrebbe oggi invocare il fatto che alla resa dei conti è stato distribuito il 40%: al di là dei passaggi che hanno reso possibile il risultato, trattasi di una percentuale comunque assai lontana da quella superiore al 70% evocata nella sentenza di omologa. La potenzialità realizzativa è infatti cosa diversa dal ricavo della percentuale minima, dovendo gli organi della procedura aspirare all’ottimizzazione dei ricavi e non accontentarsi del 40%, percentuale che peraltro l’atto quadro non avrebbe potuto di per sé garantire. Quanto fin qui osservato convince il Collegio dell’illegittimità dell’operazione di cessione in blocco e soprattutto dell’inadeguatezza del prezzo accettato. 42 - Passando all’inquadramento giuridico dei fatti, deve innanzi tutto ritenersi pertinente l’ipotesi della bancarotta fraudolenta. Com’è noto l’art. 236 L.F., dettato per il concordato preventivo e per l’amministrazione controllata, richiama al secondo comma le disposizioni dell’art. 223 L.F. per gli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società. D’altro canto l’art. 223, in virtù del richiamo all’art. 216, contempla indifferentemente ipotesi di bancarotta anteriori o successive al fallimento, cosicché analoghe figure di reati devono ritenersi configurabili ex art. 236 nel caso di concordato preventivo. Peraltro, essendo delineati dei reati propri, occorre che il soggetto agente rivesta la qualifica richiesta di amministratore o sindaco o liquidatore. Nel caso di specie tutte le difese hanno dedotto che nessuno degli imputati aveva la qualifica richiesta, ciò che avrebbe reso a priori insussistente l’ipotizzata bancarotta. Ma la tesi difensiva è all’evidenza infondata. Basterebbe considerare che la Suprema Corte di Cassazione, investita del ricorso a suo tempo presentato avverso l’ordinanza del Tribunale di Perugia, che in sede di riesame aveva confermato il sequestro preventivo, disposto nel corso delle indagini dal GIP, ebbe a ravvisare il fumus del delitto di bancarotta fraudolenta e dunque anche la qualifica soggettiva richiesta. Ma in realtà è d’uopo più approfonditamente osservare come la veste di amministratore spettasse nel caso di specie ai commissari governativi di Federconsorzi succedutisi nell’incarico a partire dal 17-5-1991. La circostanza è testualmente confermata dall’art. 2543 cc, che conferisce appunto all’autorità governativa la facoltà di revocare gli amministratori e i sindaci e di affidare la gestione a commissari governativi, determinandone poteri e durata, ciò che è sempre avvenuto anche nel caso di Federconsorzi con i vari provvedimenti di nomina. In altre parole i commissari governativi assumono il ruolo di gestori e dunque di amministratori della società in luogo di quelli fisiologicamente nominati dagli organi societari, il che val quanto dire che la nomina governativa si sovrappone a quella ordinaria e costituisce una delle forme di attribuzione dei poteri di amministrazione. Ed allora è d’uopo ritenere che il commissario governativo di per sé rivesta la qualifica di amministratore. Nulla rileva in senso contrario il fatto che l’art. 2639 cc come modificato dal D.L.vo 61/2002 espressamente includa il commissario governativo tra i soggetti che possono rispondere di reati societari. L’argomento a contrario, valorizzato dalle difese, secondo cui l’equiparazione non sarebbe potuta stabilirsi prima di quell’espressa inclusione, è del tutto privo di fondamento, in quanto già l’art. 2636 cc, nella previgente formulazione, prevedeva l’ipotesi di reati societari imputabili al commissario governativo (o all’amministratore giudiziale), essendosi dunque semplicemente ribadito in un diverso quadro sistematico un principio già esistente. E comunque la più recente normativa ha puntualizzato ciò che già sul piano interpretativo sarebbe potuto agevolmente desumersi. Diversamente opinando, si badi, dovrebbe concludersi che prima della modifica non rientrasse tra i destinatari delle norme neppure l’amministratore di fatto, parimenti incluso -e se mai solo meglio definito- dal nuovo art. 2639 cc, ciò che è smentito da una pacifica tradizione interpretativa, avallata dal costante orientamento della Suprema Corte. Si è però ancora obiettato che il reato sarebbe stato commesso durante la fase della liquidazione, quando il commissario governativo, quale legale rappresentante di Federconsorzi, operava come liquidatore e non come amministratore della società. Ora, non v’è dubbio che la bancarotta nel caso di specie debba farsi coincidere con la stipula dell’atto quadro. Infatti solo da tale momento può dirsi perfezionata una pattuizione teoricamente vincolante, concernente la definizione del prezzo per l’intero coacervo dei beni e tale da determinare ex se un pregiudizio per gli interessi dei creditori. E’ altrettanto pacifico che la stipula afferiva alla fase della liquidazione, cioè alla fase successiva alla sentenza di omologa, con la quale l’incarico di liquidatore non era stato conferito a terzi, bensì surrettiziamente alla stessa Federconsorzi, in persona del proprio legale rappresentante, dandosi così luogo ad una situazione di sostanziale mancanza del liquidatore in senso proprio. D’altro canto l’atto quadro fu sottoscritto da un procuratore all’uopo nominato dal prof. Capaldo, quale presidente di SGR, e dal prof. D’Ercole, all’epoca commissario governativo di Federconsorzi. Nonostante le polemiche e le contestazioni sollevate a proposito della veste in concreto assunta dal prof. D’Ercole, posto che nell’atto quadro non si dice espressamente che Federconsorzi interveniva come liquidatore, è d’uopo tuttavia ritenere che attraverso le premesse dell’atto fosse chiaro il contesto nel quale la stipula si collocava e che dunque essa afferisse proprio alla liquidazione di Federconsorzi. Ciò non vuol dire però che il prof. D’Ercole non rivestisse la qualifica soggettiva richiesta dagli artt. 236 e 223 L.F. E’ certo infatti che egli agì in veste di commissario governativo e di legale rappresentante di Federconsorzi, così come è certo che prima della fase della liquidazione la gestione era rimasta nelle mani del commissario governativo con il controllo degli organi della procedura. D’altro canto, nonostante la liquidazione, la società in concordato conservava una sua propria sfera gestionale, ad esempio per ciò che riguardava il personale ed altri aspetti non direttamente afferenti alla cessione dei beni . Va ancora aggiunto che la bancarotta è configurabile anche nella fase successiva al fallimento, quando certamente la qualifica soggettiva di amministratore non corrisponde alla gestione di effettivi poteri di amministrazione. Ciò non può che valere anche per il concordato preventivo, in virtù del richiamo all’art. 223 L.F. Ed allora è d’uopo concludere che la coincidenza in capo al prof. D’Ercole della veste di commissario governativo-amministratore e di quella di commissario governativo-liquidatore non vale ad elidere la qualifica richiesta per la configurabilità del delitto di bancarotta, posto che l’atto quadro, proprio per la sostanziale mancanza di un liquidatore in senso proprio, postulava essenzialmente la qualità di legale rappresentante di Federconsorzi e veniva pur sempre ad incidere sul patrimonio della società, facendo ricadere su di esso i suoi effetti. 43 - Ma se il prof. D’Ercole rivestiva ai fini de quibus la qualità di amministratore, deve ora stabilirsi se la stipula sia inquadrabile nell’una o nell’altra delle fattispecie di bancarotta contemplate dall’art. 223. Nel capo di imputazione si fa indistintamente riferimento alle ipotesi di distrazione e di dissipazione. In realtà il problema ha una valenza meramente accademica, giacché è pacifico che si intende far riferimento al medesimo fatto. Orbene, l’art. 216 e, per effetto dello specifico richiamo, gli artt. 223 e 236 L.F. prendono in considerazione varie condotte che divergono per aspetti marginali, ma che sono tutte sussidiariamente riconducibili alla figura della distrazione, intesa come distacco di beni dal patrimonio e loro sottrazione alla funzione di garanzia dei creditori che il patrimonio ai sensi dell’art. 2740 cc fisiologicamente assolve. In definitiva nella distrazione deve ricomprendersi ogni episodio connotato dalla fuoriuscita di cespiti dal patrimonio senza una fisiologica causa . Nel caso di specie in realtà la causa del distacco sarebbe potuta ricercarsi nell’atto quadro stipulato in sede di liquidazione. In concreto si è visto però come il corrispettivo, del tutto inadeguato, non consentisse al patrimonio di assolvere per intero la sua funzione di garanzia. In pratica è come se la causa del distacco operasse per una sola parte, lasciando scoperta la parte restante. Ma tutto ciò non rientra, se non sussidiariamente, nella distrazione in senso stretto. Al contrario la vicenda va più propriamente inquadrata nella figura della dissipazione, la quale costituisce una più specifica forma di distrazione, caratterizzata da una inadeguata valorizzazione del patrimonio, ingiustificatamente e deliberatamente utilizzato (cioè sprecato) per ricavarne un’utilità inferiore alle sue potenzialità . In altre parole l’atto quadro rappresenta la causa del distacco, alla quale corrisponde un’entrata, ma quest’ultima è del tutto insufficiente, costituendo dunque un’inadeguata valorizzazione del patrimonio ceduto. Tutto ciò del resto deve valutarsi nella prospettiva della tutela delle ragioni dei creditori di Federconsorzi. Si è per vero sostenuto che non sarebbe stata configurabile né una distrazione né una dissipazione, giacché nel caso di specie la SGR era costituita a sua volta da creditori ed era aperta all’ingresso di tutti gli altri entro un termine più volte prorogato, ferma restando la disponibilità di SGR a pagare per intero i crediti fino a 20 milioni di lire e in percentuali variabili quelli di importo fino al miliardo di lire. In buona sostanza si è addotto che, se la ratio dei reati fallimentari è quella di salvaguardare la garanzia dei creditori, nel caso di specie, avendo gli stessi creditori acquistato il patrimonio, nessun danno essi avrebbero potuto risentire dall’operazione. Ma non è così. Su un piano generale potrebbe già in questa sede valutarsi la posizione di quei particolari creditori di lavoro, che tanto pregiudizio hanno risentito dall’improvvido disfacimento della struttura e dalla sua cessione sotto costo. Ma considerando i soli creditori in senso stretto, deve rilevarsi come SGR non fosse costituita dalla generalità dei creditori, bensì da una ristretta minoranza, pur rappresentativa di una quota notevole delle esposizioni di Federconsorzi, e come la sbandierata possibilità di adesione, implicando un conferimento non del solo credito ma di un ulteriore capitale di rischio e l’accettazione di determinati patti parasociali, fosse così impegnativa, da renderla praticabile solo ai creditori maggiori, disposti a sobbarcarsi all’onere del finanziamento, pur di garantirsi migliori condizioni di riparto.

