Ricordi storici e pittorici d'Italia/I monti Volsci

I monti Volsci

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I monti degli Ernici Le sponde del Liri
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I MONTI VOLSCI

1860.

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I.


La catena dei monti Volsci comincia nel territorio romano presso la città di Velletri, la quale sorge già sul pendio di quelle, e si stende in una linea di belle alture, in parte imboschite, oltre il confine napoletano fin presso Capua, dove termina. Nel correre paralellamente agli Apennini, divide geograficamente il Lazio in due regioni, la Campagna e la Marittima, le quali formano, amministrativamente, le due provincie di Frosinone, e di Velletri.

Volli da Genazzano, dove mi ero portato a passare ancora una state nella tranquillità la più perfetta, visitare quei monti, i quali stavano sempre davanti al mio sguardo parendo invitarmi a scendere al di là nella Marittima; un bel mattino pertanto mi posi a cavallo, ed ho passato nei monti Volsci giornate piacevolissime.

Da Genazzano ai piedi della catena di que’ monti vi sono tre ore di strada. Si cammina in una fertile pianura interrotta qua e là da collinette, ed attraversata dal Sacco, la quale ha molta rassomiglianza colla campagna dei dintorni di Roma. Non mancano qua e là le torri brune cadenti in rovina, avanzi pittorici, memorie malinconiche del medio evo. Desse danno carattere al paesaggio, ricordando i tempi ferrei in cui le famiglie baronali si erano fatte padrone del Lazio. Erano i principali fra questi baroni i Colonna, i quali dalla loro sede di Palestrina stendevano il loro dominio molto al di là del confine napoletano. A fianco di essi erano sorti i Conti, impadronendosi di buona [p. 42 modifica]parte del territorio latino, particolarmente nelle contrade vicine ai monti Volsci. Dessi si erano venuti dividendo in vari rami, di Segni, di Valmontone, e di Anagni; ma assumevano per lo più i nomi di Conti della Campagna, ed avevano tolto a stemma l’aquila romana. La loro casa, illustre per i grandi Papi che erano usciti di essa, trovasi estinta da oltre trecento anni; i Colonna per contro sussistono tuttora, e posseggono tuttora notevole parte del Lazio. Sorsero accanto a queste, famiglie più recenti di nipoti dei Papi, le quali, o per acquisti, o per alleanze diventarono padroni di molti beni che erano dapprima proprietà dei Colonna, quali sono i Borghesi, i Doria, ed i Barberini. Quando si percorrono in oggi quei campi latini, e che si domanda ai pastori, ai contadini, agli abitanti delle brune castella, a chi appartenga il suolo, i nomi che per lo più si sentono sono quelli di Colonna e di Borghese, e questo ultimo più frequentemente che l’altro. Quando poi dai monti Volsci si scende nella Marittima, allora si trovano il nome e la signoria di un’altra famiglia baronale di Roma, quella dei Gaetani, duchi di Sermoneta e di Caserta, dalla quale uscì Bonifacio VIII.

Passai il Sacco a Molo dei Piscari, molino grandemente pittorico, il quale sorge fra le rovine di un antico castello dei Colonnesi di cui esistono tuttora notevoli avanzi. Nei documenti del medio evo ne trovai fatta menzione sotto il nome di Turris de’ Piscoli. Il Sacco romoreggia ivi quale rivo impetuoso aprendosi strada fra le roccie calcari di colore bruno su cui sorgono le rovine del castello, sepolto sotto lussureggiante vegetazione di piante parassite. Dominava questo un tempo la via Latina, la quale corre a mezz’ora appena di distanza da Valmontone. Cavalcavo per una strada di campagna, a traverso una pianura deserta, non incontrando altro che pochi pastori colle loro mandre di capre. Tutti i pastori portano qui le gambe coperte da specia di uose di pelle di capra, rivestita ancora del pelo, le quali danno loro l’aspetto di satiri; e si comprende che da questo modo di vestire abbiano potuto avere [p. 43 modifica]origine le finzioni appunto dei satiri, e del Dio Pane; che probabilmente a questo modo già vestivano i pastori nei tempi favolosi.

Giunti sulla via Latina, si trova in vicinanza Valmontone che invita a visitarlo, ed in poco tempo vi si arriva. Sorgono sur una collina poco elevata ma ripida, il castello, il bel palazzo Barberini, la chiesa, ed a fianco di questa, edificii nello stile barocco del secolo XVII. Si aggruppano poi attorno a questi le case del paese, circondate da giardini, da vigneti, e da campi fertilissimi. I topografi moderni sostengono che Valmontone occupi l’area della antica Tolerio, e l’attuale suo nome formato da valle e monti, compare per la prima volta nei documenti del secolo XVII e riferivasi ad una tenuta di proprietà del capitolo della basilica Lateranense. Questo, un tempo richissimo vendette Valmontone nel 1208 ad Innocenzo III della casa Conti, ed al fratello di lui Riccardo conte di Sora, il quale diventò feudatario di Valmontone, e fu lo stipite del ramo dei Conti di Valmontone e di Segni, ramo che si estinse nel 1575. Giovanni Battista Conti ultimo della stirpe, non lasciò che una figliuola Fulvia, la quale portò tutta la sostanza dei Conti negli Sforza, dove si era accasata. Gli Sforza poi vendettero nel 1634 Valmontone al Barberini, dai quali fu venduto di bel nuovo nel 1651 al principe Camillo Pamfili nipote d’Innocenzo X, e dopo di allora rimase Valmontone proprietà della casa Doria Pamfili.

Il palazzo e la chiesa vennero edificati appunto da Camillo, uno dei principi più ricchi del secolo XVII, grazie particolarmente a sua madre Olimpia Maidalchini, vera arpia, la quale aveva raspato ed accumalato ingenti tesori. Quando anche non si sapesse l’epoca nella quale vennero erette quelle fabbriche, basterebbe un semplice colpo d’occhio a farlo riconoscere, imperocchè hanno tutto lo stile del Bernini, e vi trasportano a Roma in pieno secolo XVII. Non si direbbe di trovarsi davanti ad un castello di campagna, ma in faccia al palazzo Pamfili, od alla chiesa di [p. 44 modifica]S. Agnese, presso piazza Navona. I Pamfili impiegarono buona parte delle loro grandi ricchezze nello innalzare edificii propriamente principeschi; il nipote di Innocenzo X, costrusse presso la porta di S. Pancrazio la villa più grandiosa, e la più bella di Roma, la quale forma oggidi ancora l’ammirazione dei forastieri; fabbricò sul corso uno dei palazzi più stupendi della città, che ora appartiene al principe Doria, e vi allogò la rinomata galleria di quadri che tuttora vi si vede, una delle più cospicue della città. Ed Innocenzo X stesso, innalzò il palazzo Pamfili presso la chiesa di S. Agnese, che venne questa pure riedificata da lui, e fece innalzare sulla piazza Navona dal Bernini la bella fontana, che si può annoverare fra i monumenti migliori di Roma moderna.

Per tal guisa aggiunsero i Pamfili un nuovo carattere alla fisionomia architettonica di Roma, seguendo la via che aveano presa a battere poco tempo prima i Borghesi, ed i Barberini. Qualunque poi sia il giudicio che si voglia portare su quello stile architettonico, non si potrà però a meno di concedere, che ad onta di tutte le sue stranezze ed esagerazioni, porge molto di grandioso e d’imponente, e che segna un punto decisivo, un’epoca nella storia dell’arte; il periodo cioè del lusso baronale, del fiorire di una ricca a splendida aristocrazia. I baroni vestiti di velluto e di raso, oziosi, disutili, sfoggiavano le loro ricchezze, la loro eleganza in quelle ampie e vaste sale, profondendovi il frutto del sudore dei loro poveri coloni. La rivoluzione di Francia prese a combattere col ferro e col fuoco quelle scioperate esistenze, e le ha distrutte per sempre. Nel secolo presente i Papi non hanno più fabbricato. Dopo Pio VI il quale morì esule in Francia nel 1799, non vi fu più nepotismo, ed il palazzo grandioso di suo nipote Braschi, il quale sorge non lontano da quello Pamfili, presso piazza Navona, si è l’ultimo di quelli splendidi edificii di Roma, che i nipoti dei Papi innalzavano a spese del popolo angariato, ed oppresso. Non vi saranno quindinnanzi più nipoti di Papi; non sorgeranno più palazzi Barberini, Bor[p. 45 modifica]ghesi, Doria, Albani, Odescalchi, Rospigliosi, e Corsini; Roma dovrà necessariamente prendere un altro carattere, ed a vece dei palazzi, delle vie grandiose ed ornate delle famiglie del Papi, e dei cardinali, sorgeranno stazioni ferroviarie, teatri, locande, casini di conversazioni e simili, per rispondere ai bisogni, alle abitudini della vita moderna.

