Rime (Cavalcanti)/Le Rime originali ed apocrife

Le Rime originali ed apocrife

../I manoscritti delle Rime ../La genealogia dei manoscritti IncludiIntestazione 6 gennaio 2023 100% Da definire

Guido Cavalcanti - Rime (XIII secolo)
Le Rime originali ed apocrife
I manoscritti delle Rime La genealogia dei manoscritti
[p. 10 modifica]

LE RIME ORIGINALI ED APOCRIFE





Giustamente osservò nell’opera sua l’Ercole1, relativamente a molte rime attribuite al Cavalcanti, che esse devono essere ritenute come spurie, ricercando invece per altre o testimonianze esterne o ragioni intime che ne convalidassero l’autenticità. Onde io mi terrò soltanto a discutere quelle, su cui rimaneva alcun dubbio od a portare qualche nuovo argomento in aiuto a le sue asserzioni. Delle tre canzoni date da S non si può tenere alcun calcolo: di quelle date da M’e la canzone:

Virtù che ’l ciel movesti a si bel punto

si trova in Pd Lk Mq ed ha in questi due ultimi la rubrica: Chanzon morale fecie Ghuido Chavalchante da Firenze in lodando lo ’mperatore. - Osservò bene il Ronconi2 che l’invio appare posteriore di un secolo almeno.

Si deve anche tener conto che se M’a la porta insieme con la canzone; Alta virtù che si ritrasse al Cielo - nè l’una nè l’altra si riprodussero in M’b che con M’a ha tanta relazione. La canzone: Sempre a felice sua salute intende - sembra una imitazione pessima e tarda dei sentimenti del dolce stil nuovo; è di poeta che si diletta di ragionare e gode delle sue parole: questo mai fece Guido. Lo stesso Ronconi afferma riferirsi la canzone: Il moto il corso e l’opra di fortuna - a la battaglia di Monteveglio avvenuta il 15 novembre 1325 ed a la prigionia di messer Malatestino nel castello di messer Passerino, signore di Mantova3: e con lui pure io credo che il Malatesta, a cui è indirizzata la [p. 11 modifica]canz.: E s’el non fosse il poco meno e il presso — non sia, come l’Ercole stima, M. Malatesta figlio di Pandolfo, ma Ferrante di Malatesti d’Urbino che nel febbraio del 1324 condusse la taglia di Toscana contro gli aretini4: trattasi in ogni modo sempre di personaggio del secolo XIV. La canz.: L’ardente fiamma della fiera peste — è tutta un arzigogolo sopra due potenze nemiche che tolgono la deliziosa vita, ed una preghiera ad una dolce figura

che mossa da virtù mi sarà forte
d’umana vita o di compiuta morte.

Nella canz.: Cotanto è da pregiar ogni figura - si avrebbe la preoccupazione di un erroneo antropomorfismo d’amore, chè il poeta rimprovera «certa grossa gente» che

amor fa cieco andar per lo suo regno
narrando che ’l conduce vita umana.

Dante nella «Vita nova» ricorda il rimprovero delle «persone grosse» ai simboli e sostiene essere lecito ai poeti far parlare le cose inanimate e gli accidenti «come fossono sustantìe»; pur che poi il simbolo possa essere risolto. Alcuni non sanno far ciò e: - questo primo mio amico ed io ne sapemo ben di quegli che così rimano stoltamente. - Ora come Dante avrebbe citato il nome del Cavalcanti a questo proposito se questi avesse scritto:

Cotanto è da pregiar ogni figura
quant’ella mostra in forma ed anco in atti,
pura sembianza del suo naturale. -?

Veniamo quindi, escludendo tutta questa serie di canzoni necessariamente apocrife, a le due ballate:

Io vidi donne con la donna mia,....
Sol per pietà ti prego giovinezza.....

su cui l’Ercole aveva lasciato alcun dubbio, e prendiamo ad esaminare la seconda. Ad ambedue Ca dà la rubrica: - Guido Cavalcanti et Jacopo - e la seconda si trova pure in Ra, Ashb. 763, Bart. (M’c. UBb. Nap. Cors. Berg.) Cb. Le. Pa. L’esame di questi codici fa che si unisca Pa come dipendente da Le, il quale a sua volta discende da una fonte parallela a Ca, onde la sua attribuzione della ballata a Guido, dipendente forse da una eguale attribuzione della sua fonte o, più probabilmente, da l’opinione che ne ebbe il raccoglitore, Lorenzo il Magnifico. Cb contiene la ballata nella sua seconda parte, la quale mostra di discendere pure dal gruppo parallelo ad Lc, con il quale o si unisce [p. 12 modifica]completamente o rivela fonti affini, pure parallele a Ca. Ricordano il testo del Bembo o Brevio tanto Ra, di cui è parallelo Ashb. 763, quanto Bart, il quale ha la rubrica - dal testo del Brevio, che non è data da Ra. Basti precisare al nostro scopo che ambedue questi codici sono sempre in relazione con i gruppi discendenti da Ca, perchè questa ballata è contenuta da Ra in quella sua parte comune con Bart, che è sempre in relazione con Ca; e Bart5, appare sempre corretto su Ca da lezioni parallele al gruppo di Lc e simili: il chè avviene anche in questa ballata. Resta quindi autorità originaria Ca con il dubbio della sua rubrica doppia. L’Ercole lanciò l’ipotesi che il menante di Ca trovandosi dinanzi a rime di Jacopo fra le rime di Guido le ommettesse stimandole indegne: perchè allora le avrebbe trascritte in altro luogo del codice6? Esaminiamo invece queste rime del fratello di Guido e cerchiamo se vi sia relazione alcuna in esse con questa ballata7. Una relazione di rime è con il sonetto che sta a f.º 84b;

Ballata:


cagla, battagla, tagla, vaghi, scagla, sagla,

Sonetto:


valgla, chalgla, talgla

e ciò non è senza importanza, specialmente trattandosi di poeta non sovrano, al quale dovevano con ogni probabilità ricorrere a la mente le stesse rime con perennità monotona. Si noti ancora:

Ballata:

Tu vedi ben che l’aspra conditione
ne i colpi di colei ch’à in odio vita
mi stringe in parte ov’umiltà si spone.

[p. 13 modifica]

Sonetto:

...che ’n forza tutta se’ di crudeltate
e tua dolceza non credo che vi vaglia
ch’i’ veggio ch’è sbandita umiltate.

Ben di raro nelle rime di Guido manca ogni speranza di mercede e la donna sua, pur essendo disdegnosa, mai è priva di quella umiltà dolcissima, che invece manca sempre nelle rime di Jacopo: la disperazione del disinganno e della crudeltà femminile pervadono la ballata come i tre sonetti riportati dal codice Chigiano.

L’altra ballata è nei codici Ca. Lc. Pa. Cb. e nella edizione Giuntina del 1527. Cb l’ha nella sua prima parte che è discendente da la Giuntina. Resta quindi a discutere l’origine di questa, la quale origine si ritrova in Lc o in un parallelo di Lc. Può sorgere un dubbio: - Perchè Giunt. diede al Cavalcanti questa ballata e non la precedente che pur trovavasi in Lc? e perchè essa non è data dai codici ricordanti il Bembo o Brevio? - Notiamo ch’essa si trovava nel Libro Reale8 secondo la tavola del Colocci dataci dal Monaci9 e vi si trovava con altre rime di Guido in questo ordine:

L. Reale - 1. 2. Io vidi. 3. 4. 5. 6. 7. 8 - Canzoni 9. 10. 11.
Cap2 - La 7. 8. 6 - Canzoni 9. 10. 11. 4. 5. 3. -. -. 2.
Lc - 7. 8. 6 - Canzoni 9. 10. 11. 4. 5. 3. -. Io vidi. Sol per pietà. - 2.
Ca - 7. 8. 6 - Canzoni 9. 10. 11. 4. 5. 3. -. Io vidi. Sol per pietà. -. 1. 2.

