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82 vi - semiramide
          E se l’ingiusto fato

     vorrá ch’io cada alfine,
     cadrò, ma vendicato,
     ma solo non cadrò. (parte)


SCENA IV [II]

Mirteo, poi Sibari.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Mirteo.   Quanto ti deggio, amico!

Sibari. Il tradimento infame
chi preveder potea? Fu gran ventura
ch’io primiero ascoltassi
lo strepito dell’armi. Accorsi, e vidi
cinto da quegl’infidi
di Tamiri il soggiorno, aperto il varco
del giardino reale, Ircano armato,
disposto ogni nocchier, sciolto ogni legno.
Compreso il reo disegno,
m’inorridii, m’opposi, il brando strinsi,
pronto a ceder la vita,
ma non la preda al temerario scita.
Mirteo. Ah! prendi in questo amplesso
d’un’eterna amistá, Sibari, un pegno.
Tu mi rendi la pace; io piangerei
privo dell’idol mio.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . 
Sibari.   Non dubitarne, è desso.
Mirteo. Ah! la pugna s’affretti:
si voli a Nino, il traditor s’uccida. (in atto di partire)
Sibari. Ove, o prence, ti guida
un incauto furor? Taci, ché Nino
troppo amico è a Scitalce; e non t’avvedi
che da voi la sua cura
prigionier l’assicura? Ov’è la pena
minacciata con fasto,
per deludervi solo, al suo delitto?
Troppo credulo sei.