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Atto terzo
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VARIANTI DELLA PRIMA REDAZIONE

rifiutata dall’autore


ATTO PRIMO

SCENA I

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sibari. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Sperai fra queste mura,
in sí bel giorno accolta,
tutta l’Asia mirar; ma non sperai
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide.   Di quell’ingrato il nome
non rammentarmi.
Sibari.   A lui straniero e ignoto
nel tuo real soggiorno
il cor donasti...
Semiramide.   E abbandonai con lui
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
del monarca numida.
Sibari tel rammenti?
Sibari.   E come mai
obbliar lo potrei, s’ogni tua cura
tu m’affidavi allor? se, duce io stesso
de’ reali custodi, a tua richiesta
agio concessi alla notturna fuga?
Semiramide. E pur, noi crederai, l’istesso Idreno
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sibari. Qual fu poi la tua sorte?
Semiramide. Lungo fôra il ridirti
quanto errai, che m’avvenne. In mille guise
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
del talamo real mi volle a parte.

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Sibari. Ma ti conobbe?

Semiramide.   No. Finsi che un fonte
l’origine mi desse, e che agli augelli
de’ primi giorni miei dovea la cura.
Sibari. E all’estinto tuo sposo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
  Ma come soffre
il legittimo erede
te nel suo trono?
Semiramide.   Effeminato e molle
fu mia cura educarlo. Ora in mia vece
gode, vivendo in femminili spoglie
nella reggia racchiuso, e il regno teme,
non lo desia.
Sibari.   Che narri! (E quando spero, ecc.


SCENA II

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

de’ principi rivali. E questa cura,
ch’io di te prendo, all’ombra
del tuo gran genitor, che fu d’Assiria
piú difensor che tributario, io deggio.
Vengano. Al fianco mio, ecc.


SCENA III

Mirteo. Al tuo cenno, gran re, deposte l’armi

si presenta Mirteo. Fra gli altri anch’io
alla vaga Tamiri offro la mano.
L’Egitto è il regno mio.
Ircano.   Odi, la bella
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Tamiri.   Parla, se vuoi.
Ircano. E bene, io parlerò. Dove a lor piace,
regnano i sciti. Al variar dell’anno
variano i lor confini; erranti abbiamo

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e le cittadi e i tetti;

e son le nostre mura i nostri petti.
Quei pianti, quei sospiri
non son pregi fra noi. Pregio allo Scita

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Tamiri. È noto.

Semiramide.   Or siedi, Ircano.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide.   (È questi Idreno.)

Ircano. Tu impallidisci, amico! (a Scitalce)
Perché?
Scitalce.   Perché mi vedo
sí gran rivale a fronte.
Mirteo.   Io non lo credo.
Tamiri. Nino, tu avvampi in volto!
Che fu?
Semiramide.   Cosí m’accendo
per costume talora.
Tamiri.   (Io non l’intendo.)
Semiramide. Fin dall’indico clima

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

la scelta d’un rivale. Il nume e l’ara
eccovi, o prenci.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Questa è l’ara de’ sciti e questo è il nume.
Tamiri. (Qual asprezza!)
Ircano.   Si sceglie
oggi lo sposo, o resta
altro rito a compir?
Tamiri.   No, del mio core
il genio ormai farò palese.
Semiramide.   (Ah! temo
che Scitalce sará.)
Tamiri.   L’ardir d’Ircano
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide.   Sospendi
la scelta, o principessa. Un lieve impegno
questo non è: del tuo riposo anch’io

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son debitor. Meglio pensando, almeno

me dal rossor di poco saggio assolvi;
esamina, rifletti, e poi risolvi.
Tamiri. Abbastanza pensai, ecc.


SCENA V

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano. Non curar di quel folle

il silenzio, i pensieri.
Godi di tua ventura

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Tamiri. Ma tu conosci amor? Dicesti, Ircano,

che tutto il tuo piacere, ecc.


SCENA VI

Ircano. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

e per consiglio mio torna in Egitto.
Mirteo. Sei degno di pietá, se non distingui
dall’ossequio il disprezzo. In quegli accenti
ti rinfaccia Tamiri
che de’ meriti tuoi troppo presumi.
Ircano. Io de’ vostri costumi intendo meno
quanto gli ascolto piú. Qui le parole
dunque han sensi diversi? A voglia altrui
qui si parla e si tace? Al regio cenno
deve un’alma adattar gli affetti suoi?
Chi mai mi trasse a delirar con voi?
Mirteo. In questa guisa, Ircano,
in Assiria si vive. Amando ancora,
imitar ti conviene il nostro stile;
con lingua piú gentile alle reine
si ragiona d’amor. Non son giá queste
l’erranti abitatrici
dell’ircane foreste.
Ircano.   E quale è mai
questo vostro d’amar nuovo costume?

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Mirteo. Qui la beltá d’un volto,

rispettoso s’ammira;
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano. Miserabil mercé! Meglio fra noi
si trattano gli amori. Al primo sguardo,
senza taccia d’audace,
si palesa l’ardor. Cangia d’affetto
ciascuno a suo talento;
ama finch’è diletto,
e tralascia d’amar quando è tormento.
Mirteo. O barbaro è il costume,
o non s’ama fra voi. Gioia è la pena,
ed un’alma fedele
sé per l’amato ben pone in obblio.
Ircano. Ciascun siegua il suo stile: io sieguo il mio.
          Maggior follia non v’è
     che, per godere un dí,
     questa soffrir cosí
     legge tiranna.
          Io giuro amore e fé
     a piú d’una beltá;
     né serbo fedeltá,
     quando m’affanna. (parte)


SCENA VIII

Sibari. Amico, in rivederti,

oh qual piacere è il mio! Signor, perdona,
se col nome d’amico ancor ti chiamo.
Per Idreno in Egitto,
non per Scitalce, il principe degl’indi,
sai pur ch’io ti conobbi.
Scitalce.   Allor giovommi
nome e grado mentir. Cosí sicuro,
per render pago il giovanil desio,
vari costumi appresi:
molto errai, molto vidi e molto intesi.
Ah, non avessi mai
portato il piè fuor del paterno tetto!