Tornando ora a Valmontone, dirò che nulla vi si trova meritevole di osservazione. Tutti i ricordi del medio evo andarono perduti, imperocchè la città venne interamente rovinata nel 1527 dalle bande di Carlo V le quale tornavano dal sacco di Roma; ed appena era stata riedificata, fu rovinata di bel nuovo dalle soldatesche del duca d’Alba, e di Marcantonio Colonna. L’unica cosa che può trattenere colà alcun poco il forastiero, si è la vista dei monti Volsci, che si gode della piazza davanti al palazzo baronale; si scorgono di là le case di Montefortino, feudo dei Borghese, il quale coronato da antico castello, sorge nero e cupo tra quei monti.

Per quanto piccolo ed isolato sia Valmontone, è però punto di commercio, imperocchè vi passa tutto quanto si scambia fra Roma ed il confine napoletano sopra Frosinone, e vi si scorgono di continuo file di carri, tirati da buoi di pelo bianco, i quali portano a Roma grani, lane, vino, pollami ed altre merci. Vi arriva pure la vettura corriera tre volte per settimana; ma non va al di là di Frosinone capo luogo della delegazione, in guisa chè per andare a Ceprano, o più oltre nel regno di Napoli, fa mestieri, prendere una carrozza a nolo.

Da Valmontone la strada Latina prosegue, prima per una bella valle riccamente imboschita, quindi traversando una pianura silenziosa e deserta fin presso un’antica torre, la quale sorge ai piedi dei monti. Ivi si stacca dalla via maestra una strada secondaria, la quale prima passa il Sacco, quindi porta a Segni. Si cammina sulle prime alture dei monti Volsci, a sinistra sorge Monte Fortunio cupo ed oscuro, a destra si scorge sopra una amena collina Castel Gavignano. La strada che continua a [p. 46 modifica]salire è per sè monotona, ma a misura che più in alto si sale, tanto più stupenda appare questa pianura classica del Lazio, di aspetto così severo e bello, con tutte le sue colline e castelli, circoscritta all’orizzonte dalle vette azzurre dell’Apennino e più in là, verso il confine napoletano, delle cime di altri monti, i quali si perdono nei vapori.

Ho percorse tutte le più belle ragioni d’Italia, ho visitato le rinomate pianure di Agrigento, e di Siracusa, ma devo pure confessare che ad onta delle loro ricchezze di tinte tutte orientali, l’aspetto della campagna di Roma e del Lazio mi produce sempre una profonda impressione. Questa regione, che io conosco quanto è più della mia terra natia, che ho dovuto studiare così a fondo per la mia storia della città di Roma nel medio evo, mi compare sempre nuova e grandiosa; quando ne parto provo sempre vivo desiderio di rivederla, in guisa che da Montemario guardando nella valle che fra Palestrina e Colonna porta in quella campagna latina, mi nasce sempre la tentazione di portarmi ancora una volta colà. È possibile che i ricordi della storia contribuiscano per molto a dar vita a quel paesaggio, ma anche senza di quelli non potrebbe a meno di cattivare per il carattere nobile e grandioso che vi ha impressa la natura. Vi sono contrade le quali hanno un carattere tutto mitologico; tali sono la foresta di Castel Fusano presso Ostia, con i suoi pini ginganteschi che giungono fino alla spiaggia del mare; tale l’ampia imboccatura del Tevere, che la fantasia si sente portata a popolare colle finzioni della favola. Altre regioni presentano un carattere lirico, altre epico, omerico, come Astura ed il capo di Circe. Nessuna regione però è di stile grandioso, storico, solennemente tragico, al pari della campagna di Roma. Dessa appare quale teatro più nobile della storia, quale scena dell’universo. Nessuna descrizione, nessun pennello di grandi artisti, per quanto vi siano adoperati attorno distintissimi, può dare un’idea della bellezza grandiosa della campagna latina, a chi non l’ha veduta, provata, sentita. Nulla havvi in esso di romantico, nulla di fantastico; tutto [p. 47 modifica]vi è tranquillo, grandioso, di una bellezza imponente, seria, ed a chi la sa comprendere, deve produrre la sensazione che proverebbe davanti ad una statua di Giunone di scalpello greco.

Nel salire sempre più alto sui monti Volsci, nel contemplare sotto di sè quella stupenda regione, quasi quasi si viene ad invidiare la sorte di quelle acquile, le quale sono qui i veri Conti di Campagna, che spaziano a loro piacimento sopra quella stupenda contrada. Col loro volo grandioso e solenne, sono in piena armonia colla natura del paesaggio che valgono ad animare, senza punto turbarne la tranquillità maestosa.

Non si scorge Segni, se non quando vi si è quasi arrivati, imperocchè la strada corre sempre tortuosa per entro una gola di roccie calcari, di tinta rosea. Le pareti dei monti sono formati di massi staccati, i quali si accavallano gli uni sopra gli altri, in guisa che in certi tratti si direbbero mura edificate da giganti. Mentre stavo contemplando questa formazione geologica, che più o meno s’incontra in tutte le montagne del Lazio, compresi che la natura era quella la quale aveva dato agli uomini l’idea delle costruzioni ciclopiche, imperocchè quelle formazioni geologiche sono vere mura ciclopiche, di mole ancora più imponenti, e gli uomini non ebbero d’uopo che d’imitare l’opera prodotta dalle rivoluzioni del globo. In nessun’altra natura di monti la cosa sarebbe stata di tanta evidenza, quanto in queste roccie calcari.

Splendeva in tutto l’ardore del mezzodì il sole, quando arrivai a Segni. Questa antica città dei Volsci giace sull’altipiano di una collina, circondata tuttora in buona parte da mura ciclopiche. A prima vista le sue case nere, che sorgono le une sopra le altre a foggia di scaglioni, interrotte quà e là da alcune torri di carattere insignificante, fanno impressione piuttosto singolare che piacevole. Non havvi una cattedrale, non un antico castello, li quali traggano a sè lo sguardo; unicamente case noiosamente uniformi, senza verun carattere architettonico, ed io che aveva [p. 48 modifica]nudrita speranza di trovare una città antica, ricca di memorie, rimasi pienamente ingannato. Tutte le altre città del Lazio quali Anagni, Ferentino, Alatri, Veroli, portano tutte, più o meno, l’impronta della storia del medio evo, e l’antichissima Segni mi appariva quale una città malinconica, deserta, priva totalmente d’interesse storico, e per dire tutta l’impressione che mi produsse, la dovrei qualificare città noiosa. L’unica memoria piacevole che me ne sia rimasta, è quella degli alberi stupendi che la circondano un lato, e della vista delle rigogliose foreste che crescono sopra i monti vicini.

Ho potuto intanto persuadermi che le città volsche, per quante ne ho vedute, hanno un carattere affatto diverso dalle città latine. Deriva principalmente da ciò che sono città di montagna anzitutto, le quali sorgono solitarie, appartate, dal mondo, e non posseggono nè commercio nè industria; talune di esse scarseggiano pur anche di terreni adatti alla coltura, non hanno che viti, olivi, ed alberi da frutta. Raccolgono inoltre ciliegie, pesche, castagne piuttosto in abbondanza, e sovratutto ghiande, di cui si valgono ad ingrassare majali. Abbondano questi, di razza nera tutti, nei monti volsci, ed i presciutti di queste contrade sono ricercati ed apprezzati. Tutto queste città, ad eccezione di Cori e di Velletri, le quali sono più vicine a Roma, e che non si trovano propriamente più nei monti hanno l’aspetto dello squallore e della miseria. Manca ogni apparenza di ben essere, di presenza di famiglie agiate, ed in ogni luogo la solitudine delle strade, il silenzio di morte nelle piazze, la vista delle case cadenti in rovina, produce dolorosa impressione.

Le case di Segni sono costrutte a striscie alternate di roccia calcare bianca o nera, e di mattoni, ricordando la foggia antica di costruzione dei Pisani, a striscie parimenti alternate, bianche e nere. Avevo trovato parecchie volte nei documenti antichi l’espressione Signino opere, ed ho potuto in Segni stesso riconoscerne l’origine ed il valore. Non posso dire però mi abbia quel metodo di fabbrica[p. 49 modifica]zione fatta buona impressione, avendo trovata la città malinconica, monotoma, senza un giardino, senza un albero, che venga a rompere l’uniformità stucchevole, di quelle case tutte uguali.

Entrai per la porta maggiore, cercando una locanda, e provai stupore nello avvedermi non esservi altro ingresso alla città, la quale costrutta sur una ripida collina trovasi da tre lati inacessibile. Questa porta è antica, collegandosi alle mure ciclopiche; presso quella si osservano costruzioni di origine romana, e poco discosto sorge il castello feudale, o palazzo della famiglia Conti, la quale tenne il dominio della città, edificio di gran mole Signino opere, il quale però nel complesso ha più l’aspetto di un convento che di un castello, non scorgendosi neanco una torre; e fuor di dubbio i Conti di Segni dovevano colà possedere una rocca, prima che venisse la città rovinata e distrutta, dalle soldatesche di Marcantonio Colonna.