Si ha quindi una relazione continua. L’importanza che sempre fu data al L. Reale dimostra quanto esso fosse stimato e quanto diritto abbia a la nostra fiducia. Lo ebbe il Bembo10, che ebbe pure Va e fu forse dal confronto dei due codici che egli trasse l’esclusione della canzone filosofica. Forse dal L. Reale trasse la ballata anche la Giuntina. Quanto ai Bartoliniani, uniti ad un’origine simile a Ca, si può credere che anche Ca fosse noto al Bembo, onde la incertezza, per cui egli pensò di escludere ambedue le ballate; rimanendo invece in Bart. ed Ra la prima come proveniente dal Brevio: il che si desume da la rubrica di Bart. Resta ora a dilucidare la rubrica di Ca, dato che nella ballata11 nulla vi [p. 14 modifica]è, che non possa essere opera di Guido, nè essa ha alcuna relazione con le rime di Jacopo; anzi a me pare conservi quella vaghezza quasi imprecisa di amoroso sentire che è tutta propria dei migliori poeti dell’età. La prima strofa rappresenta quel concetto di sovranità eccellente, che Guido e Dante ebbero delle lor donne e corrisponde del tutto al:

Poi che di tutte sete la migliore

che il Cavalcanti scrive pure parlando delle donne circondanti la donna amata. Questa diversità di carattere artistico fra le due ballate dovrebbe trarre a la supposizione che la confusione dei nomi fosse colpa del menante di Ca, come fece l’Ercole con una ipotesi ch’io credo insostenibile e fece l’Arnone che volle leggere o per et senza alcuna giustificazione ed il Monaci approvato dal Salvadori che ridusse l’et ad un a, totalmente smentito dal contenuto della ballata; il fratello non c’entra per niente. Io credo invece che in un codice primitivo, da cui Ca tolse le due ballate, la rubrica fosse in testa a le due composizioni riunite intendendosi che la prima era di Guido e la seconda di Jacopo; il menante di Ca per maggior diligenza poco intelligente ripetè la rubrica in principio di ognuna delle ballate. La prima quindi io ritengo di Guido e la seconda escludo come appartenente a Jacopo, tratto a questa conclusione, oltre che da l’esame estetico, da l’autorità del Libro Reale, confermata da la Giuntina che forse la prese da altra fonte, i quali due testimoni assicurano la autenticità della ballata:

Io vidi donne con la donna mia...

in confronto dell’altra, ch’essi non annoverano fra le rime di Guido.

Nei due codd. M’a M’b trovasi una serie di quattordici sonetti12, tra i quali due da molti altri codici attribuiti a Guido, che seguono le rime portanti il nome del nostro. Il copista di M’b sembra aver fatto opera di selezione in confronto di M’a, poichè omise tutte le canzoni dimostrate apocrife e si riprese ai sonetti e continuò la serie degli adespoti fino a tutto il 7° oltre il frammento iniziale: poi troncò la trascrizione là dove M’a portava la rubrica: Guido Cavalcanti a Dante — I sonetti presentano una forma rammodernata, sotto la quale [p. 15 modifica]mal si nasconde un tipo arcaico di poesia, tale da doversi riportare piuttosto più indietro che dopo il Cavalcanti. Del solo sonetto:

troviamo ricordo in Ca che lo attribuisce a Dante, presentandone una lezione che è prova degli svarioni della lezione di M’a13.

A Dante lo attribuisce anche il codice Bologna14. Un altro di questi sonetti pure adespoto fu scoperto dal prof. Flaminio Pellegrini tra i frammenti di un canzoniere ignoto del sec. XIV15. L’antichità quindi di alcuno fra questi sonetti è fuor di dubbio. Il sonetto scoperto dal Pellegrini appare tosto incompatibile con l’arte squisita del Cavalcanti: è l’ammonizione ad una gentil donna: — Voi mi amate ed io vi amo: perchè non ci mettiamo d’accordo?16 — Questa è l’unica idea diluita in quattordici versi. Il sonetto primo della serie è in aperta contraddizione17 con quel che Guido soavemente scriveva nel sonetto a Dante per il sogno:

sì va soave per sonni a la gente
che ’cor ne porta sanza far dolore.

[p. 16 modifica]ed ha tre volte la ripetizione, iniziale nei versi, di un: — cosi mi... — che è retorica ed insignificante ed un verso:

che ’n fra le braccia me’ vi posso avere...

ruvida rivelazione amorosa poco adatta a la squisitezza di Guido quando pur anche canta il desiderio della sua umana sensualità. Alcuni quindi di questi sonetti sono evidentemente spurii e quì già sono adespoti, mentre nessun altro codice li attribuisce a Guido, ed abbondano tutti di imagini, in cui si stempera un unico concetto, ed il 9 ha tutte le rime ripetute18 ed il 2° parla dell’orgoglianza della donna non relativa a l’umiltà della donna di Guido e nel 12° l’imagine di una tigre ricorda la serie di sonetti di Chiaro Davanzati. Tutte queste incoerenze con l’arte di Guido, unendosi al fatto che pure il menante di M’a premise la rubrica soltanto ai due sonetti veramente autentici, vogliono che criticamente i sonetti sieno lasciati come apocrifi. Ne daremo però la copia in appendice per raddrizzare la errata lezione che ne trasse l’Arnone.

Il sonetto a Guittone d’Arezzo, attribuito al Cavalcanti da Ca e Bart, io credo si debba escludere, oltre che per le ragioni addotte da l’Ercole, anche per il fatto, ch’esso non si trova in Ra, che rappresenta la revisione del Borghini per le stampe di rime inedite derivanti da Ashb. 479 e da un codice x Bartoliniano19.

Il sonetto — Poi ch’aggio udito dir dell’om selvaggio — dato da Ca a l’Orlandi e da Va, UBa a Guido Cavalcanti, pure sembra doversi attribuire al primo20. Si noti che più spesso abbiamo rubriche errate in Va che in Ca, il quale serve anzi a correggere gli errori di attribuzione di Va anche nella ballata:

e nei sonetti:

nei quali due ultimi la lezione di Va concorda quasi del tutto con quella di Ca, onde sembrano non provenire da varia fonte. Tutti gli altri codici appoggiano la attribuzione di Ca. Il sonetto in questione ha, oltre ad una remissività pacifica non conforme a l’anima del Cavalcanti, le due prime quartine sostenute sopra [p. 17 modifica]un paragone, segno evidente di difficoltà di inspirazione poetica, segno che non lo slancio lirico, nascendo dal core e salendo al cervello del poeta, lo traeva a poetare il suo sentimento, ma che invece il rimatore meditava più che sentisse, cercava paragoni e li scioglieva e li manifestava ancor di nuovo ampliandoli.

Non così fa Guido: ogni sua rima s’apre quasi rudemente, esprimendo senza indugi la passione che lo move, onde tutte le cose sue hanno quella tinta assolutamente speciale e sono un po’ rozze forse, ma sincere: sono rime di necessità. E la fine?21 La tempesta era troppa nell’anima di Guido sempre, perchè egli sperasse nella tranquillità. A qual porto mai potè egli ridursi nell’imperversare dell’uragano? come poteva sfuggire se l’uragano era tutto nella sua anima? Non credo di dover accettare il sonetto.

Così giungiamo a l’argomento più importante, che riguarda i sessanta uno sonetti dati dal Vat. 3793. L’Ercole se ne occupò in un’Appendice al suo volume, mossovi da la prima ipotesi lanciata da G. Salvadori in un articolo genialissimo22, e li escluse per ragioni ch’egli ricercò nel fatto d’esser tutti i sonetti adespoti e nel valore estetico delle rime. Confutò le sue ragioni il Salvadori istesso23, raffermando la sua opinione che i sonetti si dovessero attribuire al Cavalcanti. L’argomento maggiore ch’egli addusse fu quello che il sonetto:

Morte gentil rimedio de cattivi

contenuto fra questi è pure dato al Cavalcanti da tutti gli altri cdd. che lo portano e, formando i sonetti qui una serie unita e quasi un trattato, o si deve escludere anche quello o si devono accettare tutti. Ciò aveva avvertito e dimostrato anche il Casini24. Se infatti vi si possono internamente, da un sonetto a l’altro, notare alcuni sbalzi, questi sembrano essere stati voluti da l’intenzione del[p. 18 modifica]l’autore, dato che tali variazioni sono contenute come in una cornice tra l’ultimo sonetto:

Però ch’i’ ò temenza di fallare
s’andasse più innanzi maggiormente
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
E voglio umil pregar la cortesia
di voi che m’abbia in ciò per iscusato
ch’i’ pur mostrato v’ò di mio savere...

ed i primi, in cui l’autore si dispone a trattare e si scusa se vi si conterrà alcuna cosa

                           ..... contra onore
la qual per vizio sia del dicitore...