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Ché ad agitarmi il petto,

o somigliante o vera,
tornar sugli occhi miei
Semiramide infida or non vedrei.
Sibari. Semiramide! Come?
È teco? Ove s’asconde?
Scitalce.   E cosí cieco,
Sibari, sei? Non la ravvisi in Nino?
Sibari. (Ah! la conobbe.)
Scitalce.   A me la scopre assai
il girar de’ suoi sguardi
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
subito torna a palpitarmi in petto.
Sibari. Eh! t’inganna il desio. Se fosse tale,
al germano Mirteo nota sarebbe.
Scitalce. No; ché bambino ei crebbe
nella reggia de’ battri.
Sibari.   E poi trascorsi
tre lustri son, da che fuggí d’Egitto;
né piú di lei novella
fra noi s’intese, e ognun la crede estinta.
Scitalce. Chi piú di me dovrebbe
crederla estinta? Io quella notte istessa
che fuggí meco, io la trafissi.
Sibari.   Oh Dio!
che facesti?
Scitalce.   E dovea
impunita restar? Tutto fu vero
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sibari.   E il conoscesti?
Scitalce.   In parte
pago sarei, se il ravvisava: in lui
potrei l’ira sfogar.
Sibari.   (Non sa ch’io fui.)
Ma come ti salvasti
dal nemico furor?
Scitalce.   Fra l’ombre e i rami
mi dileguai; ma prima
del Nilo in su la sponda
l’empia trafissi, e la balzai nell’onda.

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Sibari. Dunque, di sua sventura

fu cagione il mio foglio? E non bastava
punirla con l’obblio?
Scitalce. È ver: troppo trascorsi, il veggio anch’io.
Ma chi frenar può mai
gl’impeti dello sdegno e dell’amore?
Disperato, geloso,
appagai l’ira mia; ma non per questo
la pace ritrovai. Sempre ho sugli occhi,
sempre il tuo foglio, il mio schernito foco,
la sponda, il fiume, il tradimento, il loco.
Sibari. Serbi il mio foglio ancor? Perché non togli
un fomento al tuo duolo?
Scitalce.   Io meco il serbo
per gloria tua, per mia difesa.
Sibari.   Almeno
cauto lo cela: è qui Mirteo: potrebbe
della germana i torti
contro me vendicar.
Scitalce.   Vivi sicuro:
ma non scoprir che Idreno
in Egitto mi finsi.
Sibari.   Alla mia fede
lieve prova domandi: io tei prometto.
Ma tu scaccia dall’alma
quel fallace desio, che ti figura
Semiramide in Nino. Offri a Tamiri
oggi tranquillo il core,
e dal primo ti sani un nuovo amore.
          Come all’amiche arene
     l’onda rincalza l’onda,
     cosí sanar conviene
     amore con amor.
          Piaga d’acuto acciaro
     sana l’acciaro istesso,
     ed un veleno è spesso
     riparo all’altro ancor. (parte)

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SCENA IX

Scitalce, poi Tamiri.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Scitalce. Al monarca d’Assiria. A lui degg’io

di nuovo favellar.
Tamiri.   L’istessa brama
di ragionar con te Nino dimostra.
Scitalce. Vado.
Tamiri.   Un momento ancora
tu puoi meco restar.
Scitalce.   Ma non conviene
che il re cosí m’attenda.
Tamiri.   Il re s’appressa.
Férmati.
Scitalce.   (Oh Dio! Che dubitarne? È dessa.)
  (vedendo Semiramide)


SCENA X [IX]

Semiramide e detti.

Tamiri. Signor, brama Scitalce
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Scitalce. Ah, menzognera! Ah, ingrata!

Anima senz’amore,
nata per mio rossore,
nata per mia sventura...
Semiramide.   Olá! Scitalce

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide. Se presente al tuo sguardo,

siccome è al tuo pensiero,
fosse colei, non ti vedrei sí fiero.
Dell’ingiuste querele,
di tanti sdegni tuoi pietá, perdono
forse le chiederesti;
e perdono e pietá forse otterresti.

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Scitalce. (Questo di piú! L’ingrata

vegga ch’io non la curo.) Ah! se tu vuoi,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Scitalce.   Oh Dio!

Temo lo sdegno tuo.
Semiramide.   Del mio perdono
non dubitar: spiégati pur.
Scitalce.   Vorrei
pietosa a’ miei martiri,
mercé del tuo favor, render Tamiri.
Semiramide. (Oh smania! Oh gelosia!)
Scitalce. Ella è la fiamma mia,
adoro il suo sembiante...
Semiramide. Non piú. (Fingiam.) Ti compatisco amante.
Parlerò con Tamiri, e la tua brama,
piú che non credi, a favorir m’appresto.
Scitalce. Ecco appunto Tamiri: il tempo è questo.
Semiramide. (Importuno ritorno!) Odimi: intanto
ch’io le parlo di te, colá dimora.
Scitalce. Vado. (Si turba.) (si ritira in un lato della scena)
Semiramide.   (Ed io resisto ancora?)


SCENA XI [X]

Tamiri e detti.

Tamiri. Perdonami, s’io torno

impaziente a te. Quali predici
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide.   Per ora
piú non cercar. Ti basti (piano a Tamiri)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Scitalce. (E pure impallidisce.) (torna al suo luogo)

Tamiri.   A lui si chieda
perché si fa rivale
d’Ircano e di Mirteo.
Semiramide. (piano a Tamiri)  Férmati, e seco
non ragionar, se la tua pace brami.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
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Scitalce.   Ma qui si tratta

del mio riposo, e compatir tu déi
se, bramoso di quello,
io turbo la tua pace.
Semiramide. Lo so, di te favello.
Scitalce.   (E pur le spiace!)
  (in atto di ritornare al suo luogo)
Tamiri. Senti, Scitalce: alfin da’ labbri tuoi
quando fía che s’intenda
quel che nascondi in seno?
Scitalce.   In seno ascondo
un incendio per te. Da tue pupille
escono a mille a mille
ad impiagarmi i dardi:
mancherá, se piú tardi
a temprare il mio foco,
ésca alla fiamma, alle ferite il loco.
Semiramide. (Perfido!)
Scitalce.   (Si tormenti.)
Tamiri.   Io non intendo, ecc.