Osservai di già, parlando di Valmontone, che Segni fu posseduta dalla famiglia Conti, dalla quale uscirono non solo Innocenzo III, ma ancora i Papi Gregorio IX ed Alessandro IV. Dopo il ristabilimento in Roma di un governo libero, ossia del senato nel 1143, i Papi si trovarono più di una volta costretti a cercare rifugio nei luoghi fortificati della campagna, per sottrarsi all’odio ed alla persecuzione dei Romani; furono pertanto nella necessità di abbandonare la loro residenza, di scostarsi dalla tomba di S. Pietro e dei martiri, dal Laterano, e di vivere esuli nei siti più miseri del Lazio. Abitarono ora in Palestrina, ora in Tuscolo, ora in Anagni, ora in Segni. Eugenio III fuggendo davanti al senato romano, cercò per il primo ricovero in Segni e vi edificò residenza pontificia nel 1145. Vissero ivi pure, e più riprese, gl’illustri Papi Alessandro II, Lucio III ed Innocenzo III, ed anzi, questi deve avere ivi sortite i natali nel palazzo del suo casato.

Anche dopo quell’epoca si mantenne la famiglia Conti in possesso di Segni, dove dopo il 1353 tenne la carica, dapprima di podestà, quindi di vicario, a nome del Papa. Al[p. 50 modifica]lorquando il casato dei Conti venne a spegnersi, o che la sostanza di essi passò a Maria Sforza, la contea di Segni fu da Sisto V innalzata a ducato. Le truppe del duca d’Alba presero d’assalto la città il 13 Agosto 1557, ad onta della sua forte posizione, e la distrussero da cima a fondo, e per tal modo si spiega come non esistano più in Segni vestigia di antichi edificii. La città venne ricostrutta, ma la casa Sforza, oberata dai debiti, non si potè mantenere in possesso del ducato, del quale venne da Papa Urbano VIII investito suo nipote, il cardinale Antonio Barberini. Non meno di un mezzo secolo durò il processo fra i Barberini e gli Sforza, finchè questi lo guadagnarono verso il 1700, in guisa che gli Sforza-Cesarini sono ancora oggidì baroni, anzi duchi di Segni. Tali sono in poche parole le sorti di questa città durante i tempi di mezzo; che se si volessero ricercare le sue prime origini, sarebbe allora mestieri risalire niente meno che a quelli favolosi di Saturno, o di Giano.

Allorquando arrivo in una nuova città d’Italia dopo aver presa cognizione della sua posizione topografica, ho per costume di recarmi per la prima cosa alla cattedrale. La maggior parte di tali chiese sono veri musei per la storia locale, ed è raro che indipendentemente dalle antichità architettoniche, non vi si trovi pure qualche altro ricordo del medio evo. Sono per lo più iscrizioni, le quali fanno menzione dei principali avvenimenti, o monumenti sepolcrali, i quali colle loro sculture, con i loro caratteri latini, hanno un grande pregio per coloro che si occupano, o si dilettano di studi storici. Se non che disgraziatamente il tempo rovina ogni cosa, deturpa lo stile antico degli edifici, i quali poco a poco vanno assumendo aspetto moderno di cattivo gusto, e va facendo scomparire dall’interno delle chiese le antiche tombe le antiche iscrizioni. Quante non ne furono tolte dalle chiese di Roma, con danno grande degli studi storici, ai quali cotanto proficue tornavano le loro date! Le chiese di Roma erano ripiene una volta di sepolture del medio evo; tutte le grandi famiglie possedevano in quelle [p. 51 modifica]cappelle gentilizie, o cripte mortuarie. Ma dacchè Giulio II non si fece scrupolo di togliere da S. Pietro stesso le tombe dei Papi, di rovinarle, di distrurle, il male esempio fu seguito dovunque, ed ogni qualvolta si trattava di praticare alle chiese una qualche riparazione, un ristauro qualunque. Sono poche le chiese di Roma nella quali lo studioso della storia possa trovare tuttora nelle tombe e nelle iscrizioni memorie del passato, ed alcune ne rimangono in S. Pietro, in S. Giovanni Laterano, nella Minerva, in S. Maria in Aracœli, la famosa chiesa del senato romano durante il medio evo, ed in poche altre, dove il pavimento non venne totalmente disfatto e sconvolto. Ed ora che è troppo tardi s’imprende a tenere in grande pregio quanto venne miseramente distrutto, e fra gli altri De Rossi, l’illustratore infaticabile delle catacombe, salvò da totale rovina gran numero d’iscrizioni del medio evo, allogandole nel museo Laterano.

II.

Al pari di quelle di Roma, erano ricche d’iscrizioni, di monumenti sepolcrali le chiese della città, della campagna ma quivi pure andarono dispersi; quivi pure furono rovinati, distrutti. Mi ero rallegrato pensando che Segni, città vescovile fin dal 499, non poteva a meno di avere una cattedrale antica ma non tardò guari a svanire la mia illusione. Trovai una chiesa moderna di aspetto rozzo, tutta del cattivo gusto romano moderno all’interno, con una cupola dipinta, e con quel lusso di ornati che mal si addice ad una chiesa, imperocchè quale si è l’uomo che si voglia storcere il collo per contemplare a lungo le pitture e gli ornati di una cupola? Sonvi in questa chiesa due statue moderne consacrate a due uomini illustri a cui Segni si vanta avere dato i natali, il Papa Vitaliano, ed il vescovo Bruno. Vitaliano da Segni fu Papa negli anni dal 637 al 672, e pertanto nel periodo più obbrobrioso di Roma, quando la città era soggetta ai Bizantini. Fu desso [p. 52 modifica]che accolse ed ospitò l’imperatore Costanzo II allorquando questi venne a Roma nel 663, caso unico nella storia della città, la quale non fu mai visitata da altro imperatore d’Oriente. Costanzo II tolse allora di Roma tutte le opere d’arte in bronzo, le quali erano sfuggite alla rapacità dei Vandali, strappando perfino dalla cupola del Panteon le lastre di bronzo dorato che la ricoprivano, per portarle seco a Costantinopoli. Gli annali di Vitaliano non porgono altro fatto più importante di questo, vergognoso per la città di Roma.

Per verità Innocenzo III, uno dei papi più illustri, che sollevò all’apice la gerarchia di Roma, sarebbe stato ben più meritevole di una statua in questa città dei ciclopi e dei giganti, che il nullo Vitaliano. Del resto non intendo punto far torto agli abitanti di Segni di aver voluto ricordare la memoria di un loro concittadino, il quale fu Papa fin dal secolo VII, e pertanto più di cinquecento anni prima di Innocenzo III. Ed inoltre, non è ben certo sia questi nato in Segni, essendo probabile pure sia, venuto alla luce in Anagni, e gli Anagnesi avrebbero buone ragioni da addurre, quando volessero contrastare a Segni il vanto di avere dato quell’illustre pontefice alla Cristianità.

L’altra statua, mediocre dessa pure quale opera d’arte, sorge di fronte a quella di Vitaliano. Sul suo piedestallo si legge l’iscrizione seguente: S. Brunoni Doctori Eucharistico Episcopo Signino Abati Cassinensi Qui Berengario Converso Heresim Estinxit Henrico IV Imp. Reducto Schisma Compressit Adulpho Eæxpulso Tyramnidem Abrogavit P.H.M. Mylord Ellis Congr. Cassins. Abbas. Episcop. Signin. S. Q. S. Protectori Erim. P. P. MDCCXII. L’iscrizione pertanto riassume in poche parole tutta quanta la vita di S. Brunone, il quale appare quale uno fra i cittadini più illustri di Segni. Non fu già desso quel S. Brunone che fondò l’ordine dei Certosini; quegli era nativo di Asti in Piemonte, fu canonico in Roma, accetto a Gregorio VII quindi venne nominato vescovo di Segni da Urbano II non aveva accettata questa dignità che a malincuore; la sua vocazione [p. 53 modifica]lo chiamava irresistibilmente alla vita monacale, in guisa che ad onta del disposto dei sacri canoni, rinunciò alla sua sede vescovile, ritirandosi a Montecassino, dove dall’abate Oderisio venne accolto fra i seguaci di S. Benedetto e sebbene il Papa Pasquale II ripetutamente gl’intimasse di far ritorno al governo della sua diocesi non si mosse da Montecassino, dove venne eletto abate, e dove nella tranquillità della vita monastica dettò le sue opere di esegesi.

S. Brunone non tardò a sostenere parte importante in Roma. È noto come a seguito della viva lotta relativa al diritto d’investitura, quello stesso Papa Pasquale fu fatto prigioniero dall’imperatore Enrico V, per cui cedendo alla forza promulgò un decreto, col quale accordò allo energico imperatore il diritto di investitura. Se non che, allorquando il Papa uscì di prigione, e l’imperatore fu ritornato in Germania, i cardinali ed i vescovi spinsero Pasquale a rivocare il decreto, ed a rompere il suo giuramento; e fra i più zelanti ad adoperarsi in questo senso, fu S. Brunone. La sua insistenza a questo riguardo ferì il Papa, il quale gli proibì in modo espresso di continuare ad essere vescovo ed abate ad un tempo. Brunone abbandonò allora Montecassino, e fece ritorno nella sua diocesi, dove morì nel 1123. La chiesa lo annoverò fra suoi santi nel 1183.