Del resto basterebbe osservare che il creditore maggiore, cioè Agrifactoring, rimase estraneo a SGR né avrebbe potuto farvi parte, stante la necessità di assunzione di un rischio non compatibile con la pendenza della procedura di concordato preventivo, e che non tutti i creditori comunque si schierarono a favore, tanto che in sede di comitato si registrò la netta presa di posizione contraria da parte del rappresentante di uno di essi. Va aggiunto che i diritti dei creditori non avrebbero dovuto dipendere dalla riuscita dell’operazione e dall’adesione a SGR, ma avrebbero dovuto essere di per sé tutelati, nel pieno rispetto della scelta fatta dai non partecipanti. A ben guardare solo l’effettiva e totale partecipazione dei creditori avrebbe precluso in radice qualsivoglia ipotesi di bancarotta, non potendosi in tale ottica sottacere come una siffatta partecipazione fosse stata all’inizio auspicata e cercata anche dal Ministro Goria, interessato ad una liquidazione volontaria, e come la relativa proposta fosse naufragata di fronte al rifiuto di alcuni creditori.

Ciò significa che erano chiari a tutti fin dall’origine sia il valore dell’unanimità sia per contro l’insufficienza della mera possibilità di partecipazione, evenienza resa oltre tutto impraticabile per molti dalla previsione di un investimento a rischio e dalla necessità di aderire a impegnativi patti parasociali. In conclusione SGR era un soggetto terzo, se mai sfavorevolmente connotato proprio dal fatto di essere costituito solo da una parte dei creditori, così destinati a trovarsi in condizioni di oggettivo vantaggio a danno degli altri. D’altro canto, che l’operazione avesse la finalità di conseguire il pareggio del bilancio e di assicurare semplicemente una più rapida liquidazione, appare del tutto inverosimile.

Non v’è un solo atto che dimostri la veridicità dell’assunto, neppure i verbali relativi alle riunioni dei creditori facenti parte della cordata .

Il contrario risulta invece dalle dichiarazioni dell’Avv. Maugeri, collaboratore dell’Avv. Casella, e soprattutto da un verbale del consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio di Reggio Emilia , nel quale viene specificamente prospettata la possibilità di un profitto, da imputarsi a maggior recupero del credito. Ed allora i termini della questione risultano chiari. Federconsorzi aveva un patrimonio imponente e variegato che faceva gola a molti.

I maggiori creditori avevano interesse a gestire direttamente la liquidazione, in modo da assicurarsi il miglior risultato possibile e poter così lucrare una percentuale di riparto maggiore, tanto più che alcuni di essi, peraltro determinanti in questa operazione, avevano dovuto di fatto rinunciare al credito verso Agrifactoring, postergato a vantaggio delle banche estere. Il riequilibrio della situazione imponeva un maggior recupero sul versante di Federconsorzi e dunque l’elaborazione di una strategia che assicurasse quel risultato. La storia della proposta Casella, dai primi passi incentrati sul conferimento del credito alla versione definitiva, avente ad oggetto la costituzione di un capitale di rischio, dimostra come fosse a mano a mano maturata nei maggiori creditori la consapevolezza di addivenire a forme di liquidazione che in concreto privilegiassero le loro aspettative. Alla medesima conclusione conduce la constatazione che la proposta tese progressivamente al ribasso oppure al massimo risparmio di spesa, fino al punto che nella definitiva versione essa contemplava un’operazione destinata in pratica ad autofinanziarsi o implicante comunque esborsi relativamente modesti e ritardati . Di fatto l’accettazione del c.d. piano Capaldo ebbe l’effetto di rimettere la procedura di liquidazione nelle mani di SGR ad un prezzo irrisorio, sicuramente inadeguato al presumibile valore di realizzo dei cespiti che componevano il patrimonio. In ciò si annida la dissipazione, giuridicamente propiziata dalla stipula dell’atto quadro, che valse a definire il prezzo e i termini economici dell’affare. Del resto a partire da quella stipula la liquidazione di Federconsorzi non avrebbe potuto confidare in nessuna ulteriore entrata. Corrispondentemente la successiva fase di attuazione del contratto quadro non ebbe un’incidenza sostanziale, visto che il pregiudizio ai creditori era stato ormai arrecato “in blocco”, ma ebbe il solo effetto di determinare il trasferimento della titolarità dei diversi cespiti che componevano il patrimonio. In tale ottica è dunque ravvisabile una bancarotta fraudolenta per dissipazione, riferibile in primis al soggetto che, tra tutti, rivestiva la qualifica soggettiva richiesta, cioè al commissario governativo dell’epoca Stefano D’Ercole. 44 - Ma egli non fu solo. Un fondamentale contributo alla perpetrazione del reato fu fornito dal dott. Greco. Quale giudice delegato prima e quale giudice relatore poi, egli pilotò abilmente la procedura verso l’esito auspicato dal prof. Capaldo. In tale quadro fondamentali tappe furono la sentenza di omologa, il decreto del 23-3-1993 di autorizzazione alla vendita in blocco e quello del 20-7-1993 di autorizzazione alla stipula dell’atto quadro. Tale serie procedimentale creò i presupposti perché la bancarotta potesse realizzarsi mediante la cessione del patrimonio a prezzo irrisorio. D’altro canto ciascun provvedimento era specificamente rivolto a quel risultato, costituendone la causa efficiente. Da ultimo concorse nel reato il prof. Capaldo. Costui, fin dall’inizio favorevole ad una procedura di liquidazione globale, fu il promotore della cordata che elaborò l’offerta di acquisto e si attivò poi perché detta offerta fosse accettata. In tale quadro vanno segnalati i suoi contatti, diretti o indiretti, ufficiali o non, con il dott. Greco, il ruolo incisivamente svolto nella predisposizione dell’offerta, ed in primis del prezzo, in termini sempre più favorevoli agli interessi della cordata, i suoi incontri con i rappresentanti delle maggiori confederazioni sindacali, il ruolo dominante nella costituzione di SGR, di cui divenne presidente, ed infine la stipula dell’atto quadro, sia pur per il tramite di un procuratore speciale. Va invece escluso dal novero dei partecipanti il prof. Carbonetti. Costui in realtà divenne consigliere di amministrazione di SGR , ma non svolse un ruolo attivo e concreto, per lo meno fino al momento in cui sostituì il prof. Capaldo alla presidenza della società. Peraltro in tale momento il reato si era ormai perfezionato attraverso la stipula dell’atto quadro, mentre la fase di attuazione dell’accordo va giudicata irrilevante in quanto già irrimediabilmente pregiudicata dalla determinazione vincolante del prezzo. Costituisce poi il frutto di un equivoco l’attribuzione al Carbonetti del ruolo di amministratore di fatto di Federconsorzi. Si era in effetti ipotizzato che, avendo SGR ampiamente utilizzato la facoltà di procedere alla liquidazione dei cespiti con il meccanismo del trasferimento diretto da Federconsorzi a terzi, la ripetuta indicazione degli acquirenti implicasse l’assunzione da parte del legale rappresentante di SGR di poteri gestori di fatto rispetto alla stessa Federconsorzi. Ma in realtà, quand’anche al Carbonetti fosse stato attribuito in tale contesto un ruolo incisivo, ciò che egli ha tenuto a smentire, imputando ogni responsabilità alla dirigenza di SGR, egli non avrebbe svolto funzioni di amministratore di fatto di Federconsorzi, bensì pur sempre le funzioni di amministratore di SGR, in attuazione dell’atto quadro, che conferiva direttamente alla società la gestione del patrimonio, ormai destinato alla cessione, e che riconosceva alla medesima la possibilità di indicare nel proprio interesse e non di quello di Federconsorzi gli acquirenti dei singoli cespiti, in modo da evitare un fiscalmente oneroso passaggio intermedio. Né potrebbe giungersi a configurare un concorso del Carbonetti per il solo fatto che in origine egli aveva predisposto i due famosi pareri sulla congruità del prezzo offerto dalla cordata Capaldo. A prescindere dal significato che l’episodio assume ai fini della ricostruzione della vicenda e soprattutto del ruolo del dott. Greco, va considerato che il Carbonetti, pur fornendo argomenti a favore di un giudizio di congruità, si era limitato ad una disamina superficiale ed aveva sottolineato di non poter comunque formulare valutazioni precise, non avendo a disposizione tutti i dati conoscitivi necessari. In tal modo deve escludersi che il parere, fra l’altro diretto al solo giudice delegato e reso in epoca remota rispetto alla condotta penalmente rilevante, possa essere ad essa eziologicamente correlato. 45 - Quanto precede vale a delineare la sfera dei soggetti cui il reato può essere materialmente attribuito, ma ciò non significa che costoro possano essere per ciò solo ritenuti penalmente responsabili. Si tratta infatti di stabilire se essi fossero o meno assistiti dal prescritto coefficiente psicologico. In subiecta materia viene in considerazione il dolo generico, che richiede la consapevolezza e la volontà di compiere atti che cagionino o possano cagionare un danno ai creditori e che è ravvisabile anche quando l’agente, pur non perseguendo direttamente il danno, tuttavia lo preveda e nondimeno agisca, consentendo che si realizzi .