SCENA XII [XI]

Semiramide e Tamiri.

Tamiri. Udisti il prence? Egli è diverso assai

da quel che lo figuri.
Semiramide.   Io lo previdi
che poteva ingannarti. Ah, tu non sai
quanto a fingere è avvezzo! A suo piacere
con fallaci maniere ad ora ad ora
s’accende e si scolora; il pianto, il riso
sa richiamar sul viso allor che vuole,
né son figlie del cor le sue parole.
Tamiri. Pur non sembra cosí, ecc.

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SCENA XIII [XII]

Semiramide, poi Ircano e Mirteo.

Semiramide. Sará dunque Scitalce

sposo a Tamiri? E tollerar lo deggio?
Lo sia. Qual cura io prendo
d’un traditor? Potessi almen spiegarmi;
dirgli ingrato, infedel! Ma in gran periglio
pongo me stessa. Ah! che farò? Vorrei
e parlare e tacer. Dubbiosa intanto,
e non parlo e non taccio;
di sdegno avvampo e di timore agghiaccio.
Principi, i vostri affetti (vedendo Ircano e Mirteo)
son sventurati.
Mirteo.   E donde il sai?
Semiramide.   Tamiri
scoperse il suo pensier.
Ircano.   Come?
Semiramide.   Non giova
consumare in querele il tempo invano.
Mirteo. Che far possiamo?
Semiramide.   Ad un rival si lascia
cosí libero il campo? Andate a lei;
ditele i vostri affanni,
pietá chiedete: e, se mercé bramate,
qualche stilla di pianto ancor versate.
Ircano. Non è sí vile Ircano.
Mirteo. A placar quell’ingrata il pianto è vano.
Semiramide.   Voi non sapete quanto
     giova a destar faville
     quell’improvviso pianto,
     che versati due pupille
     in faccia al caro ben.
          Ogni bellezza altera
     va dell’altrui dolore:
     si rende poi men fiera,
     e alfin germoglia amore
     alla pietade in sen. (parte)

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SCENA XIV [XIII e XIV]

Mirteo ed Ircano.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano.   Andiamo

l’importuno rivale
uniti ad assalir. S’accerti il colpo,
mora Scitalce; e poi,
tolto il rival, deciderem fra noi.
Mirteo. Cosí mostri il rispetto
all’ospite real? Cosí conservi
la fé promessa ed i giurati patti?
Per assalire un sol, cerchi con frode
vergognoso vantaggio?
E tal prova domandi al mio coraggio?
Ircano. Che rispetto! Che fede! Il mio furore
chiede vendetta. Io tollerar non deggio
ch’altri usurpi quel cor. Tremi Scitalce,
tremi d’Ircano alla fatal minaccia.
La sua caduta è certa,
qualunque usar mi piaccia
ascosa frode o violenza aperta.
          Talor se il vento freme, ecc.


SCENA XV

Mirteo solo.

D’un indomito scita

barbari sensi! Ei minor pena crede
meritar la sventura
che tollerarla, e da un’indegna frode
spera felicitá. Se a questo prezzo
la destra di Tamiri
solo acquistar si può, sia d’altri. Ed io,
privo dell’idol mio,
che mai farò? N’andrò ramingo e solo
in solitarie sponde,
rammentando il mio duolo all’aure, all’onde.

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          Rondinella, a cui rapita

     fu la dolce sua compagna,
     vola incerta, va smarrita
     dalla selva alla campagna,
     e si lagna, intorno al nido,
     dell’infido cacciator.
          Chiare fonti, apriche rive
     piú non cerca, al dí s’invola
     sempre sola, e sinché vive
     si rammenta il primo amor.


ATTO SECONDO

SCENA I

Sibari. Ministri, al re sia noto

che giá pronta è la mensa. (parte una guardia)
  È giunto il tempo
che l’accortezza mia,
col morir di Scitalce, il grave inciampo
mi tolga d’un rivale, e m’assicuri
che mai scoprir non possa
la sua voce, il mio scritto
quanto Sibari un dí finse in Egitto.
Ircano. E pure il giungerò. Dov’è Scitalce?
Ov’è Tamiri? È questo
il luogo della mensa?
Sibari.   E qual furore
t’arma la destra?
Ircano.   Io vo’ Scitalce estinto.
Sibari. (Ah! di costui lo sdegno
scompone il mio disegno.)
Ircano. Additami dov’è.
Sibari.   Ma che farai?
Ircano. Che farò? Mi vedrai con questo acciaro
dell’ingiusto imeneo troncare il laccio.
Alla sua sposa in braccio
cadrá il rivale, andrá la mensa a terra,

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e lo sparso farò lieo spumante

scorrer col sangue infra le tazze infrante.
  (in atto di partire)
Sisari. Ferma!
Ircano.   Non m’arrestar.
Sibari.   Ma tu non brami
Scitalce estinto?
Ircano.   Sí.
Sibari.   Dunque ti placa:
egli morrá, fidati a me. Salvarlo
sol potrebbe il tuo sdegno.
Ircano.   Io non intendo.
Corro prima a svenarlo, e poi l’arcano
mi spiegherai.
Sibari.   Ma senti. (A lui conviene
tutto scoprir.) Poss’io di te fidarmi?
Ircano. Parla.
Sibari.   Per odio antico
Scitalce è mio nemico. Il torto indegno,
che al tuo merto si fa, cresce il mio sdegno;
ond’io, ma non parlar, giá nella mensa
preparai la sua morte.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
questo sará d’atro veleno infetto.

Ircano. Se m’inganni...
Sibari.   Ingannarti! E chi sottrarmi
potrebbe al tuo furore?
Passami allor con questo ferro il core.
Ircano. Mi fiderò, ma poi... (ripone la spada)
Sibari. Taci, ché il re giá s’avvicina a noi.


