Sentenza Tribunale penale di Perugia - Vicenda Federconsorzi/15
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IL DELINEARSI DEI PROTAGONISTI E DEGLI INTERESSI IN GIOCO
- Esaminando il tenore delle imputazioni, si rileva agevolmente che il presente processo riguarda la gestione della procedura di concordato preventivo dall’omologa fino alla stipulazione e alla progressiva esecuzione dell’atto quadro.
Tuttavia i tempi e i modi con i quali si arrivò al commissariamento meritano una pur breve analisi, giacché da parte di molti già all’epoca dei fatti si ipotizzò che la scelta del Ministro Goria fosse stata del tutto ingiustificata.
Pare in realtà indiscutibile che la decisione del 17 maggio 1991 ebbe come effetto quello di accelerare i tempi della dissoluzione di quel sistema di ausilio all’agricoltura che faceva capo alla Federconsorzi e che nel corso degli anni era servito al partito di maggioranza relativa nonché alle principali associazioni di categoria di ispirazione democristiana per esercitare sul mondo agricolo e contadino un’influenza dominante.
Non è un caso che gli esponenti di altri partiti, pur alleati di governo della democrazia cristiana (va in proposito considerata la strenua battaglia politica del sen. Fabbri, che in molti interventi parlamentari ed anche al dibattimento ha ribadito la sua avversità al mantenimento di Federconsorzi, di cui chiedeva la messa in liquidazione coatta amministrativa ), non vedessero affatto di buon occhio la conservazione di quel sistema ed anzi ne auspicassero il completo superamento così da eliminare la possibilità di una gestione puramente clientelare, foriera, soprattutto negli ultimi tempi, di sprechi piuttosto che di profitti.
Sta di fatto che la Federconsorzi non riusciva più a tenere il passo con la modernità a causa della sua superata struttura e della mancanza di un proprio capitale, e, pur avendo continuato a presentare bilanci formalmente in attivo o almeno in pareggio, versava in realtà in un profondo stato di crisi, tale da imporre interventi drastici e urgenti.
In concreto essa era al vertice di un sistema di tipo piramidale (una sorta di holding, di cui tuttavia non aveva la “missione” né la struttura ), alla cui base vi erano i troppi e troppo poco remunerativi consorzi agrari provinciali, soci di Federconsorzi e strumento operativo di primo livello a supporto dell’agricoltura, in realtà assai generosi nel concedere dilazioni di pagamento agli agricoltori e di fatto divenuti incapaci di sostenersi da soli, così da richiedere continui interventi finanziari, che la Federazione in varia guisa erogava, forte a sua volta di una fiducia pressoché illimitata.
Ma in tal modo il sistema aveva finito per avviarsi lungo una pericolosissima china.
E’ provato che fin dalla fine degli anni ’80 furono cercati dei rimedi che al tempo stesso consentissero a Federconsorzi di dotarsi di maggior liquidità e di conservare la propria funzione: a tal fine fu certamente chiesto consiglio al prof. Capaldo, il quale, per quanto emerso, suggerì di procedere sollecitamente a dismissioni, onde alleggerire la struttura e acquisire liquidità, e di ridisegnare la rete dei consorzi agrari, riducendone il numero e ampliandone la sfera di azione.
Furono inseriti nella struttura dirigenziale dei managers, che avrebbero dovuto avviare un processo di innovazione. Sempre il prof. Capaldo sovrintese alla scelta del direttore, individuato nel dott. Silvio Pellizzoni.
In realtà negli ultimi due anni, prima del commissariamento, furono sostenute ingenti spese per consulenze di vario genere, che non produssero risultati pari alle attese.
Ma qualcosa fu comunque fatto, a cominciare dall’introduzione di un più efficiente sistema di rilevazione dei dati contabili e dal contenimento di taluni costi , il che fece conseguire un concreto risparmio di spesa e in prospettiva avrebbe potuto preludere ad un lento risanamento.