L’iscrizione apposta alla sua statua, fa ancora menzione di due altri periodi importanti della sua vita. Prese desso a combattere la dottrina di Berengario di Tours, il quale negava il dogma della transubstanziazione, e ciò tanto a voce nel sinodo di Roma, quanto ne’ suoi scritti, ed ottenne per questo il titolo strano di dottore della cena. Finalmente pose freno alle violenze del tiranno, nella campagna di Roma, Adolfo conte di Ceccano.

Fu un inglese lord Ellis, abate di Montecassino e vescovo di Segni, il quale innalzò quel monumento al suo predecessore, e la chiesa di Segni ebbe ancora altro punto di contatto più notevole coll’Inghilterra in allora cattolica, imperocchè fu in un sinodo ivi tenuto dai vescovi della [p. 54 modifica]campagna di Roma nel 1173, che l’illustre Tommaso di Canterbury fu canonizzato da Alessandro III pochi anni dopo il suo tragico fine. Un’iscrizione nel duomo ricorda questo fatto.

Lord Ellis, benedettino inglese, antico cappellano del re Giacomo II, venne eletto vescovo di Segni nel 1708. Pare si sia preso molto pensiero della sua diocesi, imperocchè vi ricostrusse il duomo, e vi eresse il seminario che rimane quale migliore ricordo della sua vita. Accorrono a questo da tutte le parti del Lazio allievi, per esservi ammaestrati nelle umane lettere, in guisa che quell’istituto può essere considerato quale un ginnasio. Gli allievi vestono l’abito ecclesiastico, quando anche non intendano intraprendere la carriera sacerdotale. Il seminario sorge sur una altura, nel punto più pittorico della città, presso la piccola chiesa di S. Pietro, dove nei tempi remoti sorgeva l’acropoli volsca, o rocca dei Ciclopi. Allorquando salii colassù, mi colpì grandemente quella località imponente e severa, la quale mi ricordò le antiche acropoli delle città di montagna della Sicilia. Colà, di dove si domina tutto quanto il Lazio, sorgevano la rocca ed il tempio dell’antica signoria; pochi avanzi però rimangono di questi, fra i quali il più rilevante si è una antica cisterna circolare, la quale si trova in vicinanza al seminario. È quella la passeggiata favorita degli abitanti della città, i quali si muovono in quell’altipiano fra le antiche mura ciclopiche, fra quei massi voluminosi rivestiti di muschio, e di piante parasite. È difficile trovare una passeggiata più originale di quella, a tanta altezza, in quella natura gigantesca, e pare fatta a bella posta per la ricreazione dei ciclopi, i quali si dovevano divertire a lanciare qua e là quei massi voluminosi. La montagna scende a picco sotto ai piedi di coloro che colà si muovono, ed essendo giorno di domenica, vi trovai parecchie giovani signore elegantemente vestite le quali facevano pompa di sè in vista per così dire di tutto il Lazio, imperocchè di colassù lo sguardo si stende sopra un vasto panorama di pianure e di monti, [p. 55 modifica]popolati da cento e cento città, ricche tutte di memorie storiche, o favolose. La vista si stende da Roma che si scorge confusa fra le nebbie nella pianura, fino ad Arpino patria di Cicerone, che si vede biancheggiare sui monti azzurri nel regno di Napoli. Questa passeggiata supera per bellezza quella del monte Pincio di Roma, dalla quale non si scorge che la città eterna, mentre di qui si vedono due vaste regioni, numero infinito di città, e non meno di quattro catene di monti.

L’aria vi è fina, quasi cruda, e va agitando di continuo le rose selvatiche, e le piante di ginestro, le quali crescono fra quegli scogli. Tutto ricorda tempi antichissimi, primitivi, di fiera e selvaggia natura, e l’animo ne rimane profondamente scosso.

Salii più alto sul monte per arrivare ai rinomati muri ciclopici, i quali quivi pure come in tutte le città del Lazio circondavano la fortezza o la rocca, piombando obbliquamente sul pendio del monte. La connessione dei loro massi voluminosi, è tuttora precisa, quasi l’opera fosse stata ultimata ieri soltanto; qua e là si aprono piccole porte, di stile etrusco. Al fine di una lunga linea di muro, esiste tuttora la grandiosa, pittorica e rinomata porta ciclopica, la quale serve tuttora oggidì. È formata di potenti massi di forma quasi quadrangolare, i quali formano un arco ottuso, ultimato al vertice dal masso che serve di chiave alla volta. L’aspetto gigantesco di queste mura, la tinta cupa che hanno ricevuto dal tempo, le piante selvaggie che li ricoprono, l’imponenza dei monti ai quali si appoggiano, producono una impressione che con parole non si può descrivere. Non si può paragonare che a quella del mare in burrasca, tutto quivi è grandiose, nulla havvi di meschino.

Oltrepassata questa porta, mi trovai sul lato opposto del monte, di dove la vista spazia su tutto quanto il Lazio. Esiste colà pure una grandiosa cisterna o vasca di forma circolare scavata nello scoglio, la quale non ha meno di trenta passi di diametro. Dessa serve tuttora, imperocchè [p. 56 modifica]vidi attorno a quella parecchie donne, occupate a lavare i loro panni. Trovai parecchie di queste grandi ed antiche cisterne nelle città volsche, e paiono essere state particolarità di queste, imperocchè non ne vidi di quella vastità e di quella forma, in nessuna altra parte del Lazio.

Giunsi allora alla grande e sola strada di Segni accessibile ai carri, in guisa che avevo percorso la città da tre lati. Mi rimaneva a vedere la seconda passeggiata degli abitanti nei giorni festivi. Trovasi questa nella amena valle di fronte alla porta della città, la quale mena anzitutto al convento dei capuccini nascosto fra le piante, quindi nell’interno dei monti. Sorgono colà castagni giganteschi, quercie, ed olmi, ed in quella solitudine, quale sito adattissimo, si nasconde allo sguardo il convento. Era sera, e gli abitanti di Segni erano colà accorsi in buon numero. Anche qui le classi superiori vestono di panno alla foggia uniforme e poco graziosa venuta di Francia, ma il popolo rimase fedele al costume locale indigeno. Nel Lazio, le donne in generale vestono di panno scarlatto; i colori sono più chiari nelle pianure, o si direbbe corrispondano allo stato degli animi, imperocchè ivi è più facile la vita che nello interno dei monti, dove si addensano le nubi, e scoppiano gli uragani. Qui in generale le donne vestono di lana nera, ed il colore delle lor vesti mi pareva corrispondere a pennello alla natura severa del paesaggio. Oltre il nero, il turchino si è il solo colore che vidi in uso fra questa popolazione.

Per quanto sia grandiosa e bella la posizione di Segni, credo però che non mi deciderei a passarvi una state, come in altri punti della campagna romana. Questa solitaria regione di ciclopi non mi pare dover essere favorevole al culto delle muse, allo studio. Inoltre regna quivi un vento quasi continuo, e sono pressocchè quotidiani nelle montagne vicine i temporali, i quali versano torrenti d’acqua sulla città.

Del resto ebbi buon alloggio in questa; l’unica locanda che vi si trova è pulita, e vi sono prezzi moderati, come [p. 57 modifica]lo sono generalmente nei paesi di montagna. Vi trovai buone pesche di colore gialliccio, e vino chiaro, abbastanza buono, sebbene di natura acidula. Ne faceva menzione già Marziale in questi versi.

Potabis liguidum Signina morantia ventrem
Ne minium sistas, sit libi parca sitis
Quos Cara, quos spumans inimico Signia musto.

Era mia intenzione trovarmi a cavallo di buon mattino, per salire sulla vetta dei monti, ed arrivare all’antica Norba traversando le foreste secolari di Volsci, ma il cielo era tutto coperto; non tardò a farsi sentire il tuono nei monti, ed a piovere dirotto. Stavo quasi per rinunciare alla gita, allorquando Giove pluvio calmato forse dalle libazioni fattegli di vino Signino opere parve volere sorridere. Mi affrettai a montaro a cavallo, e preceduto dalla mia guida mi posi per istrada, mentre un venticello sorto in buon punto, andava spazzando rapidamente il cielo dalle nubi che era un gusto vedere qua e là, quasi le vele di barchette in mare.

La foresta comincia appena oltreppassato il convento dei Cappuccini, ed una foresta in Italia è cosa tanto rara, che non è il dire quanto mi tornasse gradita nella mia qualità di tedesco, a cui ricordava la patria lontana. Non trovai però qui le piante delle nostre selve, ma stupendi abeti, quecie, olmi, e qua e là alcuni pini i quali sospiravano in tuono malinconico, allorquando il vento passava a traverso le loro frondi.