SCENA II

Semiramide. Ecco il luogo, o Tamiri,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Tamiri. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
con piú fasto il piacer.
Mirteo.   Qui la tua cura
del ricco Gange e dell’eoe maremme

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i tesori e le gemme

tutte adunò.
Scjtalce.   Da mille faci e mille
vinta è la notte, e ripercosso intorno
fiammeggia oltre il costume
fra l’ostro e l’òr multiplicato il lume.
Semiramide. Scitalce, al nuovo sposo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano. Cosí riceve un tuo rifiuto Ircano.
Tamiri. Ah! questo è troppo. Ognun disprezza il dono!
Dunque, ridotta io sono, ecc.


SCENA V

Mirteo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

si preferisce a me.
Semiramide.   Non è Tamiri
sposa finor: molto sperar tu puoi.
Scitalce è prigionier; si rese Ircano
dell’imeneo col suo rifiuto indegno:
facilmente otterrai la sposa e il regno.
Mirteo. Che giova il merto? Io soffrirò, ma poi
chi ragion mi fará? Forse Tamiri?
Semiramide. Avranno i tuoi sospiri
da lei mercede: a tuo favore io stesso

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

Tu piú caro mi sei di quel che credi.
Mirteo.   Io veggo in lontananza,
     fra l’ombre del timor,
     di credula speranza
     un languido splendor,
     che inganna e piace.
          Avvezzo a ritrovarmi
     son io fra tante pene,
     che basta a consolarmi
     l’immagine d’un bene
     ancor fallace. (parte)

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SCENA VII

Sibari. L’accortezza che vai, se, ognor con nuovi

impensati accidenti,
la fortuna nemica
d’ogni disegno mio le fila intrica?
Tutto ho tentato invano:
vive Scitalce, e sa la trama Ircano.
Ircano. Vieni, Sibari.
Sibari.   E dove?
Ircano. A Tamiri.
Sibari.   Perché?
Ircano.   Voglio che a lei
discolpi il mio rifiuto.
Sibari.   Il tuo pensiero
come appagar?
Ircano.   Con palesarle il vero.
Sibari. Il vero!
Ircano.   Sí: tu le dirai ch’io l’amo;
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
fu d’apprestarlo; e che dai detti tui
l’inganno a favorir sedotto io fui.
Sibari. Signor, che dici? E pubblicar vogliamo
un delitto comun? Reo della frode
saresti al par di me. Fra lor di colpa
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano. D’un desio di vendetta alfin Tamiri
mi creda reo, non del rifiuto, e sappia
perché la ricusai.
Sibari.   Troppo mi chiedi:
ubbidir non poss’io.
Ircano. E ben! taccia il tuo labbro, e parli il mio.
  (in atto di partire)
Sibari. Senti. (Al riparo!) Il tuo parlar scompone
un mio pensier, che può giovarti.
Ircano.   E quale?
Sibari. Pria che sorga l’aurora, io di Tamiri
possessor ti farò.

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Ircano.   Come?

Sibari.   Al tuo cenno
su l’Eufrate non hai
navi, seguaci ed armi?
Ircano.   E ben, che giova?

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano. momenti verrò: vanne e m’attendi.

Sibari.   Vieni, ché poi sereno
     alla tua bella in seno
     ti troverá l’aurora,
     quando riporta il dí.
          Farai d’invidia allora
     impallidir gli amanti,
     e senza affanni e pianti
     tu goderai cosí. (parte)


SCENA VIII

Ircano. Oh, qual rossore avranno,

se m’arride il destino,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Ircano. Hai difensor piú degno: ecco Mirteo.

Tamiri. Prence, che rechi? È vinto (a Mirteo)
Scitalce ancor?
Mirteo.   Si vincerá, se basta
esporre a tua difesa il sangue mio.
Tamiri. Il tuo pronto desio
avrá premio da me.
Ircano.   Degno d’affetto
veramente è Mirteo; rozzo in amore
non è, come son io: ne sa gli arcani.
È sprezzato e nol cura;
è offeso e non s’adira:
con legge e con misura
or piange ed or sospira;
e pure alla sua fede
un’ombra di speranza è gran mercede.
Mirteo. Nol niego.

[p. 74 modifica]
Tamiri.   Al nuovo giorno

sará forse mio sposo: ei non invano
a mio favor s’affanna.
Ircano. Fortunato Mirteo! (Quanto s’inganna!)
          Tu sei lieto, io vivo in pene:
     ma, se nacqui sventurato,
     che farò? Soffrir conviene
     del destin la crudeltá.
          Voi godete, io del mio fato
     vado a piangere il rigore:
     cosí tutta al vostro amore
     lascerò la libertá. (parte)


SCENA IX [VIII]

Tamiri e Mirteo.

Mirteo. Felice me, se un giorno

pietosa ti vedrò!
Tamiri.   Se di Scitalce
pria non sei vincitor, tu di Tamiri
possessor non sarai.
Mirteo.   L’avrei punito,
s’ei fosse in libertá. Nino lo rese
suo prigionier.
Tamiri.   Perché?
Mirteo.   Per vendicarti.
Tamiri. Per vendicarmi! E chi richiese a lui
questa vendetta? Io voglio
che il punisca un di voi.
Mirteo.   Libero ei vada:
eccomi pronto.
Tamiri.   A me lascia la cura
della sua libertá: tu pensa al resto.
Mirteo. Ubbidirò, ma poi
stringerò la tua destra?
Tamiri.   Io mi spiegai
abbastanza con te.
Mirteo.   Sí; ma potresti
pentirti ancor.

[p. 75 modifica]
Tamiri.   (Quant’è importuno!) Ingiusto

è il tuo timore.
Mirteo.   Oh Dio!
Cosí avvezzo son io
invano a sospirar, che sempre temo.
sempre m’agita il petto...
Tamiri. Mirteo, cangia favella o cangia affetto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
mi rimproveri ognor ch’io sono ingrata.
Mirteo. Tiranna! E qual tormento
ti reco mai, se, timido e modesto,
di palesarti appena
ardisco il mio martír? Sola a sdegnarti
tu sei fra tante e tante
al sospirar d’un rispettoso amante.
          Fiumicel, che s’ode appena
     mormorar fra l’erbe e i fiori,
     mai turbar non sa l’arena,
     e alle ninfe ed ai pastori
     bell’oggetto è di piacer.
          Venticel, che appena scuote
     picciol mirto o basso alloro,
     mai non desta la tempesta;
     ma cagione è di ristoro
     allo stanco passeggier. (parte)


SCENA X

Tamiri, poi Semiramide.

