Morgante maggiore/Canto decimonono

Canto decimonono

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Canto decimottavo Canto ventesimo
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CANTO DECIMONONO.




ARGOMENTO.

     Di Morgante e Margotte una quistione
Fa tirare il calzino a due giganti,
Che data aveano in guardia ad un lione
Una fanciulla consumata in pianti.
Sì fattamente a sghignazzar si pone
Margutte, ch’a una scimia e’ crepa avanti.
Morgante a Babillona capitando,
La sottopone in compagnia d’Orlando.


1 Laudate, parvoletti, il Signor vostro,
     Laudate sempre il nome del Signore,
     Sia benedetto il nome del re nostro
     Da ora a sempre insin’all’ultime ore;
     Or tu, che insino a qui m’hai il cammin mostro,
     Del laberinto mi conduci fore,
     Sì ch’io ritorni ov’io lasciai Morgante,
     Con la virtù delle tue opre sante.

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2 Partironsi costoro alla ventura;
     Vanno per luoghi solitari e strani,
     Sanza trovar mai valle nè pianura,
     Non senton cantar galli, o abbaiar cani:
     Pur capitorno in certa parte oscura,
     Ove e’ sentiron di luoghi lontani
     Venir certi lamenti afflitti e lassi,
     Che parean d’uom che si ramaricassi.

3 Dicea Morgante a Margutte: Odi tue,
     Come fo io, un certo suono spesso
     D’una voce che par che innalzi sue,
     Poi si raccheti? ella debbe esser presso.
     Margutte ascolta ed una volta e due,
     E poi diceva: Anch’io la sento adesso;
     Questi fien malandrin, ch’assalteranno
     Qualcun che passa, e rubato l’aranno.

4 Disse Morgante: Studia un poco il passo,
     Veggiam che cosa è questa, e chi si duole;
     Al mio parere, egli è quaggiù più basso,
     Però per questa via tener si vuole;
     Chiunque e’ sia, par molto afflitto e lasso,
     Quantunque e’ non si scorgan le parole:
     E se son mascalzon, tu riderai,
     Ch’io n’ho degli altri gastigati assai.

5 Poi che furono scesi una gran balza,
     E’ cominciorno da presso a sentire,
     Però che sempre il lamento rinnalza;
     Una fanciulla piena di martire
     Vidono alfine scapigliata e scalza,
     Ch’a gran fatica poteva coprire
     Le belle membra sue, tanto è stracciata,
     E con una catena era legata.

6 Ed un lione appresso stava a quella,
     Che la guardava; e come questi sente,
     Fecesi incontro la bestia aspra e fella:
     Vanne a Morgante furiosamente,
     E cominciava a sbarrar la mascella,
     E volere operar l’artiglio e ’l dente:
     Morgante un gran susorno gli appiccoe
     Col gran battaglio e ’l capo gli schiaccioe.

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7 E disse: Che credevi tu far, matto?
     I granchi credon morder le balene!
     Poi verso la fanciulla andò di tratto,
     Pargli discreta, nobile e dabbene;
     E domandolla come stessi il fatto,
     Onde tanta disgrazia a questa avviene.
     Costei pur piange, e Morgante domanda,
     Ma finalmente se gli raccomanda,

8 Dicendo: Non pigliassi ammirazione,
     Se prima non risposi a tue parole,
     Tanto son vinta dalla passione;
     Ma se di me pur per pietà ti duole,
     Io ti dirò del mal mio la cagione,
     Che per dolor vedrai scurare il sole:
     Come tu vedi, stata son sett’anni
     Con pianti, con angoscie e amari affanni.

9 Il padre mio ha fra gli altri un castello
     Che si chiama Belfior presso alla riva
     Del Nilo, e Filomeno ha nome quello;
     Un dì fuor delle mura a spasso giva:
     Era tornato il tempo fresco e bello
     Di primavera, ogni prato fioriva;
     Come fanciulla m’andavo soletta,
     Per gran vaghezza d’una grillandetta.

10 E ’l sol di Spagna1 s’appressava all’onde,
     E riscaldava Granata e ’l Murrocco,
     Dove poi sotto all’Ocean s’asconde;
     E pur seguendo il mio piacere sciocco
     Un lusignuol sen gia di fronde in fronde,
     Che per dolcezza il cor m’aveva tocco,
     Pensando come e’ fu già Filomena;2
     Ma del Nil sempre segnavo la rena.

11 Mentre così lungo la riva andava,
     Il lusignuol si fugge in una valle,
     Ed io pur drieto a costui seguitava,
     Cogliendo violette rosse e gialle;
     Ma finalmente in un boschetto entrava,
     E’ be’ capelli avea drieto alle spalle,
     E posto m’ero in su l’erba a sedere,
     Ché del suo canto n’avea gran piacere.

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12 Mentre ch’io stavo come Proserpina3
     Co’ fiori in grembo ascoltare il suo canto,
     Giovane bella, lieta e peregrina,
     Il dolce verso si rivolse in pianto:
     Vidi apparire, omè lassa tapina!
     Un uom pel bosco feroce da canto:
     Il lusignuolo e’ fior quivi lasciai,
     E spaventata a fuggir cominciai.

13 E certo io sarei pur da lui scampata;
     Ma nel fuggire a un ramo s’avvolse
     La bella treccia e tutta avviluppata:
     Giunse costui, e per forza la svolse;
     Quivi mi prese, e così sventurata,
     In questo modo al mio padre mi tolse;
     E strascinommi insino a questa grotta,
     Dove tu vedi ch’io son or condotta.

14 Credo ch’ancora ogni selva rimbomba
     Dov’io passai, quando costui per terra
     Mi strascinava insino a questa tomba;
     E s’alcun satir pietoso quivi erra,
     Questo peccato so ch’al cor gli piomba,
     O se giustizia l’arco più diserra;
     Omè, che mi graffiò più d’uno stecco,
     Tal che risuona ancor del mio pianto Ecco.

15 Le belle chiome mie tra mille sterpi
     Rimason, dè’pensar, tutte stracciate
     Tra boschi e tra burrati, e lupi e serpi,
     Che fur come Assalon malfortunate;
     Omè, che par che ’l cor da me si scerpi!
     Omè, le guance belle e tanto ornate
     Furono a’ pruni, e credo che tu ’l creda,
     Troppo felice ed onorata preda!

16 E’ drappi d’oro e’ vestimenti tutti
     Al loto, al fango, a’ sassi, a’ rami, a’ ceppi,
     Che solo un bruscolin facea già brutti,
     Poi gli vidi stracciar per tanti greppi:
     Nè creder ch’io tenessi gli occhi asciutti,
     Misera a me, comunque il mio mal seppi;
     Ma sempre lacrimosi e meschinelli,
     Dovunque io fu’, lascioron due ruscelli.

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17 E fur pur già nella mia giovinezza
     E lume e refligerio a molti amanti:
     Arien giurato e detto per certezza
     Che fussin più che ’l Sol belli e micanti;4
     E molte volte per lor gentilezza
     Venien la notte con suoni e con canti,
     E sopra tutto commendavan questi,
     Che furon graziosi e ’nsieme onesti.

18 Ed or son fatti, come vedi, scuri:
     Così potessi alcun di lor vedegli,
     Che non sarien sì dispietati e duri,
     Ch’ancor pietà non avessin di quegli:
     Anzi l’arebbon negli anni futuri,
     Ricorderiensi già che furon begli;
     Ma per me più non è persona al mondo,
     Cercando l’universo tutto tondo.

19 Il padre mio di duol si sarà morto,
     Poi ch’alcun tempo arà aspettato invano;
     E la mia madre sanza alcun conforto
     Non sa ch’io stenti in questo luogo strano,
     Nè del gigante che mi facci torto,
     E battami ogni dì con la sua mano,
     E faccimi a’ lion guardar nel bosco,
     Tanto ch’io stessa non mi riconosco.

20 O padre, o madre, o fratelli, o sorelle,
     O dolce amiche, o compagne, o parente;
     O membre afflitte, lasse e meschinelle,
     O vita trista, misera e dolente;
     O mondo pazzo, o crude e fere stelle,
     O destino aspro e ’ngiusto veramente;
     O morte, refrigerio all’aspra vita,
     Perchè non vieni a me, chi t’ha impedita?

21 È questa la mia patria dov’io nacqui?
     È questo il mio palagio e ’l mio castello?
     È questo il nido ove alcun tempo giacqui?
     È questo il padre e ’l mio dolce fratello?
     È questo il popol dov’io tanto piacqui?
     È questo il regno giusto, antico e bello?
     È questo il porto della mia salute?
     È questo il premio d’ogni mia virtute?

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22 Ove sono or le mie purporee veste?
     Ove sono or le gemme e le ricchezze?
     Ove sono or già le notturne feste?
     Ove sono or le mie delicatezze?
     Ove sono or le mie compagne oneste?
     Ove sono or le fuggite dolcezze?
     Ove sono or le damigelle mie?
     Ove son, dico? Omè, non son già quie.

23 Ove sono or gli amanti miei puliti?
     Ove sono or le cetre e gli organetti?
     Ove sono ora i balli e’ gran conviti?
     Ove sono ora i romanzi e’ rispetti?
     Ove sono ora i profferti mariti?
     Ove sono or mill’altri miei diletti?
     Ove son? L’aspre selve e’ lupi adesso,
     E gli orsi, e’ draghi, e’ tigri? son qui presso.