La strada era tuttora inzuppata d’acqua, ma noi eravamo a cavallo, e non eravamo costretti a guazzarvi per entro, come quelle povere giovanette e ragazzi che si trascinavano a piedi scalzi nel bosco, per cercarvi e raccogliere i funghi, che la pioggia potesse avere fatto spuntare durante la notte regnava un silenzio profondo in quella solitudine, interrotto soltanto qua e là dai colpi d’ascia di uno spaccalegna, e non incontrammo altra persona che un merciaiuolo, il quale si recava a Cori, cam[p. 58 modifica]minando a fianco del suo mulo carico di sue mercanzie. Per arrivare in quella città era mestieri superare la vetta di quei ripidi monti, e da questo si può comprendere che non sono facili le comunicazione fra le due popolazioni.

Dopo avere camminato un paio d’ore, dapprima nei boschi poi, a misura che salivamo più in alto, sopra le nude roccie, arrivammo alla sommità del monte, e dato ancora uno sguardo al Lazio, che si stendeva sotto i nostri piedi, comminciammo a scendere lentamente dal lato opposto, ma senza vedere ancora, nè il mare nè la Marittima, che ci sorgeva tuttora davanti un’altura, altorno alla quale dovevamo girare. Si stendeva fra questa ed i monti di Segni un’ampia e bella regione di praterie ricca di sorgenti, denominata Colle Mezzo, ed era un piacere il camminare, ora a cavallo ora a piedi per distrarci, su quel verde e fresco tappeto. Incontrammo parecchie mandre di maiali, grassi o ben pasciuti, i quali avevano aspetto assai più felice dei poveri pastori dei principi Doria o Borghese, che li custodivano.

Tornammo a salire, ed entrammo in una nuova e bella foresta, che impiegammo due ore ad attraversare. L’alternarsi di monti e di valli, le gole profonde, i tronchi d’alberi giacenti a terra rivestiti di muschio, le praterie dove pascolavano armenti, gli arbusti in fiore, i sentieri incassati dove a mala pena giungeva la luce del sole, tutto mi ricordava i monti del mio paese natio. Prima di avere veduti questi boschi meridionali, io portava opinione che soltanto in Germania o nel settentrione si trovassero vere foreste,ma nel ritornare in patria, e nel rivedere le nostre selve, ebbi a ricredermi, imperocchè vi mancano i cespugli inferiori, le piante parasite, e rampicanti, e sovratutto la ricca flora dei paesi meridionali. Quanto non era bella questa foresta dei monti volsci! Non ho vista mai una solitudine più poetica. La è la vera stanza delle silfidi, e degli elfi, e si direbbe che il vecchio Saturno colla sua barba argentea, vi si debba trovare nascosto in una qualche grotta. Vidi alberi stupendi, e la cui tinta grigia si [p. 59 modifica]confondeva con quella degli scogli, in guisa che si sarebbe detto fossero continuazione organica, appendice, di quelli.

Scendemmo di cavallo in un punto molto pittorico, e ci sdraiammo sull’erba. Crescevano attorno a noi piante di more selvatiche, i cui frutti maturi ci somministrarono cibo per una refezione campestre. In vicinanza avevamo un verde stagno circondato di giunghi, ed in parte ricoperto di piante selvatiche. La vista di questi luoghi al lume di luna, deve propriamente essere qualcosa di magico, di poetico.

Finalmente la foresta si aprì, in direzione fra mezzodì e ponente; arrivammo all’altro lato del monte, e tutto ad un tratto si aprì davanti ai nostri occhi una vista meravigliosa. Il nostro sguardo abbracciava tutta la campagna marittima, le paludi pontine, una vasta pianura con infinita varietà di colori, e di tinte; più in là scorgevansi il mare indorato dai raggi del sole, l’isola di Ponza perduta nei vapori, il capo di Circe colle sue forme pronunciate, e colle sue rimembranze poetiche; la torre solitaria di Astura, la linea Pia, il castello di Sermoneta; tutto quel panorama stava sotto i nostri piedi! E tutto ciò ci compariva davanti all’improvviso, tutto ad un tratto, in guisa che non sarebbe possibile descrivere con parole la sorpresa che provammo. Mi si era vantato molto in Roma la bellezza di quel colpo d’occhio inaspetatto, repentino, ma desso superò di gran lunga la mia aspettazione, e non posso che raccomandarlo vivamente quale spettacolo raro, a tutti coloro i quali viaggiano nelle Romagne.

Dopo sei ore di cavallo, arrivammo alla piccola città di Norma. Sorge questa cupa sepolcralmente quieta ma pulita in cima di un colle abbastanza alto, in parecchi punti tagliato a picco; e venne fabbricata ad epoca incerta del medio evo, in vicinanza ai ruderi ciclopici dell’antica Norba. Norba, Norma, Ninfa, Cori, Sermoneta, sono i nomi poetici e melodiosi che in questi dintorni si sentono risuonare ad ogni istante, e che riportano il pensiero ai tempi favolosi della mitologia. [p. 60 modifica]

Allorquando fummo entrati nella locanda, e che l’albergatore ci ebbe condotti nelle nostre stanze, dalle finestre delle quali scorgevamo in tutta la sua splendidezza la pianura della Marittima, mi colpì lo sguardo al basso del monte, e quasi sotto di noi come un ampio circolo di mura, rivestite di edera nel mezzo a quale parevano sorgere collinette, che si sarebbero dette formate tutte di edera e di fiori. Sorgevano pure qua e là, antiche torri, rovine, rivestite tutte di lussureggiante verzura ed usciva da quella cerchia singolare un rivo argenteo che attraversava le paludi pontine, e quasi striscia di luce si andava perdere sulla spiaggia del mare. Attonito domandai al locandiere che cosa fossero quella cerchia grandiosa, quelle collinette tutte di fiori e di verzura? «La è Ninfa!» mi rispose il dabben uomo. Questa era pertanto Ninfa, la Pompei del medio evo, e la città perduta nelle paludi pontine. Vi ci recheremo questa sera, quando la luna starà per sorgere dietro i ruderi ciclopici dell’antica Norba.

Trovammo nella locanda di Norma un buon pranzo, ed il riposo di cui abbisognavamo; quindi uscimmo per vedere il piccolo paese, e prendere cognizione dell’antica Norba, imperocchè si è questo l’antico nome volsco della città, nè so quando e come siasi mutato in Norma. Lo trovai usato per la prima volta in principio del secolo VIII alla qual epoca l’imperatore greco Costantino V fece donazione al papa Zaccaria, delle due possessioni Nymphas et Normias, le quali appartenevano allo stato. Si può quindi conghietturare con fondamento, che fin d’allora fosse di già abbandonata l’antica città volsca di Norba, e sorta in vicinanza l’attuale Norma, o Normia.

Le rovine dell’antica Norba si trovano a poca distanza dalla nuova città. Consistono in avanzi tuttora notevoli della rocca, e dei muri ciclopici che la circondavano. Anche qui la rocca sorgeva sopra una rupe isolata; forte per natura, la quale scende a picco dalla parte che guarda le paludi pontine. Era di forma quadrata, e circondata da [p. 61 modifica]un doppio ordine di mura. Vi si ha tuttora accesso per un’antica porta, a fianco della quale sorge una costruzione ciclopica, di forma rotonda, simile ad una torre, od alla pila di un ponte, dell’altezza all’incirca di trentasei piedi. I muri sono in generale dell’altezza di quaranta a cinquanta piedi, e presentano un aspetto più imponente di quelli di Segni. Circondano l’altura, che si capisce essere stata appianata, e ridotta regolare quadrata; e si scorgono tuttora su questa le fondazioni di costruzioni ciclopiche, le quali possono aver appartenuto ad un tempio od a dipendenze della rocca; e rappresentandosi colla imaginazione il complesso di quelle costruzioni, quando esistevano nella loro integrità, non potevano a meno di essere di un carattere grandioso, e severo. Ne può dare fino ad un certo segno, un’idea il tabulario di Roma, il quale risale appunto all’epoca la quale tenne immediatamente dietro alle costruzioni ciclopiche od etrusche, imperocchè è pienamente inesatto il volere far risalire queste ai tempi addirittura favolosi. Da queste alle costruzioni in Roma dei tempi denominati dei Servii, non vi fu che un passo, siccome ebbi già occasione di osservare, parlando delle rovine di Alatri.