Siamo dunque dinanzi a l’introduzione ed al commiato di una vera trattazione. La stessa mano trascrisse tutti questi sonetti con ogni cura ed il menante appare dotato di una diligenza, che dovrebbe essere esclusa assolutamente quando si ammettesse che il sonetto d’invocazione a la morte fosse stato indebitamente intercluso a far parte di questo trattato. Pur l’altra ipotesi, che il compositore del trattato si appropriasse un sonetto del Cavalcanti per unirlo ai suoi, sarebbe ben strana, poi che egli mostra qualità veramente ottime di poeta anche in molti degli altri sonetti, e non verisimilmente sarebbe quindi andato a mendicare un sonetto di altro autore a complemento dei suoi.

Si potrebbe ammettere invece che l’attribuzione al Cavalcanti del sonetto, che fu disperso dal trattato, sia un errore degli altri codici, che lo contengono, cioè Pf. Ca. La. Lb. Lc. M’f. UBb. M’c. Berg. Cors. Nap. Pa. Ra. Rc. C. Cb. Ma. Di questi non hanno valore originale che i primi due, perchè Bart, (M’c. UBb. Berg. Cors. Nap.) con Lc. Pa. La. Lb. sono discendenti dal gruppo di Ca; Bart ha relazioni di origine con Ra; Ma discende da Lb; Cb non ha valore di fonte e C. M’f. Re, più uniti fra di loro, pure hanno affinità con le discendenze degli altri gruppi e di Ca. Restano quindi in campo Pf. Ca. ed il Vat. 3793 (Vd) che lo porta adesposto.

Le condizioni di Pf ci attestano che questo sonetto andava sperduto qua e là, tanto che il menante di Pf lo mise fra altre rime adespote che furono riconosciute del Petrarca dal postillatore più recente, il quale pure specificò con la rubrica essere questo sonetto di Guido. Il trascrittore primo quindi merita poco la nostra fiducia per questo, oltre che per i mutamenti continui ed arbitrari nella lezione; chè il sonetto non può riportarsi nè al Petrarca nè al tempo del Petrarca e per le ragioni estetiche che stanno nella sua essenza e per l’incompatibilità fra questa ipotesi ed il trovarsi esso in una raccolta non certo posteriore al 1300 o meglio ancora anteriore di qualche anno,25 quale è Vd. [p. 19 modifica]

L’altro codice importante, che dà il nome del Cavalcanti, Ca, è codice di grande autorità, nè alcun dubbio venne mai ai ricopiatori posteriori, nè al Bembo o Brevio ricordati nel Bartoliniano, nè a Lorenzo de’ Medici, ammiratore così studioso dell’opera del Cavalcanti. Se non il Magnifico, certo il Bembo26 conobbe anche il codice vaticano, onde si dovrebbe credere che egli o non si accorse che i sessantuno sonetti formavano un tutto solo o non trovò necessario distinguere l’uno dagli altri. Pur volendo mettere in dubbio l’autorità non piccola di Ca, si dovrebbe cercare conferma al dubbio nel valore estetico ed artistico del componimento, il quale al contrario ne dà una completa smentita.

L’età di Guido va dal Guinicelli, che segna il passaggio da la prima forma toscana a la forma rinnovata dello stil novo, a Cino da Pistoia, anello di congiunzione fra la psicologia quasi esterna nell’ideale dei primi poeti nuovi e la psicologia intimamente realistica del Petrarca. Cino rappresenta già il drama intimo psicologico.

In questo sonetto, pur così tragico, il poeta non istudia veramente il suo dolore, ma lo osserva come riflesso in uno specchio: il suo sguardo non scruta nell’anima, non vi si sprofonda, ma inalza l’anima a l’altezza degli occhi per poterla ben vedere; onde viene la conseguenza che quest’anima dolorosa si mantiene nel contatto con tutte le cose esterne e non si racchiude, nel momento della commozione, in sè stessa. La realtà psicologica quindi non aveva ancora pervaso la poesia quando il sonetto fu scritto, sì che l’esame estetico non convalida che l’attestazione di Vd, che lo porta nelle sue rime, trascritte certo non oltre l’ultima produzione poetica di Guido. Più indietro d’altra parte non si può riportarlo, chè, se pure il Guinicelli è maestro ai poeti novi per la teorica amorosa e per la ingenua semplicità dell’arte sua, nè egli nè i contemporanei suoi arrivarono mai ad una simile espressione tragica di vero dolore. Si può vedere anche che Ca27 non è veramente origine ai gruppi affini — Mf. C. Rc. — La. Lb. Ma. — Lc. Giunt. Cb. Pa, come non è origine a la tradizione Bart-Ra: ma ha origini non dissimili del tutto, sebbene le varianti che stringono insieme questi gruppi attestino dei generatori lievemente dissimili da Ca. E poichè Ca non è nè pur molto diverso da Vd potremmo anche ammettere, nei vari generatori dei gruppi secondari, non discendenze dirette da Ca, ma da fonti esterne a Ca, parallele a Vd, che è senza alcun dubbio il più puro: onde si avrebbe anche in codici di relazione con Vd l’attribuzione del sonetto al Cavalcanti. Senza insistere più oltre mi pare si possa stabilire che criticamente non è possibile [p. 20 modifica]togliere al Cavalcanti il sonetto: — Morte gentil remedio de’ cattivi — il quale in Vd fa parte di una serie di sonetti, che formano un tutto solo, il quale non può essere opera di scrittore mediocre per le sue non scarse qualità poetiche. Ammettiamo però ancora per un istante che il trattato non sia opera del Cavalcanti: ossia che possa essere opera di altro poeta, che viva a Firenze28 fra l’arte del Guinicelli e quella di Cino ed abbia alte qualità poetiche.

Dovendo escludere Dante, perchè questo trattato non può essere nè contemporaneo nè antecedente nè posteriore a la «Vita Nova», non restano che o l’Orlandi o l’Alfani o Lapo Gianni. L’Orlandi ha una maniera tutta diversa di poetare e non si sarebbe rivolto al Cavalcanti chiedendo:

Onde si move e donde nasce amore?

se egli stesso fosse stato autore di un trattato di ben servire. Come avrebbe egli, trattatista amoroso, detto al poeta più giovane:

chi ’l serve dee saver di sua natura:
io ne domando voi, Guido, di lui:
odo che molto usate in la sua corte.

nelle quali parole non è la minima ironia?29 E Gianni Alfani pure:

poi fa sì ch’entri nella mente a Guido
perch’egli è sol colui che vede amore 30.

Di Lapo Gianni non abbiamo alcun sonetto che porti il suo nome e, sebbene piccole simiglianze sieno a suo favore31, sembra strano ch’egli non [p. 21 modifica]avesse altri sonetti, se non questa produzione molteplice ed isolata. Nè si può dire che ciò provenne dal fatto ch’egli eccelleva per ballate e canzoni e queste sole vennero riprodotte nei codici, chè così avrebbe dovuto avvenire pur del Cavalcanti, il quale toccò il suo massimo valore nelle ballate per forza di poesia e nella canzone filosofica per potenza dialettica e del quale alcuni codici riportano bensì rime soltanto delle più stimate, ma molti altri anche le meno valorose, fra cui molti sonetti. Esaminiamo quindi, esclusi gli altri, le ragioni che possono essere in favore del Cavalcanti, del quale la tendenza a trattare questioni filosofiche d’amore è provata da varie32 testimonianze oltre che da la celebre canzone e dai versi citati dell’Orlandi e dell’Alfani.