24 Che si fa ora in corte del mio padre?
     Che si fa or ne’ templi e in su le piazze?
     Fannosi feste alle dame leggiadre,
     Pruovansi lance e mille buone razze
     De’ be’ corsier tra l’armigere squadre:
     Credo ch’ognun s’allegri e si sollazze;
     E pur se già di me si pianse alquanto
     Per lungo tempo, omai passato è il pianto.

25 Misera a me quanto ho mutato il vezzo!
     Esser solevo scalzata ogni sera,
     E porpore spogliar di tanto prezzo,
     Che rilucien più che del Sol la spera:
     Or de’ miei panni non si tien più pezzo!
     Quante donzelle al servigio mio era!
     Che ricche pietre ho portate già in testa!
     E stavo sempre in canti, in suoni e ’n festa.

26 Ed or, come tu vedi, son condotta
     Sanza veder mai creatura alcuna:
     Il mio regal palagio è questa grotta;
     Dormo la notte al lume della luna:
     Or chi felice si chiama talotta,
     Esemplo pigli della mia fortuna:
     Cascan le rose, e restan poi le spine;
     Non giudicate nulla innanzi al fine.

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27 Io fui già lieta a mia consolazione,
     Ed or con Giobbe cambierei mie pene;
     Ogni dì questo gigante ladrone
     Mi batte con un mazzo di catene,
     Sanza saper che sia di ciò cagione:
     Credo che sia, perchè da cacciar viene
     Irato co’ lion, serpenti e draghi,
     E sopra me dell’ingiurie si paghi.

28 E vipere, e ceraste, e strane carne
     Convien ch’io mangi che reca di caccia,
     Che mi solieno a schifo esser le starne;
     Se non che mi percuote e mi minaccia,
     Sì che per forza mi convien mangiarne:
     Alcuna volta degli uomini spaccia,
     Poi gli arrostisce e mangiagli il gigante,
     Col suo fratel che si chiama Sperante.

29 E lui Beltramo: e ogni giorno vanno
     Per questi boschi come malandrini,
     E molte volte arrecato qui m’hanno,
     Perch’io mi spassi, serpenti piccini;
     Come color ch’e’ miei pensier non sanno,
     Alcuna volta bizzarri orsacchini:
     E perchè ignun non mi possi furare,
     Da quel lion mi facevon guardare.

30 Così di paradiso sono uscita,
     E son condotta in queste selve scure;
     Già si provò di camparmi la vita
     Burrato, e non potè con la sua scure.
     E con fatica di qui fe partita,
     E so ch’egli ebbe di vecchie paure:
     Tutto facea perchè di me gl’increbbe;
     E anco disse che ritornerebbe.

31 Quand’io ti vidi al principio apparire,
     Mi rallegrai, dicendo nel mio core:
     E’ fia Burrato, che non vuol mentire,
     Nè esser di sua fede mancatore.
     Per liberarmi da tanto martire
     Già cavalieri erranti per mio amore
     Combattuto hanno con questi giganti,
     Ma morti son rimasi tutti quanti.

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32 Se voi credessi di qui liberarmi,
     Il padre mio, se vivo fussi ancora,
     Che forse spera pur di ritrovarmi,
     Vi darebbe il suo regno ove e’ dimora,
     Chè so con gran disio debbe aspettarmi:
     Però s’a questo nessun si rincora,
     Io ve ne priego, io mi vi raccomando.
     Così dicea piangendo e sospirando.

33 Morgante già voleva confortarla,
     Ma non potea, tanta pietà l’assale.
     Mentre ch’ancor questa fanciulla parla,
     Ecco Beltramo, ch’aveva un cinghiale,
     E comincia di lungi a minacciarla:
     In su la spalla tenea l’animale,
     Col braccio destro strascinava un orso,
     E sanguinava pe’ graffi e pel morso.

34 Vide costoro, e la testa crollava,
     Quasi dicessi a quella: Io te ne pago.
     Ecco Sperante che quivi arrivava;
     E per la coda strascinava un drago:
     Questo era maggior bestia e assai più brava
     Del suo fratello, e di far mal più vago:
     Giunti a Morgante, a gridar cominciorno,
     Tal che le selve intronavan d’intorno.

35 Morgante guata la strana figura
     De’ due fratelli, e poi gli salutoe,
     Chè gli detton capriccio di paura;5
     Ma l’uno e l’altro il saluto accettoe,
     Pur tal qual concedea la lor natura:
     E poi Beltramo a parlar comincioe:
     Che fai tu qui con questo tuo compagno?
     Tu ci potresti far tristo guadagno.

36 Io vo’ saper chi quel lione ha morto.
     Disse Morgante: Il lione uccisi io,
     Che mi voleva, gigante, far torto.
     Disse Beltramo: Al nome sia di Dio,
     Io tel farò costar, datti conforto:
     Tu vai così qua pel paese mio;
     E so che quel lion certo uccidesti,
     Per far poi con costei quel che volesti.

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37 Disse Morgante: Amendue siam giganti,
     Da te a me vantaggio veggo poco:
     Noi andiam pel mondo cavalieri erranti,
     Per amor combattendo in ogni loco:
     Questa fanciulla che m’è qui davanti,
     Intendo liberar da questo gioco:
     Dunque veggiam chi sia di miglior razza;
     Io proverrò il battaglio, e tu la mazza.

38 Non ebbe pazienza a ciò Sperante:
     Riprese meglio il drago per la coda
     Ed una gran dragata diè a Morgante,
     E disse: Gaglioffaccio pien di broda,
     Tu sarai ben, come dicesti, errante,
     Se tu credi acquistar qua fama o loda:
     Rechian per preda i serpenti e lioni;
     Ed or paura arem di due ghiottoni?

39 Tu ci minacci, ribaldon villano:
     Degli altri ci hanno ancor lasciato l’ossa.
     Gridò Morgante con un mugghio strano,
     Quando e’ sentì del drago la percossa,
     E presto al viso si pose la mano,
     Chè l’una e l’altra gota aveva rossa;
     Gittò il battaglio, tanta ira l’abbaglia,
     E con gran furia addosso a quel si scaglia.

40 Ed abbracciârsi questi compagnoni,
     Com’i lion s’abbraccian co’ serpenti,
     Guastandosi co’ morsi e cogli unghioni:
     Morgante il naso gli strappò co’ denti,
     Poi fece degli orecchi due bocconi,
     Dicendo: Tu non meriti altrimenti.
     Beltramo addosso a Margutte si getta,
     E col baston le costure gli assetta.

41 Non domandar se le trovava tutte,
     O se le piana me’ che ’l farsettaio;
     Tocca e ritocca, e forbotta Margutte,
     E spesso il volge come un arcolaio:
     Tanto ch’alfin gli avanzavan le frutte,
     E faceval sudar di bel gennaio:
     Saltato avria per fuggir ogni sbarra,
     Pur s’arrostava colla scimitarra.

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42 Ma Beltramo era sì fiero e sì alto,
     Che quando in giù rovinava il bastone,
     Lo disfaceva, e piegava allo smalto;
     Se non che pur come un gattomammone
     Margutte spicca molte volte un salto,
     Per ischifar questa maladizione;
     Ma finalmente disteso trovossi,
     Com’un tappeto, che più atar non puossi:

43 Ch’una percossa toccò sì villana,
     Che parve una civetta stramazzata;
     Alzò le gambe, e in terra si dispiana;
     Quivi toccò più d’una batacchiata,
     Chè ’l baston suona come una campana,
     E tutta la schiavina ha scardassata:6
     Poi che sonata fu ben nona e sesta,
     Beltram chinossi a spiccargli la testa.

44 Veggendosi Margutte mal parato,
     Posò le mani in terra in un momento,
     Per trar due calci com’egli era usato;
     E giunsel con gli spron disotto al mento,
     E conficcò la lingua nel palato
     Al fer gigante, ond’egli ebbe spavento,
     E tutto pien d’ammirazion si rizza:
     Allor Margutte in piè subito sguizza.

45 Vede Beltram che si cerca la bocca,
     E ’l sangue che di fuor già zampillava:
     Il capo presto tra gambe gli accocca,
     Per modo che da terra il sollevava,
     E poi in un tratto rovescio il trabocca,
     E questo torrion giù rovinava;
     E nel cader, ciò che truova fracassa
     Come se fussi caduta una massa.

46 Questo galletto gli saltava addosso,
     Che par che sia sopra una bica un pollo;
     Dunque gli spron Margutte hanno riscosso;
     Il capo a questo levava dal collo,
     Chè la sua scimitarra taglia l’osso;
     E non potè Beltram più dare un crollo,
     Chè quando in terra lo pose Margutte,
     Si fracassorno le sue membra tutte.

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47 Gran festa ne facea quella fanciulla;
     Ma in questo tempo che Beltramo è morto,
     Morgante con colui non si trastulla,
     Chè vendicar volea del drago il torto;
     Ma d’atterrarlo ancor non era nulla,
     Quantunque molto si fussi scontorto;
     E tanto a una balza s’appressorno,
     Che insieme giù per quella rovinorno.

48 E si sentiva un romore, un fracasso,
     Insin che son caduti in un burrone,
     Come quando de’ monti cade in basso
     Qualche rovina o qualche gran cantone:
     Non vi rimase nè sterpo nè sasso
     Dove passò questo gran fastellone,
     Che rimondorno insino alle vermene,
     E dettono un gran picchio delle schiene.

49 Non si fermoron, che toccorno fondo;
     Ma Morgante disopra rimanea:
     Dette del capo in su ’n sasso tondo
     Tanto Sperante, che morto il vedea;
     Poi si tornò su pel bosco rimondo,
     E con Margutte gran festa facea,
     Dicendo: Io non pensai, Margutte mio,
     Trovarti vivo, ond’io ne lodo Iddio.