Ciò non toglie che permanesse la situazione di grave crisi di molti consorzi agrari e che per ovviare all’incremento esponenziale degli oneri finanziari, registratosi soprattutto nell’ultimo quinquennio, fossero necessarie misure ben più radicali di quelle incentrate su una semplice maggiore oculatezza delle spese.
Va aggiunto che i bilanci di Federconsorzi, come detto formalmente in pareggio o addirittura in attivo, erano in realtà poco affidabili. Sul punto non possono nutrirsi dubbi di sorta, se solo si considerano i mezzi artificiosi con i quali nell’ultimo biennio furono costruite le poste straordinarie, avulse dall’ordinaria gestione, che consentirono il raggiungimento del pareggio (ad es. l’eliminazione di passività per centinaia di miliardi, a fronte di crediti considerati prescritti).
Ciò significa che quei bilanci nascondevano invece perdite ingenti e che la situazione, in assenza di interventi adeguati, difficilmente sarebbe migliorata nel breve periodo.
La gigantesca struttura di Federconsorzi, caratterizzata da un patrimonio sterminato, fatto di cespiti immobiliari e di partecipazioni, nonché da un numero rilevantissimo di dipendenti, era di per sé assai costosa.
Inoltre il ricorso al credito aveva portato gli interessi passivi ad un livello davvero elevato.
Pertanto, al di là di valutazioni ad effetto sul costo giornaliero della gestione , sicuramente occorrevano misure efficaci, diverse da quelle fino ad allora adottate, spesso prese con la riserva mentale di un possibile intervento diretto della politica a supporto. Non è questa la sede per stabilire se effettivamente la Federconsorzi fosse ineluttabilmente destinata, già prima del commissariamento, ad una procedura di liquidazione.
Va solo segnalato che non mancano elementi di segno opposto. Può al riguardo considerarsi che il patrimonio aveva un valore di libro superiore a seimila miliardi di lire e dunque poteva risultare, se non addirittura superiore ai debiti, per lo meno tale da assicurare, attraverso una sua parziale dismissione, l’acquisizione di risorse adeguate in vista di un riequilibrio finanziario.
Inoltre immutata era la fiducia del ceto bancario, nazionale ed estero, verso Federconsorzi, al punto che i fidi concessi non erano stati completamente utilizzati e proprio nel corso del 1991 stava per essere concesso dal Credito Italiano un elevato finanziamento. Non consta affatto, contrariamente a quanto sostenuto da taluno e perfino dal Ministro Goria in un intervento in Parlamento, che le banche già da tempo avessero manifestato inquietudine e ritirato i fidi .
In tale quadro, da un lato assai precario, ma dall’altro non del tutto compromesso, si colloca il provvedimento di commissariamento. Formalmente adottato a fronte di un persistente squilibrio finanziario, esso avrebbe dovuto preludere almeno in teoria al ristabilimento di una corretta gestione.
Ma in realtà il mero fatto del pubblico annuncio di quello squilibrio, ove non preceduto da un abile lavoro di preparazione e da accorti contatti con il ceto bancario, non avrebbe che potuto far precipitare gli eventi, come in effetti accadde.
Non era infatti immaginabile che, alla notizia di un grave stato di crisi, le banche, particolarmente esposte ed in genere non munite di adeguate garanzie, non assumessero un atteggiamento di chiusura, tale da far svanire sul nascere qualsiasi speranza di ripresa. Il ritiro dei fidi e l’allarme delle banche estere, convinte fino ad allora di trovarsi di fronte ad un ente statale, non furono altro che la conseguenza di quella scelta.
D’altro canto non consta che il Ministro avesse preventivamente raggiunto un qualche accordo con il ceto bancario nel suo complesso. Ed invero nessuno degli istituti teoricamente interessati si mostrò poi pregiudizialmente disponibile a rischiare. Ed allora possono darsi due sole soluzioni: o il Ministro fu tanto ingenuo da immaginare che alla fine le banche gli avrebbero comunque assicurato il loro appoggio, ciò che appare scarsamente credibile, data la lunga esperienza del Goria, o questi scelse deliberatamente una linea di rottura con il passato, implicante la messa in liquidazione di Federconsorzi, nonostante la prospettiva di ripresa evocata dal decreto di commissariamento.