Nella storia dello stil novo vi è un lento passare da la prima e fredda convenzione d’amore al sentimento potente e soave dei poeti rinnovati. Questo passaggio si forma attraverso una trattazione filosofica e scolastica del sentimento d’amore. I primi poeti avevano detto che cosa l’amore fosse: il Guinicelli aveva detto dove esso si manifestava; Dante e Cino cantano invece il loro amore vigorosamente: il Cavalcanti, fra questi, lo trattò più freddamente prima e lo sentì fortemente, egli pure, più tardi, come appare da l’opera sua se si move da la canzone filosofica e si giunge a le ballate degli ultimi anni: in lui è un continuo mutare fra l’espressione filosofica e la espressione del sentimento veramente sentito. Ciò premesso, osserviamo i sonetti.

Nel primo l’Ercole trova un confronto:

I’ prego quel nel cui cospetto vene

con il dantesco

nel cui cospetto vene il dir presente

(Vita Nova, III).

e ne trae la conclusione che si tratti di un imitatore, che abbia rubacchiato qua e là versi ed espressioni di poeti famosi della scuola nuova. È un argomento che non regge, poi che fra le imitazioni ve ne sarebbero alcune relative a versi dell’Inferno dantesco33 e ad un sonetto certo non giovanile del Cavalcanti34; quindi [p. 22 modifica]l’imitatore sarebbe dei tempi posteriori al principio del 1300, il che sarebbe incompatibile con l’età del codice vaticano. L’argomento anzi si ritorce, non potendosi credere che le imitazioni, che sarebbero quindi a carico di Dante e di Guido, sieno state tratte se non da un poeta che Dante molto apprezzasse come Guido era veramente, unico fra i poeti che lo precedettero.

Sonetto II.

Se unqua fu neun che di servire
acconcio fosse ben lo suo volere
a ciaschedun secondo ’l su’ volere,
sì son io un di que’ che v’à ’l disire;
e ch’amerei innanzi di morire
che di no dir, faciendone spiacere
di cosa, in ch’io potesse mantenere
l’amico a me senza farlo partire.

le quali parole appare tosto dover esser poste a confronto con quelle del Boccaccio su Guido: » ... et a chiedere a lingua sapeva onorare chiunque nell’animo capeva che il valesse35».

Sonetto III.

Perfetto onore, quanto al mi parere,
non puote avere chi non è soffrente......

che si può raffrontare con la stessa espressione del Cavalcanti36:

se la soffrenza lo servente aiuta
può di leggier conoscer nostro stile...

Qui parrebbe primieramente apparire questo sentimento della sofferenza amorosa propria del perfetto onore. Questo sonetto, che è a rime interne, diede occasione a l’Ercole di osservare che mai Guido portava simili metri nei sonetti. Nè pure gli altri del suo tempo ne fecero uso mai; un esempio isolato è in un sonetto del Guinicelli, che ha le rime interne nelle terzine37; il che riporta quest’uso ai tempi antecedenti un poco ai giorni del fiorire completo della scuola dello stil novo, ai tempi cioè della giovinezza di Guido Cavalcanti. Del resto se [p. 23 modifica]non ne usò il Cavalcanti nei sonetti riconosciuti per suoi, ne usò invece, a differenza degli altri, nelle ballate e nelle canzoni e senza economia38.

Sonetto V.

Da le testimonianze di tutti i biografi Guido è rappresentato come uomo inquieto, insofferente di indugi e ciò appare anche da le azioni tutte della sua vita. Si cfr.:

ma tutta volta ci è men tormentato
quei che si sape acconcio comportare,
ciò che ne lo sperare altrui avene:
non dich’io questo già cierto per mene,
che ’n nessun tempo l’ò saputo fare
e, s’or l’aprendo, l’ò car comperato.

Sonetto VI.

ma tegno amor che val sovr’ogne cosa
quel ch’ama il corpo e l’alma per iguale,

il quale equilibrio amoroso di uomo sereno e forte, male interpetrato dai contemporanei dialettici e freddi, forse ha qualche relazione con l’accusa lanciata da l’Orlandi al Cavalcanti:

Io per lung’uso disusai lo primo
amor carnale: non tangio nel limo.

e faceva sì ch’egli cantasse a quando anche i suoi desideri meno puri e più umani come nella ballata:

In un boschetto trovai pasturella.

[p. 24 modifica]

Sonetto XII.

Bench’i’ ne sia alquanto intralasciato ....


Il poeta dunque non tenne sempre continua la sua opera, ma vi attendeva a sbalzi: ciò verrebbe a schiarire l’apparente mancanza di continuità che è fra alcuni sonetti ed a provare maggiormente che l’esordio e la chiusa li racchiudono tutti insieme, anche se fra essi dura qualche distanza. Così qui in seguito a due sonetti di lode a la donna sua egli si rammenta:

Sonetto XIV.

I’ sono alcuna volta domandato:
risponder mi convene che è amore . . . . .

Questi sonetti vari e racchiusi in un tutto solo riescono così a dare l’impressione di un trattato non totalmente scolastico, ma intramezzato di esempi lirici, quasi fatto più vivo da un certo movimento dramatico. Ciò sarebbe in relazione con l’ipotesi che questa sia un’opera giovenile, scritta cioè da un poeta in quella età, in cui la mente fantastica non rimane stretta a la disciplina della discussione fredda, ma la anima spesso di sentimenti propri od osservati in altrui: spesso l’impeto lirico soverchia il lento andare filosofico e didattico. A la domanda: — che è amore? — il trattatista risponde:

Amore è un solicito pensero
continuato sovra alcun piacere
che l’occhio à rimirato volontero,
sì che imaginando quel vedere
nasc’indi amor ched è signore altero
nel cor ch’ò detto, ch’à gientil volere.

Queste discussioni d’amore erano comunissime. Ne aveva trattato il Guinicelli, ancor prima di stabilire la gentilezza delle anime amorose39 ed avevano contrastato Chiaro Davanzati e fra Pacino di ser Filippo per istabilire se amore è dio40. Fra Guittone pure ne aveva detto l’origine41 e l’aveva definito con [p. 25 modifica]precisione m.º Francesco42. Il trattatista va più innanzi di tutti questi. Dice m.º Francesco: «L’amore è il pensiero continuo di una bella cosa veduta»: il trattatista dice: «L’amore è la riproduzione del pensiero della cosa veduta e desiata; ma esso poi scende da la mente al cuore che è gentile».

È questa la sintesi del pensiero della prima scuola toscana e del pensiero del Guinicelli, onde si viene a la scuola del dolce stil novo. Ma l’imitazione chiara da m.º Francesco e lo stile arcaico riportano questa definizione a le prime origini della scuola nuova, al tempo cioè della giovinezza di Guido. Si confronti ora con questo i brani della canzone filosofica del Cavalcanti:

In quella parte dove sta memora
prende suo stato . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ven da veduta forma che s’intende,
che prende nel possibile intelletto,
come in subbietto, loco e dimoranza.

e più innanzi:

Discerne male in cui è vizio amico.....

ed anche:

. . . . . . . . ancor di lui vedrai
che ’n gente di valor lo più si trova.....

il che va pur confrontato con il sonetto VI del trattato:

non tegno amor già quel che fina male;
ma volontà villana ed innoiosa
per sol seguire al vizio naturale.

Sonetto XV.

Gli otto comandamenti che vi si espongono43 sono uguali a quelli dati da Guglielmo di Lorris ad esempio dei tredici di Andrea Cappellano, mancando [p. 26 modifica]quelli riguardanti l’amore illegittimo e sensuale e con l’aggiunta di uno: «Sii ardito» e due sostituzioni: «Non amar donna altrui: osserva religione». Il ricordo di Andrea Cappellano richiama a la mente il mottetto di Guido:

ed Andrea co’ l’arco in mano
co’ gli strali e co’ moschetti...

che ci prova essere stato quel libro amoroso noto al nostro poeta.