Una piccola cisterna antica, alcune stanze e grotte sotterranee, sono quanto rimane dell’antica Norba, oltre gli avanzi dell’acropoli, e delle mura di cui ho fatto di già parola. Mi fece senso non avervi rinvenuto sepolture o loculi scavati nello scoglio, quali si scorgono nelle antiche città dell’Etruria, ed in tutte quelle parimenti antiche della Sicilia, quali per esempio Siracusa, Agrigento, Leonzio, ed Enna, le quali tutte ne hanno moltissime. Non ne trovai veruna in Norba, ma può darsi anche siano sfuggite al mio sguardo. La popolazione di Norma dà all’antica città il nome di Civita la Penna, e non ho potuto comprendere di dove abbia tolta questa denominazione prettamente spagnuola, imperocchè in ispagnuolo Pegne o Penna vuol significare appunto rupe. Del resto questa denominazione è abbastanza appropriata alla mitica Norba, la cui fondazione [p. 62 modifica]si fa risalire ad Ercole. Nei tempi posteriori la città fu devota grandemente alle parti di Mario, e pertanto venne stretta d’assedio da Emilio Lepido, il quale seguiva quelle di Silla; grazie al tradimento riuscì desso a penetrare nell’antica fortezza dei Ciclopi, ma gli abitanti esasperati ricusarono di arrendersi, ed al pari di quelli di Numanzio, preferirono incontrare la morte nelle loro case incendiate. Sembra che d’allora in poi la città sia rimasta rovinata, quanto meno Plino ne parla come di località disabitata.

La vista dell’antica rocca è stupenda, e lo sguardo si compiace a spaziare in quella grandiosa regione, circoscritta dal mare. Si scopre di là tutta la spiaggia, da Porto d’Anzio al capo di Circe ed a Terracina, e vi si possono discernere perfino le torri che sorgono solitarie sulla riva del mare. Vennero queste costrutte fin dal secolo IX, quando i Saraceni cominciarono a fare scorrerie sulle coste d’Italia, e tutto il litorale del continente italiano, come parimenti delle sue isole, è circondato oggidì tuttora da quelle torri pittoriche. Sono desse nello stato romano abitate da quattro o cinque artiglieri, i quali costodiscono gli antichi cannoni e colubrine, curiose a vedersi, che ivi riposano da vari secoli. Ora il nuovo generalissimo dell’esercito pontificio, Lamoricière, ha richiamato a Roma gli artiglieri, ed ha fatto togliere pure dalla piattaforma delle torri le povere antiche colubrine, le quali si scaldavano ai raggi del sole, spiando in mare non più lo sbarco dei Saraceni, ma delle bande di Garibaldi. Mi spiacerebbe avesse tolto via pure le colubrine della torre di Astura, sulle quali sedetti così volontieri contemplando quello stupendo mare, e facendo girare col piede le palle irruginite. Dalla rocca vedevo appunto sulla sponda del mare una torre bianca vicina ad una foresta di un verde cupo; era quella Astura, dove il giovane Corradino fu tradito e fatto prigioniero. Alla distanza di un miglio sorge un’altra torre, quella di Foce Verde, così denominata dall’imboccatura di un rivo, il quale uscendo dalla vicina foresta scende in mare. Più in là sorge un’altra torre, vicina ad un vasto stagno cir[p. 63 modifica]condato da folte piante, le cui acque illuminate dai raggi del sole spiendono come ore. Regna su quello una tranquillità profonda, un silenzio di morte; che si trova colà potrebbe credersi segregato dal resto del mondo; non scorge che gli uccelli marini che svolazzavano di continuo, od il pescatore, che travagliato e consunto dalla febbre, ritira dalla fina sua barchetta le reti, ovvero un povero diavolo mezzo nudo, che va pescando le sanguisughe. Sono la torre, ed il lago di Fogliano; Clostra Romana ne’ tempi antichi dove Lucullo educava le murene, e possedeva una stupenda villa. Il Ninfeo, quel limpido rivo che vediamo uscira dalla verde cerchia, si versa nel lago di Fogliano, e possiamo seguire tutto quanto il suo corso, a traverso le paludi pontine. Vicino a quello si scorgono il lago dei Monaci, il lago di Crapolace, e più in là presso il capo torreggiante di Circe, il lago più ampio di tutti, quello di Paola.

III.

Chi non ha attraversato le paludi pontine, recandosi a Terracina per la stupenda strada della Linea Pia, non può avere una giusta idea della loro natura, ritenendole unicamente putride e nauseabonde maremme. Vi sono per verità paludi e stagni in quantità bastante, ma nascosti e quasi perduti fra boschi stupendi, e folti cespugli, popolati di cignali, di cervi, di porci selvatici, di buffali, di tori mezzo selvaggi. Nei mesi di maggio e di giugno, le paludi pontine sono un vero mare di fiori, che rallegra la vista per quanto si può stendare su quella vasta pianura. Ma nella state è un Tartaro, dove regna ed infierisce la febbre, la quale decima i poveri pastori e braccianti, che in quelle locatità pestifere, vanno guadagnando miseramente il loro pane.

I boschi sono tanto più frequenti, quando più si scende al mare, e da Norba si vedevano distintamente fino al capo di Circe. Si seguono dalle foce del Tevere, da Ostia, ad [p. 64 modifica]Ardea, a Nettuno, a Cisterna, a Terracina. Trovansi nel folto di essi vari spazi vuoti destinati a stanza dei numerosi armenti, e dove abitano i coltivatori, tali sono Conca, Campomorto, Campo-Leone, Torre del Felce, ed altri. Nell’interno, dove cessano i boschi, esistono vaste praterie, terreni coltivati, e discernevamo distintamente la via Appia ristabilita da Pio VI, la quale attraversa la Marittima. Vedevamo pure distintamente il grosso borgo di Cisterna, anticamente Tres Tabernæ, e Foro Appio, l’antico Forum Appium.

Nessuno mai, di quanti vi si accinsero, fu in grado di prosciugare le paludi pontine. Giulio Cesare al quale sorrideva ogni idea grandiosa vi pose mano, ma cessò di vivere prima di essere riuscito nella sua impresa. Gl’imperatori romani i quali profusero tesori in pubbliche costruzioni, non se ne diedero punto pensiero, e la è cosa singolare che il primo a riprendere quei lavori sia stato un conquistatore di Roma, un re barbaro, Teodorico il grande, il quale ristabilì la via Appia andata in rovina, e prosciugò parte delle paludi presso Terracina. Esistono tuttora in questa città due iscrizioni, le quali ricordano l’utile impresa di quel re dei Goti. Fra i Papi primo a ritentare la difficile opera fu l’energico Sisto V, in cui rivivevano gli spiriti magnanimi degli antichi Romani, e gli tenne dietro due secoli dopo Pio VI, il quale ristabilì ancora una volta l’antica via Appia, alla quale diede nome di Linea Pia; scavò a fianco di questa il grandioso canale; scavò altri canali minori, e ridusse a coltivazione parte delle paludi, acquistandosi per tal via titolo perenne alla gratitudine di quelle travagliate popolazioni.

Dalla rocca ciclopica di Norba, scendemmo a Ninfa, la quale si trova precisamente al disotto, dove già cominciano le puludi, o vi si arriva, o seguendo la comoda discesa tracciata in zig zag, ovvero cercando perpendicolarmente la propria strada sul ripido pendio del monte. Trovandoci noi a piedi, scegliemmo quest’ultima via saltellando di scoglio in scoglio, e facendo rotolare al basso i sassi. [p. 65 modifica]

Così arrivammo a Ninfa, la città magica in rovina perduta nelle paludi, e sepolta colle sue mura, colle sue torri, colle sue chiese, co’ suoi monasteri, colle sue case, tutta quanta nell’edera. Il di lei aspetto è più grazioso d’assai di quello di Pompei; le case della quale sorgono quasi mummie, per metà rovinate, dissotterrate dall’arida cenere volcanica. A Ninfa invece uno si trova quasi in un mare di fiori, ogni muro, ogni parete, ogni chiesa, ogni casa, è meravigliosamente rivestita di edera, e su tutte quelle rovine campeggiano le bellezze inarrivabili della primavera e della natura. Non si può con parole descrivere l’impressione che si prova nell’entrare in quella città tutta di edera, nel girare in quelle strade deserte, fra quelle mura rovinate in quell’oceano di fiori, fra tutte quelle foglie agitate dal vento, dove non si ode altra voce che il gracchiare dei corvi che hanno fissata la loro stanza nelle torri del castello, altro romore che il mormorio delle limpide acque del Ninfao, che lo agitarsi dei giunchi in riva agli stagni, che l’ondeggiare melodioso ed armonico delle canne palustri. Si direbbe che Ninfa pure sia stata come Pompei sepolta da un volcano, ma non già sotto le ceneri bensì sotto i fiori. Tutto il regno di Flora vi ha stabilito la sua sede, e vi celebra le sue feste. Le strade riboccano di fiori; i fiori ingombrano le chiese rovinate, si arrampicano su per le torri, circondano, inquadrano le finestre, chiudono l’adîto alle porte, occupano tutte le case, che si direbbero abitate dagli elfi, dalle fate, dalle ondine, da tutte le più graziose creazioni della mitologia romantica. Si scorgono camomille dorate, malve, narcisi odorosi, cardi calla bianca barba, che devono avere vissuto quivi altra volta quali monaci; candidi gigli i quali in vita devono essere state vergini solitarie e sante; rose selvatiche, allori, lentischi, felci, clematiti, roveti, caprifogli, garofani, fuchsie, mirti, mente edorose, ginestre, e dovunque poi edera lussureggiante la quale si abbarbica a tutte le rovine, scavalca i muri, ricade in festoni; in una parola un vero mare di [p. 66 modifica]fiori che inonda l’atmosfera di profumi i più soavi, rapisce i sensi, incanta, inebria.

