Sentenza Tribunale penale di Perugia - Vicenda Federconsorzi/29
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– Il provvedimento del 23-3-1993 rappresenta lo snodo decisivo, ben più di quello successivo con il quale sarebbe stata autorizzata la stipula del contratto “quadro”.
Vi sono nel decreto alcuni passaggi che meritano particolare attenzione, perché risultano tanto significativi quanto sorprendenti. In buona sostanza, pur dandosi atto di molteplici profili di indeterminatezza della proposta, questa veniva accettata, sul rilievo della buona fede dei proponenti, mentre in assenza di qualsivoglia verifica circa la congruità del prezzo, venivano addotte labili considerazioni di ordine generale, ritenute sufficienti a colmare il gap tra i valori.
Ma tale modus procedendi era gravemente lesivo delle norme in materia di concordato e soprattutto idoneo ad assicurare a quei proponenti di buona fede un vantaggio economico di proporzioni -almeno in teoria- enormi, non compensato da alcuna seria garanzia a tutela della par condicio creditorum.
Ed invero, si è già rilevato come il patrimonio fosse stato stimato più di 3.900 miliardi e come detto valore fosse stato recepito nella sentenza di omologa.
Ciò significa che gli organi della procedura avrebbero dovuto perseguire la tendenziale realizzazione di un siffatto valore e non avrebbero potuto legittimare una liquidazione che in partenza era destinata ad assicurare un ricavo di gran lunga inferiore. D’altro canto con il provvedimento del 23-3-1993 si definivano le vere modalità della liquidazione, ad integrazione di quanto disposto in sentenza, con la conseguenza che i parametri delineati in quest’ultima non sarebbero potuti essere disattesi da un provvedimento che all’omologa si correlava funzionalmente.
Né rileva il fatto che in linea di principio il concordato non sia soggetto a revocazione nel caso in cui non venga effettivamente distribuita ai chirografari, a seguito della liquidazione, la percentuale minima del 40%: infatti un conto è prendere atto dei ricavi in concreto ottenuti ed un altro, ben diverso, è precludere fin dall’inizio ogni possibilità di realizzare un risultato migliore. In sostanza, avallando la proposta Capaldo, il Tribunale violò il combinato disposto degli artt. 160, 181 e 182 L.F., creando a priori e senza alcuna seria giustificazione le condizioni perché in sede di concordato non fosse assicurata la massima percentuale possibile e neppure quella minima prescritta.
Non può d’altro canto valere l’escamotage della surrettizia separazione della fase dell’omologa da quella della definitiva definizione delle modalità di liquidazione, atteso che la stessa menzione in sede di omologa della proposta Casella finisce per rivelare una strategica preordinazione, in assenza di qualsivoglia successivo tentativo di trovare proposte concorrenti ed a fronte del progressivo peggioramento del contenuto economico di quella proposta, tale da non consentire neppure il raggiungimento della percentuale del 40% per i chirografari.
Ed in realtà delle due l’una.
O effettivamente il valore di mercato del patrimonio era insufficiente ed allora se ne sarebbe dovuto prendere atto ai fini delle determinazioni di competenza del Ministro o dello stesso Tribunale fallimentare , oppure quel patrimonio aveva un valore ben superiore, il che avrebbe comportato determinazioni assai diverse a tutela dell’intero ceto creditorio.
Si badi ancora che le argomentazioni addotte dal Tribunale nel decreto del 23-3-1993 al fine di colmare il gap risultano improponibili, poiché prive sul piano probatorio di reale giustificazione e basate su mere congetture , in assenza di qualsivoglia valutazione peritale circa la dinamiche in corso ed il loro significato nonché circa l’effettiva praticabilità di una vendita in blocco.
Né potrebbe dirsi che i proponenti avessero offerto validi appigli, nulla di concreto e di preciso essendo mai stato allegato, se si prescinde da talune considerazioni assai generiche ed evanescenti, contenute nella missiva del 28-1-1993.
Per contro il Tribunale disponeva di valutazioni di segno opposto, avendo il commissario giudiziale ad es. precisato nel parere del febbraio come la crisi del mercato immobiliare non si prospettasse come un dato tale da riversare sulla procedura conseguenze necessariamente negative.
Il parere del comitato dei creditori, oltre che inficiato dal conflitto di interessi, appariva invece fondato, sotto vari profili, su valutazioni superficiali o addirittura surrettizie, come tali qualificate, in buona sostanza, anche dal commissario giudiziale. Balza del resto agli occhi il fatto che si fosse addivenuti alla vendita in massa, senza aver in alcun modo valutato la concreta fattibilità e convenienza del piano di vendite frazionate già elaborato dal commissario governativo Piovano e addirittura senza aver proceduto a quell’asta che pur era stata evocata nella sentenza di omologa, quasi che la cessione alla cordata promossa dal prof. Capaldo fosse una soluzione obbligata e priva di alternative.
Né potrebbe valere il semplice fatto che nessuno nel frattempo si fosse fatto avanti, nonostante la notoria pendenza della proposta dell’Avv. Casella, giacché sarebbe stato compito degli organi della procedura creare con ogni mezzo ed anche con la dovuta pubblicità in Italia e all’estero le condizioni propizie all’affacciarsi di offerte antagoniste e concorrenziali.