Sentenza Tribunale penale di Perugia - Vicenda Federconsorzi/36

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- Tra i profili di rilievo della fase esecutiva dell’atto quadro, non può trascurarsi quello riguardante la sorte dei lavoratori di Federconsorzi.

Va premesso che costoro beneficiavano in origine di un trattamento economico e normativo assolutamente privilegiato, assicurato dal relativo contratto collettivo.

Ma a partire dalla fase del commissariamento si era subito posto il problema di come far fronte al relativo onere, mirandosi principalmente alla riduzione del numero dei lavoratori in servizio. Poi era intervenuta l’ammissione al concordato con cessione dei beni e di conseguenza si era in concreto prospettata per tutti l’eventualità del licenziamento.

Erano cominciate delle trattative sindacali, finalizzate alla previsione di forme di esodo incentivato e nel contempo all’adozione di misure a salvaguardia dei posti di lavoro.

Un fondamentale accordo del novembre 1992, concluso presso il Ministero del Lavoro, previde che varie unità di personale dovessero transitare in Agrisviluppo, adeguatamente rivitalizzata, o essere assunte presso le c.d. agenzie CEE.

Sul piano politico si era frattanto cercato di trovare una soluzione al problema e si era cominciato a pensare alla possibilità di un graduale passaggio del personale presso enti o uffici pubblici.

Sta di fatto che, come già rilevato, le confederazioni sindacali di maggiore rilievo nazionale, nel momento della decisione più importante, concernente l’autorizzazione alla vendita in massa, si schierarono a favore, venendo altresì ricevute dal prof. Capaldo. Tale passaggio appare cruciale per comprendere il ruolo svolto dai vari soggetti implicati in questa vicenda.

In effetti deve escludersi che il confronto sindacale potesse vertere sul prezzo offerto dalla cordata Capaldo e sulle prospettive di realizzo dei cespiti.

Né potrebbe mai pensarsi che fosse stato dato decisivo rilievo alla prevista assunzione da parte della costituenda società di 60 o 70 dipendenti di Federconsorzi, numero all’evidenza irrisorio rispetto al gruppo di lavoratori residui.

Vanno invece considerati gli sforzi fatti sia dai primi commissari, che di ciò avevano fatto menzione già nel ricorso per l’ammissione alla procedura, sia dal dott. Piovano per dare una concreta base organizzativa alla società che avrebbe dovuto almeno in parte assumere l’eredità di Federconsorzi e per il cui decollo sarebbe occorso il contributo degli istituti bancari.

In tale ottica è agevole ritenere che le confederazioni avessero espresso il loro consenso all’operazione proprio perchè indotte a valutare positivamente gli scenari loro prospettati, in termini di ripresa dell’attività di commercializzazione e di mantenimento complessivo dei livelli occupazionali .

In altre parole, così come già nell’accordo sindacale del novembre 1992 e in altri che lo avrebbero seguito, ribadendone la vincolatività, pur prendendo atto della sua mancata esecuzione , anche nella fase coeva all’autorizzazione alla vendita in massa dovette venire in considerazione la sorte di Agrisviluppo, società partecipata per intero da Federconsorzi e dunque destinata ad essere trasferita alla costituenda società in sede di attuazione della vendita in massa.

L’occasione poteva infatti apparire propizia, concretamente profilandosi la possibilità che i soci promotori assumessero altresì l’impegno di farsi carico della nuova struttura.

Tutto ciò ha trovato conferma anche nelle dichiarazioni rese al dibattimento dal prof. Capaldo.

Costui ha sostenuto che la Banca di Roma sarebbe stata disponibile ad impegnarsi nel finanziamento della cennata società e che per questo sondò gli altri partners, al fine di verificare se essi potessero concorrere nella nuova operazione.

Ma in pratica, a suo dire, nessuno manifestò interesse, cosicché il progetto fallì.

Tale versione da un lato dà la misura di come il problema “Agrisviluppo” avesse fatto parte delle discussioni correlate alla vendita in massa e dall’altro risulta totalmente inappagante.

In gioco, infatti, non vi erano solo degli equilibri finanziari, ma anche la vita di numerose persone, la loro professionalità e la loro volontà di essere e sentirsi utili.

Il prof. Capaldo, con la sua indiscutibile autorevolezza, del resto ampiamente spesa in questa vicenda, non avrebbe potuto abbandonare con tanta nonchalance un progetto sul quale si fondava un preciso accordo sindacale e che, fin dalla prima ora, rivestiva un carattere strategico.

Né potrebbe semplicemente farsi leva sulla riottosità dei partners. In realtà non consta, stando alle illusioni nutrite dalla parte sindacale , che fosse stato chiarito il vero ruolo di SGR, vincolata statutariamente al solo realizzo, in base a precise disposizioni impartite dalla Banca d’Italia fin dal 1992 e non in conseguenza di un mutamento di programma dell’ultim’ora.

Appare infatti singolare che, pur essendo noto da tempo ai promotori di SGR che la società non avrebbe potuto assumere in proprio la gestione di “Agrisviluppo”, i loro interlocutori potessero invece vedere nella cessione ad essa di tutti i cespiti un valido strumento per promuovere l’attività di commercializzazione e creare in tal modo nuovi sbocchi occupazionali.

E’ d’uopo piuttosto opinare che da parte di coloro che parteciparono al confronto con il sindacato fosse stato mantenuto sul punto un atteggiamento ambiguo, destinato a creare un erroneo convincimento. Ma le conclusioni non sarebbero diverse, anche nel caso in cui fosse stato chiaro a tutti che le sorti di Agrisviluppo sarebbero dipese solo da una parallela azione dei soci di SGR.

In effetti, se alcuni tra i maggiori promotori (come B.N.L.) avevano già manifestato, dopo le iniziali proposte del Ministro Goria, totale contrarietà a qualsiasi avventura di quel genere , ciò vuol dire che il progetto non aveva futuro o che si sarebbe dovuto fondare sullo sforzo degli altri soci, sostenuti proprio da Banca di Roma.

Nel primo caso il prof. Capaldo non avrebbe potuto evocare alcuno scenario, mentre nel secondo non avrebbe potuto sottrarsi, quasi immediatamente, agli impegni assunti, di fatto mostrando di aver intessuto una trama contrassegnata da una sua riserva mentale. Del resto appare significativo che, quando nel mese di ottobre del 1993, dunque all’indomani della stipula dell’atto quadro, il commissario governativo D’Ercole diramò un comunicato nel quale si manifestava l’intendimento di porre in mobilità una quota di personale , nel presupposto che non vi fosse possibilità di riassorbimento altrove, nulla di concreto fosse stato fatto da SGR o dai suoi soci.

In pratica da questo momento al personale non sarebbe restato altro da fare che contare sul buon cuore dei cessionari o sulla politica. Nulla del resto era venuto dal Tribunale, che, pur dichiaratosi primariamente interessato alla sorte dei lavoratori, si era piegato rapidamente alle ragioni dei promotori di SGR, addivenendo ad una vendita in blocco che non forniva altra garanzia che l’assunzione di 70 unità.

E si badi che, se da un lato può ragionevolmente affermarsi che tutto ciò non rientrava tra i primari compiti del Tribunale, dall’altro non può sottacersi che si era instaurata una sorta di trattativa finalizzata alla cessione in blocco, nella quale il profilo occupazionale avrebbe potuto trovare ben più incisivo spazio, non essendo del resto prescritto da nessuno che le aspettative dei promotori di SGR dovessero essere, come invece furono, per forza soddisfatte.