50 Noi siam qua rovinati in una valle,
     Tal ch’io credetti lasciar le cervella.
     E tutto il capo ho percosso e le spalle;
     Poi si rivolse a quella damigella,
     Ch’avea le guance ancor palide e gialle,
     Però che in dubbio e sospesa era quella,
     Che non sapeva che morto è Sperante,
     Se non che presto gliel dicea Morgante.

51 Non dubitar, non ti doler più omai,
     Rallégrati, fanciulla, e datti pace:
     Con le mie mani il gigante spacciai,
     Rimaso è morto alle fiere rapace,
     E presto al padre tuo ritornerai,
     Chè libera se’ or come ti piace:
     Ed ha pur luogo avuto la giustizia.
     E tutti insieme facean gran letizia.

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52 E sciolse alla fanciulla la catena,
     E disse: Andianne omai, dama gradita.
     Questa fanciulla d’allegrezza è piena,
     E spera ancor trovar suo padre in vita;
     Morgante per la man sempre la mena,
     Però ch’ell’era ancor pure stordita,
     E debol, pe’ disagi e per gli affanni
     Ch’avea sofferti, misera, molt’anni.

53 Dicea Margutte: Quel can traditore
     Per modo le costure m’ha trovate,
     Che non sarebbe cattivo sartore:
     Io ho tutte le rene fracassate.
     Disse Morgante: S’io non presi errore,
     E’ ti toccò di vecchie bastonate;
     Io ti senti’ spianare il giubberello,
     Mentre ch’i’ero alle man col fratello.

54 Così tutto quel giorno ragionando
     Vanno costoro insieme pel deserto;
     Ma da mangiar niente mai trovando,
     Ognun di lor già fame avea sofferto:
     Margutte vede, di lungi guardando,
     Chè il lume della luna era scoperto,
     Una testuggin ch’un monte pareva,
     E quel che fussi ancor non iscorgeva.

55 Ma dubitava s’ella è cosa viva,
     O facea caso l’imaginazione,
     Nè ancor dirlo a Morgante s’ardiva,
     Non si fidando di sua opinione;
     Ma poi che presso a questa fera arriva,
     Disse a Morgante: Questo compagnone
     Non vedi tu che ti vien già da fronte?
     Per Dio, ch’io dubitai che fussi un monte.

56 Disse Morgante: Ella è una testuggine,
     E mi parea di lungi un monticello.
     E cominciava a spiccargli la ruggine
     Col suo battaglio, e spezzargli il cervello.
     Non domandar se lieva le caluggine:
     Quella fanciulla godeva a vedello.
     Rotte le scaglie, e fracassate tutte,
     Disse: Del fuoco si vuol far, Margutte.

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57 E fece al modo usato sfavillare
     Un sasso, tanto ch’egli ebbon del fuoco:
     Quivi Margutte si dava da fare,
     Dicendo: L’arte mia fu sempre cuoco.
     Comincia la camella a scaricare,
     E la cucina assetta a poco a poco;
     Poi s’accostava a un gran cerracchione7
     E rimondollo, e fenne uno schidone.

58 E poi ch’egli ebbe assettato l’arrosto
     E pien di certe gallozze e di ghiande,
     Disse a Morgante: E’ ci manca ora il mosto:
     Asséttati qua a volger così grande:
     Io vo’ veder come l’acqua è discosto,
     E ’ntanto tu arai cura alle vivande.
     Morgante rise, e posesi a sedere
     Perchè Margutte arrecassi da bere.

59 Margutte uscito un poco della via,
     Un certo calpestio di lungi sente;
     Fecesi innanzi a veder quel che sia:
     Ode una bestia, e ’nsieme parlar gente;
     Volle assaltargli e far lor villania,
     Onde costor fuggîr subitamente:
     Lasciâr la bestia, e due otri di vino,
     Ch’avean pel bosco smarrito il camino.

60 Margutte si levò gli otri in ispalla,
     Lasciò la bestia andar dove volea;
     Torna a Morgante, e d’allegrezza galla,8
     Però che il mosto all’odor conoscea:
     Comincion la testuggine assaggialla:
     Margutte disse ch’arsa gli parea;
     Pargli mill’anni d’assaggiare il mosto;
     E finalmente cavorno l’arrosto.

61 Come e’ furno assettati insieme a desco,
     Morgante dette una gran tazza piena
     Alla fanciulla c’ha ’l viso angelesco,
     Di vin, che gli bastò per la sua cena;
     Poi si succiò, che parve un uovo fresco,
     Quel che rimase, in men che non balena;
     E non potè Margutte esser sì attento,
     Chè si succiò quegli otri in un momento.

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62 E cominciò a gridare: Oimè l’occhio:
     Morgante, tu non bei, anzi tracanni,
     Anzi diluvii, ed io sono un capocchio,
     Chè so che ad ogni giuoco tu m’inganni:
     Forse tu stesti aspettare il finocchio?
     Un altro arebbe badato mill’anni:
     Per Dio, che tu se’ troppo disonesto;
     Noi partirem la compagnia, e presto.

63 Se fussin come te fatti i moscioni,
     E’ non bisognere’ botte nè tino;
     E forse tu fai piccoli i bocconi?
     Ma questo non importa come il vino.
     Tu non se’uom da star tra compagnoni,
     Non lasci pel compagno un ciantellino:
     Del liocorno mi rimase il torso,
     Or di due otri te n’hai fatto un sorso.

64 Morgante avea di Margutte piacere,
     E d’ogni cosa con lui si motteggia;
     Dunque Margutte cenò sanza bere,
     E la fanciulla ridendo il dileggia.
     Dicea Margutte: Già di buone pere
     Mangiato ha 'l ciacco. E sottecchi vagheggia:
     E ciò che dice costei, sogghignava,
     Ma con Morgante assai si scorrubbiava.

65 Quando egli ebbon cenato, e’ s’assettorno
     Dintorno al fuoco, e quivi si dormieno,
     Per aspettar che ritornassi il giorno,
     Su certe frasche, e sopra un po’ di fieno.
     L’altra mattina il cammel caricorno,
     E pure inverso il camin lor ne gieno,
     Sanza trovar o vettovaglia o tetto,
     Tanto che pur la fanciulla ha sospetto.

66 E dicea: Questa selva è tanto folta,
     Morgante, ch’a guardarla non m’arrischio.
     Dicea Margutte: Che sent’io? ascolta;
     E’ par ch’i’oda di lontano un fischio.
     Giunsono appresso ove la strada è volta:
     Ecco apparir dinanzi un bavalischio,
     E cominciava gli occhi a sfavillare;
     Morgante fe la fanciulla scostare.

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67 Arrandellò il battaglio a quella fiera,
     E giunse per ventura appunto al collo,
     E spiccò il capo che parve di cera,
     E più di venti braccia via portollo;
     Margutte andò dove e’ vide ch’egli era
     Caduto, e presto a Morgante recollo:
     Dodici braccia misuroron quello
     Serpente crudo e velenoso e fello.

68 Fecion pensier se fussi d’arrostillo:
     Diceva la fanciulla: Io ho mangiato
     Del tigre, del dragon, del cocodrillo;
     Vero è che ’l capo e la coda ho spiccato.
     Disse Margutte: E che bisogna dillo?
     Questo è un morselletto9 ben dorato:
     Io taglierò solamente la coda,
     E poi l’arrostiremo, ed ognun goda.

69 Così fu arrostito l’animale
     Pur colla pelle indosso com’e’ nacque,
     E divorato sanza pane o sale,
     E come un pinocchiato a tutti piacque:
     Lucifer non are’ lor fatto male:
     Eravi appresso pel bosco dell’acque,
     Quivi s’andorno la sete a cavare;
     Margutte più non si volle fidare.

70 E disse: Più da bomba non mi scosto,
     Ch’io non mi fiderei di te col pegno,
     Morgante, da qui innanzi, a dirtel tosto,
     Chè tu fai sempre sopra a me disegno:
     Come del vin faresti dell’arrosto;
     Pertanto io non mi vo’ scostar da segno.
     Morgante ride, e la fanciulla scoppia,
     Che par ch’e’ denti gli caschino a coppia.

71 Dormiron come soglion quella notte,
     E l’altro giorno al lor cammin ne vanno
     Per aspre selve e per sì scure grotte,
     Che dove e’ sia da posarsi non sanno.
     Pur la fanciulla si ferma ta’ dotte,10
     Però che ’l camminar gli dava affanno:
     Ma di dormire in così strano e scuro
     Luogo non parve a Morgante sicuro.

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72 Dicendo: Io non ci veggo cosa alcuna
     Da ber, nè da mangiar, nè da dormire;
     Acciò che non facessi la fortuna
     Qualch’aspra fiera ci avessi assalire.
     Caminorono al lume della luna
     Tutta la notte con assai martìre,
     E ’nsin che fu fornito l’altro giorno;
     Che da mangiar nè da ber mai trovorno.

73 Ed erono affamati ed assetati,
     E rotti e stracchi per lungo cammino;
     Margutte un tratto gli occhi ha strabuzzati,11
     Ch’era per certo il diavol tentennino.
     Dice Morgante: Margutte, che guati?
     Io vedo che tu affisi l’occhiolino;
     Aresti tu appostata la cena?
     Disse Margutte: Che ne credi? appena.

74 Io veggo quivi appoggiato, Morgante,
     A un albero un certo compagnone,
     Che par che dorma, e non muove le piante:
     Di questo non faresti tu un boccone,
     Morgante guarda: egli era un liofante,
     Che si dormiva a sua consolazione;
     Ch’era già sera, ed appoggiato stava,12
     Come si dice, e col grifo russava.