Nei sonetti XVI e XVII il trattatista dimentica di essere tale e, poichè è anche amoroso, invia due sonetti, il primo sconfortato, gioioso il secondo, a la sua donna che, pria divenuta pallida, aveva riacquistato il suo lieto colore44. Il movimento dramatico così comincia. La donna risponde (son. XVIII) e questa mossa dramatica non è certo contraria a la maniera poetica del Cavalcanti, il quale dava pure facilmente simili movimenti a le sue ballate. Vari esempi anche dianzi si erano avuti di tal genere: Guittone aveva in una serie di sonetti raccontato una sua storia d’amore inframettendovi le tenzoni; ma qui si ha un progresso d’arte, qui il contrasto è ben lontano da la rozza sensualità dei contrasti primitivi, è squisitamente psicologico e ben differente tanto dal contrasto feroce di fra Guittone, quanto da i contrasti artificiosi di Chiaro Davanzati. Il poeta non grida, non si lagna (son. XIX), quasi ragiona a la sua donna e, per l’opinione avversa di un frate (son. XX), fa che la donna chiami l’amore: «mala via di vanitate45». Ma la donna è incerta e quasi proclive a l’amore ed egli ribatte per convincerla (son. XXI). Indi s’adira e la donna sconfortata (son. XXII) prega e si scusa (son. XXIII): mentre per il disaccordo da ciò avvenuto, l’amante si rivolge ad altra donna (son. XXIV-XXV), perchè metta i suoi buoni uffici presso di lei per ottenere la pace. Tutto ciò ha una espressione calda di verità e mostra pregi ben superiori a quelli delle solite tenzoni convenzionali.

Sonetto XXVII.

Vi si può osservare la forma mirabile, con cui il ragionamento è espresso poeticamente:

chè chi ha colpa de’ tutte fiate,
secondo la ragion, pena portare
di ciò che indi nasce.....

[p. 27 modifica]

Sonetto XXVIII.

Tutto questo sonetto dipinge interamente una lotta psicologica, espressa con rara forza e semplicità: «Quando io mi voglio ridurre a la ragione, frenando il desiderio e non seguendo quel talento che guida tutto a perdizione, penso che è meglio riposare e cercare via di salvezza che pensare d’aver cuore di leone: pure il vano pensiero mostra come amorose quelle cose contro ragione che non dovrebbero essere proprie del dritto cuore». Questa stessa lotta intima appare nella tradizione, che dell’ingegno del Cavalcanti ci diedero i cronisti più vicini al suo tempo46 e richiama l’imagine di Guido, che dettava le ballate dolcissime e scagliava il quadrello contro Corso Donati.

Il poeta vuol tosto dare i suoi migliori consigli ad un amico imaginario, i quali involontariamente invece dirige a sè stesso: il soggettivismo vi trapela perennemente:

. . . . . ti piaccia ricever in grato
in questa vita quanto ch’aportato
ti fia o di sollazzo o di rancura
e di te metter tutto alla ventura
ben operando tuttor dal tu’ lato.

e più innanzi:

quegli altri grandi, perdio, lascia gire,
chè sempre vedi li maggio talenti
movere da superbia e d’arrigoglio.

E questo in contraddizione con la superbia tradizionale di Guido? Egli stesso disse che lo vano pensiero

lo più vil ne mostra che sia vago.

È quindi la sproporzione nel poeta fra la vita e la morale teorica, che si perpetua anche nel sonetto seguente, pregno di una scienza di vita placida e virtuosa: sproporzione ch’era sempre tra i canti molli ed amorosi e la vita sanguigna ed agitata dell’età. In questi sonetti (XXIX-XXX-XXXI) l’indirizzo a l’amico parrebbe stabilire un dialogo di consigli amichevoli. Il trattatista comincia:

Per questo, amico, ch’io t’agio mostrato etc.

[p. 28 modifica]e l’altro continuerebbe il consiglio:

Noi semo in un cammino e doven gire
in uno loco, amico, di ragione etc.

ed il primo riprendendo:

Grazie ti rendo, amico, a mio podere
della tua saggia e dritta canoscenza etc.

chiude il suo dire con un’allusione a l’amore. Ma il poeta (son. XXXII) vorrebbe staccarsi da quest’amore che addolora e vi rimane soltanto

sì come folle che vi sono usato.

Il drama intimo s’accentua: il poeta chiama amore quasi il tormento interno che esce da la contraddizione perenne, ch’egli non sa vedere in sè stesso e di cui pure rappresenta con tanta forza i fenomeni. Ma la gente, che non sa, guarda a lui meditante e doloroso e sospetta (son. XXXIII):

Alcuna giente, part’io mi dimoro
fra me medesmo lo giorno pensoso,
si traggie in ver lo loco ov’i’ mi poso,
dicendo che mal fo che mi divoro.

— De, be’ signori - dich’io allor con loro —
credete voi che lo star doloroso
mi piaccia? Non; ma ne lo core inchioso
mi sento il male, ond’ie languendo moro.

E ciò mi face amor sol perch’ie l’amo
e stato sempre son su’ servidore;
e voi vedete il merito ch’i’ n’aggio. —

Così diciendo fo mutar coraggio
a ciaschedun ched è riprenditore
de lo penser ch’i’ fo co’ stato gramo.

Qui a mio vedere la figura di Guido risalta tutta mirabilmente nella sua vera luce: è la rievocazione, fatta dal giovane sincero e forte, della sua giovinezza pensierosa; il poeta fissa, con le sue parole, il sentimento che di lui avranno tutti i biografi che fecero parte anche di quella gente che lo guardava sospettosa, da Dino [p. 29 modifica]Compagni47 al Boccaccio48, al Sacchetti49, a Filippo Villani50. Indi egli insiste nuovamente nello stesso concetto delle altrui accuse e della sua giustificazione (son. XXXIV) ed afferma essere la sua pena un vero dolore amoroso:

ed or mi veggio senza colpa dare
villan commiato a mi’ gran disinore.

Anche la speranza, anche la buona fede che gli conservava lo sperare l’ha abbandonato: la tristezza della vita lo incalza e lo affatica ed egli detta il sonetto doloroso:

Morte gentil, remedio de’ cattivi....

che darebbe prova che l’invocazione mistica a la morte aveva origine nella tristezza stessa della vita di quel tempo, la quale dava ad ogni istante la sua crudele smentita a le pure teoriche della filosofia.

Ma l’amante tanto doloroso aspetta ancòra di ritornare «di gioi’ nel palagio» (son. XXXVII) e non troverà pace ove non torni all’antica potenza; intanto il desiderio insodisfatto lo strugge (son. XXXVIII). — Nulla è più doloroso che l’aspettare: meglio la tempesta del mare e la paura dei boschi: di lì l’uomo ha speranza di uscir presto: ma chi attende invece «morendo sbadiglia» (son. XXXIX). — Allora un vecchio l’ammonisce di abbandonare amore per non perdervi cuore ed avere; ma (son. XLI), come uomo che ha la testa [p. 30 modifica]leggiera, egli si rifiuta. E così la serie dei sonetti continua a forma di trattato o di dialogo, fra i rimproveri di Amore e le scuse del poeta, fra le distinzioni sottili della menzogna, con qualche sparsa simiglianza a le rime più accertate di Guido51. Negli ultimi sonetti però pare vi sia un accenno ad un che di nuovo avvenuto nell’anima e nella vita del poeta. Egli ritorna a la gioia (son. LIII) e ringrazia per questo la «donna amorosa più d’altra gentile»; indi al son. LVII:

. . . . ringrazio i vostr’atti cortesi
che m’ànno tratto de lo rio pensero,
nel quale i’ dimorava in tale guisa
ch’era di viver tutto risaziato.

che è chiara allusione ai sonetti precedenti. Si tratta d’un amore novello? I vari nomi dati52 a la donna dianzi cantata non sembrano corrispondenti a questo nome nuovo di «donna amorosa» ed anche si osserva, che il sonetto che lo contiene è seguito da un pensiero di vendetta dell’amore, quando non gli si rimane fedeli, e quindi tutti i sonetti sono dedicati ad amore. Il poeta attende e spera: poi d’un tratto il filo della narrazione si tronca ed abbiamo il sonetto di commiato. A me pare di sentire in quest’ultima parte l’eco di un fatto, più forte che tutti i precedenti, per cui amore tiene il poeta; e noi potremmo credere che, se il trattato è di Guido, qui si accenni al primo nascere dell’amore per Giovanna, dal quale scenderanno quindi tante rime nove e più perfette.