Tutto lascia pensare che in realtà il Ministro, consapevole della cospicua consistenza del patrimonio (sulla cui entità aveva assunto informazioni anche l’immobiliarista Della Valle, uno dei soggetti da lui delegati a svolgere una preliminare quanto evanescente istruttoria), agì al fine di condurre la Federconsorzi alla liquidazione e di addivenire, a margine, alla costituzione, con l’ausilio iniziale delle banche, di una nuova società, avente parimenti funzione di sostegno all’agricoltura e direttamente partecipata dai soggetti operanti nel mondo agricolo.
Deve cioè ritenersi che la scelta del commissariamento non fu volta a risanare la Federconsorzi, ma a prepararne la fine, in vista della creazione di un sistema nuovo, sia pur dai contorni assai incerti. C’è da chiedersi se taluno influenzò le decisioni del Ministro. Per quanto emerso può certamente affermarsi che la scelta fu avversata dalle associazioni di categoria .
Non fu invece osteggiata dai più influenti esponenti del partito del Ministro, mostratisi accondiscendenti o tutt’al più remissivi . Costoro hanno però sostenuto di essersi trovati di fronte ad una decisione sostanzialmente già presa e dunque da loro non ispirata. Per il resto risulta che il Ministro non prima dell’8 maggio 1991 conferì a Della Valle e Dezzani l’incarico, più formale che sostanziale, di acquisire dati riguardanti la consistenza del patrimonio e del bilancio di Federconsorzi e che fin dal suo insediamento nel Ministero dell’Agricoltura, avvenuto nel mese di aprile, si era consultato sul da farsi con il prof. Capaldo. Quest’ultimo anche al dibattimento ha ribadito di aver suggerito al Ministro di disporre per intanto un’ispezione, in vista di non immediate e più ponderate determinazioni, mentre taluno ha riferito che alla notizia del commissariamento il prof. Capaldo avrebbe manifestato le sue perplessità, dichiarando che se Goria aveva operato senza il consenso delle banche era pazzo. Un siffatta affermazione appare in realtà singolare, visto che il Capaldo era all’epoca presidente di un istituto bancario, che figurava tra i massimi creditori di Federconsorzi, e dunque, se un accordo vi fosse stato, egli avrebbe dovuto essere tra i primi ad esserne informato.
Non può in sostanza escludersi, sol perché diversamente si è espresso al dibattimento il prof. Capaldo, che egli, si badi, specificamente consultato, avesse in qualche guisa ispirato la strategia del Ministro.
Del resto non consta che quest’ultimo avesse consultato persone diverse e neppure può dirsi rilevante la troppo rapida indagine demandata ai citati Della Valle e Dezzani, a fronte dell’importanza strategica della decisione da prendere, mentre è pacifico che il prof. Capaldo da molto tempo operava come consulente esterno di Federconsorzi, a lui ricorrendosi in presenza di problematiche di rilievo.
In ogni caso deve ritenersi che il Ministro mirasse alla liquidazione del patrimonio.
A tale risultato si sarebbe potuto pervenire peraltro in forme diverse, essendo al riguardo utilizzabili le forme negoziali della cessio bonorum ovvero quelle proprie di una procedura concorsuale. Sta di fatto che la prospettiva della liquidazione volontaria risultava irrealistica.
In dichiarazioni ufficiali il Ministro ebbe modo di segnalare ai propri interlocutori di mirare ad una soluzione concordata avente primariamente di mira la salvaguardia delle ragioni dei creditori (cessio bonorum sub specie di pegno o costituzione di una società formata dai maggiori creditori ed aperta a tutti gli altri, previo conferimento del proprio credito, la quale si sarebbe dovuta far carico della liquidazione nei tempi e modi ritenuti più opportuni). Era però chiaro che qualsivoglia soluzione negoziale avrebbe dovuto coinvolgere la totalità dei creditori, ottenendo l’unanimità dei consensi.