75 Disse Morgante: Dammi un poco in mano,
     Margutte, presto la tua scimitarra.
     Poi s’accostava all’albero pian piano;
     Ma non arebbe sentite le carra,
     Sì forte dorme, l’animale strano.
     Morgante allor nelle braccia si sbarra,
     E l’arbor sotto alla bestia taglioe,
     Che sbalordita rovescio cascoe.

76 E cominciava a rugghiar tanto forte,
     Che rimbombava per tutto il paese:
     Dette alle gambe a Morgante due torte
     Col grifo lungo; Morgante gliel prese,
     E colla spada gli dette la morte,
     Tanto che tutto in terra si distese.
     Dicea Margutte: Questa è sì gran fiera,
     Ch’io cenerò pure a macca stasera.

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77 E cominciò assettarsi a cucinare.
     Morgante intanto del fuoco facea,
     E la fanciulla l’aiuta acconciare,
     Però che in aria la fame vedea:
     Margutte uno schidone voleva fare:
     Guardando presso, due pin si vedea
     Ch’erano insieme in un ceppo binati;
     Disse Morgante: Dio ce gli ha mandati.

78 E fece l’un con un colpo cadere,
     Dicendo: Uno schidon farai di questo;
     Questo altro ne faremo un candelliere,
     E rimarrassi ritto qui in sul cesto.
     Alzò la spada, e tagliolli il cimiere,
     E fece giù la ciocca cader presto;
     Poi fesse in quattro il gambo a poco a poco,
     Ed appiccògli in su la vetta il fuoco.

79 Disse Margutte: Noi trionferemo:
     Veggo la cosa stasera va a gala,13
     Poi ch’a lume di torchio ceneremo:
     Intorno a questo pin sarà la sala,
     E sotto a questo lume mangeremo;
     Ma perch’io non v’aggiungo colla scala,
     Morgante, e tu v’aggiugni sanza zoccoli,
     E’ converrà stasera che tu smoccoli.

80 Disse Morgante: Col nome di Dio
     Attendi pur, Margutte, che sia cotto,
     Ch’io vo’ che questo sia l’uficio mio.
     Margutte acconcia l’arrosto di botto;
     Poi disse: Volgi: e’ sarà pur buon ch’io
     Cerchi dell’acqua, se ci è ignun ridotto:
     Questo so io tu non trangugerai,
     Ch’a tuo dispetto me ne serberai.

81 Morgante disse arditamente: Va,
     Chè insin che tu ritorni aspetterò,
     E ’l liofante intero ci sarà.
     Ma non gli disse: In corpo il serberò.
     Margutte in giù e ’n sù, di qua, di là
     Dell’acqua va cercando il me’ che può;
     Tanto che pur trovava un fossatello,
     E d’acqua presto n’empieva il cappello.

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82 Ma non fu prima dal fuoco partito,
     Che Morgante a spiccar comincia un pezzo
     Del liofante, e disse: Egli è arrostito;
     E tutto il mangia così verdemezzo,
     Dicendo alla fanciulla: Il mio appetito
     Non può più sofferir, ch’è male avvezzo;
     E diègli la sua parte finalmente,
     Come si convenia, discretamente.

83 Margutte torna, e Morgante trovava
     Che s’avea trangugiato insino all’osse
     Il liofante, e’ denti stuzzicava
     Con lo schidon del pin dove e’ si cosse;
     Tra le gengie con esso si cercava,
     Come s’un gambo di finocchio fosse:
     Le zampe sol vi restava e la testa;
     D’ogni altra cosa era fatta la festa.

84 Disse Margutte: Dove’è il liofante,
     Che tu dicesti di serbare intero?
     Egli è qui presso; rispose Morgante.
     Diceva la fanciulla: E’ dice il vero,
     E’ l’ha mangiato dal capo alle piante,
     E non è stato, al suo parere, un zero.
     Disse Morgante: Io non ti fallo verbo,
     Margutte, poi che in corpo te lo serbo.

85 Tu non hai bene in loica studiato:
     Io dissi il ver, ma tu non m’intendesti.
     Margutte stava come trasognato,
     E dice: Io penso come tu facesti:
     Può far il ciel tu l’abbi trangugiato?
     Io credo ch’ancor me mangiato aresti:
     Forse fu buon ch’io non ci fussi dianzi,
     Ch’io mi levai dalla furia dinanzi.

86 Tu m’hai a mangiare un dì poi, come l’Orco:
     Questa è stata una cosa troppo strana,
     Un atto proprio di ghiotto e di porco,
     Quel c’ha fatto la gola tua ruffiana;
     Tu non sai forse come io mi scontorco
     A comportar tua natura villana:
     Pensi ch’io facci gelatina o solci,14
     Che ’l capo drento o le zampe esser vuolci?

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87 Noi reggerem, Morgante, insieme poco:
     Da ora innanzi tra noi sia divisa
     La compagnia, se tu non muti giuoco.
     Morgante smascellava delle risa;
     Bevve dell’acqua, e poi se n’andò al fuoco.
     Margutte gli occhi a quella testa affisa,
     Perché la fame non sentiva stucca,
     E ’l me’ che può come ’l can la pilucca.

88 E borbottando s’acconcia a dormire;
     Così Morgante, insin che in Oriente
     Il sole e ’l giorno comincia apparire,
     E vannosene insieme finalmente;
     Margutte si volea da lui partire,
     Ma la fanciulla lo fe paziente:
     Non ci lasciar, dicea, tra questi boschi,
     Tanto che almen qualcun uom riconoschi.

89 Dicea Margutte: Io ho sempre mai inteso,
     Che ’gnun non si vorrebbe mai beffare:
     Io mi vedea schernito e vilipeso,
     E costui stava il dente a stuzzicare,
     Come se proprio e’ non m’avessi offeso.
     Questo non posso mai dimenticare:
     E’ si poteva pur fare altrimenti,
     Che sogghignare e stuzzicarsi i denti.

90 Questo faceva e’ sol per più dispetto!
     Ch’era proprio il boccon rimproverarmi,
     Come se fussi stato mio il difetto:
     Pensa che conto e’ facea d’aspettarmi.
     Dicea quella fanciulla: Io ti prometto,
     Se infino al padre mio vuoi accompagnarmi,
     Io ti ristorerò per certo ancora.
     Margutte pur si racchetava allora.

91 A questo modo andati son più giorni,
     Sanza trovare o case o mai persona;
     Ma finalmente un dì busoni e corni
     Senton sonar, sanza saper chi suona:
     Eron certe casette come forni,
     Dove era una villetta, ch’è assai buona,
     All’uscir proprio delle selve fore,
     E Filomen tenevon per signore.

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92 Sentendo la fanciulla allor sonare,
     Subitamente al ciel levò le mani:
     Comincia Macometto a ringraziare,
     Conobbe che que’ suon poco lontani
     Erano, e gente vi debbe abitare,
     Perchè sapea i costumi de’ Pagani:
     Laudato sia Macone in sempiterno,
     Dicea, chè tratti omai siam dello inferno.

93 Morgante ne facea con lei gran festa,
     Per venirla al suo padre rimenando,
     Però che molto gl’increscea di questa,
     E perchè spera veder tosto Orlando:
     A poco a poco uscîr della foresta,
     E vengono il dimestico trovando;
     E finalmente alle case arrivorno
     Dove sentito avean sonare il corno.

94 Ma la fanciulla non sapea che quello
     Luogo il suo padre già signoreggiassi:
     Eravi un oste vecchio e poverello:
     Non avea tanto Morgante cenassi.
     Disse Margutte: Togliamo il cammello.
     Ed ordinò che questo si mangiassi,
     Ed arrostillo com,egli era usato,
     E innanzi al gran Morgante l’ha portato.

95 Morgante diè di morso nello scrigno,
     E tutto lo spiccò con un boccone;
     Margutte gli faceva un viso arcigno,
     Dicendo: Tu fai scorgerti un briccone,
     Ed ogni volta mi paghi di ghigno;
     E fai, Morgante, dosso di buffone,
     Pur che tu empia ben cotesta gola,
     E mai non fai a tavola parola.

96 Poi ne spiccò di quel cammello un quarto,
     E disse: Io intendo il mio conto vedere:
     Guarda s’io taglio a punto come il sarto;
     Tegnamo in man, ch’io veggo il cavaliere;
     Ma pur dal giuoco però non mi parto,
     Ch’io so che l’ossa non ci ha a rimanere;
     E non è cosa da star teco a scotto:
     Tu se’ villano, e disonesto, e ghiotto.

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97 L’oste rideva, e la fanciulla ride:
     Margutte, che fu tristo nelle fasce,
     Col piè sotto la tavola l’uccide,
     E coll’occhietto disopra si pasce.
     Morgante un tratto di questo s’avvide,
     E disse: Tu se’ uso con bagasce.
     Quella fanciulla onesta e virtuosa
     Si ristrignea ne’ panni vergognosa.

98 Dicea Morgante: Tu se’ pur cattivo,
     Come tu mi dicevi, in detti e ’n fatti;
     Io credo che tu abbi argento vivo,
     Margutte, ne’ calcetti e negli usatti:
     Da questa sera in là, s’a l’oste arrivo,
     Acciò che non facessi più quest’atti,
     Farotti i pie’ tener nella bigoncia,
     Ch’io veggo che la cosa sare’ acconcia.