Sussistono tuttora anche le mura, che nel medio evo circondavano la città; ma ora si trovano tutte rivestite di edera, e qua e là soltanto emerge fuori un qualche merlo rovinato, un avanzo di una torre. Le porte sono letteralmente chiuse dalla vigna vergine, dai roveti, e dall’edera quasichè i fiori che sono all’interno, temessero l’attacco de nemici, e volessero, come gli antichi abitanti della città, assicurarsi contro le scorrerie dei Saraceni, o delle bande di Barbarossa, del duca d’Alba, o dei Colonnesi; ma ora la città distrutta ed i suoi fiori non sono minacciati più che dalle meteore e dalle bufere, le quali si scatenano dalle paludi pontine.

Sussistono tuttora tutte le piazze, tutte le strade fiancheggiate dalle case cadenti in rovina, ed invase dall’edera; e talune che serbano aspetto di palazzi di architettura semigotica, devono aver appartenuto alle famiglie patrizie e più agiate del luogo. Le più curiose a vedersi sono però le chiese, delle quali esistono ancora quattro o cinque cadenti in rovina. Non ho veduto mai rovine più poetiche di quelle, e male potrei con parole descrivere quei campanili in parte rovinati colle loro finestre ad arco, o tonde, o divise a metà da una colonnetta, colle loro cornici ed ornati del medio evo, tutti guerniti di edera, e ricoperti di variopinti fiori; tutti quegli avanzi di vôlte, di navate, sepolti nella più lussureggiante vegetazione. Tutte quelle chiese sono antiche, ed appartengono ai secoli XI e XII, se pure non sono di costruzione anteriore, imperocchè sono di stile semplicissimo, a foggia di basilica. Nelle loro vaste navate ora pregano i fiori, ed a vece del profumo degli incensi, l’atmosfera è impregnata dell’olezzo di questi. Sulle pareti, sulle tribune rovinate, scorgonsi ancora qua e là fra l’edera alcuni avanzi di pitture a fresco. Vi sono martiri colla palma in mano, e cogli stromenti del martirio accanto alle loro figure. Colle loro fisionomie pallide, colle loro aureole svanite, colla loro dalmatica di tela d’oro, colle [p. 67 modifica]loro stole, compaiono in mezzo all’edera ed ai fiori, e si direbbe che lamentano l’invasione pagana delle loro chiese dal regno di Flora. Non risuonano più quelle vôlte del canto delle litanie dei monaci, non vi si sentono più che il ronzare estivo degli scarabei, e le canzoni anacreontiche d’amore del grillo. Gli scarabei ed i fiori hanno preso possesso di quei tempii, e più non li abbandonano. Nella Francia meridionale fu sporta un giorno lagnanza a S. Bernardo, che una chiesa costrutta di recente, ed appena consacrata, fosse stata invasa da innumerevoli sciami di mosche; si che non vi fosse mezzo di liberarnela. S. Bernardo rispose: «ed io le scomunicherò,» e quando i messaggieri tornarono nella chiesa, trovarono che tutte le mosche erano morte. Sarebbe assai più difficile ad uno santo liberare le chiese di Ninfa dai fiori, e per quanto quei poveri, martiri si mostrino ingrugniti, non anderà molto che l’edera li avrà interamente sepolti. Di parecchi fra quelli non si scorge guari più che il lembo della tunica, sul quale sta scritto in antichi caratteri latini il nome del santo, e si può leggere ancora a traverso i fiori S. Sisto, S. Cesario, S. Lorenzo. Entrai nell’ultima di queste chiese; che vista! A vece dell’antico pavimento a mosaico ed arabeschi di stile bizantino, od alessandrino, non si scorge più che un tappeto tutto di fiori, e sull’altare, dove stavano una volta de reliquie dei santi, cresce la vigna indica, co’ suoi grappoli di un bel colore rosso ed azzurro.

Per dir vero non mancano i fiori al Cristianesimo! Non sarebbe oramai tempo di sostituirli a tutti quei martiri, a tutti quei santi cogli stromenti ingrati delle loro torture? Qui la natura sparge fiori a piene mani sulle tombe di tutti quei poveri peccatori, di tutti quei poveri monaci, i quali si tormentarono, si martoriano, nei tempi della più cupa superstizione; non converrebbe che oramai il cattolicismo pure, circondasse di fiori le tombe de’ suoi morti?

Non manca poi in Ninfa il contrapposto di Pompei. Nella stessa guisa che a Pompei l’antichità classica si rivela nelle sue pitture a fresco di aspetto gaio, nelle pitture mezzo [p. 68 modifica]rovinate di Ninfa si scorgono ancora tutti i caratteri dell’epoca la più fiorente del Cristianesimo. A Pompei tutto spira amore e vita; vi si scorgono amorini che bevono ad una una coppa, satiri che danzano, grilli che tirano un piccolo carro, baccanti col loro bianco velo le quali percuotono i cimbali, o che portano nelle loro mani una cassetta misteriosa, o che agitano un tirso carico di frutta; nella Pompei del medio evo per contro, le pitture non riproducono che imagini di morte e di dolore; vi si scorgono tutti i soggetti riprodotti costantemente nelle catacombe, i martiri, i tormenti, le fiamme, la croce, i confessori della fede in ginocchio colle mani giunte davanti al carnefice che tiene la spada snudata sospesa sul loro capo. Il mio pensiero ondeggiava di continuo fra le due città, paragonandole l’una all’altra. Entrambe portano l’impronta del loro tempo, ed io sono lieto di avere visto pure questa Pompei del medio evo, sepolta sotto l’edera ed i fiori.

Sorge tuttora all’ingresso di Ninfa l’antico castello feudale, sede un dì dei baroni, ed emerge pittorica da questo la torre quadrangolare costrutta di grossi mattoni, simile alla torre delle Milizie in Roma, e probabilmente della stessa epoca. I gufi hanno preso possesso de’ suoi fori, e negli arbusti che poco alla volta crebbero sulla sua sommità, si annidarono i falchi. Sorge il castello vicino ad uno stagno di discreta ampiezza; che si scorge, quasi palude stigia, all’ingresso di questa città dei morti, e sulle acque quiete di quello, si stendono le ombre della torre e delle altre rovine. Giunchi altissimi circondano la palude, e quando sibila fra questi il vento, si direbbe essere nel regno delle ombre di Enea o di Ulisse. Di quando in quando si ode il grido di un’anitra selvatica, la quale sospira quasi un’anima in pena in questi abissi, la quale aneli a più alte regioni. Mi assisi su quelle rovine, gettando uno sguardo ora su quella città sepolta nelle frondi, ora sulla linea azzurra dei monti, ora sull’antico castello e sulle costruzioni ciclopiche, ora sulle paludi pontine, ora sul mare irradiato di luce, da cui emerge il capo di Circe. Che la fatucchiera [p. 69 modifica]abbia abbandonata quella sua antica stanza? Che si sia portata a Ninfa? Che sia diventata regina dell’edera? Trovasi questa in tanta quantità quivi, che ve ne sarebbe abbastanza per rivestire tutte le rovine storiche di questo suolo d’Italia, cotanto ricco di memorie antiche.

Sarebbe pur bello sedere qui alla sera, quando il sole sul tramonto tinge tutte queste rovine prima di colore purpureo, quindi di colore d’oro; che dire poi dell’aspetto magico che devono presentare desse al chiarore della luna!

Scaturisce dello stagno il rivo Ninfeo, che pare avere ivi la sua origine, e che porta alquanto di vita in questa morta regione. correndo rapido e romoroso lungo le rovine, quasi avesse premura di sottrarsi a questo aspetto di morte, agli abbracciamenti dell’edera che tutto invade, di attraversare le paludi pontine, e di arrivare al mare. Desso dà moto ad un molino eretto in un edificio, il quale deve risalire al medio evo, essendo di stile gotico-romano, colle finestre a colonnette. Un’iscrizione che si legge sulla porta di esso, indica che il molino e la strada aderente furono opera di Francesco Gaetani, duca di Sermoneta e signore di Ninfa, nel 1763.

