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Sonetto XXVIII.

Tutto questo sonetto dipinge interamente una lotta psicologica, espressa con rara forza e semplicità: «Quando io mi voglio ridurre a la ragione, frenando il desiderio e non seguendo quel talento che guida tutto a perdizione, penso che è meglio riposare e cercare via di salvezza che pensare d’aver cuore di leone: pure il vano pensiero mostra come amorose quelle cose contro ragione che non dovrebbero essere proprie del dritto cuore». Questa stessa lotta intima appare nella tradizione, che dell’ingegno del Cavalcanti ci diedero i cronisti più vicini al suo tempo1 e richiama l’imagine di Guido, che dettava le ballate dolcissime e scagliava il quadrello contro Corso Donati.

Il poeta vuol tosto dare i suoi migliori consigli ad un amico imaginario, i quali involontariamente invece dirige a sè stesso: il soggettivismo vi trapela perennemente:

. . . . . ti piaccia ricever in grato
in questa vita quanto ch’aportato
ti fia o di sollazzo o di rancura
e di te metter tutto alla ventura
ben operando tuttor dal tu’ lato.

e più innanzi:

quegli altri grandi, perdio, lascia gire,
chè sempre vedi li maggio talenti
movere da superbia e d’arrigoglio.

E questo in contraddizione con la superbia tradizionale di Guido? Egli stesso disse che lo vano pensiero

lo più vil ne mostra che sia vago.

È quindi la sproporzione nel poeta fra la vita e la morale teorica, che si perpetua anche nel sonetto seguente, pregno di una scienza di vita placida e virtuosa: sproporzione ch’era sempre tra i canti molli ed amorosi e la vita sanguigna ed agitata dell’età. In questi sonetti (XXIX-XXX-XXXI) l’indirizzo a l’amico parrebbe stabilire un dialogo di consigli amichevoli. Il trattatista comincia:

Per questo, amico, ch’io t’agio mostrato etc.


  1. . . . cortese et ardito, ma sdegnoso e solitario e intento a lo studio.

    D. Compagni, Cronica, I

    . . . vertudioso in molte cose, se non ch’egli era troppo tenero e stizzoso.

    Gio. Villani, Cronica, VIII, 41.