I sonetti del trattato hanno quattro sistemi di rime:

a b b a — a b b a — c d e — e d c.
a b a b — a b a b — c d c — d c d.
a b b a — a b b a — c d c — c d c.
a b a b — a b a b — c d c — c d c.

in questa proporzione: 46 del primo, 11 del secondo, 3 del terzo ed uno del quarto. Confrontando l’ordine delle rime dato da i sonetti generalmente attribuiti al Cavalcanti, troviamo che ben dodici di essi hanno lo schema primo e stanno per la maggior parte tra le rime probabilmente non appartenenti a l’ultima età di Guido: mentre questa forma non si ritrova che in soli 7 sonetti della Vita Nova ed in un paio di sonetti staccati di Dante, in 6 di Cino, in uno di Onesto ed in uno di Dino Frescobaldi. [p. 31 modifica]

Ciò rivela quindi essere questo più che tutto un uso del Cavalcanti e mi pare argomento di non lieve importanza. Donde l’origine? Io credo dalle rime di Monte d’Andrea di Firenze e di ser Polo Zoppo di Bologna dirette al primo, le quali hanno questo sistema di rime più la chiave e la rima alternata nelle quartine:

a b a b — a b a b — ab — c d e — e d c.

La rima alternata ci rivela una maggiore antichità in questa forma, mentre Dante e Guido preferirono53 la forma baciata.

Il trattatista quindi avrebbe rinnovato l’antica forma di Monte, riducendo il sonetto a la forma più pura senza la chiave: sarebbe quindi ancora anello di congiunzione, per la parte formale, fra l’antica scuola e lo stil nuovo. Questo, più che ad altro poeta, conviene per l’età, in cui visse, a Guido Cavalcanti.

Dante scrive nella Vita Nova: «... ond’io divenni in picciol tempo poi di sì frale e debole condizione che a molti amici pesava della mia vista: e molti, pieni d’invidia, già si procacciavano di saper di me quello ch’io voleva del tutto celare ad altri. Ed io accorgendomi del malvagio addomandare, che mi facevano, per la volontà d’Amore, il quale mi comandava secondo ’l consiglio della ragione, rispondeva loro che amore era quegli che m’avea così governato: diceva amore, perchè io portava nel viso tante delle sue insegne, che questo non si potea ricoprire. E quando mi domandavano: perchè t’ha così disfatto questo amore? - ed io sorridendo li guardava e nulla dicea loro». Queste parole sono in relazione innegabile con il sonetto già citato interamente: «Alcuna gente part’io mi dimoro etc.» e dipingono uno stato d’animo molto simile.

Più innanzi nella Vita Nova Dante è travagliato da vari pensieri: - «l’uno de’ quali era questo: buona è la signoria d’amore perocchè trae lo ’ntendimento del suo fedele da tutte le rie cose. L’altro era questo: non è buona la signoria d’amore perocchè, quanto il suo fedele più fede gli porta, tanto più gravi e dolorosi punti gli convien passare» - e questi pensieri e questa vana vicenda d’amore sono pure espressi dal poeta del trattato, e certo anche da Guido Cavalcanti nel sonetto a la morte che fu staccato dai suoi compagni e fu riportato da tanti codici:

Amor, perchè fai mal pur sol a’ tuoi?

Dopo la canzone: «Donne che avete intelletto d’amore» Dante è interrogato da alcuno amico di dire che è amore: «onde pensando .... che l’amico era da servire» disse: «Amor e ’l cor gentil sono una cosa». La relazione con il trattatista qui è ben palese e confrontando le due definizioni si vede chiaramente come il trattatista mova da mº Francesco e Dante dal Guinicelli.

Il movimento del ragionare non è uguale. Dante determina il soggetto, in cui sta la potenza, che è il cuore gentile: secondariamente stabilisce la contemporaneità, onde il cuore gentile è tale per amore, ed amore vi posa, perchè il [p. 32 modifica]cuore è gentile: infine segna il passaggio da la potenza in atto: una bellezza veduta dà origine al desiderio, il quale, fatto continuo, risveglia l’amore.

Il trattatista va contrariamente: determina l’atto senz’altro, indi stabilisce la qualità del soggetto: e parla soltanto di un pensiero, mentre Dante parla di un desio dentro al core che è gentile. Il primo sta quindi con m.° Francesco e vi aggiunge il portato filosofico del Guinicelli, l’altro move dal Guinicelli ossia da la nuova determinazione del subietto, mantenendo quella base di potenza continuata a formar l’atto, la quale pure il Guinicelli accettava nella canzone: «Con gran disio pensando lungamente». L’avvicendarsi della gioia e del dolore è perenne nella Vita Nova come in questo trattato e quando Dante malato ha la visione della morte di Beatrice, egli la chiama: «Dolcissima morte, vieni a me e non mi essere villana, perocchè tu dei essere gentile, in tal parte se’ stata: or vieni a me, che molto ti desidero e tu ’l vedi che io porto il tuo colore». Una invocazione quindi a la morte pari a quella di Guido in questo trattato:

Morte gentil, remedio de’ cattivi.

Riassumendo ora queste ultime osservazioni, noi abbiamo scoperto che nella Vita Nova vi è un ricordo di questo trattato e che questo trattato deve essere antecedente a quello, perchè la definizione d’amore vi è più vicina a gli antichi che ai poeti rinnovati; chè se anche un poeta inferiore avesse dato quella definizione in tempi più tardi della Vita Nova, dopo la canzone di Dante «Amore e ’l cor gentil sono una cosa», senza dubbio sarebbesi servito di quest’ultima voce di scienza amorosa. Quale dei poeti precedenti a lui Dante sdegnoso potè prendere quasi a tenue guida se non Guido Cavalcanti? E l’amicizia, che fu tra loro, non è quasi prova di questo formarsi della prima lirica dantesca su l’esempio dell’amico più vecchio e più amato e più apprezzato, anche se, per la forza intima del grande artista, pur ogni nota imitativa prendeva valore per sè e superava il poeta imitato? Un solo uomo Dante stimava degno «d’andar seco», pari a lui in «altezza d’ingegno»54, ed è Guido, e le molte citazioni di lui e la stima e l’affetto, con cui sempre lo ricorda55, potrebbero ben giustificare questa tenue imitazione di alcune sue rime nella prima giovinezza poetica. Dante poi si librò tosto a voli più alti depurando la sua forma artistica56, mentre Guido più lentamente moveva, quasi ancor stretto a quella maniera d’arte, da cui era mosso e che l’aveva fatto primo iniziatore del movimento dello stil novo. Altre osservazioni piccole e minute si potrebbero addurre: l’uso, per esempio, comunissimo [p. 33 modifica]nei sonetti57, della forma «al mi’ parere» là dove il poeta insegna e non canta appassionatamente il suo amore.

Questa tendenza del poeta rivela una sua cura di non gravare troppo la sua opinione, come invece faceva l’Orlandi, di cui la boria appare nettamente in tutte le corrispondenze con i poeti.

Note

  1. Le rime di Guido Cavalcanti - Giusti - Livorno, 1885, pag. 204 e segg.
  2. Prop. vol. XIV: Nota su Guido. - Dell’amore in Bernardo da Ventadorn ed in Guido Cavalcanti.
  3. G. Villani, IX, 226, Croniche.
  4. G. Villani: op. cit. IX 286.
  5. La ballata si trovava anche nel Pucciano ricordato dal Fiacchi nella libreria Ashburnam - Libri 479 (Vedi: Casini - Giorn. Stor. vol. III, pag. 161-91) - L’Ashburnam 479 è pure un discendente di Bart.
  6. Fogli 84.b 85.a
  7. Tale la lezione di Bart, fatta su gruppi simili ad Lc corretto su Ca.