99 Disse Margutte: Hai tu per cosa nuova
     Ch’io sia cattivo con tutti i peccati,
     Al fuoco, al paragone, a tutta pruova
     Un oro più che fine di carati?
     Io non fu’ appena uscito fuor dell’uova,
     Ch’io ero il caffo degli sciagurati,15
     Anzi la schiuma di tutti i ribaldi;
     E tu credevi io tenessi i pie’ saldi!

100 Non vedi tu, Margutte, quanto onore,
     Dicea Morgante, pel camin gli ho fatto,
     Per rimenarla al padre ch’è signore?
     Guarda che più non t’avvenga questo atto.
     Disse Margutte: A ogni peccatore
     Si debbe perdonar pel primo tratto:
     S’io ho fallato, perdonanza chieggio;
     Quest’altra volta so ch’io farò peggio.

101 Disse Morgante: E peggio troverrai;
     Guarda ch’io non adoperi il battaglio:
     Forse, Margutte, tu mi crederrai,
     S’un tratto le costure ti ragguaglio.
     Dicea Margutte: Stu non mi terrai
     Legato sempre stretto col guinzaglio,
     Prima che te, vedrai, Morgante, ch’io
     Adoperrò forse il battaglio mio.

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102 Or oltre, sù, govèrnati a tuo modo;
     Rispose allor Morgante d’ira pieno:
     io so che ’l mio battaglio fia più sodo,
     E non bisognerà guinzaglio o freno.
     Intanto la fanciulla disse: Io odo
     Alcun qua che ricorda Filomeno;
     Conoscilo tu, oste, o sai chi e’ sia,
     E ’n qual paese egli abbi signoria?

103 Rispose l’oste: Quel che tu domandi
     Io intendo Filomen sir di Belfiore:
     Acciò che più parole non ispandi,
     Sappi che Filomeno è qui signore;
     E siam tutti parati a’ suoi comandi
     Per lunga fede e per antico amore,
     E regge il popol suo tranquillo e lieto,
     Come giusto signor, savio e discreto.

104 Vero è che lungo tempo è stato in pianto,
     Però che gli fu tolta una sua figlia,
     Nè sa chi la togliessi; ed è già tanto,
     Che ritrovarla saria maraviglia:
     Poi che l’ebbe cercata indarno alquanto,
     Vestissi a bruno lui e la sua famiglia;
     E non ci gridan poi talacimanni;
     E così son passati già sette anni.

105 Questa fanciulla diventò nel viso
     Subitamente piena di dolcezza,
     E parve il cor da lei fussi diviso,
     E pianse quasi di gran tenerezza,
     Dicendo: Or son tornata in paradiso,
     Dove solea gioir mia giovinezza.
     Pensoe di troppo gaudio venir meno,
     Quando sentì che vivo è Filomeno.

106 Morgante molto allegro fu di questo,
     E disse: Io son sì contento stasera,
     Che s’io morissi non mi fia molesto.
     Margutte mio, noi farem buona cera,
     Ed è pur buon ch’io t’abbi fatto onesto.
     Disse Margutte, che malcontento era:
     Se tanta coscienzia pur ti tocca,
     Ricûciti una spanna della bocca.

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107 Non volle la fanciulla palesarsi;
     Domanda della madre e de’ parenti,
     E d’ogni cosa voleva accertarsi,
     Di fratelli e sorelle, e di sue genti:
     Quivi la notte stanno a riposarsi,
     Poi si partirno dall’oste contenti:
     Non parve tempo a rubare a Margutte,
     Che non gli dessi Morgante le frutte.

108 E del camin l’ostier ne l’avvisava,
     Se capitar volevono a Belfiore,
     Che sempre lungo la riva s’andava
     Del Nilo, e non potean pigliare errore.
     Morgante mentre la rena pestava,
     Un coccodrillo dell’acqua esce fore:
     La bocca aperse e credette inghiottillo:
     Disse Margutte: Che fia, coccodrillo?

109 Cotesto è troppo gran boccon da te.
     Morgante in bocca il battaglio gli porse;
     E ’l coccodrillo una stretta gli diè
     E’ denti vi ficcò, sì forte il morse.
     Allor Morgante ritirava a sè
     Presto il battaglio, e ’n bocca gliele storse,
     E spezza i denti l’uno e l’altro filo;
     Poi prese questo e scagliollo nel Nilo.

110 Un miglio o più drento al fiume gittollo,
     Come un certo autor, che ’l dice, ha scritto;
     E se l’avessi preso me’ pel collo,
     Credo gittato l’arebbe in Egitto;
     E nel cader morì sanza dar crollo:
     E ’l gran battaglio da’ denti è trafitto.
     Disse Margutte: Io lo vedevo scorto,
     Ch’egli scoppiava se non fussi morto.

111 Era già vespro, e son presso a quel bosco
     Dove fu presa già questa fanciulla;
     E disse con Morgante: Io riconosco
     Il luogo ov’io fu’ sciocca più che in culla,
     Sanza pensar che dopo al mèle è il tosco:
     Così va chi se stesso pur trastulla,
     Ed è ragion s’al fin mal gliene incoglie,
     Chi vuol cavarsi tutte le sue voglie.

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112 O maladetto, o sventurato loco!
     Quivi senti’, Morgante, il lusignuolo,
     Colà fu’ traportata a poco a poco
     Dal suo bel canto d’uno in altro volo:
     A me pareva a sentirlo un bel giuoco,
     Vedi che ne seguì poi tanto duolo!
     Ringrazio te, che m’hai qui ricondotta;
     E sarò savia, s’io non fui allotta.

113 E mosterrotti ch’io non sono ingrata;
     Ed arò sempre scritto nel mio core,
     Come tu m’abbi prima liberata,
     E con quanta onestà, con quanto amore
     Tu m’abbi per la via poi accompagnata;
     Chè non è stato il servigio minore.
     Come fratel, come gentil gigante
     Ti se’ portato, e non come mio amante.

114 Potevi di me far come Beltramo:
     Non hai voluto; ond’io come fratello,
     Come tu ami me, certo te amo:
     Così ti tratterò nel mio castello;
     Così Margutte vo’ che noi trattiamo,
     Bench’e’ fussi alle volte tristerello.
     Disse Margutte: S’io feci tristizia,
     Tu dè’ pensar ch’io nol feci a malizia.

115 Ecco ch’egli eron già presso alle mura
     Di Filomeno, or ecco che son drento;
     E ’l popol guarda la grande statura
     Di quel gigante, che dava spavento;
     Ma la fanciulla ignun non raffigura.
     O padre suo, quanto sarai contento!
     Ch’ogni improvviso ben più piacer suole,
     Come il mal non pensato anco più duole.

116 Filomen, che venir sente il gigante
     Colla fanciulla e con un suo compagno,
     E ch’e’ si fa verso il palazzo avante,
     E che parea molto famoso e magno:
     In questo mezzo appariva Morgante;
     Filomen disse: Iddio ci dia guadagno;
     Chi fia costui? e che fanciulla è questa?
     Non mi trarrò però la bruna vesta;

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117 Non riarò però la mia figliuola;
     Dicea fra sè, chè non la conoscia:
     Maravigliossi ch’ella sia sì sola,
     Dicendo: Questa è strana compagnia.
     Poi fermò gli occhi ove il disio pur vola,
     E gridò: Questa è Florinetta mia;
     Ma la fanciulla, che di ciò s’accorse,
     A abbracciar Filomen subito corse.

118 Or pensi ognun questo misero padre
     Quanto in quel punto fussi consolato;
     A questo grido correva la madre:
     E benchè Florinetta abbi mutato
     Il viso molto e sue membra leggiadre,
     Al primo tratto l’ha raffigurato;
     Ed abbracciò costei pietosamente,
     E per dolcezza par fuor della mente.

119 Il popol tutto con festa correva,
     Però che molto amato è Filomeno:
     Così in un tratto la sala s’empieva.
     Morgante, ch’era d’allegrezza pieno,
     A Filomeno in tal modo diceva:
     Ecco la figlia tua ch’io ti rimeno,
     E son contento più ch’io fussi ancora.
     Il perchè Filomen l’abbraccia allora.

120 Ma Florinetta postasi a sedere
     Allato al padre, e riposata alquanto,
     Diceva: O Filomen, stu vuoi sapere
     Del lungo errore e del mio grave pianto,
     E come io sia vivuta e ’n qual sentiere,
     E perchè il mio tornar tardato è tanto,
     Io ti dirò la mia disavventura,
     Ch’ancor pensando mi mette paura.

121 E cominciò dal dì ch’ella era uscita
     Della città, quand’ella andò soletta,
     A contar come ella fussi rapita,
     E strascinata trista e meschinetta;
     E quanto è stata afflitta la sua vita,
     E la catena che la tenea stretta,
     E com’ell’era dal lion guardata:
     Tanto che piange ognun che l’ha ascoltata.

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122 E tutto il popol se ne maraviglia:
     Ognun verso Macon le mani alzava;
     La madre e ’l padre e l’altra sua famiglia
     D’orror ciascuno e capriccio tremava.
     Seguì più oltre la leggiadra figlia,
     E ’nverso il suo Morgante si voltava:
     Ed ogni cosa narrava costei
     Ciò che Morgante avea fatto per lei.

123 Come al principio e’ l’avea liberata
     Da quel gigante crudel malandrino,
     E come sempre l’aveva onorata
     E vezzeggiata per tutto il cammino;
     E sempre per la man l’avea menata,
     Sì come padre o fratello o cugino:
     E che tanto onestà servata avea,
     Che ’l nome suo non ch’altro non sapea.

