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rovinate di Ninfa si scorgono ancora tutti i caratteri dell’epoca la più fiorente del Cristianesimo. A Pompei tutto spira amore e vita; vi si scorgono amorini che bevono ad una una coppa, satiri che danzano, grilli che tirano un piccolo carro, baccanti col loro bianco velo le quali percuotono i cimbali, o che portano nelle loro mani una cassetta misteriosa, o che agitano un tirso carico di frutta; nella Pompei del medio evo per contro, le pitture non riproducono che imagini di morte e di dolore; vi si scorgono tutti i soggetti riprodotti costantemente nelle catacombe, i martiri, i tormenti, le fiamme, la croce, i confessori della fede in ginocchio colle mani giunte davanti al carnefice che tiene la spada snudata sospesa sul loro capo. Il mio pensiero ondeggiava di continuo fra le due citta, paragonandole l’una all’altra. Entrambe portano l’impronta del loro tempo, ed io sono lieto di avere visto pure questa Pompei del medio evo, sepolta sotto l’edera ed i fiori.

Sorge tuttora all’ingresso di Ninfa l’antico castello feudale; sede un dì dei baroni, ed emerge pittorica da questo la torre quadrangolare costrutta di grossi mattoni, simile alla torre delle Milizie in Roma, e probabilmente della stessa epoca. I gufi hanno preso possesso de’ suoi fori, e negli arbusti che poco alla volta crebbero sulla sua sommità, si annidarono i falchi. Sorge il castello vicino ad uno stagno di discreta ampiezza; che si scorge, quasi palude stigia, sll’ingresso di questa città dei morti, e sulle acque quiete di quello, si stendono le ombre della torre e delle altre rovine. Giunchi altissimi circondano la palude, e quando sibila fra questi il vento, si direbbe essere nel regno delle ombre di Enea o di Ulisse. Di quando in quando si ode il grido di un’anitra selvatica, la quale sospira quasi un’anima in pena in questi abissi, la quale aneli a più alte regioni. Mi assisi su quelle rovine, gettando uno sguardo ora su quella città sepolta nelle frondi, ora sulla linea azzurra dei monti, ora sull’antico castello e sulle costruzioni ciclopiche, ora sulle paludi pontine, ora sul mare irradiato di luce, da cui emerge il capo di Circe. Che la fatucchiera