Tamiri. E qual sul mio nemico

ragione ha Nino? Io chiederò... Ma viene.
Signor, perché si tiene
prigioniero Scitalce?
Semiramide.   A tuo riguardo
voglio che a’ piedi tuoi, supplice, umile,
ti chieda quell’altero
e perdono e pietá.
Tamiri.   Gran pena invero!
Eh! non basta al mio sdegno. Io vo’ che il petto

[p. 76 modifica]
esponga al nudo acciaro; io vo’ che sia

la sua vita in periglio; e se un rivale
sugli occhi miei gli trafiggesse il seno,
nel suo morir sarei contenta appieno.
Semiramide. Ah! mal conviene a tenera donzella
mostrar, fuor del costume,
di brama sí tiranna il core acceso.
Tamiri. Parli cosí, perché non sei l’offeso.
La sua morte mi giova.
Semiramide. (Lo sdegno coll’amor venga alla prova.)
Tamiri, ascolta. Alfine
ho desio d’appagarti, e, giá che vuoi
Scitalce estinto, io la tua brama adempio;
ma non chiamarmi poi barbaro ed empio.
Tamiri. Anzi giusto, anzi amico
chiamar ti deggio.
Semiramide.   In solitaria parte
farò che innanzi a te cada trafitto.
Tamiri. Sí, sí. Del tuo delitto
tardi, ingrato! da me pietá vorrai.
Semiramide. Che bel piacere avrai del nudo acciaro
vedergli al primo colpo
della morte il terror correr sul viso!
Veder piú volte invano
la prigioniera mano
sforzar le sue catene,
per dar soccorso alle squarciate vene!
Inutilmente il labbro
veder con spessi moti
tentar gli accenti; la pupilla errante
i rai cercar della smarrita luce,
e alternamente il capo,
a vacillare astretto,
or sul tergo cadergli, ed or sul petto!
Tamiri. Oh Dio!
Semiramide.   (Giá impallidisce.) Odimi: allora,
prima ch’affatto ei mora,
aprigli il sen con le tue mani istesse.
Allora...
Tamiri.   Aimè!

[p. 77 modifica]
Semiramide.   Strappagli allor quel core,

e poi...
Tamiri.   Taci una volta.
Semiramide.   (Ha vinto amore.)
Tamiri. A immagini sí fiere
oh, qual pietade ho intesa!
Semiramide. Tu parli di pietade, e sei l’offesa?
Tamiri. Troppo crudel mi vuoi.
Semiramide.   Ma che vorresti?
Tamiri. Vorrei...


SCENA XI [IX]

Sibari e detti.

Sibari.   Come imponesti,

Scitalce è qui.
Semiramide.   L’ascolterò fra poco:
di’ che m’attenda. (Sibari parte)
(a Tamiri)  E ben, risolvi: a lui
condoni il fallo?
Tamiri.   No.
Semiramide.   Dunque, s’uccida.
Tamiri. Né pur.
Semiramide.   Vedi ch’io deggio
Scitalce udir: spiegami i sensi tuoi.
Tamiri. Sí: digli...
Semiramide.   Che?
Tamiri.   Dirai... Di’ ciò che vuoi.
          Non so se sdegno sia,
     non so se sia pietá
     quella che l’alma mia
     cosí turbando va.
     Forse tu meglio assai
     l’intenderai di me.
          Pensa che odiar vorrei,
     pensa che il reo mi piace:
     de’ giorni miei la pace
     tutta confido a te. (parte)

[p. 78 modifica]


SCENA XII [X]

Semiramide, poi Scitalce senza spada.

Semiramide. S’avanzi il prigionier. Mi balza in petto

impaziente il cor: piú non poss’io
con l’idol mio dissimular l’affetto.
Scitalce. Eccomi: che si chiede? A nuovi oltraggi
vuoi forse espormi, o di mia morte è l’ora?
Semiramide. E come hai cor di tormentarmi ancora?
Deh! non fingiamo piú. Dimmi che vive
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Scitalce. So che ti spiacque,
che svaní la tua frode,
che d’un tradito amante
i numi ebber pietá.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide.   Oh crudeltate! oh pena!
          Tradita, sprezzata, (da sé)
     che piango, che parlo,
     se, pieno d’orgoglio,
     non crede al dolor?
     Che possa provarlo
     quell’anima ingrata, (a Scitalce)
     quel petto di scoglio,
     quel barbaro cor.
          Sentirsi morire
     dolente e perduta! (da sé)
     Trovarsi innocente!
     Non esser creduta!
     Chi giunge a soffrire
     tormento maggior? (parte)


SCENA XIII

Scitalce solo.

Partí l’infida, e mi lasciò nel seno

un tumulto d’affetti
fra lor nemici. Il suo dolor mi spiace,

[p. 79 modifica]
la sua colpa abborrisco, e il core intanto

di rabbia freme e di pietá sospira,
e mi si desta il pianto in mezzo all’ira.
Cosí fra i dubbi miei
son crudo a me, non son pietoso a lei.
          Passeggier, che su la sponda
     sta del naufrago naviglio,
     or al legno ed or all’onda
     fissa il guardo e gira il ciglio:
     teme il mar, teme l’arene;
     vuol gittarsi e si trattiene,
     e risolversi non sa.
          Pur la vita e lo spavento
     perde alfin nel mar turbato.
     Quel momento fortunato
     quando mai per me verrá?


ATTO TERZO

SCENA I

Campagna su le rive dell’Eufrate, con navi che sono incendiate. Mura de’ giardini reali da un lato, con cancelli aperti.

Ircano con séguito di sciti armati, parte su le navi, e parte su la riva del fiume.