124 E tante cose dicea di Morgante,
     Che ’l popol tutto correva a furore
     Abbracciar questo, e baciargli le piante;
     E Filomen gli pose tanto amore,
     Che in ogni modo volea che ’l gigante
     Con lui vivessi, e morissi signore.
     Morgante Filomen ringrazia assai,
     Dicendo: Sempre tuo servo m’arai.

125 E sempre sarò teco vivo e morto,
     Con l’anima e col corpo, pur ch’io possi:
     Io voglio a Babillona esser di corto,
     E sol per questo di Francia mi mossi,
     Ch’al conte Orlando farei troppo torto;
     Ma sempre mi comanda, dov’io fossi:
     E pur se Florinetta m’ama seco,
     Io mi starò due giorni ancor con teco.

126 Diceva Florinetta: Almeno un anno
     Con meco ti starai, Morgante mio.
     E così tutti grande onor gli fanno,
     Anzi adorato è da lor come Dio.
     Margutte e Florinetta il gusto sanno,
     E perch’ell'ha di piacergli disio,
     Disse a Margutte: Attendi alla cucina,
     Che sia provvisto ben sera e mattina.

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127 Non domandar se Margutte s’affanna,
     E se parea di casa più che ’l gatto,
     E dice: Corpo mio, fatti capanna,16
     Ch’io t’ho a disfar le grinze a questo tratto:
     Vedi che qui da ciel piove la manna!
     E salta per letizia com’un matto;
     E stava sempre pinzo e grasso ed unto,
     E della gola ritruova ogni punto.

128 Mentre ch’io ero, diceva, in Egina,
     Non soleva questa esser la mia arte?
     Così ci fussi la mia concubina,
     Ch’io gli porrei delle cose da parte.
     Ma come il cuoco lascia la cucina,
     Così dalla ragion certo si parte;
     Così, come Margutte di qui esce,
     Sarà come a cavar dell’acqua un pesce.

129 E finalmente e’ provedeva bene
     La mensa di vivande di vantaggio,
     E d’ogni cosa che in tavola viene
     Sempre faceva la credenza e ’l saggio,
     E qualche buon boccon per sè ritiene,
     E ’n corbona metteva, come saggio:
     Alcuna volta nella cella andava,
     E pel cucchiume le botte assaggiava;

130 E sapea sopra ciò mille malizie:
     Per casa ciò che truova mal riposto
     E’ rassettava con sue masserizie
     In un fardel che teneva nascosto;
     In pochi dì vi fe cento tristizie,
     E più facea, se non partia sì tosto:
     Contaminò con lusinghe e con prezzi
     Ischiave e more, e moricini e ghezzi.

131 A ogni cosa tirava l’aiuolo,
     E faceva ogni cosa alla moresca;
     La notte al capezzal sempre ha l’orciuolo,
     E pane e carne, in gozziviglia e ’n tresca:
     Poi rimbeccava un tratto il lusignuolo,
     E ritrovava, acciò che ’l sonno gli esca,
     Tutti i peccati suoi di grado in grado,
     E sempre in mano avea il bicchiere o ’l dado,

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132O broda che succiava come il ciacco;
     Poi si cacciava qualche penna in bocca,
     Per vomitar, quand’egli ha pieno il sacco;
     Poi lo riempie, e poi di nuovo accocca:
     Ma finalmente, quand’egli era stracco,
     E che pel naso la schiuma trabocca,
     E’ conficcava il capo in sul primaccio,
     Unto e bisunto come un berlingaccio.17

133 E sapeva di vin come un arlotto,
     Chè dè’pensar che n’appiatta Margutte;
     E quando egli era ubriaco e ben cotto,
     E’ cicalava per dodici putte;
     Poi ribaciava di nuovo il barlotto,
     E conta del camin le trame tutte:
     E diceva bugie sì smisurate,
     Che le tre eran sette carrettate.

134 Or pur Morgante si volea partire,
     Quantunque Florinetta assai pregassi,
     E cominciò con Filomeno a dire,
     Che la licenzia oramai gli donassi,
     Chè di vedere Orlando ha gran disire.
     Subitamente un gran convito fassi,
     Per dimostrar maggior magnificenzia
     Al gran Morgante in questa dipartenzia.

135 E poi ch’egli hanno tutti desinato,
     E ragionate insieme molte cose,
     E la fanciulla a Morgante ha donato
     Di molte gioie ricche e preziose,
     E molto Filomen l’ha ringraziato;
     Morgante come savio anco rispose,
     Che accettava e l’offerte e ’l tesoro,
     Per ricordarsi ove e’ fussi, di loro.

136 Margutte, quando udì questa novella,
     Diceva: Io voglio andar per qualche ingoffo;18
     E tolse uno schidone e la padella,
     Tinsesi il viso, e fecesi ben goffo;
     E corre ove sedeva la donzella,
     E fece dello ’mpronto e del gaglioffo,
     E disse: Il cuoco anco lui vuol la mancia,
     O io ti tignerò tutta la guancia.

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137 Florinetta una gemma ch’avea in testa,
     Gittò nella padella a mano a mano;
     Margutte ciuffa, e la mano ebbe presta,
     E dice: Io fo, per non parer provano.
     Morgante fatta gli arebbe la festa,
     S’avessi avuto qualche cosa in mano;
     E vergognossi dell’atto sì brutto,
     Dicendo: Tu m’hai pur chiarito in tutto.

138 Margutte si tornò in cucina tosto,
     E cominciò assettare un suo fardello
     Di ciò ch’aveva rubato e nascosto,
     E quel che solea por già in sul camello;
     E perch’e’ vide Morgante disposto
     Di dipartirsi, si pensò ancor quello.
     Ch’e’ fussi da fornirsi drento il seno
     Di ghiottornie per due giornate almeno;

139 E mangia e beve, ed insacca per due erri:19
     Dicendo: E’ non si truova cotti I tordi,
     Quand’io sarò per le selve tra’ cerri.
     Morgante intanto al partir par s’accordi,
     E Florinetta con lui era a’ ferri,20
     A pregar sempre di lei si ricordi;
     E che tornassi a rivederla presto,
     E non si parta, che prometta questo.

140 Morgante rispondea ch’era contento
     E in ogni modo per sè tornerebbe,
     E fecene ogni giuro e sacramento:
     Non potre’ dir quanto il partir gl’increbbe;
     Ed abbracciava cento volte e cento
     Quella fanciulla; e non si crederrebbe
     La tenerezza che gli venne al core,
     E quanto Filomen gli ha posto amore.

141 Margutte disse solamente addio,
     Però ch’egli era più cotto che crudo:
     Morgante, poi che del castello uscìo,
     Disse a Margutte: Asséttati lo scudo,
     Ch’io vo’ sfogarmi, poltoniere e rio,
     Chè tu se’ il cucco mio per certo e ’l drudo:
     Può fare Iddio, tu sia sì sciagurato?
     Tu m’hai chiarito, anzi vituperato.

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142 Tu m’hai pur fatte tutte le vergogne:
     Io mi credevo ben tu fussi tristo,
     E ladro, e ghiotto, e padre di menzogne,
     Ma non tanto però, quant’io n’ho visto:
     Tu nascesti tra mitere e tra gogne,
     Come tra ’l bue e l’asin nacque Cristo.
     Margutte gli rispose: E tra’ capresti,
     E tra le scope; tu non t’apponesti.

143 Io credevo, Morgante, tu ’l sapessi,
     Ch’io abbi tutti i peccati mortali:
     Il primo dì, perchè mi conoscessi,
     Tel dissi pure a letter di speziali:
     Puo’ mi tu altro appor, ch’io ti dicessi?
     Questi son peccatuzzi veniali:
     Lascia ch’io vegga da fare un bel tratto
     In qualche modo, e chiarirotti affatto.

144 Morgante finalmente convenia
     Che in riso e ’n giuoco s’arrechi ogni cosa,
     E vanno seguitando la lor via:
     Erano un dì per una selva ombrosa,
     E perchè pure il cammino increscía,
     A una fonte Morgante si posa;
     Margutte, ch’avea ancor ben pieno il sacco,
     S’addormentò come affannato e stracco.

145 Morgante, come lo vede a giacere,
     Gli stivaletti di gamba gli trasse,
     Ed appiattògli, per aver piacere,
     Un po’ discosto, quando e’ si destasse.
     Margutte russa, e colui sta a vedere,
     Poi lo destava, perch’e’ s’adirasse.
     Margutte si rizzò, come e’ fu desto,
     E degli usatti s’accorgeva presto.

146 E disse: Tu se’ pur, Morgante, strano:
     Io veggo che tu m’hai tolti gli usatti,
     E fusti sempre mai sconcio e villano.
     Disse Morgante: Apponti ov’io gli ho piatti,
     E’ son qui intorno poco di lontano;
     Questo è per mille oltraggi tu m’hai fatti.
     Margutte guata, e non gli ritrovava,
     E cerca pure, e seco borbottava.

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147 Ridea Morgante, sentendo e’ si cruccia.
     Margutte pure alfin gli ha ritrovati;
     E vede che gli ha presi una bertuccia,
     E prima se gli ha messi, e poi cavati;
     Non domandar se le risa gli smuccia,
     Tanto che gli occhi son tutti gonfiati,
     E par che gli schizzassin fuor di testa:
     E stava pure a veder questa festa.

148 A poco a poco si fu intabaccato
     A questo giuoco, e le risa cresceva;
     Tanto che ’l petto avea tanto serrato,
     Che si volea sfibbiar, ma non poteva,
     Per modo egli pare essere impacciato:
     Questa bertuccia se gli rimetteva:
     Allor le risa Margutte raddoppia,
     E finalmente per la pena scoppia.