         Sol per pietà ti prego giovinezzaa
         che la dichiesta di merzè ti caglia
         poi che la morte ha mosso la battaglia.
         Questa dischiesta anima mia si truova
         sì sbigottita per lo spirto tortol’esperto
         che tu non curi anzi sei fatta pruova
         aet monstri bene sconoscenza scorto,
         sieTu sei nimico ond’hor prego colui
         ch’ogni durezza muove, vince et taglia
         che anzi la fin mia monstri che vaglia:
         tu vedi ben che l’aspra conditione
         ne i colpi di colei c’ha in odio vita
         mi stringe in parte, ov’humiltà si spone,
         si che veggendo l’anima ch’è in vitacon vita
         di dolenti sospir dicendo voltadi dolorosi spiriti dicendo
         ch’io veggio ben’com’il valor si scagliavolta ch’io veggio che ’l
         dhe prendine mercè sì ch’in te saglia.prendati

  8. Vedi: Casini - Giorn. Stor. vol. III, 161-91. - Sopra alcuni mss. di rime del Secolo XIII. Molteni - Giorn. Filol. Rom. I, pag. 50-2.
  9. Zeitschrift für rom. phil. I, 378.
  10. Cian: Un decennio della vita di P. Bembo - Lœscher 1885.
  11. Lezione di Ca a f. 6.a.

    I’ vidi donne cho la donna mia
    non che neuna mi sembrasse donna
    ma son chessomigliavan la sua ombria
    già nolle lodo se non perch e l vero
    e non biasimo lei se m’intendete
    ma ragionando move un pensero
    a dir tosto mie spiriti morrete
    crude vegendo se me non piangete
    che stando nel penser gli occhi fan via
    allagrime del cor che nolla oblìa.

  12.    Così mi aviene donna mia valente....
       Lasso sovente la vostra amistate....
       Come all’infermo che giace m’aviene....
       Lo gran tormento che ’nseme patemo....
       Non posso più soffrir tanto martire....
       L’oscura morte voria che venisse....
       Al povero gentil e vergognoso....
    * Io vegno il giorno a te infinite volte....
       Sonar bracchetti cazzatori izzare....
       Tutto lo mio desio aggio en lo flore....
    * Se tu vedessi amor, ti prego, Dante....
       Hormai ben veggio che lo mio solaccio....
       Mio intendimento è posto tanto altero....
       Al mondo non è cosa ch’aggio in core....

  13. izare.- aiçare — escridar - isgridar — voler imboccare - volger e nbocchare — uom d’intendimenti - van d’intendimenti — ma fra - ed io — sto - esto.
  14. Il Casini (Giorn. Stor. II, 334 e segg.: Di una poesia attribuita a Dante) dà notizie di un mss. che fu già di un Avv. Scapucci, indi del comm. Bologna di Firenze e sarebbe di poco dopo la metà del sec. XIV. Fu studiato dal Witte (La Vita Nova di D. A. - Leipzig, Brockhaus, 1876. pag. XXX) e dal Fanfani (Le rime di Cino - Ed.: Bindi e Fanfani - Pistoia, Niccolai, 1878, pag. LXXXXVII). Il Bologna ne trasse alcuni sonetti per nozze Galli-Fanghi (Firenze: tipografia dell’Arte della Stampa, 1879). Il sonetto in questione ha il n. 29 nell’indice del Casini.
  15. Publicati dal Pellegrini (Franchini 1896) per nozze Biadego-Bernardinelli. Sono due listelli di pergamena che fanno parte d’una medesima pagina di codice scritto nella prima metà del trecento. Furono già applicati per rinforzo a la legatura d’un libro nell’Archivio di Stato dì Bologna. Sul recto la pagina porta sei strofe della canzone di Guittone d’Arezzo: - Vergogna ho, lasso, ed ho me stesso ad ira - ed il Pellegrini dimostra che il nuovo testo sarebbe riuscito prezioso perchè discorde dai 4 mss. già noti e, quantunque stretto da affinità singolare con Vat. 3793, si collega bene per il colorito linguistico con il Laur. Red. 9 ed il Ricc. 2533. Sul verso della prima pagina si leggono due sonetti interi e due frammentari: uno degli interi è il sonetto dato da M’a: — Li gran turmenti ch’insembla patemo.
  16. Lo gran tormento che ’nseme patemo
    gentil madonna, perchè n’adiviene?
    Io v’amo et voi m’amate e ’nseme semo
    d’uno volere e pur vivemo in pene.
    Lasso tapino me, perchè dolemo
    poi che siam d’un voler e d’una spene.... etc.

  17. Così m’aviene, Donna mia valente,
    come all’orbo che sogna vedere:
    mentre che sogna sta allegro et godente
    et poi si sveglia e tornagli martire.
    E questa pena avien a me sovente
    che ’n fra le braccia me ’vi posso havere
    poi mi risveglio e non trovo niente....

  18. Per le quartine: flore - posto: per le terzine: faccia, - gente, - danno.
  19. Ringrazio di cuore publicamente l’illustre prof. Michele Barbi, che volle comunicarmi i resultati degli studi suoi su i codici Bartoliniani. Ringrazio ancora l’amico mio carissimo professor Mario Grandi, che mi fu intermediario e rivide altre volte per me lezioni dei codici fiorentini.
  20. Vedi: Ercole: op. citata.
  21. Lezione di Ca:

    Poi ch’aggio udito dir dell’om selvaggio
    che rid e mena gio’ del turbato
    dall’aire fredda in suo choraggio
    pensa che torni in dilectoso stato

    per la bona speranza lo dannaggio
    li pare acquisto di ben ristorato
    sichome fosse bel tempo di maggio
    si truova d’allegrezza sormontato

    ed eo similemente mi conforto
    pensando spesso che lo mar tempesta
    e po ritorna ’n gran tranquillitate

    Mentre che dura son ridotto al porto
    de la bona speranza fo mia festa
    e di freddura attendo bonitate.

  22. Domenica Letteraria 17 febb. 1884 - Prima della Vita Nova.
  23. La poesia giovanile di G. C. - Roma, Soc. Editrice, 1895, pag. 83.
  24. Annotazioni critiche sulle antiche rime volgari del cod. Vat. 3793, ordinate da T. C. Stanno in fine al vol. V. dell’edizione Borgognoni - Bologna, Regia Tip., 1888, pag. 185.
  25. Ciò dimostra con uno studio preciso ed intelligente della grafia il Salvadori (op. citata), al quale rimando il lettore anche per alcune parti della discussione, ch’egli trattò mirabilmente e che sarebbe noioso ed inutile ch’io ripetessi. Di questo codice s’occuparono: il Fantuzzi: Notizie degli scrittori bolognesi: t. II pag. 149 e VIII pag. 308 - Grion: Die Vaticanische Liederhandschrift N.r 3793 in Boehmer, Romanische Studien - Halle, 1871, I. pag. 61-113. Lo pubblicarono: D’Ancona e Comparetti: Bologna, Romagnoli - Collez. di op. ined. o rare da n. 43 a 47. Il Grion disse che il Bembo l’aveva avuto da suo padre, che nel 1478-80 veniva ambasciatore a Firenze nel tempo in cui si componeva Lc ed in cui Angelo Colocci raccoglieva quanto si trova in Vat. 4818. Questa opinione non è stimata sicura da Vittorio Cian (op. cit.). Secondo il Grion (Propugnatore, Vol. IV, P. I. pp. 105 e sgg.) ne sarebbe una copia anche il Vat. 4640. Il Trucchi lo disse composto fra 1265-75. Il Visconte Colomb de Batines lo riportò a la fine del sec. XIII od a’ primissimi del XIV.
  26. Cian: op. citata.
  27. Vedi la classificazione dei mss.
  28. La forma fiorentina o almeno toscana è in tutto il trattato e nella grafia.
  29. Parve a l’Ercole che così fosse: io non la veggo.
  30. Ballatetta dolente...
  31. L. Gianni:

                             Dicendo che lo scoglio di doglienza
                             have gittate come face il cervo.....

    Novelle grazie alla novella gioia»).

    Vd - sonetto 4-3.

                             . . . . . . . . . . . come lo cervo
                             non ti rinnuovi. . . . . . . . . . .

    e in una ballata: «Ballata, poi che ti compose amore»

                             non mi donar di gelosia errore. . .

    con il concetto portato dal Sonetto X di Vd. Infine nella canz.: Amor nuova ed antica vanitate:

                             Tuo convenente non vo’ più difendere. . .

    il che potrebbe riferirsi al ritorno ostinato ad Amore, desiderato dal poeta del trattato fino a che egli, stanco dei dolori da amore apportati, lo caccia e lo sfida a mazza e scudo. In questa canzone però amore è rappresentato con varie imagini sovrapponentisi, ben contrarie a la maniera poetica del trattatista d’amore.