In un caso di concorso nel reato, occorre inoltre che a ciascuno dei concorrenti possa imputarsi il dolo di concorso, che implica la consapevolezza di partecipare con altri all’operazione potenzialmente dannosa.

Prima di tutto va esaminata la posizione del prof. D’Ercole. Egli è, come si è visto, l’intraneus, cioè il soggetto in possesso della qualifica soggettiva richiesta dalla norma, affinché il reato di bancarotta possa configurarsi. Orbene, costui assunse l’incarico di commissario governativo nel mese di maggio del 1993, cioè appena due mesi prima della stipula dell’atto quadro e dopo che gli organi della procedura avevano autorizzato la vendita in blocco alle condizioni proposte dalla cordata Capaldo. Non solo, ma nel frattempo su sollecitazione del commissario giudiziale, il dott. Piovano, all’epoca ancora commissario governativo, aveva inviato all’Avv. Casella la comunicazione espressa dell’avvenuta accettazione della proposta. Contrariamente a quanto sostenuto al dibattimento dal prof. D’Ercole non può dirsi che già si fosse perfezionata la cessione del patrimonio. Basti pensare che solo successivamente sarebbe stata costituita SGR e che in luogo di una cessione uno actu sarebbe stato elaborato l’atto quadro, destinato a regolare i singoli trasferimenti. Tuttavia si trattava certamente di un atto impegnativo, foriero, se del caso, di responsabilità precontrattuale. Ma soprattutto va rimarcato come all’accettazione della proposta si fosse addivenuti sulla base di un decreto emesso dal Tribunale, che aveva sottolineato l’opportunità della vendita in blocco e posto in luce come talune circostanze di fatto valessero di per sé sole a colmare il gap tra il valore del patrimonio e il prezzo offerto. E’ chiaro dunque che il prof. D’Ercole, estraneo alla fase dell’omologa del concordato e trovatosi ad assumere la veste di commissario governativo, quando ormai la strada da percorrere era stata con chiarezza delineata, anche in riferimento al prezzo e alle principali condizioni poste dagli acquirenti, poteva ragionevolmente confidare sulla rispondenza della cessione così strutturata agli interessi dei creditori. Va per vero precisato che anche il prof. D’Ercole fornì un suo autonomo contributo, concorrendo all’elaborazione dell’atto quadro. La diversa tesi dell’imputato non trova alcun riscontro negli elementi acquisiti, non essendo del resto ragionevole che il commissario governativo potesse rimanere estraneo alla strutturazione dell’atto e che vi si ingerisse invece, oltre al notaio, il solo commissario giudiziale. Va al contrario osservato che il prof. Picardi, nel parere espresso il 19-7-1993, in vista dell’autorizzazione alla stipula, ebbe espressamente a segnalare talune circostanze riguardanti la fase delle trattative, direttamente apprese dal prof. D’Ercole. Ed ancora va rimarcato che la bozza dell’atto da stipulare fu inviata agli organi della procedura dallo stesso commissario governativo. Ciò vale a rendere palese il ruolo da lui avuto, ma non consente tuttavia di formulare a suo carico un giudizio di colpevolezza. Infatti il contenuto economico della cessione era sostanzialmente definito prima della stipula dell’atto. Quest’ultimo influì, aggiuntivamente, solo per la parte concernente l’inclusione nell’oggetto della cessione di beni non ricompresi nella relazione particolareggiata del commissario giudiziale, peraltro a fronte della rinuncia di controparte alla garanzia del verum nomen. Sebbene quell’estensione potesse avere in teoria effetti rilevanti, in concreto gli ulteriori cespiti di cui si aveva notizia si riducevano a poca cosa. Non può dirsi che per tale via si fosse arrecato alle ragioni dei creditori un vulnus maggiore di quello derivante dalla previsione del prezzo, delle dilazioni di pagamento e delle varie detrazioni. Sotto altro profilo va poi rimarcato che l’idea dell’atto quadro non fu del D’Ercole, ma fu al contrario avanzata dall’Avv. Casella già all’indomani dell’accettazione dell’offerta da parte del Tribunale, in epoca anteriore alla nomina del nuovo commissario governativo. Ed allora è d’uopo concludere che il D’Ercole non poteva avere piena consapevolezza della lesione che si andava arrecando ai creditori e della dissipazione del patrimonio insita nell’accettazione di alcune condizioni di vendita, in quanto indotto ad opinare diversamente da atti ufficiali provenienti dagli organi della procedura. Da ultimo va considerato il fatto che il D’Ercole fu autorizzato alla stipula dal Ministro dell’epoca, On. Diana, anche se per vero si verificò una circolarità di valutazione, essendo il Ministro a conoscenza solo di quanto lo stesso commissario gli aveva riferito . Tutto questo in definitiva impone di prosciogliere il D’Ercole dal delitto di bancarotta fraudolenta, perché il fatto non costituisce reato. L’assoluzione dell’intraneus non comporta peraltro l’automatico proscioglimento degli altri imputati. La dottrina si è spesso fatta carico del problema, non sempre risolvendolo allo stesso modo. Tra le soluzioni prospettate pare al Collegio di gran lunga più rispondente ad un’esigenza di razionalità e di adeguatezza del sistema, oltre che in linea con i valori di tipicità e di offensività, la tesi che una partecipazione consapevole dell’intraneus sia indispensabile solo quando essa incida sulla lesione del bene protetto. Si consideri ad esempio la previgente fattispecie dell’abuso di ufficio, introdotta dalla L 86/90. Richiedendosi una condotta abusiva del pubblico ufficiale, volta a procurare un danno o un vantaggio ingiusti, la lesione del bene protetto sarebbe dovuta necessariamente correlarsi al fatto che fosse proprio il soggetto qualificato a perseguire il fine illecito, sul quale riposava la ratio dell’incriminazione, con la conseguenza che qualora non fosse stato attribuibile al pubblico ufficiale il dolo specifico, non sarebbe stato configurabile neppure il concorso di terzi. Ma nel caso della bancarotta per distrazione o per dissipazione la lesione deriva oggettivamente dalla condotta tipica, laddove l’intraneus è discriminato solo dalla particolare relazione con il bene protetto, cioè dal fatto che la qualifica può propiziarne l’aggressione. Ciò significa che, a prescindere dalla partecipazione consapevole del soggetto qualificato, è comunque ravvisabile il concorso di altri che abbiano fornito un contributo al verificarsi, per il tramite dell’intraneus, dell’effetto lesivo che la norma incriminatrice mira a prevenire. La giurisprudenza della Suprema Corte, senza incertezze, ammette il concorso e la punibilità dell’extraneus anche quando il soggetto qualificato debba essere assolto per mancanza di dolo o per altra causa, diversa dalla mancata partecipazione al fatto . Ed allora l’analisi può proseguire nella direzione indicata. Quanto in particolare al Greco, va osservato che fin dall’inizio egli mirò ad assicurare alla procedura lo sbocco finale della liquidazione, quando vi sarebbero state più che valide ragioni di ordine formale e sostanziale per privilegiare un esito più radicale con passaggio a procedure diverse. D’altro canto egli si mostrò sempre contrario, anche ingiustificatamente, a dismissioni parziali, benché ripetutamente suggerite dai commissari governativi. Inoltre palesò la propria disponibilità ad attendere la costituzione della cordata e poi, nella sentenza di omologa, operò una netta scelta di campo a favore della vendita in blocco, nominando Federconsorzi come liquidatore, differendo la scelta definitiva e nel frattempo non prendendo mai in considerazione il programma di vendite frazionate elaborato dal commissario Piovano. Al contrario, nei mesi che videro la messa a punto dell’offerta, in termini tutt’altro che rispondenti alle reali esigenze della liquidazione, il Greco non tenne mai verso i promotori dell’iniziativa un atteggiamento di chiusura, quale ci si sarebbe dovuti attendere, stante la dichiarata indisponibilità ad elevare un prezzo che non avrebbe assicurato il 40 % ai chirografari, ma condusse invece trattative che preludevano all’accoglimento dell’offerta a tutti i costi. Nessuno dei suggerimenti dei commissario giudiziale e del commissario governativo fu accolto, mentre il parere favorevole del comitato dei creditori, invocato ai fini della decisione, era inficiato da un macroscopico conflitto di interessi, non rimosso dal magistrato, pur investito del problema. Nulla imponeva l’accoglimento della proposta e tuttavia tutto fu fatto in funzione della sua accettazione. La distanza tra il valore del patrimonio e il prezzo proposto fu giudicata colmabile da una serie di sopravvenienze, almeno in parte non verificate e delle quali non fu comunque concretamente valutata l’incidenza. Ma soprattutto fu elusa la norma che imponeva di assicurare almeno in via tendenziale la distribuzione del 40% ai creditori chirografari. L’autorizzazione alla vendita in blocco fu seguita da quella relativa all’atto quadro. In tal caso del tutto acriticamente vennero recepite le clausole che, smentendo il presupposto della vendita “uno actu”, demandavano a SGR di fissare tempi e modi di attuazione, non essendosi ritenuto di imporre clausole più restrittive. E soprattutto fu accettata l’estensione dell’oggetto, senza che in motivazione compaia in proposito alcun concreto riferimento. Che il dott. Greco fosse consapevole dell’impercorribilità della vendita in blocco alle condizioni proposte è dimostrato dal distacco temporale tra la fase dell’omologa e quella delle determinazione definitiva delle modalità di vendita. Ciò che non era legittimo nel mese di ottobre, quando al patrimonio era stato riconosciuto un determinato valore, non sarebbe potuto divenirlo sei mesi dopo, nei quali nulla di nuovo si era verificato, al punto da giustificare una così drastica riduzione. Per il resto è degno di nota il pedissequo recepimento del volere dei proponenti, nonostante che l’offerta fosse divenuta a mano a mano ancor meno conveniente. Tutto ciò suffraga il convincimento che l’affare dovesse comunque concludersi, perché così era stato stabilito e perché così il Presidente Greco voleva che avvenisse. Né può sottacersi, costituendo anzi un riscontro fondamentale, che lo stesso Greco al dibattimento ha riferito che tutti sapevano che il prezzo era insufficiente. Si è obiettato - e trattasi di argomento di qualche suggestione - che il Tribunale emise i provvedimenti rilevanti in composizione collegiale e che dunque la volontà del singolo era destinata a dissolversi in quella impersonale del Collegio. Si è anche aggiunto che il Presidente Greco manifestò costantemente il desiderio che tutti i componenti la sezione fallimentare fossero in qualche guisa coinvolti nelle scelte, mediante un ampio confronto. Ma in realtà, a prescindere da quanto riferito al dibattimento e altrove dai magistrati che nelle diverse occasioni formarono il collegio giudicante (trattasi di dichiarazioni che non possono valutarsi per i voti espressi, ostandovi il segreto d’ufficio, ma solo per la cornice complessiva nella quale ogni decisione si inserì e per l’individuazione del materiale che fu sottoposto alla comune valutazione), è d’uopo rilevare che l’illiceità della condotta di uno dei membri del Collegio non può trovare nell’inconsapevole adesione degli altri una sorta di catarsi. D’altro canto non è questa la sede per ipotizzare un eventuale concorso di tutti in un’operazione illecita per avventura condivisa. Sta di fatto che il dott. Greco ebbe sempre un ruolo predominante. All’inizio in veste di giudice delegato si palesò come vero interlocutore dei soggetti interessati e propiziò l’indebito sviluppo di una procedura già meritevole di altra sorte. Poi personalmente si dichiarò disposto ad attendere la cordata, a prescindere da qualsivoglia intervento del Collegio, così mostrando la volontà di addivenire alla vendita in blocco. Successivamente tenne l’atteggiamento di attesa già descritto, con riguardo all’istanza del 27-5-1992 dei commissari governativi, evidentemente in funzione del buon esito della procedura, obiettivo davvero improprio per un magistrato, che da lì in poi avrebbe fatto di tutto per definire la liquidazione con una cessione in blocco. D’altro canto nel medesimo lasso di tempo ebbe sicuramente un incontro con il prof. Capaldo e in epoca coeva conferì quasi informalmente al prof. Carbonetti il singolare incarico di pronunciarsi sulla congruità del prezzo, salvo poi occultare ai colleghi, dichiaratisi all’oscuro, l’appunto avuto in risposta e utilizzarlo invece largamente nella sentenza di omologa, senza citazioni. Tutto ciò dimostra che, quale che fosse l’intendimento degli altri magistrati, il dott. Greco si era già formato una propria opinione, del tutto favorevole alla cessione in blocco ed alle aspettative della cordata Capaldo. La sua condotta fu dunque connotata dal perseguimento di tale obiettivo all’interno e all’esterno del Collegio e può dunque essere autonomamente apprezzata, a prescindere dalla camera di consiglio e dalle ragioni per cui i colleghi avessero o meno condiviso le stesse scelte. Piuttosto pare singolare che uno dei magistrati che composero il Collegio chiamato a pronunciarsi sull’atto quadro abbia dichiarato di non aver alcuna consapevolezza del fatto che la decisione alla quale concorse modificasse in parte il decreto del 23-3-1993, estendendo l’oggetto della cessione oltre il limite dei cespiti ricompresi nella relazione particolareggiata. Ciò vale a lumeggiare il grado di partecipazione degli altri membri ad una valutazione in realtà particolarmente significativa e a gettare più di un’ombra sulla totale mancanza nel provvedimento redatto dal Presidente di qualsivoglia valutazioni critica sul punto. Ed allora se il collegio fece proprie le valutazioni del presidente, ciò non significa che queste ultime, chiaramente viziate ab origine da un pregiudizio favorevole ad un determinato