149 E parve che gli uscissi una bombarda,
     Tanto fu grande dello scoppio il tuono.
     Morgante corse, e di Margutte guarda,
     Dov’egli aveva sentito quel suono,
     E duolsi assai che gli ha fatto la giarda,
     Perchè lo vide in terra in abbandono:
     E poi che fu della bertuccia accorto,
     Vide ch’egli era per le risa morto.

150 Non potè far che non piangessi allotta,
     E parvegli sì sol di lui restare,
     Ch’ogni sua impresa gli par guasta e rotta;
     E cominciò col battaglio a cavare,
     E sotterrò Margutte in una grotta,
     Perchè le fiere nol possin mangiare:
     E scrisse sopr’un sasso il caso appunto,
     Come le risa l’avean quivi giunto.

151 E tolse sol la gemma, che gli dette
     Florinetta al partir: l’altro fardello
     Con esso nella fossa insieme mette:
     E con gran pianto si partì da quello;
     E per più dì come smarrito stette,
     D’aver perduto un sì caro fratello,
     E ’n questo modo ne’ boschi lasciarlo,
     E non potere a Orlando menarlo.

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152 Ora ecci un autor, che dice qui
     Che si condusse pur dov’era Orlando;
     Ma poi da Babillona si partì,
     E venne in questo modo capitando:
     Tanto è, che la sua morte fu così;
     Di questo ognun s’accorda, ma del quando,
     O prima o poi, c’è varie opinioni,
     E molti dubbj, e gran disputazioni.

153 Tanto è, ch’io voglio andar pel solco ritto:
     Chè in sul Cantar d’Orlando non si truova
     Di questo fatto di Margutte scritto,
     Ed ecci aggiunto come cosa nuova,
     Che un certo libro si trovò in Egitto,
     Che questa storia di Margutte appruova:
     E l’autor si chiama Alfamenonne,
     Che fece gli statuti delle donne.

154 E fu trovato in lingua persiana,
     Tradutto po’ in arabica e ’n caldea;
     Poi fu recato in lingua soriana,
     E dipoi in lingua greca e poi in ebrea,
     Poi nell’antica famosa romana,
     Finalmente vulgar si riducea;
     Dunque è certo la torre di Nembrotto,
     Tanto ch’egli è pur fiorentin ridotto.

155 Quel ch’e’ si sia, e’ seppe ogni malizia,
     E fu prima cattivo assai che grande,
     Però che cominciò da puerizia
     A esser vago dell’altrui vivande;
     E fece abito sì d’ogni tristizia,
     Ch’ancor la fama per tutto si spande:
     E furon le sue opre e le sue colpe,
     Non creder leonine, ma di volpe.

156 Or lasciam questo con buona ventura,
     Chè la giustizia ha in fin sempre suo loco:
     Morgante attraversando una pianura,
     S’appressa a Babillona a poco a poco,
     Tanto che già si scorgevan le mura;
     Ed arde tutto come il zolfo al foco
     Della gran voglia di vedere Orlando,
     Che non credea giammai trovare il quando.

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157 Era già presso al campo a poche miglia,
     E fu veduto questo compagnone,
     Come un alber di nave di caniglia,
     E dava a tutto il campo ammirazione:
     Ma quando Orlando vi volse le ciglia:
     Questo è Morgante, per lo Dio Macone,
     Se ben le membra di questo ragguaglio,
     Dicea fra sè, ch’io conosco il battaglio.

158 Fecesi presto menar Vegliantino,
     E nondimen la lancia tolse in mano,
     Che non fussi gigante Saracino,
     Perchè la vista inganna di lontano;
     Morgante, come vide il paladino,
     Gli fece il cenno usato a mano a mano:
     Gittò il battaglio cento braccia in alto,
     Poi lo riprese in aria con un salto.

159 E come al conte Orlando fu più presso,
     Subitamente ginocchione è posto:
     Orlando smonta, e ’ncontro ne va a esso,
     E cominciò le braccia aprir discosto,
     Chè si conosce un grand’amore espresso,
     E disse: Lieva, Morgante, su tosto;
     E missegli le braccia strette al collo,
     E mille volte e poi mille baciollo.

160 Non si saziava a Morgante far festa,
     Tanto che ’l collo ancor non abbandona,
     Dicendo: Che ventura è stata questa?
     Morgante, poi che c’è la tua persona,
     Io non temo più scogli nè tempesta:
     Le mura triemon già di Babillona,
     Anzi tremare il ciel sento e la terra,
     Tanto ch’omai terminata è la guerra.

161 Io non farei con Alessandro Magno,
     Con Cesar, con Annibal, con Marcello,
     O patti, o pace, o triegua con guadagno,
     Da poi che tu se’ qui, caro fratello;
     Ch’io pur non ebbi mai miglior compagno:
     Io crederrei con te pigliar Babello,
     E Troia un’altra volta, e Roma antica:
     Or vo’ che mille cose oggi mi dica.

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162 Che è d’Astolfo mio, d’Arnaldo, Uggieri,
     D’Angiolin di Baiona e del mio Namo?
     E del mio caro e gentil Berlinghieri,
     Ch’è di Salamon mio, ch’io tanto amo?
     Ch’è d’Ottone, Avolio, Avin, Gualtieri,
     Che è de’ miei fratei che noi lasciamo
     Ricciardo, con Alardo, a Montalbano?
     Ch’è di quel traditor del conte Gano?

163 Quant’è che tu ti partisti da Carlo?
     Dimmi se Gano è tornato a Parigi,
     E s’egli attende, al modo usato, a farlo
     Seguire i suoi consigli e’ suoi vestigi;
     Tanto che possi alla mazza guidarlo:
     Ha fatto l’arte il nostro Malagigi
     A questi tempi? e detto dov’io sia,
     E com’io abbi qua gran signoria?

164 E come Persia ho presa e l’Amostante
     Dopo pur molta fatica ed affanno?
     Allor si rizza e risponde Morgante,
     Che Carlo e’ paladin ben tutti stanno,
     E Malagigi come negromante
     Detto gli avea come le cose vanno:
     E che Gano era scacciato e in esilio,
     Che Carlo nol vuol più nel suo concilio.

165 E come la figliuola del Soldano,
     Che si chiamava la famosa Antea,
     Si stava con Ricciardo a Montalbano,
     E grande onore il popol le facea,
     E quel ch’ella avea fatto fare a Gano:
     Della qual cosa Orlando si ridea.
     E così inverso il padiglione andorno,
     E molte cose ragionaro il giorno.

166 Quivi Rinaldo, Ulivier, Ricciardetto
     Abbraccian tutti Morgante lor caro;
     Morgante nuove di Francia ha lor detto,
     Poi di Margutte molto ragionaro,
     Come e’ morì ridendo, il poveretto,
     E come insieme pria s’accompagnaro:
     E conta d’ogni sua piacevolezza,
     E lacrimava ancor di tenerezza.

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167 Quivi fecion consiglio di pigliare
     La città, poi che Morgante è venuto:
     Comincion la battaglia apparecchiare,
     Ed ogni cosa che fanno è veduto:
     Que’ della terra cominciono armare
     Le mura, ed ordinar quel ch’è dovuto.
     E cominciossi una fiera battaglia,
     E per due ore durò la puntaglia.

168 Morgante pur verso la porta andava,
     Ch’era tutta di ferro e molto forte;
     I Saracini ognun forte gittava
     E sassi e dardi, per dargli la morte:
     Ma ’l fer gigante tanto s’accostava,
     Che col battaglio bussava le porte;
     Ma non poteva spezzarle a gnun modo,
     Benchè questo battaglio è duro e sodo.

169 Più e più volte percuote e martella;
     Ma poi che vide che poco valeva,
     E’ s’appiccava a una campanella
     E con gran forza la porta scoteva;
     Ma i sassi gl’intronavan le cervella,
     Che in sul cappel di sopra gli pioveva:
     E sente or questo or quell’altro percuotere;
     Allor più forte cominciava a scuotere.

170 Era una torre di mura sì grossa
     Sopra la porta, ch’un gran pezzo resse;
     Ma quando e’ dava Morgante una scossa,
     Non è tremuoto che tanto scotesse:
     Tanto che l’ha tutta intronata e mossa,
     E finalmente in più parte si fesse,
     Ch’era tenuta cosa inespugnabile,
     E parve a tutti sua forza mirabile.

171 Orlando stupefatto era a vedello
     Alcuna volta sue forze raccorre,
     Ch’arebbe fatto cader Mongibello;
     E dette un tratto una scossa alla torre,
     Che mai Sanson non la diè come quello;
     E ’l campo tutto a veder questo corre,
     E fella rovinar giù d’alto in basso,
     Nè mai non si sentì sì gran fracasso;

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172 E ’l polverio n’andò insino alle stelle.
     Morgante colla porta si copria,
     Come si fa con palvesi o rotelle,
     Che’i sassi non gli faccin villania;
     Quelle gente di sopra meschinelle,
     Chi morto e chi percosso si vedia,
     Chi rotto il braccio, e chi il teschio ave’aperto,
     E chi da’ calcinacci è ricoperto.

173 Chi mostra il piè scoperto, e chi gambetta,
     Chi colle gambe all’erta è sotterrato,
     Chi ha tra sasso e sasso qualche stretta
     Avuto, e come morto è rovesciato;
     Chi sangue fuor per gli occhi e ’l naso getta,
     Chi zoppo resta, e chi monco e sciancato:
     Era a veder sotto questa rovina
     Morti costor com’una gelatina.