Senonché la forte pressione delle banche estere, restie ad accettare sacrifici, e la sostanziale impossibilità di compattare un consenso così vasto facevano apparire fin dall’inizio velleitarie proposte del genere.
Ed allora, se dal commissariamento non poteva che derivare la decisiva spinta alla liquidazione e se d’altro canto quest’ultima ben difficilmente sarebbe stata realizzabile in forma negoziata, è d’uopo ritenere che fosse stata altresì ipotizzata anche una soluzione diversa, implicante il ricorso ad una procedura concorsuale. Non è un caso che ad essa si fosse rapidamente addivenuti, ad appena un mese e mezzo dal commissariamento.
E’ però certo che il Ministro Goria non intendeva avvalersi dello strumento privilegiato della liquidazione coatta (voluta invece da esponenti del partito socialista) e si dichiarava altresì contrario al ricorso alla procedura disciplinata dalla c.d. legge Prodi, cioè l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi di cui alla L 95/79, sulla cui applicabilità a Federconsorzi avanzava riserve, in realtà infondate .
Sta di fatto che l’una o l’altra soluzione avrebbero meglio assicurato una fase di transizione e di gestione provvisoria, ma avevano lo svantaggio, agli occhi del Ministro, di rendere possibili azioni di responsabilità e azioni revocatorie soprattutto in danno delle banche, nonché di impedire quella diretta messa a disposizione del patrimonio con cui esso sperava di allettare gli istituti, anche in vista della loro auspicata partecipazione alla creazione della nuova struttura di supporto all’agricoltura, nella quale mostrava di credere.
Non è un caso che una volta verificata la necessità di accedere ad una procedura concorsuale, il Ministro avesse subito mostrato di preferire la soluzione del concordato preventivo con cessione dei beni, sul rilievo che una siffatta procedura appariva più coerente con il progetto della liquidazione volontaria a favore della quale si erano espressi molti creditori, seppur in misura largamente insufficiente per poterla attuare.
In realtà un siffatto rilievo era privo di valore, poiché si sarebbe dovuta considerare la notevole differenza intercorrente tra la procedura negoziata e quella concorsuale di tipo giudiziale, e soprattutto si sarebbero dovuti valutare tutti i presupposti di legge per poter accedere al concordato preventivo.
Ma tant’è, ed in men che non si dica fu predisposto il ricorso per l’ammissione a detta procedura.
Riassumendo, è d’uopo ritenere che il Ministro Goria avesse voluto il commissariamento quale strumento per addivenire alla liquidazione di Federconsorzi.
La sua principale aspirazione politica era quella di creare un nuovo sistema di ausilio all’agricoltura, per la cui realizzazione aveva bisogno del sostegno del mondo bancario. A fronte di ciò, egli credeva di poter offrire l’ingente patrimonio di Federconsorzi, che in caso di esito infruttuoso della proposta incentrata sulla liquidazione volontaria, di per sé assai problematica, avrebbe potuto essere liquidato da una società costituita ad hoc, aperta a tutti i creditori.
In prospettiva si sarebbe potuto accedere alla procedura di concordato, che attraverso la cessio bonorum avrebbe potuto assicurare un risultato analogo.
In tale contesto, è significativo non solo che il prof. Capaldo fosse stato consultato, ma anche che il suo istituto si fosse poi schierato a favore della liquidazione volontaria, peraltro difficilmente realizzabile, ciò che vale a sottolineare la di lui vicinanza al Ministro e alle soluzioni da quest’ultimo prospettate. Né può sottacersi l’assonanza della soluzione in subordine proposta dal Ministro, incentrata sulla costituzione di una società ad hoc, con il piano che qualche mese dopo lo stesso Capaldo avrebbe elaborato e dal cui accoglimento dipende il presente processo.