esito della procedura, possano sic et simpliciter considerarsi lecite, dovendosi al contrario riconoscersi lo specifico ruolo avuto dal dott. Greco, non condizionato bensì condizionante, ed anche strutturalmente distinguibile nelle diverse fasi, in virtù della qualità di giudice delegato o di relatore dei vari provvedimenti . Di qui la valutazione di penale responsabilità del magistrato per il reato di bancarotta fraudolenta da lui primariamente propiziato con provvedimenti univocamente diretti a quello scopo e tali da creare le condizioni giuridico-fattuali perché la dissipazione potesse realizzarsi. D’altro canto non par dubbio che il magistrato avesse la chiara consapevolezza dell’esiguità del prezzo e del sottodimensionamento delle prospettive di ricavo: tuttavia egli favorì la cessione in blocco e la stipula dell’atto quadro, giungendo addirittura a sottrarre le relazioni del prof. Carbonetti, che egli avvertiva come idonee a rivelare l’occulta trama. In tal modo egli concorse nel reato, materialmente attribuibile, in primis, al soggetto qualificato, cioè al D’Ercole, Relativamente al prof. Capaldo, si è già delineato l’insieme delle condotte eziologicamente rilevanti. Si è sostenuto a sua difesa che ricorrerebbe nel caso di specie un’ipotesi del tutto analoga a quella del privato che rivolga alla P.A. un’istanza di rilascio di un provvedimento illegittimo, perché in contrasto con la normativa di riferimento, ipotesi rispetto alla quale la Suprema Corte ha più volte e del tutto convincentemente osservato che ciò di per sé non basta a configurare il concorso in un eventuale abuso commesso dal funzionario che effettivamente rilasci il provvedimento richiesto. Ma nel caso di specie la situazione è sotto molti profili diversa. Innanzi tutto ricorre un’ipotesi di reato in contratto, caratterizzata dall’illiceità in concreto di una determinata pattuizione contrattuale. Le parti del contratto hanno tutte parimenti concorso alla sua stipulazione e alla lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice invocabile. D’altro canto la materiale partecipazione del Capaldo in prima persona o per il tramite di suoi incaricati, non solo alla stipula finale, ma a tutte le fasi procedimentali che l’hanno preceduta e preparata, in forma di istanza, di elaborazione, di sollecitazione, di confronto, di spiegazione, ha finito per coinvolgerlo nella realizzazione di quel contratto illecito che ci occupa, ben diversamente da quanto avviene con riguardo ad un provvedimento unilateralmente rilasciato da una P.A. su istanza dell’interessato. Non v’è dubbio inoltre che il Capaldo fosse consapevole di dover pervenire al risultato perseguito attraverso il contributo fattivo di altri soggetti, a cominciare dal giudice delegato e da chi, quale commissario governativo, avrebbe dovuto stipulare il contratto di cessione, rectius l’atto quadro. Ciò sul piano strutturale vale a configurare la partecipazione del Capaldo al reato, quale extraneus, che propizia e determina la condotta dell’intraneus orientandone altresì la volontà. Del resto il predetto imputato sapeva di poter fare affidamento su chi maggiormente contava in questa procedura, cioè il dott. Greco. Due sono gli elementi che convincono di ciò. Innanzi tutto era noto che il prof. Capaldo stava predisponendo un piano riguardante la vendita in blocco e il dott. Greco fin dal mese di marzo rivelò di essere disposto ad attendere la cordata, dopo aver tenuto per l’intero arco della procedura una condotta volta a non pregiudicare la formale liquidazione e a mantenere intatta la composizione del patrimonio. Inoltre tra il giugno e il luglio 1992, dopo che l’offerta Capaldo era stata divulgata e comunicata agli organi della procedura, il predetto e il Greco ebbero un incontro riguardante i contenuti della proposta. Sta di fatto che in epoca coeva venne conferito dal magistrato al prof. Carbonetti quell’incarico singolare di cui più volte s’è detto, singolare perché sostanzialmente informale e privo di contenuti pregnanti ed al tempo stesso costituente il solo tentativo fatto dal dott. Greco per rivestire di qualche contenuto valutativo ab extrinseco, processualmente spendibile, la scelta che egli poi avrebbe fatto. Proprio la scarsa significatività dell’appunto del Carbonetti e l’assenza di ulteriori acquisizioni dello stesso tipo dimostrano come quella scelta fosse stata presa senza concreti riscontri valutativi, il che fa di per sé pensare ad un accordo con il proponente nonché alla surrettizia ricerca fin dall’inizio di una qualche forma di copertura. Che poi il dott. Greco avesse ritenuto di poter sostanzialmente ignorare i suggerimenti del commissario governativo e del commissario giudiziale senza dedicare loro che poche e scarne righe, nonostante l’andamento progressivamente meno incisivo dell’offerta, costituisce conferma del fatto che il disegno postulasse la previa e organica adesione del magistrato, disposto ad andare avanti in un’impresa, che nonostante l’elasticità delle norme non si sarebbe potuta in alcun modo giustificare. Non è un caso che nessuno abbia saputo conveniente spiegare perché mai dovesse per forza giungersi alla vendita in blocco a quelle condizioni, unica ragionevole spiegazione essendo quella che postula l’esistenza di un accordo. Non occorreva peraltro l’adesione di tutti i soggetti destinati prima o dopo a svolgere un ruolo nella procedura, essendo sufficiente il coinvolgimento di quelli strategicamente più significativi ed essendo invece fatale che chi, come il dott. Piovano e nell’ultima fase anche i primi commissari, avvertiva disagio, finisse per preferire un commodus discessus. Piuttosto va segnalato come la Suprema Corte abbia di recente avallato l’impostazione qui seguita, affermando che nella bancarotta fraudolenta per distrazione mediante volontaria cessione a titolo oneroso di beni dell’impresa può configurarsi il concorso dell’acquirente, qualora si accerti la conoscenza da parte di questi che la cessione lede i diritti dei creditori sulla massa patrimoniale attiva. Ed invero non par dubbio che il prof. Capaldo fosse assistito da quella consapevolezza. Innanzi tutto costituisce non più che una mera difesa l’assunto che l’offerta fosse la migliore possibile, in quanto appena idonea ad assicurare il pareggio del bilancio. In realtà non è vero né l’una né l’altra cosa, poiché i partners non avevano alcuna percezione dell’assenza di profitti e perché neppure il prof. Capaldo ha saputo giustificare ad es. il meccanismo delle detrazioni del prezzo. In ogni caso si è già visto come il predetto avesse determinato il prezzo nella percentuale del 55% del valore del patrimonio indicato nella relazione particolareggiata, costituendo un’elaborazione a posteriori il più ampio ragionamento sviluppato in sede processuale. Ciò conferma che si era utilizzata come parametro di base proprio quella stima che al dibattimento è stata aspramente contestata, ricomprendente tutti i cespiti e lo stesso credito MAF. Già su queste basi può affermarsi che il prof. Capaldo era consapevole di offrire una cifra del tutto inadeguata rispetto alle potenzialità realizzative. Ma la prova decisiva in tal senso è data dal fatto che nel conteggio elaborato in sede di simulazione si prevedeva di ripartire il 40% ai chirografari, nel presupposto che a fronte del prezzo di 2.150 miliardi le spese in prededuzione ammontassero a 40 miliardi. Ma in realtà già dalla relazione particolareggiata del prof. Picardi e dalla sentenza di omologa si evinceva chiaramente che le spese in prededuzione sarebbero state molte di più, essendo in gran parte correlate alla gestione di Federconsorzi e dunque indipendenti dalle modalità di liquidazione. In tale senso sarebbero dovute decisivamente considerarsi le stime formulate dal commissario giudiziale nel proprio parere del febbraio 1993, allorché aveva allegato una serie di prospetti indicanti le spese sostenute e la previsione di risparmio a seconda del tipo di liquidazione. Risultava chiaro in tal modo che le spese prededucibili erano superiori a 40 miliardi e che dunque nell’ipotesi di accettazione di un prezzo di 2.150 miliardi la percentuale del 40% in favore dei creditori chirografari non sarebbe potuta garantirsi. Detto altrimenti, erano le stesse premesse utilizzate dal prof. Capaldo a rivelare l’inadeguatezza dell’offerta e la sua idoneità a ledere le legittime aspettative di quei creditori che del tutto ragionevolmente avessero reputato di non aderire alla costituenda società. Quand’anche il Capaldo avesse ritenuto di non poter offrire di più, ciò non significa che la richiesta dovesse per forza essere accolta, ben potendosi procedere nelle forme tradizionali, rinunciando alla “forte spinta innovativa” evocata dalla sentenza di omologa. Né potrebbe mai pensarsi che l’operazione fosse stata specificamente avallata nel merito dalla Banca d’Italia, posto che la presa d’atto dell’Istituto afferiva a profili diversi, primariamente riguardanti l’incidenza dell’acquisizione sull’equilibrio economico-finanziario delle banche coinvolte. In conclusione non vi sarebbe potuto essere alcun margine per l’accoglimento di una proposta che in partenza non garantiva la distribuzione della percentuale di legge e che comunque comportava un’inaccettabile svalutazione del patrimonio, formato da cespiti della più diversa natura, ma di certo meritevole di ben altra considerazione. La figura del benefattore invocata da più parti non si attaglia dunque al caso di specie. Duole osservare che, stritolati dall’ingranaggio, rimasero non solo i creditori che non vollero partecipare all’avventura, ma anche tanti dipendenti, magari troppo ben abituati da un favorevole regime contrattuale, ma comunque trovatisi all’improvviso senza concrete prospettive di lavoro, anche in conseguenza delle modalità di attuazione della liquidazione, in origine guardate da taluno di buon occhio perché apparentemente idonee ad evitare smembramenti e perché incentrate anche su un progetto alternativo, peraltro ben presto naufragato sotto il peso di un diffuso disinteresse. Per intanto, concludendo sul punto, è d’uopo ritenere anche il prof. Capaldo, ideatore e stratega dell’operazione, colpevole del delitto di bancarotta fraudolenta ascrittogli. 46 - Quanto all’ipotesi di abuso di ufficio, congiuntamente contestata, si rileva che essa afferisce alle fasi provvedimentali. Di sicuro, sulla base di quanto fin qui osservato, è d’uopo ritenere che il dott. Greco mirasse ad assicurare alla cordata facente capo al prof. Capaldo il vantaggio derivante dall’accettazione della proposta e dunque dalla possibilità di procedere in proprio e nelle forme preferite alla liquidazione del patrimonio. Ciò vale ad integrare quello sviamento della funzione, finalizzato al perseguimento di un vantaggio patrimoniale ingiusto, in cui si concretava la previgente fattispecie dell’abuso di ufficio. Nonostante la sopravvenuta modifica introdotta dalla L 234/97 il reato di abuso di ufficio risulta ancora configurabile, poiché i provvedimenti emessi dal presidente Greco, anche collegialmente, paiono viziati dalla violazione delle norme che in tema di concordato preventivo limitano la possibilità di omologa ai soli casi in cui sia possibile almeno in partenza la distribuzione di una percentuale non inferiore al 40% e impongono il controllo degli organi della procedura sull’intera fase della liquidazione, nel caso di specie affidata invece, attraverso l’escamotage del contratto quadro, ad un soggetto terzo, privo di legittimazione. Inoltre gli stessi provvedimenti risultano rivolti ad assicurare un vantaggio patrimoniale ingiusto, in quanto in contrasto con le citate norme dell’ordinamento e con la regola della par condicio creditorum, in concreto violata dall’intero meccanismo adottato e dall’indebita svalutazione del patrimonio. Né può dubitarsi del fatto che il dott. Greco avesse specificamente di mira quell’obiettivo, così da accondiscendere ai voleri dei proponenti, essendo i vari provvedimenti volti, fin dalla nomina di Federconsorzi come liquidatore, a porre la liquidazione nelle mani di SGR ad un prezzo del tutto inadeguato, inidoneo in partenza perfino ad assicurare la distribuzione del 40%. Su tali basi è integrato altresì l’estremo dell’intenzionalità. Il contributo del dott. Greco, che nella specie va considerato alla stregua di intraneus va peraltro valutato congiuntamente a quello del prof. Capaldo, stratega dell’operazione. Ancora una volta estranei vanno invece considerati il Carbonetti e il D’Ercole. Il Carbonetti infatti non ebbe alcun ruolo concreto prima di divenire presidente di SGR, peraltro in epoca successiva alla stipula dell’atto quadro. Il D’Ercole assunse la veste di commissario governativo dopo che il Tribunale aveva autorizzato la vendita in massa. Quanto all’autorizzazione alla stipula dell’atto quadro, pur avendo lo stesso D’Ercole predisposto l’atto unitamente al notaio Mariconda, non può dirsi che il predetto abbia materialmente concorso nel reato, essendosi limitato a dare attuazione ad una decisione presa in precedenza e non constando che il predetto avesse esercitato pressioni sul dott. Greco o su altri. Anche per il Greco e per il Capaldo va tuttavia pronunciata sul punto sentenza di proscioglimento. Infatti il nuovo limite edittale della pena detentiva prevista dall’art. 323 cp rende applicabile come termine massimo di prescrizione quello di sette anni e sei mesi, ormai ampiamente decorso, dovendosi computare come dies a quo, anche nell’ipotesi di continuazione di reati, la data della stipula dell’atto quadro, cioè il 2-8-1993. Si impone dunque la declaratoria di estinzione. E’ appena il caso di sottolineare l’impraticabilità della via suggerita dalle parti civili, incentrata sulla qualificazione del fatto come peculato, posto che nella specie non è in nessuna fase ravvisabile una condotta di appropriazione.