Ircano. Che fa? Che tarda? Impaziente ormai

la sposa attendo. Il nuovo sol giá nasce,
e Sibari non torna. Ah! qualche inciampo
all’impresa trovò. Ma genti ascolto:
è Sibari che vien; Tamiri è mia!
Compagni, ora vi bramo
Solleciti a partir. (alle guardie sulle navi)

[p. 80 modifica]


SCENA II

Sibari con ispada nuda, e detto.

Sibari.   Signor, fuggiamo.

Ircano. E Tamiri dov’è?
Sibari.   Fuggiam, ché tutta
di grida femminili
suona la reggia, e al femminil tumulto
accorrono i custodi. Argine intanto
faran que’ pochi sciti,
che mi desti all’impresa. Ah! giá che il fato
non arrise al disegno,
due vittime togliamo al regio sdegno.
Ircano. Questa è la sposa, a cui trovarmi in braccio
dovea l’aurora? E tu senza Tamiri
a me ritorni avanti?
Sibari. Era vano arrischiarmi incontro a tanti.
Ircano. Ah, codardo! Quel sangue,
che temesti versar, sparger vogl’io.
Sibari. Qual ingiusto desio?
E pur colpa non ho...
Ircano.   Cadi trafitto!...
Sempre in te punirò qualche delitto.
  (Ircano cava la spada, e Sibari fa lo stesso, difendendosi)


SCENA III [I]

Mirteo con ispada nuda, e detti.

Mirteo. Traditori! al mio sdegno (di dentro)

non potrete involarvi. (esce Mirteo, inseguendo alcuni sciti, che si ritirano alle navi, e dopo lui escono gli assiri: tutti con armi. Sibari, veduto Mirteo, lascia l’attacco)
Sibari. Aita, o prence! A difender Tamiri
non basto incontro a lui.
Mirteo.   Barbaro scita,
fra voi con le rapine
si contrastan gli amori?

[p. 81 modifica]
Ircano.   A tuo dispetto

la sposa avrò.
Mirteo.   L’avrai! Correte, assiri:
distrugga il ferro, il fuoco
e le navi e i guerrieri.
Ircano. Ti svenerò, superbo!
Mirteo.   Invan lo speri.


(Ircano, Mirteo, Sibari si dividono combattendo: gli sciti balzano dalle navi, e siegue incendio delle dette con zuffa fra gli sciti e gli assiri; la quale terminata colla fuga de’ primi, escono di nuovo combattendo Ircano e Mirteo, e resta Ircano perditore)


Cedi il ferro, o t’uccido.
Ircano.   A me l’acciaro
non toglierai, se non rimango estinto.
Mirteo. No, no, vivrai; ma disarmato e vinto.
  (Mirteo disarma Ircano, e getta la spada)
Ircano. Crudel destino!
Mirteo.   Assiri,
al re lo scita altero
prigionier conducete.
Ircano.   Io prigioniero!
Mirteo. Sí. Fremi, traditor!
Ircano.   Di mie sventure
sará prezzo il tuo sangue.
Mirteo.   Eh! di minacce
tempo non è: grazia e pietade implora.
Ircano. Grazia e pietá! Farò tremarvi ancora.
Scoglio, avvezzo agli oltraggi
e del cielo e del mar, giammai non cede.
Impazienti al piede
gli fremon le tempeste,
i folgori sul capo, i venti intorno;
e pur, di tutti a scorno,
in mezzo a nembi procellosi e neri,
fa da lunge tremar navi e nocchieri.
          Il ciel mi vuole oppresso;
     ma su le mie ruine
     il vincitore istesso
     impallidir farò.

[p. 82 modifica]
          E se l’ingiusto fato

     vorrá ch’io cada alfine,
     cadrò, ma vendicato,
     ma solo non cadrò. (parte)


SCENA IV [II]

Mirteo, poi Sibari.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Mirteo.   Quanto ti deggio, amico!

Sibari. Il tradimento infame
chi preveder potea? Fu gran ventura
ch’io primiero ascoltassi
lo strepito dell’armi. Accorsi, e vidi
cinto da quegl’infidi
di Tamiri il soggiorno, aperto il varco
del giardino reale, Ircano armato,
disposto ogni nocchier, sciolto ogni legno.
Compreso il reo disegno,
m’inorridii, m’opposi, il brando strinsi,
pronto a ceder la vita,
ma non la preda al temerario scita.
Mirteo. Ah! prendi in questo amplesso
d’un’eterna amistá, Sibari, un pegno.
Tu mi rendi la pace; io piangerei
privo dell’idol mio.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sibari.   Non dubitarne, è desso.
Mirteo. Ah! la pugna s’affretti:
si voli a Nino, il traditor s’uccida. (in atto di partire)
Sibari. Ove, o prence, ti guida
un incauto furor? Taci, ché Nino
troppo amico è a Scitalce; e non t’avvedi
che da voi la sua cura
prigionier l’assicura? Ov’è la pena
minacciata con fasto,
per deludervi solo, al suo delitto?
Troppo credulo sei.

[p. 83 modifica]
Mirteo.   Lo veggo; e intanto

che deggio far?
Sibari.   Dissimular lo sdegno,
accertar la vendetta. Un vile acciaro
basta a compirla, e tuo rossor saria,
s’ei per tua man cadesse.
Mirteo.   Ardo di sdegno:
non soffre l’ira mia freno o ritegno.
          In braccio a mille furie
     sento che l’alma freme;
     sento che, unite insieme
     con le passate ingiurie,
     tormentano il mio cor.
          Quella l’amor sprezzato
     dentro il pensier mi desta,
     e mi rammenta questa
     l’invendicato onor. (parte)


SCENA V [III]

Sibari solo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . 

necessario si rende ogni altro eccesso.
          Quando un fallo è strada al regno,
     non produce alcun rossore:
     son del trono allo splendore
     nomi vani onore e fé.
          Se accoppiar l’incauto ingegno
     la virtú spera all’errore,
     non adempie alcun disegno,
     non è giusto, e reo non è. (parte)


SCENA VI [IV]

Semiramide, poi Mirteo.

Semiramide. Nol voglio udir: da questa reggia Ircano

. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
ogni ragione all’imeneo contese.