  32. . . . . . . liberalium artium peritissimus et speculativus.

    Filippo Villani: Cron. VIII, 4-2.

    . . . . . singolare filosofo . . . per que’ tempi era sommamente erudito nelle arti liberali.

    Leonardo d’Arezzo: Vita di Dante.

    . . . . . un de’ migliori loici che avesse il mondo et ottimo filosofo naturale.

    Boccaccio: Dec. VII, 9, e Commento a la Commedia, Lez. XI.

    . . . . . in ogni genere di speculazione esercitato, acutissimo dialettico, filosofo egregio e non poco esercitato nelle arti liberali.

    Landino: Comm. a la D. C.

    . . . . . in rhetoricis studiis delectatus, eandem artem ad rythmorum vulgarium compositionem eleganter traduxit.

    Filippo Villani.

  33. E qual è quei che volentieri acquista
    venuto il tempo che perder lo face. . . . .       Vedi il Sonetto VII del trattato.

  34. Novella ti so dire, odi, Nerone. . . . .
  35. Decamerone: VI, 9.
  36. Sonetto a Dante. «Se vedi amore etc.».
  37. Vedi: Salvadori, op. cit. pag. 78. È il sonetto: «Sì sono angoscioso e pien di doglia» — Casini: Poeti bolognesi e romagnoli - 1881, pag. 36.
  38. Esempi: Canzone:

                             Donna mi prega perch’io voglio dire
                             d’un accidente ch’è sovente fero
                             ed è si altero. . . . . . . .

    Ballate:

                        — . . . . . . gaiamente cantando
                             vostro fin pregio mando a la verdura . . . . .
                        — Se m’à del tutto obliato mercede
                             già però fede il cor non abbandona;
                             anzi ragiona di servire a grato
                             al dispietato core.
                        — In un boschetto trovai pasturella
                             più che la stella bella al mi’ parere

    tutti con metri stabiliti; e come esempi vaghi:

                        Gli occhi di quella gentil foresetta
                             hanno distretta sì la mente mia . . . . .
                        . . . . . che per virtute di nova pietate
                             non disdegnate la mia pena udire.

  39. Canzone: «Con gran disio pensando lungamente» (Casini - Poeti bolognesi etc., - Romagnoli, pag. 13).
  40. Chiaro Davanzati:

                             .... e’ ven de lo vedere e d’udienza
                             e di pensiero ed anco di sagiare:
                             fermasi quando vene lo piaciere

    (Ca: CCCLI - ed. D’Ancona e Comparati cit.).

  41. . . . . . Che de cosa plagente
    saven de virità ch’è nato amore       (Laur. Red. 9 - f. 61. a).

  42. Cfr. Salvadori, op. cit., pag. 21, nota.

                             Quand’om diven solicito e pensoso
                             vegendo in bello viso e piacentero,
                             à mantenente amore in sè rinchioso:
                             c’amore è un continovo penserò
                             di quella cosa ond’omo è disioso.

  43. Salvadori, op. cit., pag. 21.
  44. Non so quanto sicura sia qui l’osservazione del Salvadori che la pulzelletta di questo sonetto non può essere Giovanna, perchè ella doveva esser pallida:

                             Non è la sua beltate conosciuta
                             da gente vile, che lo suo colore
                             chiama intelletto di troppo valore.

    Anche a me dà l’impressione vaga che non si tratti di Giovanna: ma non per una ragione così sofistica. Per le osservazioni dell’Ercole rispose già il Salvadori.

  45. Perde quindi ogni valore l’argomento dell’Ercole che escludeva che il Cavalcanti potesse chiamare l’amore con questo nome.
  46. . . . cortese et ardito, ma sdegnoso e solitario e intento a lo studio.

    D. Compagni, Cronica, I

    . . . vertudioso in molte cose, se non ch’egli era troppo tenero e stizzoso.

    Gio. Villani, Cronica, VIII, 41.

  47. . . . solitario e sdegnoso... - Luogo cit.
  48. Il quale lo descrive fuggente da la sua casa in Orto S. Michele per il cimitero di San Giovanni e scrive anche: «Guido alcuna volta speculando molto astratto da gli uomini diveniva» (Decam. VII, 9). - «E per ciò che egli alquanto teneva della opinione degli epicurei si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse» (Decam. VI, 9).
  49. Novella LXVIII.
  50. Da questo atteggiamento e da le parole del Boccaccio venne a Guido l’accusa infondata di ateismo e la conseguente spiegazione del disdegno nel X dell’Inferno. Vedi su tale argomento: D’Ovidio: Saggi critici - Napoli - Marano, 1878, pp. 312-329 — N. Tommaseo: Lettera al Direttore del «Propugnatore», Anno III, disp. 5-6, pp. 486-490 — D. Comparetti: Vergilio nel Medio Evo - Vigo - 1872, I, 276 — N. Arnone: Le rime di G. C. - Sansoni - Firenze — G. Scartazzini: Commento a la D. C. - Lipsia, 1874 — T. Casini: Commento a la D. C. — G. Finzi: Saggi danteschi - Torino - Loescher, 1888, pp. 60-92 — P. Ercole, op. cit. — Gaspary: St. della lett. - Torino - Loescher, 1887 — D’Ancona: N. Ant., 1º set. 1888 — F. Torraca: N. A., 1º dic. 1888 — D. Mantovani: Propugnatore - N. Serie - genn.-febb. 1888 — G. A. Venturi in Rassegna emiliana di Storia, Letteratura ed Arte, fasc. luglio 1888 — A. Bartolini: Studi Danteschi - Siena, 1889 — A. D’Ancona: Beatrice - Pisa - Nastri, 1889 — Isid. del Lungo: Dal secolo e dal poema di Dante - Bologna - Zanichelli, 1898. — Io non credo sia argomento fondato: se Filippo Villani scrisse - «... si opinionis patris Epicurum secuti parum modicum annuisset, homo fuisset omni dignus laude» (De florent. illust. viris, pag. 61, ed. fiorent. 1826) - egli pure scrisse, come molti altri, dicendo cose onorevoli di Guido. Escludo anche quindi l’opinione dell’Ercole che vorrebbe rigettare questi sonetti come troppo tendenti a religione.
  51. Per es.: . . . ma chi è quei che può far contr’amore? (son. XLVIII).

    Ballata:       chè solo amor mi sforza
                          contro cui non val forza nè misura.

  52. Nobil pulzella (XIX) - Gentil mia donna, donna sovrana, madonna (XXI) - Pure: - gentil mia donna - è detta la donna intermediaria e «dolce donna mia» - Nobile pulzeletta (XXVI) - Gientil pulzella (XXVII).
  53. Heinrich Welti: Geschichte des Sonettes der deutschen Dichtung - Leipzig - Veit, 1884.
  54. Isidoro del Lungo, op. cit.
  55. Oltre che nella Vita Nova Dante parla di Guido nel De Vulg. Eloq. I, XIII, chiamandolo con Lapo fra i conoscenti del volgare illustre: e pure: De Vulg. Eloq. II, VI, XII.
  56. Questa maggiore oscurità per una più densa velatura d’arcaismo bene si vede nella risposta di Guido al sonetto il Dante:

                             Guido, vorrei che tu e Lapo ed io etc.

  57. Sonetto I. - in verità secondo il parer mio....
    » III. - perfetto onore quanto al mi’ parere....
    » V. - ciascun ch’al mondo viene al mi’ parere....
    » XIII. - la più dolce fatica al mi’ parere....
    » XV. - or lo sesto è cortese al mi’ parere....
    » XIX. - di voi cui amo tanto al mi’ parere....
    » XXII. - la ’nde peccato face al mi’ parere....
    » XXXIX. - e quanto al mi’ parer sì mal non ave....
    » LII. - mi par che sien secondo quel ch’intendo...
    » LV. - non puote al mi’ parer di sè mostrare....
    » LIX. - secondo il mi’ parer ma cosa iguale....

    e Guido:

                             Vedesti al mi’ parere ogni valore . . . . . . . . .
                             più che la stella — bella al mi’ parere.

    Di Bonaggiunta a Guido una forma: «al meo parere»: una del Guinicelli: «al mio parvente».