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TRATTAMENTO SANZIONATORIO E CONSEGUENZE RISARCITORIE 47 - Venendo al quantum di pena irrogabile al Greco e al Capaldo, non può non considerarsi la spregiudicatezza palesata dalle condotte fin qui descritte. Né pare che possa sottacersi la consistenza del danno arrecato alle ragioni dei creditori, tale da rendere applicabile l’aggravante di cui all’art. 219/1° L.F. In effetti basta considerare che la stessa SGR ha denunciato realizzi per 2.700 miliardi e che a ciò è da aggiungere la concreta utilità riveniente dai beni residui, consolidatisi in capo alla Liquidazione solo a seguito della transazione del luglio 1998, a cominciare dal credito MAF, che ha concretamente inciso sui valori in gioco. Peraltro sia al Greco che al Capaldo possono concedersi le attenuanti generiche, in considerazione della pregressa incensuratezza. Dette attenuanti si reputano equivalenti alle aggravanti contestate, dovendosi quanto al Greco considerare anche l’aggravante del nesso teleologico ex art. 61 n. 2 cp, riferibile ai capi a) e b), integrata dall’evidente funzionalità della soppressione di atti alla realizzazione della trama complessiva. Ritenuto un unico reato di bancarotta e ravvisata la continuazione tra i reati addebitati al Greco, all’evidenza avvinti dal medesimo disegno criminoso, stimasi equo irrogare a costui la pena di anni quattro e mesi sei di reclusione (p.b. per la bancarotta anni quattro, aumentata ut supra ex art. 81 cp) e al Capaldo la pena di anni quattro di reclusione. Segue la condanna di entrambi in solido al pagamento delle spese processuali. Vanno inoltre applicate agli imputati le pene accessorie di cui al dispositivo. 48 - Va a questo punto considerata la posizione delle parti civili. Nel presente processo si sono costituiti molti dei lavoratori già alle dipendenze di Federconsorzi, che hanno sostenuto di aver risentito un danno, oltre che dalla scelta del commissariamento e dall’ammissione al concordato preventivo, anche dalle modalità con cui la procedura fu gestita fino alla stipula dell’atto quadro. Richiamata l’ordinanza del 20-6-2001, con la quale il Collegio estromise alcune parti civili, peraltro rigettando la richiesta di esclusione di tutte le altre, va osservato che nel presente processo non è direttamente rilevante quanto avvenne prima della sentenza di omologa, posto che le imputazioni si riferiscono alla fase originata da tale sentenza. Correlativamente non rilevano come “fatti principali”, produttivi di danno, quelli verificatisi in precedenza, a cominciare da eventuali condotte di bancarotta ipotizzabili per il periodo che precedette l’ammissione alla procedura. Tuttavia, pur dando atto di ciò, non può trascurarsi il fatto che il danno risarcibile può derivare anche da una progressiva lesione di un medesimo diritto. Così, se si afferma che la posizione di lavoro fu pregiudicata dal commissariamento e da pregresse forme di depauperamento del patrimonio, ciò non significa che non possa attribuirsi in questa sede rilievo a quelle condotte che possano aver ulteriormente compromesso la sorte dei lavoratori. In particolare va considerato che una società in concordato non perde la propria identità, neppure quando sia prospettata la cessione dei beni ai creditori, tanto che da un lato la conduzione dell’impresa rimane affidata ai precedenti amministratori, salva all’esito dell’omologa la fase della liquidazione, e dall’altro permane la possibilità del ritorno in bonis, qualora per avventura i crediti trovino piena capienza nel patrimonio liquidato . L’ipotesi non è nel caso di specie puramente accademica, se si pone mente al fatto che il patrimonio di Federconsorzi, nel momento dell’ammissione al concordato, aveva un valore di libro di circa 6.000 miliardi di lire e che in base alle stime dei consulenti, senza le riduzioni prudenzialmente apportate dal commissario giudiziale nella relazione particolareggiata, esso avrebbe avuto nel novembre 1991 un valore di 4.800 miliardi di lire, superiore a quello dei debiti accertati. D’altro canto, se è vero che il concordato presupponeva un progressivo alleggerimento del costo del personale, non deve per questo pensarsi che la sorte dei lavoratori fosse senza rimedio segnata.