[p. 84 modifica]
Mirteo, dal tuo valore

riconosce Tamiri...
Mirteo.   Ove s’asconde,
che fa Scitalce? Al paragon dell’armi
perché non vien?
Semiramide.   La principessa offesa
tace, e solo Mirteo pugnar desia?
Mirteo. S’ella i suoi torti obblia,
io mi rammento i miei.
Scitalce è un traditor.
Semiramide.   (Che ascolto, oh dèi!)
Mirteo. Tu la pugna richiesta
contendermi non puoi: legge è del regno.
Al popolo, alle squadre
la chiederò, se me la nieghi; e, quando
né pur l’ottenga, a trucidar l’indegno
saprò d’un vil ministro armar la mano,
e poi non è l’Egitto assai lontano.
Semiramide. Qual impeto è mai questo? A me ti fida,
caro Mirteo: ti sono amico, e penso
al tuo riposo al par di te.
Mirteo.   Tu pensi
a difender Scitalce: egli t’è caro.
Questa è la cura tua: tutto m’è noto.
Semiramide. (Che favellar!)
Mirteo.   Risolvi, o l’ira mia
libera avvamperá.
Semiramide.   Taci: un momento
ti chiedo sol. T’appagherò. M’attendi
nelle vicine stanze, e torna intanto
a richiamar quel mansueto stile
che t’adornò finora.
Mirteo.   Indarno il chiedi.
Quand’è l’ingiuria atroce,
alma pigra allo sdegno è piú feroce. (parte)

[p. 85 modifica]


SCENA VII [IV]

Semiramide, poi Scitalce.

Semiramide. Che vuol dir quello sdegno?

Chi lo destò? Son io
forse nota al german? Scitalce è noto?
Oh Dio! Per me pavento,
tremo per lui. Che far dovrò? Consiglio
io non trovo al periglio.
Almeno in tanto affanno
ritrovassi placato il mio tiranno! (s’incontra in Scitalce)
Scitalce. Basta la mia dimora? E fin a quando
deggio un vile apparir? M’uccidi, o rendi
al braccio, al piè la libertade e l’armi.
Semiramide. Tu ancora a tormentarmi
con la sorte congiuri? Ah! siamo entrambi
in gran periglio. Io temo
che Mirteo ci conosca. Ai detti suoi,
all’insolito sdegno
quasi chiaro si scorge; e, se mai vero
fosse il sospetto, egli vorrá col sangue
punir la nostra fuga; e, quando invano
pur la tentasse, al popolo ingannato
il tumulto potria farmi palese.
Sollecito riparo
chiede la sorte mia. Pensaci, o caro.
Scitalce. Rendimi il brando, e poi
faccia il destino.
Semiramide.   Un periglioso scampo
questo saria. Ve n’è un miglior.
Scitalce.   Non voglio
da te consigli.
Semiramide.   Ascolta:
non ti sdegnare. Un imeneo potrebbe
tutto calmar. La mano
se a me tu porgi...
Scitalce. (in atto di partire)  Eh! l’ascoltarti è vano.

[p. 86 modifica]
Semiramide. Sentimi per pietá. Se mel concedi,

che mai ti può costar?
Scitalce. (partendo)  Piú che non credi.
Semiramide. Odi un momento, e poi
vanne pur, dove vuoi, libero e sciolto.
Scitalce. Via! per l’ultima volta ora t’ascolto.
Semiramide. (Quanto è crudel!) Se la tua man mi porgi,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
saran bastanti a conservarmi il trono.

Oh! sarei pur felice,
quando giungessi a terminar la vita
con l’idol mio, col mio Scitalce unita.
Che risolvi? Che dici?
Parla, ch’io giá parlai.
Scitalce.   Rendimi il brando,
s’altro a dir non ti resta.
Semiramide. Cosí rispondi? E qual favella è questa?
Meglio si spieghi il labbro,
né al mio pensiero il tuo pensier nasconda.
Scitalce. Ma che vuoi ch’io risponda?
Che brami udir? Ch’una spergiura, un’empia,
ch’una perfida sei? Che invan con questi
simulati pretesti
mi pretendi ingannar? Ch’io non ti credo?
Che, pria d’esserti sposo, esser vorrei
sempre in ira agli dèi,
dal suol sepolto, o incenerito adesso?
Lo sai, né giova il replicar l’istesso.
Semiramide. E questa è la mercede, ecc.


SCENA VIII [V]

Scitalce, poi Tamiri.

Scitalce. E può con tanto fasto

simular fedeltá? Sogno o son desto?
Io non m’inganno: è questo
pur di Sibari il foglio. «Amico Idreno,
ad altro amante in seno

[p. 87 modifica]
Semiramide tua»... Folle! a che giova

de’ suoi falli la prova
da un foglio mendicar, se agli occhi miei
scoperse il cielo i tradimenti rei?
Ah! si scacci dal petto
la tirannia d’un vergognoso affetto.
  (partendo, s’incontra in Tamiri)
Tamiri. Prence, con chi t’adiri?
Scitalce. Alfin, bella Tamiri,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Tamiri. (Nino parlò per me.) Senti, Scitalce,
s’io ti credessi appieno,
tutto mi scorderei; ma in te sospetto
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Scitalce.   No, non è vero.
Tamiri. Chi diverso ti rese?
Scitalce. Nino fu che m’accese
d’amor per te, mi liberò, mi sciolse,
mi fe’ arrossir d’ogni altro laccio antico.
Tamiri. (Quanto fa la pietá d’un vero amico!)
Finger tu puoi: nol crederò, se pria
la tua destra non stringo.
Scitalce. Ecco la destra mia: vedi se fingo.
Tamiri. Or lo sdegno detesto:
prendi... (nell’atto che vuol dargli la mano, esce Mirteo)


SCENA IX [VI]

Mirteo e detti.

Mirteo.   Che ardir! Che tradimento è questo!

Cosí vieni a pugnar? Chi ti trattiene? ecc.


SCENA X [VII]

Tamiri e Mirteo.

Tamiri. (S’impedisca il cimento,

si voli al re.) (in atto di partire)

[p. 88 modifica]
Mirteo.   Cosí mi lasci? Ascolta.