174 I terrazzan, che difendon le mura,
     Maravigliati fuggon tutti quanti,
     E paion tutti morti di paura:
     Nostri Cristian si fecion tutti avanti,
     Ognun dicea: Può far questo Natura?
     Morgante non si muta ne’ sembianti:
     E perchè e’ fussi la strada spedita,
     Certi canton col suo battaglio trita.

175 E grida al conte Orlando: Andianne drento,
     Seguite me, non abbiate sospetto,
     Chè Babillona è nostra a salvamento,
     Per onta e disonor di Macometto.
     I Saracin fuggien pien di spavento
     Dinanzi da quel diavol maladetto:
     Orlando e tutti gli altri drento entrorno,
     E tutti inverso la piazza n’andorno.

176 Era all’entrare un gran borgo di case;
     Vero è che tutte son di terra e d’asse;
     Di queste ignuna non ve ne rimase,
     Che ’l gran Morgante non le fracassasse;
     Or pensa a quanti le zucche abbi rase,
     Prima che tante case rovinasse:
     Di qua di là la mazza mena tonda,
     Dovunque e’ passa ogni cosa rimonda.

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177 I cittadini alfin s’accordâr tutti,
     Che piglin la città sanza contesa,
     Pur che non sien da Morgante distrutti;
     E così resta Babillona presa,
     E fu posto silenzio a molti lutti:
     Però ch’egli era già la fiamma accesa,
     E stavano i Pagani a veder poco,
     Chè col battaglio morieno e col fuoco.

178 Orlando nel palazzo fu menato,
     E posto in una sedia a grand’onore,
     E quivi al modo lor fu coronato
     Di Babillona e Soldano e Signore;
     E molto il Veglio suo ebbe onorato,
     Però che gli portava troppo amore,
     E fecel grande Arcaito in Soria,
     E governava lui la signoria.

179 Un dì ch’a spasso per la terra vanno,
     Era salito in su ’n un torrione,
     Come è usanza, un buon talacimanno.
     Disse Morgante: Udite il corbacchione,
     Che serra l’uscio, ricevuto il danno,
     E viene a ringraziar testè Macone!
     Non domandate, com’io mi colleppolo,21
     Di farlo venir giù sanza saeppolo.22

180 E detto questo, il battaglio gittava,
     E pose appunto la mira alla testa,
     E pure il corbacchion lassù gridava:
     Ecco il battaglio con molta tempesta,
     Che ’l capo inverso gli orecchi pigliava,
     Come Morgante disegnoe a sesta:
     E mentre che gridava, glielo schiaccia,
     E portollo alto più di cento braccia.

181 Or lasciam questi in Babillona stare,
     E ritorniamo un poco a Montalbano,
     Dov’era Antea, c’ha fatto imprigionare,
     Come in l'altro cantar dicemo, Gano;
     Ma per poter meglio il dir seguitare,
     Preghiamo il ciel ci tenga la sua mano,
     E direm tutto nel cantar futuro;
     Guardivi il figlio di Gioseppe puro.

  1. [p. 84 modifica]10. Il sol di Spagna ec. Era io sul farsi sera, e però la fanciulla d’in sulle sponde del Nilo vedeva il sole appressarsi alle onde di Spagna, cioè al mare Atlantico, e scaldare Granata e ’l Marocco che restano all’occidente dell’Egitto.
  2. [p. 84 modifica]Pensando come e’ fu ec. Il come Filomela fu cangiata in usignolo, vedilo distesamemnte in Ovidio, Metamorfosi, lib. VI.
  3. [p. 84 modifica]Proserpina. Moglie di Plutone, il quale la rapì mentr’ella stava cogliendo fiori sull’Etna.
  4. [p. 84 modifica]micanti. Splendenti; dal latino micans.
  5. [p. 84 modifica]capriccio di paura. Capriccio significa, in questo luogo, quel tremore che scorrendo per la persona, o per orror di checchessia, o per febbre sopravvegnente, fa arricciare i peli. Sono alcuni che credono, secondo riferisce il Menagio, che questa voce derivi da capra, couciossiachè sia opinione del volgo quell’animale non rimaner mai senza febbre; come, sul testimonio d’Archelao, asserisce Plinio «Auribut eas spirare, non naribus, nec unquam febre carere, Archelaus auctor est.» Altri poi da capra similmente tengon che venga, per una tal qual somiglianza che par loro essere fra i peli arricciati di chi prova orrore, o ha la febbre, colle corna delle capre; ma cosiffatta etimologia sente non poco di strano.
  6. [p. 84 modifica]la schiavina ha scardassata. Percossa, lacerata; tolta la figura dal raffinare che si fa la lana collo scardasso, affinchè essa si possa filare.
  7. [p. 84 modifica]cerracchione. Cerro grande; cerrus procera.
  8. [p. 84 modifica]d’allegrezza galla. Gallare significa lo stesso che galleggiare; e figuratamente dicesi ancora dell’animo quando si solleva e s’innalza, e quasi galleggia. Onde Dante disse (Purg. X):

    Di che l’animo vostro in alto galla?

  9. [p. 84 modifica]un morselletto ec. Piccol boccone, ma per lo più di materia medicinale.
  10. [p. 84 modifica]ta’ dotte. Talora, talvolta, a quando, e simili.
  11. [p. 84 modifica]gli occhi ha strabuzzati. Strabbuzzare vale stravolgere gli occhi affissando la vista.
  12. [p. 84 modifica]e appoggiato stava. Si racconta che l’elefante non potendo, per la struttura sua, porsi a giacere, suole, per dormire, appoggiarsi al tronco di qualche albero.
  13. [p. 84 modifica]a gala. Gala significa un certo ornamento, quasi simile allo strophium degli antichi, fatto d’una striscia di trina o di panno lino sottile, lavorato a trapunto con ago, che le donne usavano portar sul petto, alquanto fuor del busto. Viene per avventura dal greco κάλος. S’adopera tuttavolta per ornamento e abbellimento in generale; onde si dice star sulle gale, e simili, per attendere agli ornamenti e alle foggie. Vale anche garbo, bel modo, e simili; come in questo luogo.
  14. [p. 84 modifica]solci. Era il solcio una sorla di condimento o conserva, o anche un manicaretto di carne sminuzzata o tritata a modo di salsiccia, e tenuta a stazionare in aceto, con diversi ingredienti, secondo il Redi, il quale crede sia venuto di Provenza, leggendosi nel rimario provenzale: «Solz, idest carnes in aceto
  15. [p. 84 modifica]il caffo degli sciagurati. Caffo si chiama il numero che non si può dividere in due parti eguali di numeri interi. E perchè gli antichi prendevano il numero caffo per il numero più perfetto, per dinotare alcuna singolarità in un uomo, o in altra cosa, dicevano egli è il caffo. Anche i Greci chiamarono questo numero περιττός, che significa appunto præstans, excellens; e più propriamonte «qui est ultra id quod esse debet, modum excellens, nimius, supervacaneus, redundans,» e per lo contrario chiamavano ἄρτιος, cioè integer, plenus, absolutus, il numero pari. Pertanto caffo degli sciagurati non altro vale che il più singolare, il più sciagurato fra gli [p. 85 modifica]altri; e non è da ammettersi che caffo derivi da capo, cambiato p in f, come crede il Menagio.
  16. [p. 85 modifica]corpo mio, fatti capanna. Modo proverbiale proprio dei golosi, i quali per saziar la loro voracità, vorrebbero che il lor corpo potesse addivenir largo e capace come una capanna.
  17. [p. 85 modifica]come un berlingaccio. Si chiama berlingaccio il giovedì che va innanzi il giorno ultimo del carnevale, che dicesi anche giovedì grasso. S’usa dal popolo in detto giorno di darsi a far buona vita, e attendere con ghiottonerie e leccornie a godere e trionfare. Chiamasi questo giorno berlingaccio da berlingare, che significa cinguettare, ciarlare, e simili, massimamente, dice il Varchi nell'Ercolano, quando altri avendo pieno lo stefano e la trippa (chè così chiamano i volgari il corpo o il ventre) e riscaldato dal vino; e da questo verbo chiamano i Fiorentini berlingaiuoli e berlingatori coloro, i quali si dilettano d’empiere la morifia, cioè la bocca, pappando e leccando. E da questo pure si chiama a Firenze berghinella una fanciulla che vada, per mo’ di dire, sberlingacciando, e volentieri si trovi a gozzoviglie e per le taverne, e per conseguente di mala fama. Ora berlingare, secondo la Crusca, vien quasi a dire bere e linguare, cioè ciarlare e cinguettare, avendo ben bevuto. Il Menagio poi dice: Credo da varie linguare. Linguare per loqui l’usarono i Latini. Nelle Glosse d’Isidoro : bene linguatus, eloquens.
  18. [p. 85 modifica]ingoffo. Significa picchiata; come musone, rugiolone e simili; ed anche boccone gittato altrui in gola per farlo tacere; onde figuratamente si prende per donativo, presente, come in questo luogo.
  19. [p. 85 modifica]e ’nsacca per due erri. Erro significa quel ferro che suolsi tenere affisso accanto ai pozzi per raccomandarvi le secchie.
  20. [p. 85 modifica]era a’ ferri. Vale, era a stretto ragionamento, o simili.
  21. [p. 85 modifica]com’io mi colleppolo. Colleppolare significa gongolare, dimenarsi tutto per l’allegrezza.
  22. [p. 85 modifica]saeppolo. Arco da pallottole per saettare gli uccelli.