La storia di questa città meravigliosa è abbastanza oscura. Nel secolo XII apparteneva dessa ai Frangipani; l’illustre Papa Alessandro III fu qui eletto nel dì 20 settembre 1159. La famiglia Gaetani acquistò il possesso di Ninfa sul finire del secolo XIII e lo tiene tuttora oggidì. Gli archivi dei Gaetani in Roma contengono parecchi documenti, i quali provano che Pietro Gaetani, conte palatino lateranense, conte di Caserta e nipote di Bonifacio VIII acquistò poco a poco le case ed i terreni di Ninfa, da coloro che prima li possedevano. Provai un vero piacere nel leggere quelle antiche pergamene, stupendamente scritte, le quali mi riportavano con tanta evidenza ai tempi in cui vennero dettate. Non ho trovato alcun titolo posteriore al secolo XV ma trovai un atto, stipulato ancora il 22 febbraio 1349 nel castello feudale che ora giace rovinato. Vi si legge: Actum Nimphe in scalis palatii [p. 70 modifica]Rocce Nimphe presente Nicolao Cillone Vicario Sculcule.... Non saprei precisare l’epoca nella quale Ninfa venne abbandonata, ma questa incertezza, se riesce spiacevole allo storico il quale vorrebbe sapere tutto, non torna sgradita al poeta; e questo mistero corrisponde alla condizione presente dei luoghi. Anticamente, presso lo stagno, alla sorgente del rivo deve aver esistito un ninfeo, ossia tempio dedicato alle ninfe, da cui la località deve avere tolto il suo nome grazioso e per dir vero è questa adatta cotanto alle Ninfe, che le si dovrebbe dare un tal nome, quando già non lo avesse.

Vuole la tradizione, che sulle rovine del tempio delle Ninfe fosse eretta una chiesa, dedicata all’arcangelo S. Michele. È certo poi che nel 1216 il cardinale Ugolino, il quale fu più tardi Papa Gregorio IX edificò quivi la chiesa di S. Maria del Mirteto, e che presso questa ebbero stanza i cavalieri dell’ordine di S. Lazzaro. Se non che, le memorie storiche quivi hanno poco pregio; ogni cosa porta all’idea delle creazioni della mitologia, alle finzioni della favola.

Nel mattino seguente prendemmo in Norma dei muli a nolo, per andare all’antica e rinomata città di Cori, o Cora, la quale si trova a tre buone ore di distanza. La strada carrozzabile corre al basso, presso Ninfa, ma scegliemmo un bello ed ameno sentiero sul pendio dei monti, di dove si gode costantemente la vista delle paludi pontine, del mare, e si scorge pure Roma in lontananza. La frescura del mattino, la serenità di una splendida giornata di settembre, rendevano la nostra cavalcata piacevolissima, ad onta fossero quei monti monotoni e deserti; non scorgendosi che qua e là alcuni pastori, occupati a mungere le loro pecore, ed a cuocere il latte attorno il fuoco per formarne il caccio, od intenti a costrurre le loro capanne coniche con rami di ginestro.

Nel contemplare quella vasta regione delle paludi pontine, rischiarata dal sole, quella spiaggia latina in direzione di Roma, dove sorgeva l’antichissima Ardea nel paese dei Rutuli, ricorrevano naturalmente alla memoria [p. 71 modifica]i versi stupendi, ed i personaggi dell’Eneide; imperocchè quella era la sede della Troia romana, quello il teatro delle lotte di quegli eroi, e ci si presentava alla imaginazione la figura graziosa della eroina del popolo volsco, dell’amazzone Camilla, cacciatrice in quelle pianure, per quelle foreste.

Hos super advenit Volsca de gente Camilla
Agmen agens equitum, et florentes ære catervas
Bellatrix.

La descrizione della morte di lei, e del fine tragico di Evandro figliuolo di Pallade, sono forse quanto abbia scritto di meglio Virgilio. È d’uopo leggere nei campi romani i versi melodiosi e sonori dell’Eneide, per apprezzarne tutta quanta la magica bellezza. Sono di una bellezza tranquilla, severa come la campagna di Roma. Quel poema immortale, è quanto ci rimanga che meglio riproduca il carattere di Roma antica, e fin che durerà il mondo varrà a dar vita a questi monti, a queste pianure, e queste foreste. Turno, Mesenzio, Lavina, Ascanio, ed il fido Acate, vivono qui tuttora, e quali descrizioni poi! Nulla havvi di più grandioso, di più solenne, di più epico, se non l’Iliade. Del resto che cosa potrebbesi trovare di più sublime che la campagna di Roma, e le spiaggie del suo mare?

Si prova un vero piacere a viaggiare a traverso la culla primitiva della grandezza romana richiamando alla memoria i versi virgiliani intorno a Troia, ed intorno all’Ellade. Si vive per così dire in una atmosfera Ellenica e ciò tanto più, quanto più uno si avvicina a Cori, imperocchè questa città è antichissima, risalendo ai tempi favolosi, ai tempi pelasgici. Roma è detta la città eterna, ma non a motivo della sua antichità, imperocchè le città della campagna romana sono di gran lunga più antiche, e Cori fra le altre, la quale giusta i computi di tutti gli archeologi antichi e moderni, venne fondata mille quattro cento settant’anni prima della nascita di Cristo, è una delle città più antiche del mondo, ed anteriore di sette secoli a Roma. [p. 72 modifica]

Su questo suolo classico, ricorrono facilmente alla memoria le tradizioni mitiche, intorno alla fondazione di Cori. Narrano queste, che il Troiano Dardano figliuolo di Corito re d’Italia e di Elettra figliuola di Atlante, abbia fondata questa città; che quindi, uccisore di suo fratello, fuggendo dalla presenza di Siculo e di suo padre, siasi ricoverato in Asia dove abbia fondata Dardania, la quale dal suo nipote Troilo prese il nome di Troia, e questa tradizione pare accettabile quando dalla Dardania Cori si getta lo sguardo sui campi dove fu Laurento, e dove Enea fondò Lavina, e la novella Troia.

Trovasi menzionata Cori nel libro settimo dell’Eneide.

Tum gemini fratres, Tiburtia mœnia linquunt
Fratris Tiburti dictam cognomine gentem,
Catillusque acerque Coras, Argiva inventus.

I tre fratelli Catillo, Cora, e Triburto, furono figliuoli di Anfiarao di Argo; venuti di Grecia in Italia, fondarono Tiburi, o Tivoli. E vuolsi che Cora abbia redificata Cori, e sarebbe questa la seconda origine favolosa della città.

Dessa si presenta ora ai nostri occhi in forma di una piramide di case, eretta in cima ad un monte, sulla sommità del quale stanno le rovine graziose di un tempio di Ercole di stile dorico, mentre al piede del monte giacciono giardini ricchi di frutta, di fiori, vigneti, oliveti. La città attuale conta all’incirca cinque mila abitanti, e va altiera di non aver appartenuto mai a verun principe o barone, ma di essere stata sempre, fin dal medio evo, feudo del senato e popolo romano.

Non voglio stancare la pazienza del lettore che deve oramai essere sazio di rovine, descrivendogli ancora quelle di Cori. Meritano però uno sguardo le antichissime mura ciclopiche o pelasgiche, le quali sono tuttora visibili in vari punti della città, e che si paragonano alle mura di Micene, o di Tirinto. Sostengono ancora l’antica acropoli che corona la città, e quando uno si è arrampicato, non senza disagio, su quell’altura, prova gradevole sorpresa [p. 73 modifica]incontrandovi le rovine del peristilio di un tempio di pretto stile greco. È un edificio piccolo, grazioso d’ordine dorico, tuttora in buono stato; e dalla tinta bruna delle sue colonne di travertino, si riconosce che deve essere molto antico. Gli si dà il nome di tempio di Ercole; ma probabilmente con poco fondamento, imperocchè esistevano a Cori i tempi di Castore e Polluce, della Fortuna, di Diana, delle divinità dei campi pontini, del Sole, di Giano, di Eolo, di Apollo, e di Esculapio. Si fanno pure vedere più basso alcune belle colonne di ordine corinzio, le quali trovansi ora murate in una casa; e che vuolsi abbiano appartenuto al tempio dei Dioscuri. Sussistono tuttora alcuni avanzi di antichi bagni, di cisterne, ed un ponte gigantesco di costruzione romana, sopra un rivo che corre in vicinanza alla città.

Poche sono per contro le memorie del medio evo. Il duomo di S. Pietro, eretto sopra le revine del tempio di Ercole nulla offre di pregevole; per contro è degna di attenzione per la sua architettura la chiesa di S. Oliva. Se non che, chi può darsi pensiero di antichità, in presenza della vista stupenda della marittima, che si gode da qualunque punto di Cori? Sarebbe un piacere passare quivi una state. L’aria vi è fresca e balsamica, il vino buono, e vi abbondano a tal segno le frutta, che per un baiocco si possono avere ventisei fichi eccellenti. La è cosa strana, che Cori sia così poco conosciuta ed apprezzata dai Romani. Non si recano questi che a Frascati, ad Albano, e sono pochissimi quelli che conoscano le bellezze della loro provincia. Eppure quale maggiore soddisfazione vi sarebbe, di quella di visitare i monti della Sabina, delli Ernici, dei Volsci, di ritemprarsi nella semplicità di queste bellezze naturali?

Lasciai Cori salendo a cavallo per recarmi a Valletri, e ne partii, come da Ninfa, col desiderio di tornarvi, di potere ivi godere in piena tranquillità, delle delizie dello studio.