Tamiri. Perdona: un’altra volta
t’ascolterò.
Mirteo.   Dunque mi fuggi?
Tamiri.   Oh Dio!
Non ti fuggo, t’inganni.
Mirteo.   E perché mai
cosí presto involarti?
Tamiri. Mirteo, per pace tua, lasciami e parti.
Mirteo. Per pace mia, tiranna! Ad un rivale
quando porgi la mano...
Tamiri. Prence, non piú: tu mi tormenti invano.
Non poté la tua fede,
non seppe il volto tuo rendermi amante.
Adoro altro sembiante:
sai che d’altre catene ho cinto il core, ecc.

[Segue la scena XI perfettamente conforme alla VIII della redazione definitiva.]


SCENA XII [IX]

Semiramide con guardie e popolo, Sibari, poi Ircano.

Semiramide.   Fra tanti affanni miei,

     vorrei... Ma poi mi pento,
     e palpitando io vo...
Ircano. A forza io passerò! (di dentro)
Sibari.   Quai grida io sento!
Ircano. Mi si contende il varco? (alle guardie, entrando in scena)
Semiramide.   E qual ardire
qui ti trattien? Cosí partisti? Adempi
il mio cenno cosí?
Ircano.   Vo’ del cimento
trovarmi a parte anch’io; lasciar non voglio
la destra di Tamiri ad altri in pace.
Semiramide. Tu quella destra, audace,
non ricusasti? Altra ragion non hai.

[p. 89 modifica]
Ircano. La morte io ricusai,

non la sua destra. Avvelenato il nappo
Sibari aveva; io non mancai di fede.
Sibari. Mentitor, chi non vede
che m’incolpi cosí, perché Tamiri
non ti lasciai rapir? Folle vendetta,
menzogna pueril!
Ircano.   Come! (M’avvampa
di rabbia il cor.) Di rapir lei non ebbi
il consiglio da te, da te l’aita?
Tu sei...
Semiramide.   Troppo m’irríta
la tua perfidia. A contrastarti il passo
non lo vide Mirteo? Di tue menzogne
arrossisci una volta.
Ircano.   Il mio disegno
solo a punir costui...
Semiramide. Eh! taci, indegno: io te conosco e lui:
Ircano è il menzognero,
è Sibari il fedel.
Ircano.   No, non è vero:
ei sa meglio ingannarti.
Semiramide. Tu vorresti ingannarmi. O taci o parti.
Ircano.   Di rabbia, di sdegno
     mi sento morire.
     Tacere o partire!
     Partire o tacer!
          Ah! lasciami pria
     punir quell’indegno...
Semiramide. Non piú; si dia della battaglia il segno.


SCENA XIII [ultima]

Mirteo, Scitalce e detti.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide. (Spettacolo funesto agli occhi miei!)

Ircano. (Io non parlo, e m’adiro.)
(due capitani delle guardie presentano l'armi a Scitalce e a Mirteo, e si ritirano appresso i cancelli)

[p. 90 modifica]
Sibari.   (Io temo e spero.)

Semiramide. Principi, il cor guerriero
dimostraste abbastanza: ognun ravvisa
nella vostra prontezza il vostro ardire.
Ah! le contrade assire
non macchi il vostro sangue. Io so che il campo
contendervi non posso, e nol contendo;
sol coi prieghi pretendo
la tragedia impedir. Vivete, e sia
prezzo di tanto dono
la vita mia, la mia corona, il trono.
Mirteo. No, desio vendicarmi.
Scitalce. No, l’ira mi trasporta.
Mirteo.   All’armi!
Scitalce.   All’armi!
Semiramide. (Oh giusti dèi, son morta!)
  (mentre si battono, esce frettolosa Tamiri)


SCENA ULTIMA

Tamiri e detti.

Tamiri. Mirteo, Scitalce, oh Dio!

fermatevi! Che fate?
È inutile la pugna: io la richiesi,
io piú non la desio.
Mirteo.   Se a te non piace,
è necessaria a me. Vendico i miei,
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide.   Mirteo, t’inganni.
Io conosco Scitalce:
quell’Idreno non è.
Mirteo.   L’ascondi invano.
Nella reggia d’Egitto
Sibari lo conobbe; egli l’afferma.
Sibari. (Aimè!)
Scitalce.   Tu mi tradisci, (a Sibari)
perfido amico? È ver: mi finsi Idreno; (a Mirteo)
t’involai la germana.

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Mirteo.   Ove si trova

Semiramide rea? Parla, rispondi,
pria ch’io versi il tuo sangue.
Semiramide.   (Oh Dio, mi scopre!)
Scitalce. Nol so; con questa mano
il petto le passai,
e fra l’onde del Nilo io la gittai.
Tamiri. Che crudeltá!
Ircano.   Che ascolto!
Mirteo.   A tanto eccesso,
empio! giungesti?
Scitalce. In questo foglio vedi

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Mirteo. «Amico Idreno,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Vivi: ha di te pietá Sibari amico».
Semiramide. (Anima rea!)
Sibari.   (Che incontro!)
Semiramide.   E tanto ardisti,
Sibari, d’asserir? Di nuovo afferma
s’è verace quel foglio o menzognero.
Guardami!
Sibari.   (Che dirò?) Sí, tutto è vero.
Semiramide. (Oh tradimento!)
Mirteo.   Appieno,
Sibari, io non t’intendo. In questo foglio
tu, di Scitalce amico,
l’avverti d’un periglio; e poi ti sento
accusarlo, irritarmi,
perch’ei rimanga oppresso.
Come amico e nemico
di Scitalce si fa Sibari istesso?
Sibari. Allor... (Mi perdo...) Io non credea... Parlai...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Semiramide. . . . . . . . . . . . . . . . . . . 

che il tutto a me palesi.
Sibari.   In questa guisa
Nino, mi tratti? A che portarmi altrove?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
finsi per farla mia.

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Scitalce.   Numi! fingesti?

Io pur, con lei fuggendo,
vidi il rival, vidi gli armati, ecc.

[manca la «Licenza»].