Al contrario, oltre alle teoriche prospettive di ritorno in bonis, da coordinare oggi con la messa in liquidazione disposta dalla L 410/99, vi era fin dall’inizio la previsione di una parallela ripresa dell’attività di commercializzazione, che avrebbe dovuto assorbire il personale, garantendo il livello occupazionale ed il trattamento economico-normativo a livelli accettabili. Non si trattava, si badi, di promesse al vento, bensì di prospettive concrete evocate già nel ricorso per l’ammissione alla procedura, facente espressamente leva sulla nuova iniziativa, destinata a sopperire alle esigenze del mondo agricolo, e di finalità costantemente perseguite fin dalla prima ora dai commissari governativi, che, dopo aver pensato di conferire un incarico alla SIGE Investimenti, onde reperire dei partners disponibili, si erano applicati per rivitalizzare la società Fedit-Agrisviluppo, poi trasformata in Agrisviluppo dal commissario Piovano. Sta di fatto che negli accordi sindacali stipulati a partire dal novembre 1992, quindi già all’indomani della sentenza di omologa, si fece sempre espresso riferimento ad Agrisviluppo come veicolo della nuova iniziativa, e correlativamente le parti contraenti assunsero lo specifico obbligo di favorire quell’iniziativa e di destinare ad essa non meno di 120 unità. Ciò significa che la procedura avrebbe dovuto assicurare quell’obiettivo e che si sarebbero dovute formulare scelte congruenti.

Né si può pensare che la sorte dei lavoratori, al di là degli aspetti meramente formali, fosse del tutto estranea alla sfera di valutazione degli organi della procedura o di quanti si fossero trovati ad interagire con essi. Le vicissitudini di Federconsorzi influivano infatti direttamente sulla posizione di lavoro del personale, cioè su quel diritto costituzionalmente garantito (artt. 4 e 36 Cost.) ad un lavoro confacente con le proprie attitudini, che a ciascun lavoratore è riconosciuto, cosicché ogni intervento destinato a ridurre i margini di sopravvivenza della società, incidendo sul suo patrimonio, avrebbe avuto una diretta ripercussione sui lavoratori o piuttosto sulla loro stessa vita. Correlativamente possono utilmente trovare tutela in questa sede quelle posizioni soggettive che si assumono lese dalle prescelte modalità di gestione della procedura e dunque in primo luogo dal tipo di liquidazione del patrimonio. Deve invero convenirsi che dall’anomala vendita in blocco dei cespiti, attuata per il tramite dell’atto quadro, derivarono plurime e significative conseguenze dannose. Contrariamente alle previsioni formulate anche in ambienti sindacali, la cessione a SGR comportò lo smembramento della struttura e delle attività e immediatamente vanificò ogni prospettiva di utile ritorno in bonis. Pproprio in conseguenza della stipula dell’atto quadro il commissario governativo D’Ercole diramò il comunicato concernente la messa in mobilità di 55 unità, nel presupposto della progressiva cessazione di tutti i rapporti lavorativi. Ma nel contempo la partecipazione totalitaria in Agrisviluppo fu trasferita a SGR, che direttamente o per il tramite dei propri soci, veri beneficiari dell’operazione, nulla fece all’indomani dell’atto quadro per riavviare concretamente l’attività di commercializzazione. Sul punto si sono già esaminate le insoddisfacenti spiegazioni fornite dal prof. Capaldo, ma è comunque un fatto che, svincolata dal controllo degli organi della procedura, la prospettiva di ripresa fu del tutto vanificata, essendo stata affidata a non più che vaghe promesse, rimaste senza esito. I lavoratori avrebbero potuto invece face legittimo affidamento sulla chance loro offerta. Nel contempo la procedura avrebbe dovuto operare in modo che quella chance, riferibile ad almeno 125 unità, trovasse una sua concreta realizzazione. Non v’è dubbio che la cessione in massa a SGR per il tramite dell’atto quadro frustrò ogni speranza e pose nel nulla un impegno ufficialmente assunto in sede sindacale. Se dunque si considera che: l’ammissione alla procedura era stata disposta anche nel presupposto della ripresa di una parallela attività di commercializzazione e di sostegno all’agricoltura; le fasi successive erano state caratterizzate dalla ricerca di soggetti disposti ad investire sul progetto; in sede sindacale era stato concordato di puntare sul mantenimento dei livelli occupazionali anche attraverso l’attuazione di quel progetto; se si considera tutto questo, non può che prendersi atto della siderale distanza che intercorre tra tali premesse e le scelte in concreto operate, che di fatto determinarono la fine di Federconsorzi, senza alcuna alternativa, e che vennero a comprimere in modo ingiustificato quelle chances di occupazione sui quali i lavoratori legittimamente puntavano. Non potrebbe in senso contrario sostenersi che molti di quei lavoratori scelsero la via dell’esodo incentivato ovvero transitarono, in due diverse fasi, nei ruoli della P.A. In realtà lo sviluppo della procedura ridusse i margini di scelta dei lavoratori, costretti ad assistere passivamente e senza alcuna contropartita adeguata, al progressivo e irrimediabile disfacimento della società. Essi si trovarono stretti tra due sole opzioni, l’esodo o il passaggio alla P.A., preceduta spesso anche da mortificanti prove di verifica, fermo restando che per tutti si sarebbe comunque trattato di essere adibiti a mansioni largamente inferiori, non solo sotto il profilo economico ma anche e prima di tutto dal punto di vista professionale ed umano, a quelle svolte in Federconsorzi .

Anche chi fruì dell’esodo incentivato può dunque oggi legittimamente pretendere una rifusione adeguata, come chi si trovò da allora a dover accettare insopportabili demansionamenti.

Il fattore umano implicato dalla prestazione lavorativa può anzi essere valorizzato anche dal punto di vista del danno biopsicologico e di quello morale da reato, nel quale deve necessariamente farsi rientrare ogni tipo di pregiudizio esistenziale in questa sede addotto. Il danno va in primo luogo commisurato alla perdita di una concreta chance di mantenimento delle precedenti condizioni di lavoro, determinata non solo dalla crisi di Federconsorzi, ma progressivamente anche dallo sviluppo della procedura fino alla cessione in massa a SGR, attuata in luogo di una diversa e più ragionevole forma di liquidazione, dalla quale sarebbe potuta meglio derivare la salvaguardia delle posizioni lavorative. La chance va rapportata al trattamento retributivo spettante alle parti civili, proiettato fino all’età pensionabile e da lì, nei congrui casi, sul trattamento pensionistico, il tutto con abbattimenti prudenziali . Vanno aggiunti poi sia il danno morale da reato, comprensivo dell’instabilità esistenziale di tipo transeunte, sia il danno biopsicologico, che possono dirsi tanto maggiori quanto più incisivo sia risultato il concreto pregiudizio alle normali condizioni di vita, derivante da depressione, stress, ansia. In tal senso ben possono valorizzarsi anche le valutazioni medico-legali riferite ad un gruppo di 80 lavoratori, contenute nella relazione del prof. Massimo Casacchia, che sulla base di un sistematico lavoro di intervista ed analisi ha saputo convenientemente delineare un quadro patologico eziologicamente riconducibile alle negative vicissitudini del rapporto di lavoro ed alle connesse esperienze di vita, come tale rilevante in questa sede .

Tra i parametri di calcolo del risarcimento indicati da ciascun legale , in linea generale supportati da documentazione afferente alla posizione lavorativa di ciascun lavoratore , devono prescegliersi quelli che fanno leva sulla diversa data di cessazione dell’attività lavorativa in Federconsorzi per effetto di esodo o di passaggio alla P.A. nel 1994 o nel 1996, e che tengono conto dell’aliunde perceptum, cioè del quantum di retribuzione percepita presso la P.A., dovendosi altresì dedurre in tale prospettiva la stessa incentivazione all’esodo (compensatio lucri cum damno). Peraltro detti parametri vanno approfonditi nella competente sede civile, abbisognando di ulteriori verifiche.

A carico del Greco, del Capaldo e del responsabile civile SGR spa, coinvolta dall’operato del suo legale rappresentante, va dunque emessa sentenza di condanna generica alla rifusione in solido dei danni cagionati ai lavoratori, costituitisi parte civile e non estromessi in limine. A tal fine si segnala che il Collegio ha rilevato nelle conclusioni scritte alcune duplicazioni di nominativi ovvero la riproposizione di nominativi estromessi. Nel dispositivo si è perciò provveduto ad indicare i lavoratori in favore dei quali è stato riconosciuto il diritto al risarcimento, distribuendoli in base al legale che li rappresentava. Deve inoltre precisarsi che nel caso di D’Innocente Sabina risultano essersi costituiti nelle more gli eredi Salustri Franco, Salustri Marco e Salustri Luca, rispettivamente marito e figli della donna, nelle more deceduta. Le domande formulate da soggetti che non compaiono nel dispositivo devono intendersi rigettate per mancanza di presupposti ovvero per mancanza di documentazione probante o di specifiche indicazioni quantitative negli specchietti allegati alle conclusioni scritte. A ciascuno dei lavoratori in favore dei quali viene pronunciata condanna può riconoscersi una provvisionale immediatamente esecutiva a carico solidale del Greco, del Capaldo e di SGR spa. La provvisionale, per ciascuno determinata come da dispositivo, riflette una quota minima e certa del danno patrimoniale e non patrimoniale ravvisabile ed è rapportata ai parametri invocati da ciascun legale, non eccedendo peraltro in nessun caso una soglia prudenziale . Tra le parti civili si annoverano inoltre il Ministero della Giustizia, il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e la Presidenza del Consiglio, patrocinati dall’Avvocatura dello Stato, nonché il CAP di Perugia. Quanto al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali viene invocato un danno da incapienza, determinato dal depauperamento del patrimonio conseguito all’attuazione di illecite modalità di liquidazione. Esso è ricollegato ad un credito vantato dallo Stato nei confronti della stessa Federconsorzi in relazione ad una pluralità di titoli: il saldo del fondo di rotazione, costituito dalla L 910/66, su cui Fedit svolgeva operazioni di credito agrario e riscuoteva sia le annualità di ammortamento che gli interessi, e in relazione al quale ha omesso di riversare la somma di 261 miliardi di lire; la gestione da parte di Fedit, per conto dello Stato, della campagna di commercializzazione del grano per l’annata 1962/63 e per quella successiva, con riguardo alla quale è risultato un debito della società di circa 10 miliardi di lire al 31-12-1984; la gestione da parte di Fedit nell’interesse dello Stato dell’attività di approvvigionamento di cereali all’estero, in relazione alla quale di 2499 rendiconti non ne sono stati approvati per mancanza di documentazione bancaria ben 1214, il che ha comportato il riconoscimento dei soli interessi praticati sui conti di disponibilità dello Stato e l’insorgenza di un credito del Ministero di circa 705 miliardi di lire. Tali crediti sono supportati dalla documentazione prodotta dall’Avvocatura dello Stato all’udienza del 27-6-2001 nonché da quella prodotta prima della discussione finale , dalla quale emerge che il TAR Lazio ebbe a rigettare il ricorso presentato da Fedit avverso il provvedimento di annullamento di ufficio dei rendiconti e che in sede di ricorso straordinario fu ribadita la legittimità dell’operato del Ministero.

A tale stregua risulta un cospicuo credito destinato a rimanere incapiente, il che ben può ascriversi anche alle modalità di liquidazione prescelte e può dunque legittimare la pretesa risarcitoria avanzata in questa sede. Peraltro può pronunciarsi a carico del Greco e del Capaldo e di SGR solo una condanna generica, con liquidazione da rimettersi alla separata sede civile. Non osta alla condanna il fatto che nel corso della procedura di concordato sia intervenuta transazione tra SGR e la Liquidazione, giacché in questa sede il titolo della domanda è costituito dal danno da reato addebitato agli odierni imputati, titolo non pregiudicato dalla transazione, riguardante pretese e soggetti diversi.

Inoltre è d’uopo osservare che la transazione, in quanto afferente ad atto nullo per contrarietà a norme imperative, è a sua volta nulla ad ogni effetto ex art. 1972 cc.

Va aggiunto che nessuna preclusione alla proposizione della domanda azionata dal Ministero per le Politiche Agricole può ricavarsi dall’art. 240 L.F., che, quand’anche applicabile alle procedure concorsuali riguardanti società, considera ostativa l’effettiva costituzione del curatore o del commissario giudiziale e non la mera possibilità di costituzione. Quanto poi alla Presidenza del Consiglio, deve prendersi atto dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui ad essa spetta la titolarità di pretese risarcitorie che traggono origine dall’esercizio della giurisdizione, in quanto facente capo allo Stato Comunità.

Ma ritiene il collegio che una siffatta impostazione non possa riguardare tutte le condotte illecite eventualmente poste in essere da magistrati, ma solo quelle che intimamente si connettano alla giurisdizione, in quanto di essa costituenti diretta esplicazione o in quanto ad essa finalisticamente correlate (si pensi alla corruzione propria antecedente).

In tale ottica ben sarebbe potuto ravvisarsi un danno risarcibile in caso di condanna per il reato di abuso di ufficio, che tuttavia è risultato estinto, ovvero per quello di rifiuto di atto di ufficio, che è invece risultato insussistente. Non altrettanto può dirsi per i reati di falso per soppressione e per quello di bancarotta fraudolenta.

Quanto ai primi è evidente che esso non afferiva all’esercizio della giurisdizione, ma si collocava del tutto al di fuori essa. Ma neppure sarebbe potuto cogliersi un nesso finalistico verso risultati giurisdizionali contra legem, non inquadrabili ex se in autonome fattispecie: in altre parole la ravvisabile proiezione verso l’abuso di ufficio perde rilievo, in quanto assorbita da quest’ultimo, nondimeno estinto e dunque non valutabile. Quanto alla bancarotta, deve ancora osservarsi come il contributo fornito dal dott. Greco fosse di per sé idoneo ad integrare un reato commesso nell’esercizio della giurisdizione, ma si proiettasse poi verso un risultato tale da costituire autonomo reato, esulante di per sé dalla sfera della giurisdizione e riguardante la tutela del ceto creditorio. Ciò significa che al di là dell’abuso di ufficio, come detto estinto, non residua alcun margine per la tutela ex se della giurisdizione e dunque dello Stato Comunità, rappresentato dalla Presidenza del Consiglio.

La relativa domanda va dunque rigettata.

Va invece accolta quella del Ministero della Giustizia, la cui legittimazione è da ricondurre alla funzione organizzativa ad esso facente capo e al conseguente interesse ad una corretta predisposizione di mezzi e risorse, oltre che alla spettanza al Ministro ex art. 106 Cost. del potere di iniziativa disciplinare nei confronti dei magistrati, che si correla, per ragioni di equilibrio tra funzioni di rango costituzionale, ad una sfera di controllo da esercitarsi all’interno della stessa organizzazione piuttosto che sulla giurisdizione, così da poter prescindere dal diretto esercizio di questa.

Non v’è dubbio che nel caso di specie le modalità della liquidazione attuate all’esito di un iter procedimentale sviato abbiano comportato un danno all’immagine, in conseguenza dell’incardinamento organico di uno dei protagonisti della vicenda e dello stretto correlarsi di questa ad una procedura giudiziaria, implicante utilizzo di persone e cose. Inoltre va considerato il fatto che il duplice falso per soppressione, pur non afferendo direttamente all’esercizio della giurisdizione, ha tuttavia comportato un vulnus al corretto svolgersi della procedura, determinando un appannamento dell’immagine del Ministero e l’impiego di adeguate risorse, per sopperire al deficit riscontrato. Se la liquidazione va rimessa alla separata sede civile, può nondimeno riconoscersi una provvisionale immediatamente esecutiva determinata come da dispositivo a carico di Greco, Capaldo e SGR per la bancarotta e del solo Greco per il falso per soppressione. Da ultimo va considerata la posizione del CAP di Perugia. Anche in questo caso è stato invocato un danno da incapienza derivante da depauperamento del patrimonio, a fronte di un cospicuo credito.

Va osservato che il credito vantato ha un suo fondamento, riconosciuto di recente anche dal Tribunale di Perugia con la sentenza emessa nella causa intercorrente tra lo stesso CAP e Federconsorzi.

La pretesa risarcitoria può dunque essere accolta, in quanto quel credito è destinato a rimaner privo di adeguato soddisfacimento, stante l’entità del ricavo della liquidazione, inferiore a quello che sarebbe stato legittimo attendersi. La liquidazione va peraltro rimessa alla separata sede civile, senza che possa in questo caso concedersi alcuna provvisionale. In favore delle parti civili cui è stato riconosciuto il diritto al risarcimento va disposta inoltre la condanna di Greco, Capaldo e di SGR a rifondere in solido le spese di costituzione e difesa, liquidate come da dispositivo. E’ solo il caso di osservare che si è dato rilievo all’importanza dell’incarico e alla complessità del procedimento, nonché al contributo da ciascun legale offerto sul piano della ricerca e della formazione della prova. Inoltre è stato considerato il fatto che i difensori dei lavoratori, salvo alcune eccezioni, hanno patrocinato un numero rilevantissimo di parti, cosicché l’importo unitario è stato moltiplicato secondo tariffa entro il limite massimo all’uopo previsto.

P. Q. M.

Visti gli artt. 533, 535 cpp,

dichiara

Greco Ivo colpevole dei delitti ascrittigli al capo a) -limitatamente all’ipotesi di cui all’art. 490, 61 n. 2 cp- al capo b) e al capo c) -limitatamente all’ipotesi di bancarotta fraudolenta di cui agli artt. 236 cpv. n. 1, 223, 216 e 219 L.F.-;

Capaldo Pellegrino colpevole del delitto di cui al capo c), limitatamente all’ipotesi di bancarotta fraudolenta di cui agli artt. 236 cpv. n. 1, 223, 216 e 219 L.F.; ritenuta quanto al Greco la continuazione, e concesse ad entrambi le attenuanti generiche, equivalenti alle aggravanti contestate, condanna

Greco Ivo alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione (p.b. anni quattro, aumentata per la continuazione) e Capaldo Pellegrino alla pena di anni quattro di reclusione, oltre che entrambi in solido al pagamento delle spese processuali.

Dichiara il Greco e il Capaldo, ai sensi dell’art. 216 u.c. L.F., inabilitati all’esercizio di imprese commerciali e incapaci di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per anni dieci, nonché ai sensi dell’art. 29 cp, interdetti dai pubblici uffici per anni cinque.

Visti gli artt. 538 segg. cpp, condanna

Greco Ivo e Capaldo Pellegrino nonché il responsabile civile S.G.R. spa, in persona del relativo legale rappresentante, a risarcire in solido tra loro i danni, tutti da liquidarsi in separata sede, cagionati alle parti civili come di seguito indicate: - patrocinate dall’Avv.to Francesco Rosi:

- patrocinate dall’Avvocatura dello Stato: Ministero della Giustizia e Ministero delle Politiche agricole e forestali; - patrocinate dall’Avv. Giuseppe Fanfani: Consorzio Agrario Provinciale di Perugia Soc. Coop a.r.l. in persona del Commissario liquidatore.

Assegna alle seguenti parti civili una provvisionale immediatamente esecutiva, a carico solidale del Greco, del Capaldo e del responsabile civile “S.G.R. spa” in persona del legale rappresentante, nonché, quanto al Ministero della Giustizia, in parte in solido e in parte a carico del solo Greco, nella misura a fianco di ciascuna indicata:


omissis elenco parti civili per quelle patrocinate dall’Avvocatura dello Stato, in complessivi € 15.288,49, come da notula.

Visto l’art. 530 cpp, assolve Carbonetti Francesco dai reati sub c) per non aver commesso il fatto; assolve D’Ercole Stefano dal reato di cui all’art. 323 cp per non aver commesso il fatto e dal delitto di bancarotta fraudolenta perché il fatto non costituisce reato; assolve

Greco Ivo dal delitto di cui all’art. 328 cp perché il fatto non sussiste.

Visto l’art. 531 cpp,

dichiara

non doversi procedere nei confronti di Greco Ivo e Capaldo Pellegrino in ordine al delitto di cui all’art. 323 cp, per essere il medesimo estinto per intervenuta prescrizione. Termine di giorni 90 per il deposito della motivazione.

Perugia, 29.9.2002

Il Presidente estensore